Impiego della Robotica nella gestione dei Disturbi Motori dell’Autismo
CAP I - Autismo: Cenni storici
INTRODUZIONE
L’argomento che ho deciso di trattare nel mio elaborato è l’autismo. La scelta che mi ha condotto a scegliere questo tema è il sempre più crescente numero di casi al mondo che lo rendono ormai uno dei principali temi di ricerche e studi scientifici mondiali, oltre che una importante sfida dal punto di vista sanitario e riabilitativo.
Il disturbo dello spettro autistico è una condizione di neurodiversità che comporta particolari bisogni educativi, tanto da essere oggetto di studio della neuropsichiatria infantile così come della pedagogia. Entrando nello specifico del campo di interesse del presente corso di laurea, il trattamento di questa condizione prevede generalmente un importante coinvolgimento del terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, figura che da anni ormai compare nell’organigramma delle terapie multidisciplinari occupandosi della riabilitazione, prevenzione, valutazione e trattamento di tutti i disturbi dello sviluppo e della sfera neuro e psicomotoria dell’età evolutiva.
Il termine autismo deriva dal greco autos (sé stesso) e da ism (stato). Significa, quindi, stato di chiusura in sé stessi, e fu utilizzato per la prima volta nel 1911 per indicare un allontanamento e un isolamento dell’altro dal mondo sociale. L’autismo può essere definito, in lingua inglese, con l’acronimo A.S.D. (Autistic Spectrum Disorder) e in lingua italiana con l’acronimo D.S.A. (Disturbi Spettro Autismo).
I bambini colpiti da questo disturbo tendono a isolarsi, presentando difficoltà comunicative e sociali e tendono a vivere in un mondo chiuso e personale in cui non è facile entrare se non li si conosce bene. Il soggetto autistico principalmente tende a recepire e a leggere gli stimoli esterni in maniera molto diversa dagli altri, avvertendo a volte stimoli piacevoli come estremamente fastidiosi e arrivando anche ad una sensazione di terrore, per cui bisogna cercare di entrare nel suo mondo, universo in cui cerca conforto e protezione scoprendo i suoi interessi ed evitando ciò che lo tende a disturbare.
Oggetto di questa tesi è rivedere gli aspetti principali della sindrome autistica concentrandomi in maniera particolare sul contesto riabilitativo, grazie al quale possono essere fatti e notati innumerevoli miglioramenti in diversi campi con una terapia multidisciplinare e costante nel tempo. Il mio elaborato ha lo scopo principale di mostrare come nel corso degli anni si sia passati ad una migliore comprensione del disturbo e ad un affinamento dei trattamenti, che guardano sempre più al singolo soggetto, sagomando una strategia riabilitativa su misura.
Nel primo capitolo ho trattato le origini storiche della sindrome autistica, partendo dai concetti e dalle osservazioni fatte nel corso della metà del novecento dai pionieri dello studio di questa patologia, come Kanner ed Asperger, arrivando sino alle recenti scoperte che oggigiorno sono sempre più fonte di dibattito e ricerca fra gli innumerevoli studiosi del mondo della neuropsichiatria infantile. In codesto capitolo sono state trattate anche le ipotesi che si sono fatte spazio sulle reali cause che possono essere alla base della sindrome autistica. Un particolare occhio di riguardo è stato rivolto ai deficit motori che molto spesso accompagnano il bambino affetto da questa patologia e che interessano in modo elettivo la figura del neuropsicomotricista.
Nel secondo capitolo presento le strategie di intervento cognitive e neurosensomotorie che ogni giorno svengono svolte nella rete ospedaliera e nei centri che si occupano del trattamento di questi ragazzi. Tra le metodiche trattate si va dalle principali strategie cognitive come l’ABA, al metodo Denver che man mano continua a prendere maggiormente piede, principalmente nel trattamento precoce della sindrome autistica. Fulcro centrale del mio elaborato è l’introduzione della robotica nella riabilitazione di questi soggetti, andando a percorrere e scoprire come essa possa portare innumerevoli benefici su svariati aspetti comportamentali e psicologici del ragazzo autistico. Per quanti gli studi sull’impiego della robotica nel trattamento del disturbo dello spettro autistico sono ancora agli albori e si rendono necessarie ulteriori conferme, i primi risultati sembrano offrire riscontri interessanti, rappresentando un terreno fertile per successivi sviluppi.
CAP I - Autismo: Cenni storici
L’autismo è un tema antico e allo stesso tempo attuale. Infatti, sebbene l’etichetta nosografica “Disturbo dello spettro autistico” è legata alla pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013), il fenomeno è conosciuto e studiato da tempi ben più antichi (Locandro, 2021).
Il termine Autismo, dal greco autòs, significa sé stesso. Si tratta di un Disturbo del Neurosviluppo ad insorgenza precoce, caratterizzato da difficoltà nella comunicazione e nell’interazione sociale e da interessi ristretti, bizzarri e stereotipati (Frith, 2008).
Il termine ‘autismo’ venne coniato per la prima volta da Bleuler agli inizi del ventesimo secolo per indicare un comportamento, osservato in pazienti schizofrenici e caratterizzato da chiusura, evitamento dell'altro ed isolamento. In seguito il termine fu ripreso da Leo Kanner (1943) e Hans Asperger (1944) per descrivere un’entità nosografica da loro indipendentemente riscontrata in due gruppi di bambini.
Lo studio di Kanner, pubblicato sulla rivista Nervous Child (1943), riguardava 11 bambini di età compresa tra i 2 e i 10 anni (9 maschi e 2 femmine), definiti come “affetti da disturbo autistico del contatto affettivo”. Nello studio Kanner, non solo descrive per la prima volta la sindrome, ma fornisce anche una spiegazione teorico- clinica che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento. Tutti gli 11 bambini studiati da Kanner mostravano un’assenza relazionale, marcati deficit nella comunicazione e nel linguaggio, assenza di un corretto uso dei pronomi (in particolare la mancanza dell’IO) e l’utilizzo bizzarro di alcune parole. In particolare, l'isolamento sociale costituiva la caratteristica principale da lui osservata: «il disturbo fondamentale più evidente, patognomonico, è l’incapacità dei bambini di rapportarsi nel modo usuale alla gente e alle situazioni» […]. Un profondo isolamento domina tutto il comportamento» (Kanner, 1943, p. 9- 10; trad. Frith, 1989, 2003). Inoltre, questi bambini presentavano un'incapacità generalizzata di comunicare, con turbe gravi del linguaggio e delle relazioni sociali. «I suoni e i movimenti del bambino e tutte le sue prestazioni sono così monotonamente ripetitive quanto lo sono le sue espressioni verbali. Vi è un limite netto alla varietà delle sue attività spontanee. Il comportamento del bambino è governato da un desiderio ansiosamente ossessivo di conservare la ripetitività» (Kanner, 1943, p. 10; trad. Frith, 1989, 2003). Kanner concluse affermando che questi bambini erano venuti al mondo con «un’incapacità innata di formare il consueto contatto affettivo, fornito biologicamente, con le persone» (Kanner, 1943, p. 9- 10; trad. Frith, 1989, 2003), proprio come altri bambini vengono al mondo con handicap fisici o intellettivi innati.
Fin da subito, Kanner segnalò come, accanto all’isolamento, si presentava una dimensione ossessiva. Nelle routine che si presentavano nel bambino autistico vi era infatti una tendenza a restringere l’intenzionalità psicomotoria, concentrandola nella ripetizione.
Un anno dopo la pubblicazione dell’articolo di Kanner, Hans Asperger (1944) descrisse un gruppo di bambini che presentavano un disturbo coniato come "psicopatia autistica". Tale disturbo, secondo Asperger, si presentava dopo i 3 anni, era costituzionale e familiare, colpiva solo i maschi e bisognava distinguerla nettamente dai disturbi schizofrenici. Nelle sue descrizioni salta all’occhio come le stereotipie, l'isolamento sociale e la resistenza ai cambiamenti di routine ricalcavano in maniera sorprendente le caratteristiche dei bambini descritti da Kanner. Quest’ultimo prima, e Asperger dopo, suggerirono che fosse preminente un disturbo di contatto a qualche livello profondo degli affetti e/o degli istinti. Entrambi gli scienziati evidenziarono le caratteristiche anormali della comunicazione, le difficoltà nell’adattamento sociale, le stereotipie dei movimenti e la possibilità di eccellenti capacità intellettive in aree ristrette. I soggetti di Asperger si distinguevano però dai precedenti per essere caratterizzati da una forma di pensiero concreto, dall’ossessione per alcuni argomenti, dall’eccellente memoria e spesso da modalità comportamentali e relazionali eccentriche. Inoltre questi soggetti presentavano un buon livello cognitivo, nessuna alterazione del linguaggio, sia sotto l’aspetto della compressione che dell’espressione, presentando un linguaggio integro nella strutturazione fonologica e grammaticale, sintattica e semantica, ma con evidenti alterazioni nella funzione comunicativa interpersonale.
Gli studi effettuati da Asperger, dunque, differivano da quelli effettuati da Kanner in tre importanti aree:
- linguaggio: i soggetti di Asperger presentavano un eloquio scorrevole, in quelli di Kanner, invece, erano presenti importanti deficit nella comunicazione linguistica;
- motricità: Kanner descriveva i bambini come "impacciati" solo rispetto a compiti di motricità complessa; i soggetti di Asperger presentavano un’analoga goffaggine del corpo, un impaccio psicomotorio, mimico e posturale che comprendeva sia la motricità complessa che quella fine.
- capacità di apprendere: Kanner pensava che i bambini mostrassero prestazioni più elevate quando apprendevano in maniera meccanica, quasi automatica; Asperger li descriveva invece come "pensatori astratti".
Queste differenze portarono alla nascita di due quadri diagnostici differenti: l'Autismo classico di Kanner e la Sindrome di Asperger. Lo stesso Asperger, nel 1979, sottolineò le differenze rispetto all’autismo kanneriano sostenendo come i pazienti con “psicopatia autistica” avessero un disturbo evidenziabile solo dopo il terzo anno di vita, un linguaggio eccentrico, ma non ritardato, e deficitario solo negli aspetti comunicativi; inoltre, il rapporto con il mondo esterno, anche se in modi eccentrici, veniva ricercato da questi bambini.
Dopo la pubblicazione del primo articolo, nel 1955 Kanner sposta l'attenzione sulle caratteristiche comportamentali dei genitori di questi bambini, evidenziandone l’elevato livello professionale e intellettuale e le difficoltà relazionali che si manifestavano con i propri figli; ciò lo portò ad ipotizzare che la loro presunta freddezza contribuisse a determinare l’autismo. L’idea che l’autismo sia la conseguenza di una qualche inadeguatezza genitoriale, è rimasta saldamente radicata e ampiamente alimentata da una fittissima letteratura psicodinamica. Negli anni a seguire il modello interpretativo imperante fu infatti quello psicodinamico, secondo il quale l'autismo rappresentava una difesa contro l'angoscia derivante da un fallimento delle prime relazioni oggettuali. Secondo tale visione, l'impatto con una realtà incapace di soddisfare i suoi bisogni di protezione, rassicurazione e contenimento portava il bambino a chiudersi, mettendo in atto meccanismi difensivi arcaici, in rapporto all'immaturità dell'apparato psichico, rappresentati da scissione, identificazione proiettiva e negazione della realtà.
Gli autori di impostazione psicodinamica indirizzarono i loro studi ad indagare la possibilità che la sindrome autistica fosse dovuta ad una alterazione del rapporto madre-bambino e ad alimentare questa posizione, vi era la somiglianza di alcuni sintomi dell’autismo con quelli dei quadri depressivi o di istituzionalizzazione precoce, descritti da Spitz (1945, 1946). Questa somiglianza ha alimentato la convinzione dell’autismo come ritiro rispetto ad ambienti ostili, ‘refrigeranti’ (Barale e Uccelli, 2006).
