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Il ruolo del TNPEE nel contesto multiculturale

Sommario

  1. La figura del TNPEE
    1. Prevenzione
    2. Abilitazione
    3. Riabilitazione
    1. Ruolo del TNPEE
    2. TNPEE e famiglia
    3. TNPEE e ambiente scolastico
    4. Ambiti di intervento del TNPEE
    5. Competenze trasversali del TNPEE
  2. Il fenomeno migratorio
    1. I cambiamenti all’interno del nucleo familiare
    2. Le conseguenze della migrazione sul bambino
    3. La migrazione come fattore di rischio
    1. Alcune definizioni
    2. Dati migratori in Italia
    3. L’impatto della migrazione sulla vita dei migranti 
  3. La presa in carico del bambino migrante
    1. Lo scontro tra culture
    1. L’interpretazione della disabilità
    2. La valutazione del paziente straniero
    3. Verso una prospettiva interculturale
  4. L’importanza della figura del mediatore
    1. Scopo dello studio
    2. Materiali e metodi
    3. Analisi dei dati
      1. Analisi dei dati raccolti presso IRCCS Fondazione Stella Maris
      2. Risultati dell’indagine del campione
      3. Risultati dell’indagine del sottocampione
    4. Discussione
    5. Conclusioni
    1. Leggi sull’assistenza sanitaria agli stranieri
    2. Storia del nursing e della clinica transculturale
    3. Quando disabilità e migrazione si incontrano 
    4. Parte sperimentale
  5. Bibliografia
  6. Ringraziamenti

 

 

 

 

 

 

 

 

«Non esiste un solo modo o un modo che possa essere considerato giusto

per crescere i bambini, ma tanti modi diversi quante sono le culture e,

potremmo aggiungere, quanti sono i bambini perché,

ciò che è adatto per un figlio non è detto che lo sia per tutti gli altri»

(Balsamo E. 2002)

 

 

 

Introduzione

 

Questo progetto di tesi nasce dall’osservazione, durante la mia esperienza di tirocinio, della presa in carico dei pazienti migranti e da una riflessione su lo scontro/incontro tra gli operatori e le famiglie straniere osservato, nonché da un interesse personale ai temi della disabilità e della migrazione.

Dato il numero sempre maggiore di pazienti stranieri che afferiscono alle nostre strutture sanitarie e la rilevanza che sta assumendo il fenomeno migratorio in Italia negli ultimi anni, ho deciso, dunque, di affrontare il ruolo del TNPEE nella presa in carico di bambini con disabilità provenienti da contesti multiculturali differenti, per riconoscere problematiche e carenze all’interno del percorso sanitario e individuare i punti di forza da cui partire per apportare un cambiamento consistente che modifichi in positivo sia il nostro lavoro (e il benessere a livello professionale) sia il livello di assistenza fornita.

La popolazione che afferisce alle strutture sanitarie del nostro paese riflette i cambiamenti in atto nella società e, negli ultimi anni, è stata caratterizzata da una sempre più eterogenea composizione etnica, linguistica e culturale. Nella valutazione e nella presa in carico dei pazienti è necessario dunque tenere conto delle variabili culturali che influenzano le capacità cognitive e neuro psicomotorie, e tutti quei fattori derivanti dal fenomeno migratorio.

Nonostante il nostro codice deontologico sottolinei l’importanza del riconoscimento e del rispetto verso le altre culture, e ci ricordi di guardare al paziente per la sua interezza considerando ogni aspetto bio-psico-sociale, è bene prenderci un momento di autovalutazione per porci delle domande su quali siano le reali percezioni che abbiamo nei confronti dei pazienti migranti. Quanto ci interessiamo davanti alle singole storie di migrazione e quanto conosciamo riguardo alle conseguenze che un evento del genere può comportare all’interno di un nucleo familiare?

Quanto sappiano delle diverse culture e quanto siamo in ascolto davanti ai bisogni, alle credenze e alle scelte di famiglie culturalmente diverse dalla nostra realtà?

Quanto veramente siamo in grado di farci comprendere e di comprendere?