Bruno Bettelheim sposò pienamente questa linea di pensiero tanto che basò il suo lavoro su un’interpretazione estrema dell’impostazione psicodinamica. I deficit della persona con autismo, per questo studioso, venivano innescati da una reazione alla mancanza di affettività e di attenzione da parte dei genitori. Questi bambini si ritiravano dunque in una forma di isolamento che li proteggeva dalle influenze esterne. Bettelheim descrisse l’autismo come un rifiuto di esistere psichico, una difesa estrema rispetto a contesti relazionali vissuti come situazioni estreme, simili a quelle di un campo di concentramento (Barale e Uccelli, 2006). Nel 1967 la mancanza di ricerche e di metodi scientifici per comprendere l'autismo avevano contribuito al diffondersi di numerose interpretazioni prive di fondamento scientifico.
In epoche successive, queste teorie furono però ampiamente confutate da studi epidemiologici (Sanua, 1987), e dall’introduzione di nuove tecniche di studio della struttura anatomo-funzionale cerebrale.
A partire dagli anni '60, le critiche al modello psicodinamico, accusato di colpevolizzare ingiustamente i genitori, si fecero sempre più forti. Si scoprì come i genitori di bambini con autismo non mostravano tratti patologici o di personalità significativamente diversi da quelli di bambini non affetti.
Rimland (1968) fu il primo autore a sostenere in modo sistematico che la causa della sindrome autistica non fossero i genitori, ma che il disturbo avesse una base organica: per Rimland l’autismo era causato da alterazioni morfologiche e funzionali su base organica. Da questi studi ne scaturì l'approccio organicista, il cui tentativo fu quello di individuare le alterazioni organiche alla base della sindrome.
Nel 1978 Rutter attraverso uno studio comparato di bambini autistici e bambini con altri tipi di disturbo, mise in luce alcuni sintomi tipici dell'autismo infantile ampliando il quadro descritto da Kanner, quali: un’incapacità a sviluppare rapporti sociali, una particolare forma di ritardo nello sviluppo del linguaggio con presenza di ecolalia e inversione pronominale e vari fenomeni rituali e compulsivi. Rutter sottolineò inoltre che circa i tre quarti dei bambini con autismo presentavano anche un ritardo mentale.
La moderna concezione dell’autismo e anche la sua nosografia attuale, nascono e si sviluppano negli anni ’70, quando si riuscì definitivamente a separare il tema dell’autismo da quello della schizofrenia e delle psicosi in generale. Con la pubblicazione del DSM III (APA, 1980) vediamo come la definizione dell’autismo infantile sia fortemente influenzata dai lavori di Rutter (1974, 1978), che formalizza e riprende l’originaria descrizione kanneriana, e dai lavori di Lorna Wing e Judith Gould; quest’ultimi nel 1979 svolsero uno studio epidemiologico sull’intera popolazione (la coorte di Camberwell) di una regione dell’Inghilterra. Dallo studio emerse un’associazione non casuale fra tre domini sintomatologici operazionalmente definibili. Questi domini potevano combinarsi nei singoli casi per gravità e sintomatologia clinica riferibile a ciascun dominio. La molteplicità di combinazioni determina delle variazioni importanti all’interno di un continuum, pur mantenendo una sua coerenza. La triade di Wing-Gould è costituita da:
- disturbo qualitativo delle capacità di interazione sociale;
- disturbo qualitativo delle capacità comunicative, linguistiche e non linguistiche e delle capacità immaginative;
- repertorio ristretto e ripetitivo di interessi e attività.
La triade di Wing-Gould non aggiunge dal punto di vista clinico e psicopatologico nessuna novità rispetto alle precedenti descrizioni, ma suggerisce un continuum nello spettro autistico, con numerose gradazioni, varianti e combinazioni di gravità nei vari domini, che possono rivelarsi nello stesso bambino in situazioni differenti e a differenti età.
Con l’introduzione del DSM IV:TR notiamo come siano previsti diversi assi:
- Asse I: Sindromi cliniche.
- Asse II: Disturbi di personalità; Ritardo mentale.
- Asse III: Condizioni Mediche Generali.
- Asse IV: Problemi Psicosociali ed Ambientali.
- Asse V: Valutazione Globale del Funzionamento.
Da qui in poi non si parla più di autismo ma di Disturbi pervasivi dello sviluppo, definiti sulla base della “triade” sintomatologica:
- Un totale di 6 (o più) voci da (1), (2), (3), con almeno 2 da (1), e uno ciascuno da (2) e (3):
- Compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno 2 dei seguenti:
- Marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti, che regolano l’interazione sociale
- Incapacità di sviluppare relazioni coi coetanei adeguate al livello di sviluppo
- Mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone (per es., non mostrare, portare, né richiamare l’attenzione su oggetti di proprio interesse)
- Mancanza di reciprocità sociale o emotiva;
- Compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
- Ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o mimica)
- In soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri
- Uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico
- Mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo;
- Modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
- Dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anormali o per intensità o per focalizzazione
- Sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici
- Manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o complessi movimenti di tutto il corpo)
- Persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti;
- Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei 3 anni di età: (1) interazione sociale, (2) linguaggio usato nella comunicazione sociale, o (3) gioco simbolico o di immaginazione.
- L’anomalia non è meglio attribuibile al Disturbo di Rett o al Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza.
I deficit sociali sono definiti come un’assenza di contatto oculare, atipiche espressioni facciali e del corpo, incapacità di sviluppare relazioni con i propri pari, deficit nella condivisione spontanea di interessi o emozioni con gli altri e assenza di comunicazione deittica.
I deficit comunicativi vengono definiti come un ritardo o assenza di linguaggio, incapacità di iniziare o mantenere una conversazione, strutture grammaticali immature.
Inoltre dovevano essere presenti almeno sei criteri di cui due criteri per l’interazione sociale, un criterio per la comunicazione e un criterio per il repertorio di interessi. L’esordio doveva avvenire prima dei tre anni e doveva essere valutata una possibile diagnosi differenziale.
Nel 2013 l’American Psychiatric Association ha pubblicato la quinta edizione del suo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V).
Questa edizione ha apportato cambiamenti per le diagnosi dei Disordini del Neurosviluppo, in particolare per l’autismo. La nuova etichetta Disturbi dello Spettro Autistico (ASD, Autism Spectrum Disorders) include tutte le sottocategorie dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo.
Questa modifica è stata dettata dalla difficoltà di distinguere i diversi disturbi. un’altra novità riguarda inoltre l’introduzione dei livelli di gravità nelle varie aree, le differenze individuali e le comorbilità con nuove categorie di diagnosi differenziale, quali:
- Sindrome di Rett;
- Mutismo selettivo.
- Disturbi del linguaggio e disturbo della comunicazione sociale (pragmatica);
- Disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo) senza disturbo dello spettro dell’autismo;
- Disturbo da movimento stereotipato;
- Disturbi da deficit di attenzione/iperattività
- Schizofrenia
Con l’introduzione di questo importante aggiornamento clinico i Disturbi dello Spettro Autistico vengono definiti, non più sulla base di una “triade” di sintomi ma sulla base della “diade” sintomatologica, infatti i deficit nella comunicazione e nei comportamenti sociali sono considerati come un unico insieme di sintomi con specificità contestuali e ambientali.
I nuovi criteri includono dunque:
- Deficit persistente della comunicazione sociale e nell’interazione sociale in molteplici contesti, come manifestato dai seguenti fattori, presenti attualmente o nel passato:
- Deficit della reciprocità socio-emotiva, che vanno, per esempio, da un approccio sociale anomalo e dal fallimento della normale reciprocità della conversazione; a una ridotta condivisione di interessi, emozioni o sentimenti; all’incapacità di dare inizio o di rispondere a interazioni sociali.
- Deficit dei comportamenti comunicativi non verbali per l’interazione sociale, che vanno, per esempio, dalla comunicazione verbale e non verbale scarsamente integrata; ad anomalie del contatto visivo e del linguaggio del corpo o deficit della comprensione e dell’uso di gesti; a una totale mancanza di espressività facciale e di comunicazione non verbale.
- Deficit dello sviluppo, della gestione e della comprensione delle relazioni, che vanno, per esempio, dalle difficoltà di adattare il comportamento per adeguarsi ai diversi contesti sociali; alle difficoltà di condividere il gioco di immaginazione o di fare amicizia; all’assenza di interesse verso i coetanei.
- Specificare la gravità attuale: Il livello di gravità si basa sulla compromissione della comunicazione sociale e sui pattern di comportamento ristretti, ripetitivi (vedi tabella dei livelli di gravità). Pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi, come manifestato da almeno due dei seguenti fattori, presenti attualmente o nel passato:
- Movimenti, uso degli oggetti o eloquio stereotipati o ripetitivi (per es., stereotipie motorie semplici, mettere in fila giocattoli o capovolgere oggetti, ecolalia, frasi idiosincratiche).
- Insistenza nella sameness (immodificabilità), aderenza alla routine priva di flessibilità o rituali di comportamento verbale o non verbale (per es., estremo disagio davanti a piccoli cambiamenti, difficoltà nelle fasi di transizione, schemi di pensiero rigidi, saluti rituali, necessità di percorrere la stessa strada o di mangiare lo stesso cibo ogni giorno).
- Interessi molto limitati, fissi che sono anomali per intensità o profondità (per es., forte attaccamento o preoccupazione nei confronti di soggetti insoliti, interessi eccessivamente circoscritti o perseverativi).
- Iper- o iporeattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente (per es., apparente indifferenza a dolore/temperatura, reazione di avversione nei confronti di suoni o consistenze tattili specifici, annusare o toccare oggetti in modo eccessivo, essere affascinati da luci o da movimenti).
Specificare la gravità attuale: il livello di gravità si basa sulla compromissione della comunicazione sociale e sui pattern di comportamento ristretti, ripetitivi (vedi tabella dei livelli di gravità). I sintomi devono essere presenti nel periodo precoce dello sviluppo (ma possono non manifestarsi pienamente prima che le esigenze sociali eccedano le capacità limitate, o possono essere mascherati da strategie apprese in età successiva).
- I sintomi causano compromissione clinicamente significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
- Queste alterazioni non sono meglio spiegate da disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo) o da ritardo globale dello sviluppo. La disabilità intellettiva e i disturbi dello spettro dell’autismo spesso sono presenti in concomitanza; per porre diagnosi di comorbilità di disturbi dello spettro dell’autismo e di disabilità intellettiva, il livello di comunicazione sociale deve essere inferiore rispetto a quanto atteso per il livello di sviluppo generale.
Rispetto ai livelli di gravità, vediamo quanto riportato nella seguente tabella:
Livello di Gravità |
Comunicazione Sociale |
Comportamenti Ristretti, Ripetitivi |
LIVELLO 3: “È necessario un supporto molto significativo”. |
Gravi deficit delle abilità di comunicazione sociale, verbale e non verbale, causano gravi compromissioni del funzionamento, avvio molto limitato delle interazioni sociali e reazioni minime alle aperture sociali da parte di altri. |
Inflessibilità di comportamento, estrema difficoltà nell’affrontare il cambiamento o altri comportamenti ristretti/ripetitivi interferiscono in modo marcato con tutte le aree del funzionamento. Grande disagio/difficoltà nel modificare l’oggetto dell’attenzione o l’azione. |
LIVELLO 2: “È necessario un supporto significativo”. |
Deficit marcati delle abilità di comunicazione sociale verbale e non verbale; compromissioni sociali visibili anche in presenza di supporto; avvio limitato delle interazioni sociali; reazioni ridotte o anomale alle aperture sociali da parte di altri. |
Inflessibilità di comportamento, difficoltà nell’affrontare i cambiamenti o altri comportamenti ristretti/ripetitivi sono sufficientemente frequenti da essere evidenti a un osservatore casuale e interferiscono con il funzionamento in diversi contesti. Disagio/difficoltà nel modificare l’oggetto dell’attenzione o l’azione. |
LIVELLO 1: “È necessario un supporto”. |
In assenza di supporto, i deficit della comunicazione sociale causano notevoli compromissioni. Difficoltà ad avviare le interazioni sociali e chiari esempi di risposte atipiche o infruttuose alle aperture sociali da parte di altri. L’individuo può mostrare un interesse ridotto per le interazioni sociali. |
L’inflessibilità di comportamento causa interferenze significative con il funzionamento in uno o più contesti. Difficoltà nel passare da una attività all’altra. I problemi nella organizzazione e nella pianificazione ostacolano la indipendenza. |
Secondo questi nuovi criteri i soggetti con ASD devono presentare sintomi evidenti in ciascuno dei sottodomini specificati nel dominio “comunicazione e socialità” (deficit evidenti nella comunicazione non verbale, mancanza di reciprocità sociale, difficoltà nella relazione con i pari) e due o tre nel dominio “interessi ristretti e comportamenti ripetitivi”.
1.1 - Eziopatogenesi
Il Disturbo dello Spettro Autistico è rappresentato da un insieme di alterazioni del neurosviluppo dovute ad una anomala maturazione cerebrale che inizia già in epoca fetale. A livello neurofunzionale può essere considerato come espressione di un processo specifico che, da fattori poligenetici, comporta uno sviluppo atipico dell’architettura cerebrale (Spagnuolo Lobb, Levi, Williams; 2021). Le cause dell’autismo ad oggi sono ignote, ciò nonostante i numerosi studi atti ad individuarle hanno portato però ad evidenziare alcuni fattori di rischio, come:
- Avere un fratello affetto da disturbi dello spettro autistico;
- Avere genitori “anziani”;
- Alcune condizioni genetiche: i soggetti affetti da Sindrome di Down, Sindrome dell’X fragile o Sindrome di Rett hanno maggiori probabilità di esser affetti da Disturbi dello Spettro Autistico;
- Essere sottopeso al momento della nascita.
Dagli anni ’70 iniziarono a delinearsi diverse teorie, da quelle che attribuiscono la responsabilità maggiore a una predisposizione genetica, sino a quelle che danno peso maggiore ai fattori ambientali.
Fra le diverse ipotesi, quella genetica resta quella più accreditata. Essa affonda le sue radici nel 1977, quando S. Folstein e M. Rutter condussero uno studio su 21 coppie di gemelli (coppie omozigote ed eterozigote), in cui con certezza almeno uno dei due aveva ricevuto diagnosi di autismo.
Obiettivo dello studio era valutare il grado di concordanza; infatti i gemelli monozigoti derivando dalla fecondazione di un unico ovulo, condividono tutto il patrimonio genetico, mentre i gemelli eterozigoti, fecondati in due ovuli, ne condividono circa la metà. Questa ricerca ha evidenziato una concordanza in 4 coppie su 11 di gemelli monozigoti e in nessuna coppia di gemelli eterozigoti. Si è inoltre evidenziato come nelle coppie monozigotiche non concordanti successivamente si riscontravano forme lievi di disturbo autistico. Con l’utilizzo dei nuovi criteri diagnostici, che includono anche le forme lievi di disturbi dello spettro autistico, si è arrivati ad avere una concordanza nei gemelli monozigoti del 90%, facendo affermare le cause genetiche come le principali cause di disturbo dello spettro autistico.
Inoltre, in uno studio condotto da J. Piven nel 2001 si è evidenziato che nelle famiglie dei soggetti autistici ci sono parenti con caratteristiche del disturbo, come isolamento, mancanza di amicizie strette e rigidità. Ciò potrebbe indicare una ereditarietà, ma resta tuttavia difficile stabilire se queste caratteristiche sono state sempre presenti, o se sono, almeno in parte, conseguenza dell’aver in famiglia un bambino autistico.
Stabilita la natura genetica dell’autismo si è tentato di indagare su quali siano i geni responsabili del disturbo.
Nel 2000 in uno studio di J.A. Lamb, J. Moore, A. Bailey e A.P. Monaco è stato attuato un controllo dei geni attraverso lo screening su famiglie estese con più membri affetti da autismo. Ciò ha fatto emergere risultati non coerenti, permettendoci di affermare che differenti combinazioni di geni possono produrre lo stesso quadro clinico in famiglie diverse colpite da autismo.
Inoltre, lo studio attraverso la risonanza magnetica funzionale del cervello di persone affette dai Disturbi dello Spettro Autistico ha mostrato che l’autismo non colpisce un’unica area cerebrale, ma rappresenta piuttosto una difficoltà di connessione tra aree diverse.
Parallelamente, alle ipotesi genetiche si sono sempre affiancate le cause ambientali in quanto una loro individuazione potrebbe far prevenire il disturbo; infatti ogni fattore di rischio ambientale che può determinare danno cerebrale precoce nello sviluppo deve essere considerato potenziale causa non genetica di disturbi dello spettro autistico. Ad esempio, complicazioni durante la gravidanza o il parto possono determinare anormalità genetica al feto, ma non sono strettamente associate all’autismo.
Si è visto anche come i disturbi dello spettro autistico possono manifestarsi come conseguenza di infezioni virali o malattie autoimmuni.
Le infezioni virali sono caratterizzate da improvvisi attacchi che possono infettare il sistema nervoso centrale e determinare un danno cerebrale permanente; si è visto come l’aggressione al sistema nervoso centrale in un periodo critico come il periodo pre o post natale ha portato in rari casi all’autismo. Tra i virus più citati in campo clinico troviamo i cosiddetti retrovirus come l’Herpes virus e il citomegalovirus, infatti forme lievi di intolleranza immunologica della madre possono interferire con i normali processi di crescita e possono determinare disturbi evolutivi. Ad oggi resta però poco chiaro se una disfunzione del sistema immunitario sia causa o effetto di un’anormalità cerebrale.
Da evidenze cliniche si è visto come se una madre contrae la rosolia durante il periodo gestatorio il bambino soffrirà di disabilità sensoriale e molti di loro potranno essere affetti da disturbi dello spettro autistico.
Ad ogni modo, per stabilire con certezza come una malattia possa portare all’autismo non basta che i sintomi compaiano dopo la contrazione della suddetta malattia, ma è necessario considerare il meccanismo mediante il quale il virus entra nel cervello e provoca un danno selettivo.
Nel corso degli anni sono state avanzate anche ipotesi ormonali, giustificate dalla preponderanza di soggetti autistici maschi. Diversi autori infatti sostengono che l’autismo sia una sorta di “estremizzazione” del cervello maschile, tipicamente meno empatico e più schematico. Si è ritenuto che ciò sia dovuto ad un eccesso di testosterone già in epoca fetale.
Inoltre i disturbi dello spettro autistico possono presentarsi come conseguenza di problemi metabolici, come la fenilchetonuria, o meccanici, come l’idrocefalo.
Il danno cerebrale tra i fattori ambientali scatenanti l’autismo è in una posizione preminente;
questo danno potrebbe essere determinato dall’encefalite, una malattia che può essere la conseguenza di un’infezione virale. Prima dell’avvento del vaccino trivalente sul mercato in rari casi, si riteneva che l’encefalite potesse determinare autismo e grave ritardo mentale.
Negli anni ’90 uno studio condotto da Andrew Wakefield (Wakefield, Murch, Anthony, Linnell et al., 1998), e pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet, ha avanzato la teoria di una possibile correlazione tra vaccinazione trivalente e autismo; quest’articolo sosteneva che il vaccino trivalente potesse provocare un’infiammazione della parete intestinale, responsabile del passaggio in circolo di peptidi encefalo-tossici. Ciò ha portato alla diffusione di falsi miti provocando un elevato allarmismo.
Queste false credenze trovavano facilmente supporto in due fattori: il primo riguarda il fatto che l’autismo si manifesta nel secondo anno di vita, periodo che coincide con quello delle vaccinazioni critiche; il secondo riguarda invece il fatto che l’autismo è caratterizzato da una sorta di regressione in tappe di sviluppo precedentemente acquisite nei tempi previsti. Tuttavia, il fatto di notare i sintomi iniziali relativamente tardi nello sviluppo non basta per spiegare l’ipotesi secondo la quale l’autismo sarebbe acquisito, in quanto non esclude che in precedenza vi fossero altri sintomi che non si è stati in grado di cogliere.
Nel 2010 il General Medical Council britannico ha stabilito che quella ricerca non era attendibile e che i dati erano stati falsificati. Nel 2012 Wakefield è stato definitivamente radiato dall’Ordine dei Medici.
Dagli studi condotti nel 2018 dal CDC (Centri per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie), importante organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti d’America, è emerso che circa il 31% dei soggetti affetti da Disturbi dello Spettro Autistico presentava un anche un ritardo mentale.
L’autismo non sempre si associa a problemi aggiuntivi come il ritardo mentale, ciò sottolinea come sia un disturbo specifico in cui non tutte le funzioni mentali vengono colpite allo stesso modo. Oggi, infatti, l’evoluzione delle conoscenze scientifiche ha portato ad una maggiore consapevolezza sul tema in questione; ciò ha comportato, da una parte l’aumento delle diagnosi, dall’altro al riconoscimento e all’inclusione di soggetti con alterazioni più qualitative, privi di deficit cognitivi e con diversi livelli di funzionamento e abilità (Locandro, 2021).
1.2 - Disturbi motori
I disturbi motori non sono una caratteristica specifica dei Disturbi dello Spettro Autistico e in genere non sono riportati gravi disturbi del movimento, si osservano spesso ritardi nell’acquisizione delle tappe motorie fondamentali, ipotonia muscolare, cammino sulle punte, difficoltà di pianificazione motoria e di esecuzione prassica e un generale deficit nelle abilità grosso e fino motorie.
Infatti, particolarmente presenti erano i deficit della motilità spontanea del neonato, tanto da essere stati proposti come possibile indicatore diagnostico precoce di autismo (Teitelbam, Benton, Shah et al. 2004)).
I bambini con autismo vengono spesso descritti come ipotonici (Bauman, 1992), mostrano una persistenza dei riflessi primitivi (presenti già alla nascita e che scompaiono nello sviluppo tipico) con alterazioni del tono muscolare.
Secondo Leary e Hill (1996) i disturbi motori osservati nell’autismo possono essere considerati fondamentalmente su tre piani: il primo include i disturbi della funzione motoria come anomalie posturali, alterazioni del tono muscolare e comparsa di movimenti involontari (tics); il secondo concerne i movimenti diretti ad uno scopo (azioni) e dunque le difficoltà nella pianificazione motoria, i movimenti spontanei ripetitivi e le difficoltà linguistiche; il terzo riguarda invece i disturbi comportamentali.
Allo stesso anno risale anche lo studio condotto da Hughes e collaboratori (1996) attraverso l’utilizzo dell’analisi della sequenza di atti motori “reach-grasp-place (raggiungi-afferra-piazza)”. Esso ha mostrato come i bambini autistici presentano un deficit nella pianificazione dell’azione costituita da una sequenza di più atti motori.
Inoltre, gli studi neuro-anatomici si sono dedicati alla ricerca delle sedi responsabili dei disturbi motori osservati nei soggetti con autismo. Tra questi, Mostofosky e colleghi (2009) hanno ipotizzato che la principale sede responsabile della disfunzione motoria nei soggetti autistici sia il cervelletto, organo che svolge il ruolo di centro di integrazione delle informazioni dei centri corticali e sotto-corticali per il controllo motorio (postura e locomozione). A tale proposito, uno studio elettromiografico svolto da Schmitz e collaboratori, ha fatto emergere un deficit della capacità anticipatoria posturale nei bambini autistici, durante lo svolgimento di compiti bimanuali (Schmitz, Martineau, Barthelemy et al.; 2003).
Il danno cerebellare potrebbe spiegare anche il deficit dell’organizzazione spazio-temporale dell’attività muscolare durante l’esecuzione e l’anticipazione di programmi motori.