Ecco che il saperci autogiudicare, cercando di riadattare il più possibile il nostro approccio terapeutico, il setting e la proposta di gioco nella presa in carico del bambino straniero diventa fondamentale per la crescita personale e professionale di ognuno di noi. Mettere in discussione le metodologie, gli strumenti di valutazione utilizzati e chiederci se i servizi erogabili siano realmente adattabili e assicurati per ognuno di questi pazienti può aiutare a migliorare il servizio fornito a tali famiglie concretamente portando il nostro lavoro su un altro livello.

Per indagare su ognuna di queste domande è stato creato un questionario rivolto ai terapisti della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, che valutasse la presa in carico dei pazienti stranieri negli ultimi tre anni, tenendo in considerazione il numero di bambini migranti in trattamento, le origini, la fascia d’età, il percorso migratorio, la patologia.

Il Questionario è stato proposto a tutti i TNPEE iscritti all’albo delle province Pisa-Livorno-Grosseto e poi inoltrato in modo informale, per raccogliere maggiori risposte, attraverso un gruppo whatsapp non istituzionale e che raccoglie 106 terapisti della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva provenienti da tutta Italia.

Sono poi stati richiesti alla direzione sanitaria della Stella Maris e analizzati in parallelo, i dati dei pazienti migranti relativi agli anni 2021, 2022, 2023.

Dai risultati ottenuti sono emerse evidenti difficoltà all’interno della relazione TNPEE/figura genitoriale, ma anche interessanti spunti su cui riflettere. Nella parte conclusiva, vengono elencate alcune interessanti proposte per un miglioramento generale nella gestione dei pazienti e delle famiglie con background culturale differente.

 

La figura del TNPEE

 

    1. Ruolo del TNPEE

 

Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva (TNPEE) è un professionista sanitario riconosciuto con Decreto Ministeriale 5/1997, specializzato nell'intervento preventivo, abilitativo e riabilitativo di pazienti con disabilità in età evolutiva, ovvero nella fascia 0 - 18 anni.

Il suo obiettivo è quello di saper individuare e trattare disturbi e ritardi nello sviluppo neuro-psicomotorio, cognitivo, emotivo, comportamentale e relazionale, creando un ambiente ecologico che favorisca il miglioramento delle capacità funzionali e della qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie.

Il ruolo del TNPEE è quello di accompagnare e supportare il paziente nella ricerca di strategie facilitanti, sia nel contesto neuro-psicomotorio che nei contesti di vita quotidiana e fornire indicazioni essenziali ai Care givens e agli insegnanti per comprendere e gestire nel modo più efficace possibile le difficoltà del bambino.

Durante la sua attività il TNPEE segue un modello bio-psico-sociale, ossia considera l'essere umano nella sua interezza biologica, psicologica e sociale. In questo modo, il TNPEE non si limita a valutare i sintomi fisici dell'assistito, ma tiene conto anche dell’ambiente in cui cresce e delle esperienze di vita pregresse per individuare ulteriori cause di difficoltà che possono manifestarsi durante lo sviluppo dell’individuo.

L'approccio ludico nel percorso terapeutico favorisce il coinvolgimento e la motivazione del soggetto, incentivando così il progresso e l'apprendimento in modo efficace. Il terapista utilizza l’attività di gioco per valutare le capacità del soggetto e adattare gli interventi terapeutici in modo personalizzato [18].

In particolare si occupa di:

  • Deficit di attenzione, iperattività e impulsività;
  • Disabilità intellettive;
  • Disturbi della comunicazione e del linguaggio;
  • Disturbi della regolazione;
  • Disturbi della relazione e del comportamento;
  • Disturbi dello sviluppo della coordinazione motoria;
  • Disturbi dello spettro autistico;
  • Disturbi neurologici;
  • Disturbi neuromotori (paralisi cerebrali infantili; distrofie; paralisi ostetriche etc.);
  • Disturbi sensoriali;
  • Disturbi specifici dell'apprendimento;
  • Ritardo globale di sviluppo (ritardo psicomotorio);
  • Sindromi genetiche.

 

    1. TNPEE e famiglia

 

Il terapista lavora in sinergia con i genitori per garantire continuità nella cura e fornire adeguato supporto nello sviluppo e nella riabilitazione del soggetto. Durante il percorso, elabora e condivide programmi preventivi e riabilitativi con la famiglia, promuovendo il dialogo attraverso incontri periodici di confronto e scambio di informazioni. Il TNPEE si inserisce quindi, anche nell'ambientedomestico, dove fornisce indicazioni e attività specifiche per agevolare la gestione delle terapie nella vita quotidiana della famiglia.