Esso però non sembra essere l’unico responsabile. Non si esclude infatti che possano esistere anomalie di funzionamento anche in altre strutture deputate al controllo motorio, come i gangli della base (connessi all’Area Motoria Supplementare) e la corteccia stessa (Nayate, Bradshaw, Rinehart; 2005).
La presenza di deficit a carico del sistema motorio trova ulteriore riscontro in studi sui movimenti oculari, i quali evidenziano un comportamento anomalo da parte di soggetti autistici nei movimenti lenti di inseguimento (Sweeney, Takarae, Mcmillan et al.; 2004).
In conclusione, nei soggetti affetti da autismo, cervelletto, gangli della base ed aree della corteccia sede di circuiti parieto-frontali, sembrano dunque rappresentare le sedi responsabili delle alterazioni anatomo-funzionali.
Dal punto di vista strettamente motorio, come precedentemente detto, il comportamento del bambino autistico si caratterizza per la presenza di numerose stereotipie, seppure queste si manifestano con una grande varietà interindividuale. Suddette stereotipie sono espressioni motorie ripetitive, topograficamente invarianti e senza apparenti finalità adattive nel contesto ambientale. Questi comportamenti stereotipati possono essere divisi in due tronconi: il primo include tutte le stereotipie di tipo autolesivo come ad esempio battere la testa, picchiarsi o mordersi, tirarsi i capelli. Nel secondo gruppo troviamo le stereotipie di tipo non autolesivo, ossia comportamenti con finalità autostimolatorie non dolorifiche come dondolamenti del corpo, movimenti delle mani e delle dita. Tra i movimenti stereotipati più frequenti (Cottini, 2002) troviamo:
- l’altalena: un movimento continuo di oscillazione del busto dalla posizione seduta. Tale oscillazione può essere effettuata con direzione antero-posteriore oppure laterale, con il tronco tenuto rigido come un pendolo. Questi movimenti di dondolamento possono avvenire anche quando il bambino è in piedi, in un andirivieni ripetitivo apparentemente senza senso;
- i movimenti delle mani: possono esserci dei gesti isolati delle mani come movimenti di picchiettamento o gesti effettuati per imprimere movimenti agli oggetti che vengono fatti ruotare anche nel caso in cui si tratti di oggetti che non si prestano a movimenti di rotazione. La manipolazione degli oggetti è un’attività nella quale il bambino autistico può apparire straordinariamente abile, anche se non si tratta di un momento ludico o comunicativo, in quanto è privo di significati simbolici e di un lavoro di immaginazione;
- l’andatura: alcuni bambini possono camminare in punta di piedi come conseguenza dell’iperestensione del corpo. All’opposto di questa camminata, anche nello stesso bambino, si può notare un’andatura di carattere ipotonico, con le ginocchia lievemente piegate ed il tronco che sembra sprofondare dietro. Non di rado questi bambini si lasciano volontariamente cadere a terra.
- i movimenti del capo: questi talvolta assumono una forma di pericolosa stereotipia autolesiva, infatti spesso i bambini con sindrome autistica tendono a sbattersi la testa sul pavimento o contro un muro, mentre in altri casi si caratterizzano per una serie di contrazione facciali che determinano smorfie.
Parallelamente alle stereotipie, nel bambino autistico si riscontrano altre problematiche a carico dell’area motoria (Page, Boucher 1998). Fra queste risultano caratteristici i ritualismi nel comportamento, ossia lunghe sequenze di azioni apparentemente senza un motivo adattivo particolare. La spiegazione di questi comportamenti appare complicata; essi devono essere inseriti all’interno di un quadro globale, il quale consideri congiuntamente la rigidità e la ripetitività che si manifesta a livello percettivo, motorio, cognitivo e affettivo. Una spiegazione degna di citazione è senza dubbio il tentativo di interpretazione elaborato dalla Frith nel 1989, che considerò tutte le varietà di comportamento stereotipato come una manifestazione ulteriore di un deficit a livello dei processi centrali. Secondo tale autrice, la ripetitività sarebbe la condizione naturale di sistemi di input ed output, la quale quando i prodotti di questi sistemi sono riconosciuti da un sistema centrale di alto livello viene bloccata in maniera naturale. Ciò non avverrebbe nei bambini con autismo proprio a causa del deficit dei processi centrali. Tornando alle stereotipie, quelle di tipo autolesivo, è probabile che vengano attivate dalla ricerca di una forte stimolazione sensoriale, la quale non viene poi percepita come nocicettiva a causa della ridotta sensibilità al dolore.
Altro aspetto interessante indagato sperimentalmente riguarda la capacità di utilizzare e, più in generale, di interpretare i gesti da parte dei bambini autistici. Attwood Frith, Hermelin (1988) confrontarono bambini normali, con sindrome di Down e autistici della stessa età mentale (5 anni) per quanto riguarda l’utilizzo di gesti “ strumentali” ed “ espressivi”; da tale studio emergeva come i gesti strumentali fossero quelli finalizzati ad ottenere un certo comportamento da qualche altra persona (ad esempio il pointing), i gesti espressivi non riguardavano situazioni nelle quali c’era una chiara connessione figurativa fra l’atto motorio ed il suo significato ma tendevano ad esprimere stati affettivo-emozionali; si notava inoltre come bambini autistici utilizzassero i gesti strumentali con la stessa frequenza degli altri gruppi, mentre non facessero uso di gesti espressivi, differenziandosi sotto questo aspetto sia da bambini normali che da quelli con sindrome di Down. Tali evidenze danno ulteriore conferma del legame alla realtà dei bambini autistici e delle loro difficoltà a comprendere ed interpretare i sentimenti umani.
Studi più recenti (Mandolesi, 2012) attribuiscono al sistema motorio un ruolo decisivo nella mediazione tra la capacità di eseguire e quelle di comprendere le intenzioni altrui. E’ quindi possibile avanzare l’ipotesi che il danno a carico di tali meccanismi possa essere alla base dei deficit nell’intersoggettività riscontrati nell’autismo.
CAP II - Trattamento
Dopo aver fornito una panoramica generale del Disturbo dello Spettro Autistico, in questa sezione ci occuperemo dei percorsi riabilitativi pensati, partendo dai metodi ormai più tradizionali per arrivare a quelli più innovativi e in fase di sperimentazione, con particolare riferimento all’utilizzo della robotica e dei software. Questi ultimi infatti sembrano poter offrire supporto al potenziamento di abilità psicologiche e motorie imprescindibili per un sano sviluppo.
Nonostante l’origine infantile del disturbo, occorre ricordare che si tratta di una condizione permanente, che accompagna il soggetto per l’intero arco di vita, con ampie ricadute sul sistema familiare e sul sistema sociale più ampio (Locandro, 2021).
Accettare che si tratta di una condizione permanente è dunque uno dei passi più importanti che la famiglia può compiere per condurre il bambino verso il miglior risultato possibile, risultato che con i giusti trattamenti e con il giusto coinvolgimento della famiglia possono essere migliori di quelli attesi durante le prime fasi dello sviluppo o al momento della stessa diagnosi. Educazione e conoscenza sono certamente fattori cruciali. Terapisti, insegnanti e familiari, formano una rete che fa sì che si realizzi una relazione di aiuto tale da permettere a questi soggetti di esprimere il loro personale potenziale e raggiungere conquiste cruciali (Frith, 2008).
Punti chiave del progetto riabilitativo per adulti con disabilità intellettiva e autismo riguardano massima autonomia possibile, sostegno alla famiglia, valutazione degli aspetti psicopatologici e tecniche basate su una teoria psicoeducativa con base scientifica (Keller, 2016).
Il trattamento dell’autismo si basa dunque su approccio multidisciplinare che coinvolge diverse figure professionali, le quali operano in accordo tra loro in diverse aree di intervento. Ciò permette di offrire una presa in carico globale e personalizzata del bambino con autismo e della sua famiglia (Locandro, 2021). Questa terapia multidisciplinare si basa su diversi principi, come:
- Una valutazione diagnostica e funzionale accurata ed aggiornata del bambino, formulata con strumenti validati e standardizzati;
- La definizione di un progetto terapeutico individuale, condiviso con la famiglia e personalizzato alle caratteristiche, ai bisogni e agli obiettivi del bambino con autismo;
- La collaborazione tra le diverse figure professionali coinvolte, che devono lavorare in maniera coordinata e integrata, scambiandosi informazioni, feedback e suggerimenti;
- Una partecipazione attiva della famiglia, che deve essere informata e coinvolta nelle decisioni e nelle attività terapeutiche;
- Il monitoraggio e la valutazione degli esiti, attraverso verifica periodica per valutare l’efficacia degli interventi e apportare eventuali modifiche o integrazioni.
In questo lavoro multidisciplinare vengono coinvolte diverse figure professionali, tra le quali annoveriamo:
- Il neuropsichiatra infantile: si occupa della diagnosi, della prescrizione di eventuali farmaci o esami strumentali, del coordinamento del progetto terapeutico e della supervisione medica;
- Lo psicologo o lo psicoterapeuta: si occupa della valutazione psicologica, dell’intervento psicoeducativo o psicoterapeutico e del sostegno alla famiglia;
- Il logopedista: si occupa della valutazione e dell’intervento sulle abilità comunicative e linguistiche;
- Il terapista comportamentale: si occupa dell’intervento educativo e comportamentale sulle abilità sociali, cognitive, emotive e adattive;
- Il neuropsicomotricista ed il terapista occupazionale: si occupano della valutazione e dell’intervento per le abilità motorie e sensoriali, dello sviluppo delle capacità motorie fini e grossolane, della coordinazione, dell’equilibrio e del ritmo;
- L’insegnante di sostegno o il tutor scolastico: si occupano dell’integrazione scolastica e dell’adattamento dei programmi didattici.
Una terapia multidisciplinare così strutturata garantisce una presa in carico globale e personalizzata del bambino con autismo e della sua famiglia ma necessita di un’organizzazione dei servizi sanitari ed educativi insieme ad una formazione specifica delle figure professionali coinvolte.
Tutte le Linee Guida sottolineano la necessità che il trattamento anche individualizzato, cioè tagliato su misura del singolo individuo che ne usufruisce, con i suoi punti di forza e di debolezza e tenendo conto dei suoi contesti di vita. Nessun modello ha mostrato di soddisfare tutte le esigenze del soggetto con autismo, ma abbiamo oggi a disposizione diversi modelli che offrono strategie di cambiamento validate empiricamente. L’abilità del professionista che lavora in questo ambito sta nel sapere scegliere quando utilizzare un particolare modello per incontrare le necessità di particolari bambini, situazioni o abilità (Volkmar, Wiesner; 2014).
Nello specifico, presentiamo adesso alcuni approcci terapeutici e riabilitativi, alcuni di questi ormai presenti nelle linee guida raccomandate dall’OMS, altri necessitano ancora altri studi che ne dimostrino la validità.
2.1 - Intervento Multidisciplinare
2.1.1 - ABA
L’ Applied Behavioural Analysis, più comunemente conosciuta come ABA, è una scienza basata sull’analisi funzionale dei comportamenti, con lo scopo di comprenderne le cause (chiamate antecedenti) e prevenire le reazioni problematiche, fornendo al bambino alternative di comportamento più funzionali (Cooper, Heron, Heward; 2006). Sviluppatasi a partire dagli studi di Skinner (1938, 1953), la terapia ABA è ormai supportata da molteplici studi che sostengono una sua efficacia nel migliorare le abilità cognitive, il linguaggio e i comportamenti adattativi nei bambini con disturbi dello spettro autistico (Fenske, Zalenski, Krantz et al. 1985; Matson, Benavidez, Compton et al., 1996; Sallows, Graupner, 2005). Grazie ai numerosi studi sulla sua efficacia, l’ABA è diventato uno dei trattamenti elettivi nell’ambito dei disturbi del neurosviluppo, con importanti applicazioni soprattutto nell’ambito dell’autismo. Esso si pone come strumento e metodologia per l’apprendimento di molteplici abilità, basando il suo intervento sulla manipolazione della motivazione dell’allievo e sulla presentazione di aiuti e modelli (Ricci, Magaudda, Carradori et al., 2014). Nonostante la terapia sia indirizzata al soggetto con autismo, la collaborazione dei genitori risulta fondamentale in diverse fasi, come: la scelta dei rinforzi, l’individuazione dei comportamenti più difficili da gestire, per la generalizzazione delle abilità e tanto altro ancora (Zanobini & Usai, 2008).