 

Il terapista si impegna attivamente a:

  • Fornire informazioni sui disturbi e le disabilità del bambino, sulle cause e le conseguenze, oltre a opzioni di trattamento e risultati possibili. Sostiene i genitori nell'interpretare e gestire i comportamenti del bambino, rispondendo alle sue esigenze e sviluppando strategie per favorirne lo sviluppo;
  • Aiutare i genitori a comprendere i comportamenti del bambino, identificando le cause e sviluppando strategie di gestione;
  • Agire nel pieno rispetto del contesto familiare, culturale e sociale della famiglia.
  • Assistere i genitori nello sviluppo di strategie per favorire l'inclusione del bambino nella vita sociale e familiare, fornendo informazioni sulle risorse comunitarie e strategie per rendere l'ambiente domestico più accessibile;
  • Aiutare i genitori a ridurre lo stress e l'ansia legati alla cura di un bambino con disabilità, offrendo informazioni sui servizi di supporto disponibili e strategie per gestire lo stress in modo sano;
  • Guidare i genitori nella promozione del dialogo e dell'interazione tra i membri della famiglia, fornendo informazioni e strategie per migliorare la comunicazione e la collaborazione.

 

    1. TNPEE e ambiente scolastico

 

Il TNPEE svolge una funzione chiave nel supporto dei bambini con disabilità all'interno dell'ambiente scolastico. Oltre a collaborare con gli insegnanti e le istituzioni scolastiche, il terapista si attiva nella creazione di un ambiente di apprendimento inclusivo e accessibile a tutti i bambini. Partecipa attivamente alla costruzione di una modalità di lavoro comune con gli insegnanti ed educatori, facilitando lo scambio di informazioni e la condivisione di esperienze. Questa collaborazione fornisce una visione completa del comportamento del bambino nelle relazioni con i coetanei e offre contemporaneamente strategie e suggerimenti pratici per raggiungere gli obiettivi educativi.

In questo contesto il terapista può contribuire attraverso una serie di azioni che vengono qui di seguito riassunte:

  • Visitare l’ambiente scolastico per osservare e comprendere il comportamento del bambino nella classe;
  • Informare e formare il personale scolastico in merito a disturbi, disabilità, cause, conseguenze, opzioni di trattamento e risultati possibili; organizzare incontri e corsi di formazione con lo scopo di sensibilizzare insegnanti e altri operatori scolastici riguardo le esigenze dei bambini con disabilità fornendo loro le competenze necessarie per lavorare con questi bambini;
  • Sviluppare strategie e suggerimenti pratici per promuovere l'inclusione del bambino nell'ambiente scolastico, ad esempio attraverso adattamenti dei materiali didattici o organizzazione dello spazio;
  • Partecipare a incontri di pianificazione e valutazione con insegnanti ed educatori, contribuendo alla formulazione della Diagnosi Funzionale, del Profilo Dinamico-Funzionale (PDF) e del Programma Educativo Individualizzato (PEI), in conformità alla legge 104/92, e al Piano Didattico Personalizzato (PDP) previsto dalla Legge 170/2010;
  • Progettare ambienti scolastici accessibili e inclusivi, per esempio, suggerendo di modificare la disposizione dei mobili, di installare attrezzature specifiche o utilizzare materiali didattici accessibili;
  • Collaborare attivamente con le famiglie per promuovere la partecipazione dei bambini con disabilità alla vita scolastica.

 

    1. Ambiti di intervento del TNPEE

 

      1. Prevenzione

 

Nel contesto della prevenzione, il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva si impegna in diverse aree di intervento:

  • Individuazione degli ambiti specifici in cui possono essere effettuati interventi di promozione della salute, tenendo conto delle problematiche prioritarie di salute;
  • Pianificazione e realizzazione di un progetto di educazione alla salute mirato ai diversi ambiti di competenza del TNPEE all'interno delle scuole, nei Centri Diurni e nei Centri Socio-Educativi, fornendo supporto e consulenza agli operatori scolastici per favorire l'inclusione e l'adattamento degli assistiti;
  • Elaborazione e implementazione di interventi informativi ed educativi sulla salute, rivolti a individui singoli, gruppi e comunità nel loro insieme. Tali interventi hanno l'obiettivo di promuovere stili di vita sani come la postura corretta, il movimento consapevole, la comunicazione efficace, il linguaggio e l'apprendimento;
  • Collaborazione con altri professionisti e istituzioni coinvolte nel percorso di educazione alla salute, al fine di creare una rete integrata di supporto. Questo implica la condivisione di conoscenze, la partecipazione a équipe multidisciplinari per la stesura di progetti terapeutici e la fornitura di consulenza tecnica alla persona assistita, alla sua famiglia e ad altri professionisti;
  • Educazione Terapeutica che mira a sviluppare consapevolezza, responsabilità e abilità nelle persone o nei gruppi, in relazione al concetto di disabilità e al trattamento riabilitativo correlato, favorendo l'inclusione delle persone assistite in ambiti educativi o terapeutici. Questa forma di intervento rappresenta un elemento fondamentale del programma riabilitativo.

 

      1. Abilitazione

 

L’intervento abilitativo è mirato a sviluppare nuove abilità o a potenziare quelle già presenti nei pazienti con disturbi o ritardi nello sviluppo. L'abilitazione si concentra sul favorire la comparsa e l'evoluzione di abilità che potrebbero essere compromesse a causa di lesioni o disabilità. L'intervento abilitativo include oltre all’intervento in sé, a promuovere l'adattamento sociale, l'autonomia e il benessere dell'assistito. Questo avviene attraverso un approccio globale che coinvolge la corporeità, le relazioni emotive e comunicative, nonché l'adattamento dell'ambiente terapeutico per creare contesti stimolanti. L'obiettivo principale è consentire all'assistito di esplorare il mondo, interagire con gli altri e sviluppare le proprie abilità funzionali in un contesto significativo. L'abilitazione richiede un'attenzione costante alle specifiche esigenze dell'assistito e l'utilizzo di strumenti valutativi standardizzati e riconosciuti dalla comunità scientifica per monitorare il progresso e adattare l'intervento di conseguenza.

 

      1. Riabilitazione

 

La riabilitazione rappresenta l'insieme di interventi terapeutici e assistenziali che mirano al recupero parziale o totale delle abilità compromesse a causa di patologie congenite o acquisite e alla valorizzazione delle potenzialità presenti (sensoriali, motorie, psichiche). Collaborando all'interno di un team multidisciplinare, il terapista contribuisce alla definizione del progetto terapeutico-riabilitativo, basandosi sulla valutazione delle capacità e delle risorse emotive, cognitive, motorie e funzionali dell'assistito. È compito del terapista redigere il progetto riabilitativo, stabilendo chiaramente gli obiettivi da raggiungere, e verificare periodicamente l'andamento degli interventi, le risposte ottenute e le modifiche apportate, utilizzando strumenti informativi appositi [18].

 

    1. Competenze trasversali del TNPEE

 

Ci sono delle competenze trasversali comuni a tutte le professioni sanitarie e delle competenze specifiche per ognuna di esse. L’ampio spettro delle professioni sanitarie, sia per i campi di intervento sia per la fascia d’età che ognuna tratta, costituisce una ricchezza e il motivo della loro differenziazione.

Le competenze trasversali del TNPEE includono:

  • Capacità gestionali e di management, sia in una pratica professionale indipendente che all’interno delle istituzioni e dei servizi in cui il TNPEE lavora. Questo implica l’identificazione dei rischi e dei problemi che si possono presentare, il saper prendere decisioni e intraprendere azioni correttive e la verifica dei risultati delle azioni intraprese. Il TNPEE deve inoltre saper operare con qualità gestendo tempi, spazi, risorse e piani di lavoro;
  • Inclinazione all’autoformazione e alla formazione di altre persone. Il terapista deve essere in grado di valutare in modo critico il proprio lavoro per individuare le eventuali carenze e il bisogno formativo in modo da poter ragionare su come implementare le proprie conoscenze; La formazione e l'autoformazione rappresentano un percorso continuo e in evoluzione per il terapista, consentendo di rimanere aggiornati sulle ultime scoperte scientifiche e di adattarsi ai cambiamenti nel campo della neuro e psicomotricità. A tal proposito è bene sottolineare quanto sia importante la formazione sull’interculturalità all’interno del percorso lavorativo di tutte le professioni sanitarie e, in particolar modo del TNPEE, dato essere una delle figure che sempre si interfaccia con la famiglia migrante nella presa in carico del bambino straniero con disabilità;
  • Comunicazione e Relazioni, con il bambino, con la famiglia e con tutto il contesto che lo circonda, incluse le altre figure professionali, sia con azioni dirette che indirette, sia attraverso il linguaggio verbale, che quello non verbale (come il linguaggio del corpo, i momenti di silenzio e le espressioni facciali). Questo implica l'abilità di ascoltare attivamente, mostrare empatia e comprensione nei confronti delle preoccupazioni e delle esigenze della famiglia;
  • Rispetto delle Responsabilità Professionale. Ciò comporta un impegno etico e deontologico nei confronti del singolo e della comunità, une certa sensibilità verso le diverse culture e il rispetto dei valori e delle scelte altrui. Il comportamento del TNPEE deve dunque riflettere il codice deontologico e la normativa vigente. Agire nel rispetto della propria professione significa anche saper riconoscere le condizioni di "sovraccarico" lavorativo, delegare il lavoro ad altri collaboratori, e il saper interrompere prestazioni che si dilatano per tempi non necessari [18] .

 

Il fenomeno migratorio

 

    1. Alcune definizioni

 

Migrante: con questo termine si intende qualsiasi persona che si muove dal paese di origine per migliorare le proprie condizioni di vita. La parola migrante include ogni individuo che abbia una storia di migrazione diretta o indiretta, in forma stanziale o temporanea, che si trova al di fuori del territorio dello stato di nazionalità o cittadinanza e che risiede in un paese straniero per più di un anno indipendentemente dalle cause (volontarie o non) e dai mezzi regolari o irregolari, usati per la migrazione.

Immigrato: (prefisso im , che migra da fuori a dentro, da lì a qui) il termine immigrato viene utilizzato per indicare la persona che migra in riferimento al paese di chi scrive/parla. Per un italiano, l'immigrato è colui che arriva in Italia. Per un tedesco, un immigrato è colui che arriva in Germania. In questo senso, immigrato è il contrario di emigrato.

Emigrato: (prefisso e-, che migra da dentro a fuori, da qui a lì); si utilizza per definire una persona che si trasferisce in un altro paese, ma in riferimento al paese che lascia. Per un italiano, sono emigranti gli italiani che si trasferiscono all’estero.

Profugo: è un termine generico che definisce quella persona costretta a lasciare il proprio paese a causa di conflitti bellici, persecuzioni, disastri naturali. Nel Glossario sull'asilo e la migrazione (2012) della Commissione europea viene indicato quale sinonimo di “sfollato”.


Richiedente asilo: è colui che si sposta fuori dal proprio paese, effettuando una domanda di asilo in un altro Stato, al fine di ottenere lo status di Rifugiato. Il Regolamento di Dublino definisce il richiedente asilo come “il cittadino di un paese terzo o l'apolide che abbia manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale sulla quale non è stata ancora adottata una decisione definitiva”.

Rifugiato: è uno status riconosciuto a chi si trova al di fuori del proprio paese di origine poiché teme, a ragione, che in quello possa essere perseguitato per motivi di razza, religione, opinione o appartenenza a un determinato gruppo sociale. Rifugiato è quella persona priva della protezione del suo paese di origine. Se vieni riconosciuto una volta come rifugiato in un paese straniero allora può spostarsi in qualsiasi altro paese come rifugiato.

Apolide: chiunque non possieda una cittadinanza di alcuno stato. Essere apolide non dipende da una scelta o da una volontà dei singoli. Si può essere apolidi:

  • Se si è figli di apolidi;
  • Se si è impossibilitati ad ereditare la cittadinanza dei genitori;
  • Se si è parte di un gruppo sociale a cui viene negata la cittadinanza;
  • Se si è profughi a seguito di guerre o occupazioni militari;
  • Se lo stato di origine si è dissolto;
  • Per lacune o incongruenze tra diversi stati;
  • Se lo stato di origine non permette alle madri di trasmettere paritariamente la nazionalità.

 

 

Da questo si deduce che un individuo può essere apolide anche se pur non attraversando mai una frontiera. Un apolide ha diritto al permesso di soggiorno, all’istruzione, alla sanità, alla pensione, all’ accesso all’impiego e ai documenti di viaggio [13].

 

    1. Dati migratori in Italia

 

La dinamica dei flussi migratori con l’estero negli ultimi anni è stata sensibilmente condizionata dalla pandemia (per l’impatto delle chiusure e riaperture delle frontiere e per la rimodulazione dei progetti migratori) e dalle dinamiche conseguenti ai diversi conflitti in corso.

Durante il biennio 2022-2023, archiviata definitivamente la fase pandemica, si è assistito a una ripresa della mobilità all’interno del nostro paese e delle immigrazioni dall’estero. Le emigrazioni, invece, si mantengono ancora sotto i livelli pre-pandemici.

Le iscrizioni dall’estero negli ultimi due anni aumentano sensibilmente: quasi 411.000 nel 2022 e circa 416.000 nel 2023, circa il 30% in più rispetto al 2021 quando ammontarono approssimativamente a 318.000. Tale crescita si deve esclusivamente all’aumento dell’immigrazione straniera (+43%), mentre i rimpatri dei cittadini italiani risultano in calo (-13%) [].

Considerando gli spostamenti dei nuclei familiari stranieri composti da più di due componenti osserviamo che il 12% si sposta da un Comune all’altro, il 26% emigra all’estero e il 78% immigra in Italia.

 

Figura : movimento migratorio della popolazione residente per cittadinanza italiana/straniera dal 2014, dati Istat

 

Osservando l’andamento dei flussi migratori della componente straniera verso l’Italia, possiamo notare come le immigrazioni siano aumentate rispetto ai livelli registrati prima della pandemia.

Dopo il record storico del 2017, dovuto anche ai consistenti flussi di stranieri in cerca di accoglienza per asilo e protezione umanitaria, dal 2018 si è registrata una media di circa 270.000 ingressi l’anno, frenata nel 2020 in modo significativo dalle misure di contrasto alla diffusione del virus pandemico (192.000 ingressi). Dopo la lieve ripresa del 2021 (244.000), sono stati registrati massicci ingressi di cittadini stranieri in Italia (336.000 nel 2022 e 360.000 nel 2023, rispettivamente il +38,1% e +47,8% sul 2021) segnano nuovi record.

Nel dettaglio dei Paesi europei, emerge l’eccezionale incremento dei flussi dall’Ucraina a causa del conflitto in corso dal 2022, che rende quest’ultima il principale paese est-europeo di provenienza del biennio 2022-2023 (con cifre quasi quattro volte maggiori rispetto al 2021) [].

In seconda posizione si colloca l’Albania che supera, per la prima volta dal 2003, la Romania con oltre 29.000 iscrizioni. I flussi dalla Romania, comunque, continuano a essere numericamente importanti (mediamente 25.000 ingressi l’anno, durante il biennio 2022-2023).

Tornano a essere consistenti i flussi di provenienza africana, in particolare quelli dal Marocco (oltre 19.000 ingressi l’anno, +27,2%, rispetto al 2021) e dall’Egitto (17.000 l’anno, +110,7%). Raddoppiano anche le immigrazioni dalla Tunisia (10.000 ingressi l’anno, +98,8% rispetto al 2021).

Nel biennio 2022-23, tra i flussi provenienti dall’area asiatica, risultano molto intensi quelli dal Bangladesh (mediamente 23.000 l’anno, +57,8%), dal Pakistan (18.000 l’anno, +26,9%) e dall’India (13.000 l’anno, +16,9%).

 

Figura : percentuali degli ingressi in Italia per paese di emigrazione negli anni 2021, 2022, 2023

 

Con riferimento al territorio di destinazione, nel biennio 2022-23 i flussi migratori dall’estero si dirigono prevalentemente al Nord dove risiedono la maggior parte degli stranieri (complessivamente 384.000 individui, con un’incidenza del 55,1% sul totale); seguono il Mezzogiorno (165, 23.000,7%) e il Centro (148.000, 21,2%). Scendendo a un maggior dettaglio territoriale, 2/10 dei cittadini stranieri si dirigono in Lombardia, mentre Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Lazio accolgono in totale 4/10 dei cittadini stranieri. A livello provinciale, i flussi si dirigono soprattutto nelle città metropolitane di Milano e Roma.