L'ABA non è soltanto un metodo di intervento, ma l’applicazione di una vera e propria Scienza del Comportamento. Essa si basa su 7 principi, come pubblicato sul primo numero della rivista scientifica JABA (Journal of Applied Behavior Analysis, 1968), che specificano nel dettaglio le caratteristiche che un intervento ABA deve avere e ne rappresentano garanzia di qualità. Le 7 dimensioni descritte da Bear, Wolf e Risley (1968) sono:
- Applicata- i comportamenti scelti come target dell’intervento sono socialmente significativi;
- Comportamentale- i comportamenti target dell’intervento sono osservabili e misurabili;
- Analitica- è possibile dimostrare una relazione funzionale tra le variabili in esame e le decisioni cliniche si basano sull’analisi dei dati raccolti durante l’intervento;
- Tecnologica- le procedure sono descritte nel dettaglio, permettendone così la replicazione;
- Concettualmente sistematica- le procedure si basano esclusivamente sui principi del comportamento;
- Efficace- produce risultati socialmente significativi;
- Generalizzabilità- i risultati dell’intervento si mantengono anche dopo la fine dell’intervento e in luoghi e con persone differenti.
Oggetto d’interesse dell’ABA è il comportamento umano, definito come quella porzione di interazione dell’organismo con l’ambiente, situabile a livello spaziale e temporale, che provoca un cambiamento osservabile all’interno dell’ambiente stesso (Cooper, Heron, Heward, 1987).
In quest’ottica, anche il linguaggio viene visto come un comportamento.
L’analisi del comportamento verbale di Skinner (1957) fornisce una cornice importante per la valutazione e l’intervento sul linguaggio in bambini con autismo e disabilità intellettive.
Il comportamento verbale viene letto ed analizzato sulla base della funzione che assolve, da ciò derivano gli operanti verbali:
- Tact (denominazione, etichettamento di uno stimolo non verbale);
- Mand (a partire dalla motivazione consiste nel comportamento di chiedere, fare richieste);
- Ecoico (imitazione verbale);
- Codic (leggere un testo, scrivere sotto dettatura);
- Intraverbale (a partire da uno stimolo verbale, viene formulata una risposta, un commento, anch’esso verbale);
- Recettivo (abilità dell’ascoltatore, comportamenti non verbali che seguono comportamenti verbali, come la collaborazione, la risposta ad una istruzione, ecc.) (Sundberg & Partington, 1998).
Vediamo dunque come il comportamento verbale non fa riferimento soltanto al linguaggio vocale, parlato, ma anche ad altre forme di comunicazione. Include inoltre, modalità di comunicazione altre, come la lingua dei segni (LIS), l’uso delle immagini (PECS), il gesto indicativo, la scrittura, e altre modalità.
Uno dei primi a definire ed applicare un modello di intervento fu Loovas, con il suo Loovas Autism Project (1981, 1990). Questo modello utilizzava il Discrete Trial Training (DTT), cioè l’insegnamento per prove discrete. Tale metodo di insegnamento comprende una serie di prove basate su contingenze a 3 termini, comprendendo:
- Uno stimolo antecedente, cioè una domanda, un’istruzione o un oggetto che crea l’opportunità di risposta da parte dello studente;
- Una risposta da parte dello studente;
- Una conseguenza data dall’insegnante per la risposta dello studente (rinforzo della risposta corretta o correzione dell’errore).
Il DTT permette di insegnare al bambino diverse abilità (cognitive, sociali, comunicative, di gioco, di autonomia) lavorando al tempo stesso sull’incremento di tutti quegli aspetti che risultano essere particolarmente deficitari nelle persone con ASD: attenzione, motivazione, generalizzazione, rapporto causa- effetto, comunicazione.
Caratteristiche principali dell’insegnamento per prove discrete sono: la presentazione di materiale in modo preciso e sequenziale al fine di evocare risposte frequenti da parte dello studente e l’apprendimento senza errori, nel quale l’operatore dà un prompt (un aiuto) al bambino per impedirgli di sbagliare. Questo aiuto viene poco alla volta sfumato (fading) al punto da portare il bambino a svolgere l’abilità autonomamente. Le sessioni sono molto strutturate, il ritmo delle prove è abbastanza sostenuto, così come l’utilizzo dei rinforzatori per mantenere alta la motivazione del bambino. Tuttavia, i rinforzi e i prompts utilizzati non sono presenti nell’ambiente naturale, dunque è necessario prevedere procedure specifiche per la generalizzazione delle abilità apprese (Cooper, Heron, Heward, 1987).
Tale metodo di insegnamento si è rivelato particolarmente efficace nel trattamento di persone con autismo (Smith, 2001), anche se oggi si tende ad utilizzare metodi più naturalistici, come il NET (Natural Environment Teaching).
Anche il NET nasce dagli studi di Skinner (1938, 1953, 1957) e Micheal (1982, 1988, 1993, 2000, 2007) e si basa sull’analisi comportamentale del linguaggio per guidare lo sviluppo di procedure di insegnamento e la selezione degli obiettivi target, ma l’insegnamento è condotto in un ambiente naturale, organizzato per manipolare la motivazione del bambino e cogliere le naturali opportunità di insegnamento. Esso dunque deve essere ricco di attività e materiali motivanti per il bambino. In questo caso, non vi è la presentazione di prove discrete, ma è il bambino stesso ad avviare l’interazione con l’oggetto, mentre il terapista rinforza la risposta iniziale del bambino con l’attenzione, modellando una forma di comportamento più elaborata ed appropriata. Le sessioni sono dunque meno strutturate rispetto al DTT, il ritmo dell’insegnamento è determinato dallo studente e non vi è un ordine prefissato per la presentazione delle istruzioni, che dipendono dalla motivazione dello studente.
Uno dei primi step che precedono l’avvio di una terapia ABA è la valutazione delle abilità presenti, per determinare il livello di funzionamento attuale e impostare il trattamento.
Per determinare le abilità presenti i manuali più utilizzati sono l’ABLLS-R (Partington, Sundberg, 1998) e il VB-MAPP (Sundberg, 2008). Il primo prende in considerazione 466 abilità suddivise in 25 aree, in ordine gerarchico; il secondo, invece, prevede 170 abilità principale (milestones) suddivise in 16 aree e organizzate in 3 livelli gerarchici, ognuno dei quali legato a specifiche età di sviluppo tipico, e le barriere all’apprendimento.
Altro elemento importante da valutare sono i comportamenti problematici, letti attraverso l’analisi funzionale. In quest’ottica i comportamenti, a prescindere dalla loro forma, dalla loro topografia, possono svolgere le seguenti funzioni per l’individuo:
- Fuga/ evitamento (dal compito, dalla richiesta, ecc…);
- Accesso al tangibile (giochi, attività, ecc…);
- Accesso all’attenzione (dei pari, dei genitori, dell’insegnante);
- Autostimolazione (comportamenti non mediati socialmente, che producono una gratificazione sensoriale).
Individuare la funzione di un comportamento risulta essenziale non soltanto per la sua comprensione, ma soprattutto per la sua modifica poiché l’intervento in questo caso consisterà nell’insegnare all’individuo un comportamento alternativo, che assolva la stessa funzione ma che si presenti attraverso una topografia funzionale per l’individuo e socialmente accettabile stesso (Martn, Pear, 2000).
Altro elemento da sottolineare è che uno degli scopi principali del metodo ABA è far in modo che la dimostrazione dell’efficacia delle procedure utilizzate per generare il cambiamento avvenga tramite il metodo scientifico.
Applicazioni di successo di questo metodo sono state documentate in diversi soggetti che vanno da quelli gravemente disabili a quelli con funzionamenti intellettivi alti, sia giovanissimi che anziani, sia in programmi istituzionali controllati sia in situazioni di gruppo meno strutturate. La gamma dei comportamenti studiati va dalle semplici abilità motorie fino alla soluzione di problemi complessi. L’ambito di applicazione non riguarda solo l’autismo, ma aree in cui questo tipo di interventi sono maggiormente utilizzati sono l’educazione, il servizio sociale, l’assistenza, la psicologia clinica, la psichiatria, la psicologia di comunità, la medicina, la riabilitazione, gli affari, la gestione aziendale e lo sport (Martin. Pear, 2000).
2.1.2 DENVER
L’Early Start Denver Model (ESDM Rogers, Dawson, Munson et al. 2010) è uno tra i modelli sviluppati per l’intervento psicoeducativo rivolto al trattamento dei Disturbi dello Spettro Autistico, la cui sua efficacia è stata confermata da studi randomizzati (Dawson, Jones, Merkle et al. 2012). Nato dalla collaborazione tra Sally Rogers e Geraldine Dawson, si tratta di un metodo di intervento pensato per il trattamento precoce ed intensivo ed è proprio questo elemento che viene considerato come uno dei principali indicatori degli esiti positivi del trattamento (Johnson, Myers, 2007) nella letteratura internazionale. Il modello ESDM, in questa prospettiva, è rivolto a bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico del range di età compreso tra i 18 e i 48 mesi (Rogers, Dawson, 2010).
L’ESDM nasce all’interno di una cornice evolutiva e si indirizza principalmente allo sviluppo di due aree:
- L’interazione sociale reciproca, con la finalità di correggere il deficit delle abilità sociali che ostacola l’apprendimento e determina la disabilità;
- La comunicazione, fattore prognostico essenziale in termini di impatto sulla vita sociale e familiare, sugli apprendimenti scolastici e sullo sviluppo di abilità funzionali alla vita adulta.
Esso sottolinea, dunque, gli effetti dell’autismo sull’interazione sociale, la comunicazione, lo sviluppo motorio, l’imitazione e la capacità di prendersi cura di sè. Di conseguenza, il trattamento è basato sulla creazione di routine sociali e sull’attenzione condivisa, attraverso lo svolgimento di attività congiunte. Elementi essenziali nel lavoro del terapista ESDM sono: focus sull’attenzione e la sensibilità, turni comunicativi, condivisione di routine all’interno di attività, motivazione del bambino e possibilità di scelta, focus sulla comunicazione, affetto positivo e mantenimento di un ritmo d’insegnamento alto. Tutti questi elementi permettono infatti al bambino di raggiungere le competenze necessarie per progredire nelle diverse tappe dello sviluppo. Tale sviluppo si realizza in maniera esperienziale, attraverso le relazioni con gli adulti significativi e le informazioni che acquisiscono dai sensi (Roger, Dawson, 2010). Obiettivo primario è dunque ristabilire questi circuiti sociali, costruendo alcuni blocchi di abilità essenziali, quali:
- l’imitazione;
- l’attenzione congiunta;
- la comunicazione verbale e non verbale;
- la partecipazione sociale.
Nell’ottica di un intervento precoce, i gap presenti in queste aree vanno riempiti il prima possibile e ciò richiede un insegnamento intensivo. Inoltre, risulta prioritario aumentare il valore che l’interazione sociale ha per il bambino poiché da ciò deriva l’ampliamento delle sue abilità di comunicazione sociale, nonché l’aumento dei tassi di apprendimento, prevenendo così alterazioni esperienziali, causa a loro volta di alterazioni a livello neurale e di sviluppo psicologico.