I rimpatri provengono in larga parte da Paesi che sono stati in passato mete di emigrazione italiana. Nel biennio 2022-23 troviamo ai primi posti della graduatoria per provenienza Germania e Regno Unito (complessivamente29% dei flussi di rientro) Svizzera (8%), Francia (5,8%), Brasile (5,4%), Argentina (5,3%) e Stati Uniti (5,2%). La geografia dei rimpatri rispetto al territorio di destinazione varia leggermente se confrontata con quella delle immigrazioni dei cittadini stranieri: a differenza di questi ultimi che scelgono le regioni del Nord nel 55,1% dei casi, i cittadini italiani rientrano prevalentemente nelle regioni del Centro-Sud (52,2% del totale).

Anche i profili per genere ed età mostrano differenze tra i rimpatri e le immigrazioni dei cittadini stranieri. Tra i primi il disequilibrio di genere è più marcato (57% uomini e 43% donne) rispetto alle immigrazioni dei cittadini stranieri (54% uomini e 46% donne).

Riguardo la distribuzione per età, si osservano [] lievi differenze nella fascia compresa tra 0 e 14 anni, maggiore per i rimpatri (19,4%) rispetto agli stranieri (14,6%), mentre la quota di individui nelle età centrali (15-34 anni) è più alta per gli stranieri (48,6%) rispetto alla percentuale sui rimpatriati (30,9%). Le due distribuzioni si sovrappongono solo in corrispondenza della fascia di età da 35 a 44 anni (17%), mentre la quota di over 45enni tra i rimpatriati è più alta (32,3%) rispetto a quella tra gli immigrati stranieri (19,1%). Al momento dell’iscrizione dall’estero, i rimpatriati hanno un’età mediana di circa 34 anni mentre gli stranieri immigrati sono più giovani di quattro anni [19].

Figura : immigrazioni per età e cittadinanza (italiana/straniera) anno 2022-2023, valori percentuali

 

    1. L’impatto della migrazione sulla vita dei migranti

 

Quando parliamo di migranti utilizziamo un termine molto generico che comprende tutte le persone che fanno l’esperienza di migrare dal proprio paese di origine per inserirsi in un’altra società, spesso associando una rappresentazione dei migranti come soggetti sottoposti ad un trauma migratorio [6].

Quest’interpretazione è riduttiva e generalizzante, infatti, i percorsi migratori non sono tutti uguali, così come non sono tutte uguali le risposte alla migrazione [21]. Innanzitutto, per comprendere meglio l’impatto della migrazione sulla vita del migrante, dovremmo partire dal timing in cui essa avviene, facendo una distinzione tra:

  • La prima generazione (colonia battistrada): quella che affronta l’evento migratorio in prima persona e una volta arrivata nel paese ospitante utilizza gran parte della vita a organizzare la stabilità nella nuova residenza (lavoro, legalizzazione, status);
  • La seconda generazione e tutte le generazioni successive alla prima: rappresentate da figli di genitori migranti che sono nati o cresciuti sin dall’infanzia nel nuovo paese ospitante e che vivono l’esperienza migratoria indirettamente.

Un ulteriore caso da prendere in considerazione è quello degli adolescenti migranti che raggiungono il nostro paese per ricongiungersi ai familiari, trovandosi davanti a sfide di grande portata in una fase così delicata della vita. Spesso le prime generazioni preferiscono lasciare i figli in patria presso parenti e amici che si possono occupare di loro per proteggerli dai rischi e dalle problematiche che la migrazione può comportare; questo però non tutela pienamente i ragazzi da situazioni di stress, disagio e malessere legate ad una protratta separazione. Al momento del ricongiungimento, è di conseguenza facile che si vengano a creare situazioni conflittuali a causa di un difficile riconoscimento reciproco di appartenenza comune.