Gli stessi ideatori del modello, Dawson e Rogers, hanno anche svolto studi per dimostrarne l’efficacia (Dawson, Rogers 2010). Essi hanno valutato 48 bambini con diagnosi di ASD di età compresa tra 18 e 30 mesi, i quali sono stati assegnati in modo casuale a 2 gruppi: (1) un gruppo usufruiva di un intervento ESDM, che si basa su principi analitici comportamentali applicati e evolutivi e fornito da terapisti e genitori qualificati per 2 anni; (2) un gruppo è stato inviato a operatori comunitari per interventi comunemente disponibili nella comunità. Rispetto ai bambini che hanno ricevuto l’intervento comunitario, i bambini che hanno ricevuto l’ESDM hanno mostrato miglioramenti significativi nel QI, nel comportamento adattivo e nella diagnosi di autismo. Due anni dopo l’inizio dell’intervento, il gruppo ESDM ha migliorato in media 17,6 punti del punteggio standard (1 DS: 15 punti) rispetto ai 7,0 punti del gruppo di confronto rispetto ai punteggi di base. Il gruppo ESDM ha inoltre mantenuto il suo tasso di crescita nel comportamento adattivo rispetto a un campione normativo di bambini con sviluppo tipico. Al contrario, nell’arco di 2 anni, il gruppo di confronto ha mostrato maggiori ritardi nel comportamento adattivo. I bambini che hanno ricevuto l’ESDM avevano anche maggiori probabilità di sperimentare un cambiamento nella diagnosi da autismo a disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato, rispetto al gruppo di confronto. Questo è stato il primo studio randomizzato e controllato che ha dimostrato l’efficacia di questo modello di intervento per i bambini piccoli con ASD per migliorare il comportamento cognitivo e adattivo e ridurre la gravità della diagnosi di ASD (Dawson. Dawson, 2010).
Il programma richiede un’equipe multi-disciplinare di cui fanno parte anche le famiglie, che sono coinvolte attivamente e aiutano i terapisti a pianificare e realizzare l’intervento. Le sessioni di insegnamento svolte in famiglia e a scuola aiutano a generalizzare le competenze acquisite in ambiente terapeutico.
Elemento importante in questo metodo è il Parent coaching, uno strumento che applica strategie e tecniche del coaching alla genitorialità e alla relazione genitore- figlio. Gli effetti dell’intervento con i genitori sono stati testati anche in uno studio di Vismara e Rogers (2008).
In questo studio l'intervento è stato implementato con un bambino di 9 mesi di età con un profilo comportamentale coerente con il disturbo dello spettro autistico. Esso consisteva in un programma educativo individualizzato genitore-figlio di 12 settimane, con una durata di 1,5 ore settimanali. I risultati hanno dimostrato che il genitore aveva acquisito molteplici tattiche di insegnamento associate alla crescita dei comportamenti di comunicazione sociale del bambino. Sono stati notati miglioramenti anche rispetto alla gravità degli indicatori comportamentali legati all’autismo tra i 18 e i 24 mesi di età.
Il fatto che i genitori imparino un certo tipo di approccio infatti, fa sì che l’apprendimento venga incorporato nella vita di tutti i giorni e generalizzato a molteplici ambienti di vita. Riprendendo le parole di Hobbs e colleghi (1978) infatti, i genitori dovrebbero essere riconosciuti come educatori speciali perché sono i veri esperti dei loro figli. Insegnanti, pediatri, psicologi, ecc, dovrebbero imparare ad essere semplici consulenti dei genitori stessi.
2.1.3 TMA
Dal punto di vista riabilitativo la Terapia Multisistemica in Acqua Metodo Caputo Ippolito (TMA) l’acqua viene utilizzata per favorire l’attivazione emozionale, sensoriale e motoria, essendosi dimostrata capace di spingere il soggetto con disabilità ad una relazione significativa.
La TMA può essere considerata una terapia multisistemica perchè valuta ed interviene su una molteplicità di sistemi: relazionale, cognitivo, comportamentale, emotivo, senso-motorio e motivazionale. Essa si inserisce in un progetto riabilitativo globale, curando in particolar modo gli aspetti relazionali, emotivi e di integrazione sociale. Infatti, le tecniche natatorie e le capacità acquisite durante l’intervento, vengono utilizzate per raggiungere obiettivi terapeutici e attuare successivamente anche un processo di socializzazione e integrazione con il gruppo dei pari, elemento importantissimo (Caputo, Ippolito & Maietta, 2016).
Il presupposto di base della TMA è che l’acqua sia un ambiente naturale e piacevole, in grado di attivare emozioni positive, sensazioni sensoriali, reazioni motorie e comportamenti sociali nei bambini con autismo. L’acqua infatti offre una serie di vantaggi, come:
- La riduzione della gravità, che facilita il movimento e la coordinazione;
- La pressione idrostatica, che stimola il sistema propriocettivo e vestibolare;
- La temperatura, che regola il tono muscolare e il rilassamento;
- La trasparenza, che favorisce il contatto visivo e la comunicazione non verbale;
- La fluidità, che invita al gioco e alla creatività.
Essendo una terapia svolta in acqua, il setting ideale sarebbe una piscina riscaldata, con profondità adeguata all’altezza del bambino, con la presenza di un operatore specializzato che interagisce con il bambino in acqua, con un programma personalizzato, costruito sulla base delle caratteristiche e dei suoi bisogni. L’operatore usa diverse tecniche per creare una relazione di fiducia e di divertimento con il bambino, come:
- Il contatto fisico, che trasmette sicurezza e affetto;
- La mimica facciale, con cui esprime accoglienza e positività;
- La voce, che modula il tono e il ritmo in base alle emozioni;
- Il gioco, che propone attività ludiche e stimolanti;
- Il rinforzo, che elogia e incoraggia i progressi.
Come già detto, la TMA ha come obiettivi il miglioramento delle abilità sociali, emotive, comunicative, cognitive e motorie dei bambini con autismo. Alcuni dei benefici che si possono ottenere sono:
- L’aumento dell’attenzione congiunta, dell’imitazione, della condivisione e del turn-taking;
- Il potenziamento del riconoscimento e dell’espressione delle emozioni;
- Lo sviluppo del linguaggio verbale e non verbale;
- Il potenziamento delle funzioni esecutive, come la pianificazione, la memoria, il problem solving e la flessibilità cognitiva;
- Il miglioramento delle abilità motorie fini e grossolane, della coordinazione, dell’equilibrio e del ritmo;
- La modulazione delle risposte sensoriali, riducendo l’ipersensibilità o l’iposensibilità agli stimoli visivi, uditivi, tattili, olfattivi e gustativi (Caputo, Ippolito, Mazzotta & Zoccolotti, 2019).
La TMA è dunque un intervento innovativa ed efficace, anche se ha dei costi. Essa richiede infatti una formazione specifica degli operatori, i quali devono saper usare l’acqua in modo appropriato ed etico e devono saper lavorare in stretta collaborazione con tutta l’equipe multidisciplinare e la famiglia per poter sviluppare e svolgere un progetto strettamente individuale.
L’efficacia della TMA sull’autismo è stata valutata attraverso diversi strumenti e criteri, da applicare prima, durante e dopo il programma di intervento. Alcuni di questi metodi sono:
- La valutazione del funzionamento adattivo (sulla base di scale standardizzate e questionari somministrati ai genitori o agli insegnanti)
- La valutazione dell’interazione in acqua (sulla base di osservazioni sistematiche e registrazioni video dell’operatore e del bambino in acqua, per misurare la qualità e la quantità della relazione tra i due)
- La valutazione della soddisfazione dei genitori e degli operatori (sulla base di interviste e questionari somministrati ai genitori o agli operatori coinvolti nel programma).
L’efficacia della TMA sull’autismo è stata poi confermata anche da diversi studi (Caputo, Ippolito, Mazzotta, 2017, 2018), i quali hanno evidenziato i benefici di questa forma di intervento. Alcuni dei risultati ottenuti sono:
- Il miglioramento del funzionamento adattivo, in particolare nelle aree dell’adattamento alla situazione, dell’espressione delle emozioni, della capacità di adattamento ai cambiamenti e del livello di attività generale;
- La diminuzione dei comportamenti problematici legati all’auto ed etero aggressività, alle stereotipie e ai comportamenti disadattivi
- La canalizzazione dell’aggressività in maniera funzionale;
- Il miglioramento dell’interazione in acqua tra l’operatore e il bambino con autismo, in termini di contatto oculare, attenzione congiunta, imitazione, condivisione e turn-taking;
- L’aumento della capacità a sviluppare relazioni con i coetanei
- L’aumento dei tempi di attesa;
- L’aumento dell’autostima:
- L’aumento della comunicazione verbale e non verbale;
- Il miglioramento dell’autonomia personale;
- La stimolazione delle capacità psicomotorie e natatorie;
- Il miglioramento della soddisfazione dei genitori e degli operatori coinvolti nella TMA, in termini di fiducia nel metodo, coinvolgimento nelle attività e percezione dei progressi;
Questi sono solo alcuni degli studi scientifici a supporto della TMA. Esistono anche altri studi che hanno evidenziato i benefici della TMA su altri aspetti dell’autismo, come la comunicazione, le emozioni, le funzioni esecutive e le abilità motorie.
Pur rappresentando una forma d’intervento efficace ed innovativa nel soggetto autistico, la TMA richiede ulteriori valutazioni e studi nel lungo periodo per verificare l’efficacia, le indicazioni specifiche, le possibili controindicazioni oltre che una costante verifica degli esiti attraverso strumenti validi ed affidabili.
2.2. La robotica
Negli ultimi decenni si sta facendo spazio in numerose ricerche (Lytridis, Vrochidou, Chatzistamatis et al. 2019; Scassellati, Boccanfuso, Huang et al. 2018; Costa, Lehmann, Dautenhahn, et al. 2014; Boucenna, Narzisi, Tilmont, et al. 2014; Pennazio, 2015; Pennazio, 2017; Diehl, Schmitt, Villano et al., 2012; Robins, Dautenhahn, Dickerson, 2009) l’utilizzo della robotica nel trattamento del soggetto autistico. Anche se autismo e robotica sembrano appartenere a due mondi distinti e separati, in realtà si stanno avvicinando sempre di più grazie alla ricerca e all’innovazione. Dal connubio tra il disturbo del neurosviluppo e la scienza che si occupa della progettazione, della costruzione di macchine in grado di svolgere i compiti specifici con l’utilizzo dei robot, ossia la robotica, nasce la terapia assistita da robot (RAAT).
Suddetta terapia è una forma di intervento in cui i robot vengono utilizzati come strumenti di supporto per stimolare le abilità sociali, comunicative, cognitive e motorie dei bambini con autismo. Tali macchine possono essere di diversi tipi, da quelli con sembianze umane, a quelli animali, passando a quelli più semplici e astratti. Obiettivo di tale terapia è la creazione di una relazione di fiducia e divertimento tra bambino e robot per andare a favorire l’apprendimento ed il miglioramento della vita familiare e personale.
Sin dai primi studi (Kim, Paul, Shic, et al. 2012; Costa, Lehemann, Dautenhahn, et al. 2014; Boucenna, Narzisi, Tilmont et al. 2014; Pennazzio, 2017) si è evinto che l’uso della SAR può migliorare l’attenzione e il coinvolgimento di questi bambini, aumentando l’imitazione e promuovendo l’interazione sociale e comunicativa. Tuttavia, resta da sottolineare come studi precedenti in questo campo sono limitati in termini metodologici: dimensione del campione, basso potere statistico e breve durata del tempo di applicazione del trattamento. La terapia assistita da robot inoltre, migliora l’efficacia e l’efficienza dei trattamenti cognitivo-comportamentali (Alabdulkareem Alhakbani, Al-Nafjan, 2022), come dimostrato anche dallo studio di Marino e collaboratori (2020). In questo studio è stato infatti dimostrato il ruolo di mediazione svolto dal robot sociale all’interno di un protocollo di comprensione socio-emotiva per bambini con disturbo dello spettro autistico. Metà dei partecipanti hanno svolto delle sessioni di intervento cognitivo-comportamentale senza mediazione del robot, l’altro gruppo con la mediazione del robot. Nonostante il numero esiguo dei partecipanti, i risultati mostrano come il robot sociale promuova l’apprendimento dei bambini della regolazione emotiva (Marino, Chilà, Trusso Sfrazzetto, et al. 2020).
Una fetta significativa di questi studi si è focalizzata sull’utilità delle tecnologie robotiche nello stimolare le abilità deficitarie nella Sindrome dello Spettro Autistico, dando conferma di come i robot possano fornire un aiuto nel creare una comunicazione con il bambino autistico, favorendo l’attenzione e il contatto oculare e la messa in atto di nuovi comportamenti sociali.
L’impiego dei robot sociali per il trattamento degli specifici sintomi dell’autismo sta riscuotendo sempre un maggior consenso da parte della comunità scientifica.
La terapia assistita da robot nel soggetto autistico ha evidenziato diversi vantaggi rispetto ad altre forme di intervento per l’autismo. I robot infatti sono:
- Stimolanti: in quanto i robot attirano l’attenzione dei bambini con autismo grazie ai loro movimenti, ai loro suoni, ai loro colori e alle loro luci. Inoltre, i robot propongono giochi interattivi e personalizzati in base alle preferenze e alle capacità del bambino;
- Prevedibili: seguendo regole precise e ripetitive, rendono l’interazione più facile e meno stressante per i bambini con autismo. I robot inoltre non giudicano, non criticano e non si arrabbiano, ma mostrano sempre un atteggiamento positivo e accogliente;
- Adattabili: i robot tendono a modificare il loro comportamento in base al feedback del bambino, aumentando o diminuendo la complessità dei giochi, la velocità dei movimenti, il volume dei suoni, in questo modo, i robot riescono ad adeguarsi al livello di interesse, di motivazione e di abilità del bambino;
- Generalizzabili: in quanto utilizzabili in diversi contesti come scuola, famiglia, centro terapeutico o casa. Inoltre, i robot possono facilitare il trasferimento delle abilità apprese ad altre situazioni sociali, come l’interazione con i coetanei o con gli adulti.
È importante sottolineare come la RAAT non sostituisce il ruolo del terapeuta o del caregiver umano, ma lo arricchisce ed integra. Il professionista infatti deve programmare il robot in base alle caratteristiche ed ai bisogni del bambino monitorando l’interazione tra i due, fornire dei feedback e rinforzi positivi, andare a correggere eventuali problemi oltre che valutarne i progressi (Lytridis, Vrochidou, Chatzistamatis et al., 2019). Il caregiver umano può quindi partecipare attivamente alla terapia, giocando con bambino e robot, incoraggiando e sostenendo emotivamente. Anche Cabibihan e colleghi nel 2013 hanno esaminato i ruoli e i benefici dei robot sociali nella terapia dei bambini con autismo, basandosi su una revisione della letteratura scientifica e su un sondaggio condotto su 50 esperti nel campo della RAAT. I risultati hanno mostrato che i robot sociali possono svolgere diversi ruoli nella terapia dei bambini con autismo, come quello di mediatore sociale, di modello comportamentale, di strumento didattico o di compagno di gioco. Inoltre, i robot sociali possono offrire diversi benefici ai bambini con autismo, come quello di stimolare la loro motivazione, la loro attenzione, la loro imitazione e la loro espressione emotiva.
La RAAT interviene su diverse aree dello sviluppo dei bambini con autismo, come:
- L’area sociale ed emotiva: stimolando il riconoscimento e l’espressione delle emozioni, il contatto oculare, l’attenzione congiunta, l’imitazione, la condivisione e il turn-taking;
- L’area comunicativa: favorendo lo sviluppo del linguaggio verbale e non verbale, la comprensione e la produzione di messaggi, la gestione dei conflitti e la negoziazione;
- L’area cognitiva: potenziando diverse funzioni esecutive come la pianificazione, la memoria, il problem solving e la flessibilità cognitiva;
- L’area motoria: migliorando le abilità motorie fini e grossolane, la coordinazione, l’equilibrio e il ritmo;
- L’area sensoriale: infatti la RAAT modula le risposte sensoriali, riducendo l’ipersensibilità o l’iposensibilità agli stimoli visivi, uditivi, tattili, olfattivi e gustativi.
Tra i vantaggi riscontrati nella RAAT rispetto alle altre terapie nel soggetto autistico riportiamo:
- L’accettabilità sociale, intesa come la disponibilità del bambino con autismo ad entrare in relazione prima con il robot e poi con il partner umano (Dunst, Trivette, Prior, et al. 2013; De Graaf, Allouch, 2013);
- la “comunicazione motoria per imitazione” cioè la riproduzione da parte del bambino di azioni e comportamenti compiuti dal robot con finalità comunicativa (aspetto carente nell’autismo) (Douquette, Michaud & Mercier, 2008; Cavallo, Koul, Ansuini et 2016; Ansuini, Cavallo, Bertone et al. 2015);
- il mantenimento dell’attenzione condivisa, cioè la capacità di mantenere il contatto oculare sullo stesso oggetto osservato da più persone (Robins, Dautenhahn, Nehavic, et al. 2005)
I suddetti robot utilizzati nel trattamento della sindrome autistica presentano aspetti diversi tra loro come:
- L’aspetto fisico: mentre alcuni robot presentano un aspetto umanoide, cioè simile a quello di una persona, altri hanno un aspetto zoomorfo, cioè simile a quello di un animale, altri ancora hanno un aspetto astratto, cioè senza una forma definita. L’aspetto fisico può influenzare il grado di identificazione e di empatia dei bambini con il robot, anche se non vi sono ancora risultati chiari rispetto a quale sia l’aspetto migliore. Lo studio condotto da Kumazaki e collaboratori (2017) è interessante in questa prospettiva perché estrapola evidenze che indicano la possibile preferenza dei bambini con autismo per diversi tipi di robot in relazione alla tipologia di interazione che stanno mettendo in atto e in relazione al grado con cui la sintomatologia autistica si presenta. In particolare, viene evidenziato come i bambini con forme più gravi di autismo sembrino preferire robot umanoidi in cui gli aspetti meccanici sono ridotti. Anche Diehl e collaboratori (2012) hanno condotto una revisione critica di 14 studi per valutare l’uso clinico dei robot per le persone con autismo, focalizzandosi sui tipi di robot utilizzati, sui metodi di intervento impiegati e sugli esiti misurati. I risultati hanno mostrato che i robot utilizzati nella terapia delle persone con autismo sono principalmente robot umanoidi o zoomorfi, che i metodi di intervento impiegati sono principalmente basati sull’apprendimento sociale o sul rinforzo contingente e che gli esiti misurati sono principalmente relativi alla comunicazione verbale e non verbale, all’interazione sociale e al comportamento.
- Le capacità sensoriali: alcuni robot hanno più sensori di altri, che gli permettono di percepire l’ambiente e le persone in modo più accurato e completo. I sensori possono essere visivi, uditivi, tattili, olfattivi o gustativi. Le capacità sensoriali possono influenzare il grado di interazione e di feedback dei bambini con il robot;
- Le capacità motorie: alcuni robot hanno più articolazioni di altri, che gli permettono di muoversi in modo più fluido e naturale. Le articolazioni possono riguardare la testa, le braccia, le gambe, le mani o il tronco. Le capacità motorie possono influenzare il grado di espressività e di gioco dei bambini con il robot;
- Le capacità cognitive: alcuni robot hanno più intelligenza artificiale di altri, che gli permette di apprendere dai dati acquisiti sui bambini e di adattare il loro comportamento in base alle loro caratteristiche e ai loro bisogni. L’intelligenza artificiale può riguardare la comprensione e la produzione del linguaggio, il riconoscimento e l’espressione delle emozioni, la pianificazione e il problem solving. Le capacità cognitive possono influenzare il grado di personalizzazione e di stimolazione dei bambini con il robot.
Il primo robot sociale, progettato da ricercatori inglesi dell’università dell’Hertfordshire, impiegato nella terapia per l’autismo venne ribattezzato come Kaspar (Huijnen, Lexis, & de Witt, 2016). Si tratta di un robot con le sembianze di un bambino, dotato di sensori tattili, di una bocca e di occhi mobili. Può sorridere, salutare e abbracciare. Grazie al fatto di essere ripetitivo e poco espressivo, risultava rassicurante per i bambini autistici. I ricercatori credono inoltre che Kaspar possa essere utile per un’ampia gamma di obiettivi terapeutici ed educativi per i bambini con ASD, dalla comunicazione al gioco, fino alle abilità prescolari. In un altro studio i ricercatori hanno dimostrato anche come questo robot possa aumentare la consapevolezza corporea di questi bambini, insegnando loro come identificare le parti del corpo. Lo studio ha mostrato il potenziale che ha l’insegnamento ai bambini con autismo delle parti del corpo e dell’appropriata interazione fisica utilizzando un robot umanoide, e ha evidenziato le questioni relative allo sviluppo di scenari, alla raccolta e all’analisi dei dati, di cui si occuperanno gli studi futuri (Costa, Lehmann, Dautenhahn et. 2014). Altra importante applicazione essere utilizzato per favorire e supportare il gioco collaborativo tra i bambini con autismo. In questo lavoro (Wainer. Robions, Amirabdollahain et 2014), KASPAR opera in totale autonomia e utilizza le informazioni sullo stato del gioco e sul comportamento dei bambini per coinvolgere, motivare, incoraggiare e consigliare coppie di bambini che giocano a un gioco di imitazione. I risultati di un primo studio, che ha coinvolto sei bambini con autismo, hanno indicato che diverse coppie di bambini con autismo hanno mostrato comportamenti sociali migliorati nel giocare tra loro dopo aver giocato in coppia con il robot KASPAR rispetto a prima. Questi risultati sono incoraggianti e forniscono una prova di concetto dell’utilizzo di un robot che opera autonomamente per incoraggiare le capacità di collaborazione tra i bambini con autismo.
A Kaspar si sono succeduti altri robot, come NAO, in grado di apprendere da dati acquisiti direttamente su ciascun bambino attraverso i video delle loro espressioni, dei gesti e dalle registrazioni fisiologiche come la frequenza cardiaca. NAO, il robot umanoide alto circa 60 cm descritto nella ricerca presentata da Rudovic, Lee, Dai, Schuller e Picard nel 2018, è costruito intorno ad un sistema di machine learning che usa un sistema gerarchico di processamento delle informazioni per migliorare i suoi compiti, interviene nella seduta e imita le stesse emozioni che il bambino ha osservato nelle foto, interagendo con il bambino e cambiando di volta in volta il tono della sua voce e il movimento dei suoi arti. Le modalità di comportamento del bambino nell’interazione con NAO, a parere dei ricercatori, rappresentano delle fonti importanti per ricavare informazioni su cui successivamente basare gli interventi.
NAO, durante una prima ricerca svolta dai ricercatori di cui sopra (2018), è stato testato su 35 bambini con diagnosi di autismo, 17 di nazionalità giapponese e 18 di nazionalità serba.
Il punto fondamentale della ricerca risiede nel fatto che NAO è in grado di interagire con i bambini attraverso una modalità accattivante, che suscita curiosità e attira l’attenzione, come se per i bambini fosse una persona reale e non semplicemente un giocattolo e pertanto i dati che l’umanoide ricava dall’interazione naturale con il bambino sono assolutamente affidabili e spontanei.
In aggiunta a ciò, per i bambini l’interazione con un robot che si comporta all’incirca nella stessa maniera risulta meno frustrante rispetto ad una con un adulto umano che tende ad assumere diverse e più complesse espressioni del volto (Rudovic, Lee, Dai, Schuller et al., 2018).
Anche Srinivasan, Lynch, Bubela et al. (2017) hanno valutato l’effetto di NAO su 15 bambini con autismo che hanno partecipato a 10 sessioni di intervento basate sull’insegnamento e il potenziamento delle abilità motorie delle mani. I risultati hanno mostrato che i bambini hanno migliorato significativamente le loro abilità motorie delle mani, la loro motivazione e la loro interazione sociale con il robot e con l’operatore.
Un altro esemplare di robot utilizzato per il trattamento dell’ASD è Zeno. Anche questo prototipo ha sembianze umanoide, con un volto semplice ma espressivo; egli è infatti in grado di simulare le espressioni facciali, anche se si limita alle 6 emozioni di base (Salvador, Silver, Mahoor, 2015). Il robot ZENO è stato impiegato in alcuni studi clinici come mediatore di interventi comportamentali su bambini con ASD, tuttavia i risultati non hanno fornito evidenze chiare. Recentemente, Lecciso et al. (2021) hanno svolto una ricerca su 12 bambini con ASD, suddivisi in due gruppi randomizzati: un gruppo usufruiva di un intervento basato sulla robotica (nello specifico è stato utilizzato Zeno) mentre l’altro gruppo usufruiva di un intervento basato sull’uso del computer. Entrambi i tipi di intervento miravano a migliorare il riconoscimento delle emozioni facciali. I risultati non hanno mostrato differenze significative tra i due gruppi. Sia l’intervento del robot che quello del computer producono miglioramenti simili. Nel complesso, sono dunque necessari studi futuri per convalidare l’uso di ZENO nel trattamento dell’ASD.
La ricerca sulla robotica educativa nei soggetti autistici è giunta anche in Italia: il roboticss Lab (Laboratorio di Robotica per le Scienze Cognitive e Sociali) del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca è infatti dedicato allo studio del ruolo della robotica nell’ambito delle scienze cognitive e sociali (Datteri, Zecca, Laudisa et al. 2013; Businaro, Zecca, Castiglioni, 2014). Elemento innovativo in questa ricerca è la scelta di usare i robot non solo come strumenti di terapia e riabilitazione, ma come strumento conoscitivo, per apprendere maggiori informazioni sul funzionamento della mente dei pazienti autistici. Come affermato dal dottor Edoardo Datteri (2020), ricercatore e coordinatore del RobotiCSS Lab, i bambini autistici si lasciano avvicinare più facilmente dai robot, poiché essi sono emotivamente meno ricchi degli esseri umani e tale povertà emotiva porta ad un minore intimorimento nel bambino con autismo. Risulta quindi più facile la creazione di una relazione tra robot e bambino con sindrome di spettro autistico (Salter, Davey e Michaud, 2014; Cabibihan, Javed, Ang Jr. et al. 2013; Scassellati, 2007; Robins Dautenhahn, Nehaniv et al., 2005).
Da studi condotti negli anni (Pennazio, 2019; Sartorato, Przybylowski e Sarko, 2017; Huiinen, Lexis, Jansens et al, 2016; Pennisi et al., 2016; Scassellati, Admondi e Mataric, 2012, Robins, Dautenhahn, Te Boekhorst e Billard et al.2005; Dautenhahn e Werry, 2004), è emerso che i robot migliorano le competenze sociali nei bambini autistici. Da questi studi si evince come l’interazione dei soggetti con sindrome autistica con le altre persone sia disorientante, anche a causa della variegata espressività del volto umano; infatti nell’interazione con una persona, il bambino autistico viene a contatto con numerosissimi segnali sociali (le espressioni facciali, i gesti, la tonalità della voce) per lui difficili da interpretare. In tale contesto l’utilizzo dei robot sociali diventa quindi una sorta di intermediario, affidabile e prevedibile per il bambino. Si evince inoltre come i bambini autistici riescono a mantenere il focus per maggior tempo sui robot, senza le distrazioni di segnali per loro di difficile interpretazione, e mantengano il contatto oculare con loro per più tempo rispetto a come farebbero con un umano (Robins, Dautenhahn, Nehaniv, et al.2005).
L’utilizzo dei robot sociali è risultato più efficace di altre terapie “tecnologiche”, come i videogiochi o le app poiché l’utilizzo dei robot nel campo riabilitativo nei soggetti autistici incentiva l’interazione. A differenza di altri strumenti come i software, che catturano completamente l’attenzione dei bambini, i robot umanoidi infatti facilitano le naturali interazioni persona-persona.
Un chiaro esempio di progetti mirato all’utilizzo della robotica in campo riabilitativo è il progetto S.E.R.A., ossia uno studio controllato e randomizzato implementato in due fasi che ha come obiettivo il superamento dei limiti delle ricerche precedenti andando a valutare i soggetti con ASD su larga scala. Ad una prima fase di sviluppo, durante la quale saranno sviluppati e testati il protocollo di comprensione socio-emotiva e un protocollo sistematico di formazione e implementazione per genitori e insegnanti, seguirà una seconda fase, in cui saranno condotti gli studi clinici su larga scala nei tre setting (casa, scuola, laboratorio). L’utilizzo del QTrobot nel trattamento dell’autismo e l’utilizzo del LuxAI (https://luxai.com/humanoid-social-robot-for-research-and-teaching/) ha come intento l’uso di questo robot per insegnare abilità cognitive, emotive e comportamentali ai bambini con ASD. Tale ricerca ci porterà a confrontare i risultati ottenuti nel gruppo di bambini sottoposti all’intervento mediato da robot con quelli ottenuti dal gruppo sottoposto a un intervento socio-emotivo tradizionale e con quelli del gruppo in attesa di trattamento. Inoltre, si andrà a valutare l’efficacia dell’uso del QT nell’intervento socio-emotivo in tre diverse configurazioni: laboratorio, scuola e casa. In tale ricerca sono stati presi 160 bambini con ASD (40 trattati con QTrobot, 40 bambini trattati con intervento tradizionale, 40 bambini visti in setting domiciliare e 40 bambini visti in setting scolastico), di età compresa tra 5 e 8 anni, reclutati da tre diversi Stati (Italia/Lussemburgo/Regno Unito). I risultati attesi dovrebbero mostrare come vi sia stato un impatto positivo dell’intervento con il QT su diverse funzioni cognitive e psicologiche quali: capacità di riconoscimento e di denominazione delle emozioni, capacità di rispondere in modo appropriato alle proprie emozioni e a quelle altrui, uso efficace delle abilità di regolazione delle emozioni, benessere emotivo generale, salute mentale, e più in generale sulla sintomatologia dell’autismo correlata alle emozioni. In secondo luogo, ci si aspetta un miglioramento della capacità di attenzione dei bambini, del loro vocabolario e della capacità di autocontrollo comportamentale.
Come detto già in precedenza la RAAT è una forma di intervento innovativa ed efficace per i bambini con autismo. Tuttavia, richiede ancora ulteriori studi per valutare la sua efficacia a lungo termine, le sue indicazioni specifiche e le sue possibili controindicazioni. Inoltre, richiede una formazione adeguata dei terapeuti e dei caregiver umani che devono saper usare i robot in modo appropriato ed etico. Devono quindi essere considerati anche i costi per la formazione ad hoc richiesta ai terapeuti, aspetto che attualmente è lasciata alla decisione del singolo, dato che non sono ancora presenti percorsi standardizzati. Questo punto si collega alla necessità di un lavoro di equipe multidisciplinare con professionisti di diversa estrazione: ingegneri, informatici, psicologi e neuropsicomotricisti. La collaborazione tra professionisti di diverse discipline per progettare e costruire dispositivi sempre più efficienti potrà portare ad una sempre maggiore disponibilità di contributi in questa area di ricerca con conseguenti ricadute positive sulle terapie.
CONCLUSIONI
Abbiamo visto come il fenomeno dell’autismo sia in continua espansione e come continuino a proliferare le ipotesi e i tentativi di spiegazione, cercando nell’eziopatogenesi la chiave per poterlo arginare. Lungi dall’avere risultati chiari, i numerosi studi hanno però portato ad una migliore comprensione della neurodiversità e di quali siano gli aspetti principali e distintivi del quadro, con innumerevoli spunti per il trattamento. Data la criticità del fenomeno ed il suo forte impatto sociale appare infatti necessario dedicare tempo e risorse allo sviluppo di strategie e metodi riabilitativi. Abbiamo visto anche come negli ultimi decenni si sono diffusi molteplici interventi, più o meno validati scientificamente, che si propongono di trattare e migliorare i diversi aspetti del disturbo, dall’aspetto motorio a quello logopedico. Inoltre, sono state promosse tante iniziative per sensibilizzare la popolazione e diffondere “buone prassi”. L’autismo è infatti una condizione complessa e solo abbracciando questa complessità, considerando i tanti fattori e attori coinvolti, che possiamo promuovere una vera e propria cultura dell’inclusione.
Tornando all’aspetto riabilitativo, i tanti trattamenti offerti, per quanto diano ai genitori la possibilità di scegliere il percorso migliore per il proprio figlio, dall’altra rischiano di aumentare la confusione. Anche per chiarire questa confusione, il Ministero della Salute ha predisposto delle Linee Guida sulla diagnosi e il trattamento dello spettro autistico, dirette a tutti i professionisti sanitari e sociosanitari coinvolti nei processi di diagnosi e di presa in carico di soggetti con disturbo dello spettro. Esse rappresentano uno strumento decisionale per garantire l’adozione di un modello che offra un buon equilibrio tra benefici ed effetti indesiderati.
Alcuni degli approcci presentati nella parte conclusiva di questo elaborato sono riportati in queste Linee Guida, altri necessitano ancora di ulteriori valutazioni. Tra questi il più innovativo è certamente quello rappresentato dall’uso della robotica, a cui è stato dedicato ampio spazio.
La robotica è una disciplina dell’ingegneria che si occupa dello studio e degli sviluppi dei metodi che permettono a un robot di svolgere dei compiti specifici riproducendo il lavoro umano. In essa confluiscono approcci molteplici, provenienti da diverse discipline, dalla fisica alla psicologia. In questo modo, mondi apparentemente lontani si uniscono dando vita ad affascinanti progetti. Tra questi trovano spazio appunti i programmi che prevedono l’impiego della robotica nel trattamento dell’autismo. All’interno di questi progetti troviamo la Terapia assistita da robot (RAAT), una forma di intervento in cui i robot vengono utilizzati come strumenti per stimolare le abilità sociali. Utilizzati inizialmente per riabilitare pazienti con disabilità fisiche, la capacità di questi robot nell’attivare e mantenere un’interazione sociale (grazie alla capacità di riprodurre espressioni facciali e gesti) ha avviato il loro utilizzo anche nell’ambito dei disturbi del neurosviluppo, sfruttando anche il grande fascino che i dispositivi multimediali hanno su questo target di utenza.
Gli apparecchi utilizzati hanno infatti sembianze umanoidi o sono simili ad animali e sono molto curati dal punto di vista estetico. Sono inoltre in grado di favorire il coinvolgimento attivo e passivo del bambino e di supportare l’interazione anche in assenza del terapeuta. Ciò non deve però far pensare che il robot possa sostituire la figura del terapeuta, esso semmai funge da mediatore, supportandolo in maniera “intelligente”. Lungi dall’essere un intervento spersonalizzante, infatti, il ruolo del terapeuta umano risulta fondamentale nella SAR. Egli infatti programma l’intervento e ne monitora l’applicazione, cosa che richiede una specifica formazione. Dal suo canto, il robot può essere programmato per aiutare il bambino a praticare aspetti dell’interazione e ad apprendere comportamenti socialmente appropriati, fornendogli stimoli da imitare e rinforzando le risposte positive con stimoli graditi e ignorando e non rinforzando le risposte errate. In questo modo i robot sembrano supportare lo sviluppo delle abilità imitative e l’attenzione congiunta.
In conclusione, i continui sviluppi nel campo della tecnologia sembrano offrire nuovi e potenti strumenti riabilitativi, nonostante siano necessari ulteriori studi che ne dimostrino l’efficacia. Tuttavia vi è ancora molta diffidenza da parte delle famiglie e degli operatori del settore.
Due sono gli aspetti maggiormente discussi: l’accettabilità etica dei robot e i costi, anche se la gran parte di questi costi è legata alla progettazione e realizzazione iniziale. Alla luce però dei promettenti risultati emersi dai primi studi, risulta fondamentale agire un’opera di informazione e rassicurazione nei confronti di famiglie e operatori.
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