L’ effetto della migrazione e le sue conseguenze si distinguono però non solo tra individui di diverse generazioni ma anche a causa di ulteriori fattori riguardanti il progetto migratorio quali:

  • Le caratteristiche individuali (età, sesso, stato socioeconomico, religione, capacità di adattamento, prospettive);
  • Le caratteristiche del paese di origine (reddito, livello di istruzione, risorse sanitarie);
  • L’esperienza migratoria (modalità, durata e tempistiche, componenti della famiglia che hanno intrapreso il viaggio, motivazione e supporto, eventuali traumi e abusi subiti);
  • La destinazione (cultura e politica, sistemi di accoglienza, livello socio-economico);

 

La molteplicità e l’eterogeneità di questi fattori possono influenzare più o meno gravemente la vita post migrazione. le motivazioni che spingono a lasciare il proprio paese, il modo più o meno rapido in cui esso viene abbandonato e la tipologia del viaggio, determinano indubbiamente una grande differenza tra migrante e migrante: chi si sposterà per motivi di lavoro sarà diversamente influenzato da chi scappa da guerre, carestie e maltrattamenti, e che quindi viene obbligato a una rottura drastica e drammatica con la propria cultura. La separazione o la perdita dei propri cari rappresenta un ulteriore shock da considerare nell’indagine esperienziale del paziente straniero [14].

Oltre a tutte queste le determinanti legate al viaggio, sono da considerare anche le conseguenze dell’impatto con la nuova cultura, per le quali il migrante, una volta giunto nel nuovo paese, si trova a dover affrontare stress aggiuntivi legati all’incapacità di comunicare in un'altra lingua e farsi capire, fraintendimenti per via di incomprensioni culturali, problemi legati agli iter di ingresso nel paese ospitante e ai percorsi per ottenere i permessi di soggiorno, in genere lunghi ed estenuanti, modalità di accoglienza non sempre graduali e calorose all’interno della nuova società, fenomeni di razzismo, difficoltà finanziarie, disoccupazione e angoscia legata al peso della gestione familiare, discrepanza tra risultati sperati e aspettative, affiliazione in alloggi scadenti e di conseguenza, senso di colpa per aver lasciato la propria patria. Il profilo di salute dei migranti, dunque, dipende anche da un’accoglienza inadeguata, fragilità sociale e scarsa accessibilità ai servizi (che può dipendere, oltre che da incomprensioni, da una scarsa consapevolezza dei propri diritti e una mancata comunicazione all’interno della rete sociosanitaria. I migranti si possono ammalare anche di esclusione sociale, fallimento del proprio progetto migratorio e povertà. La quantità e l’intensità di tutti questi fattori possono determinare l’integrazione, l'assimilazione o il rifiuto della nuova cultura.

 

      1. I cambiamenti all’interno del nucleo familiare

 

I problemi che insorgono dall'ingresso in un nuovo paese includono cambiamenti nei ruoli di genere e inversione dei ruoli familiari, conflitti intergenerazionali, problemi psicologici sia nei genitori migranti che nei propri figli, negoziazione dell'identità tra la cultura di origine e la nuova cultura, isolamento [10].

I modi, i ruoli e le azioni attraverso cui si esprimono i significati della genitorialità mutano nel tempo e dipendono strettamente dai contesti sociali e culturali. La migrazione introduce un ulteriore elemento di complessità perché chiede ad adulti che hanno storie differenti e radici altrove di essere padri e madri nel luogo di accoglienza, che rimane a lungo e per certi versi opaco e indecifrabile.

Nel momento in cui la coppia si prepara ad assumere il ruolo genitoriale nel paese di migrazione, si trova inconsapevolmente al centro di diverse aspettative: da una parte vi è l’esigenza di portare avanti la cultura e le tradizioni della famiglia rimasta in patria, dall’altra si sviluppa il desiderio di adattarsi e integrarsi nella nuova rete sociale. Vi sono, poi, i suggerimenti e le pressioni che vengono dai servizi e dagli operatori del nuovo paese, particolarmente significativi e cruciali quando riguardano i temi della protezione, della salute e della prevenzione dei piccoli. Infine, vi sono i convincimenti personali e famigliari, dettati oltreché dalle esperienze, dalla sensibilità e dalle attenzioni dei genitori e dalle interazioni quotidiane con il bambino.

Diventare genitori in un paese culturalmente diverso dal proprio, porta la coppia a rivalutare il motivo e le aspettative legate alla migrazione e a riconsiderare il proprio ruolo sia all’interno della società che della famiglia.

Si può verificare infatti a seconda della discrepanza tra la cultura di provenienza e quella di destinazione, uno stravolgimento dell’assetto familiare e del modo di vivere l’esperienza genitoriale: in numerose culture africane per esempio, la rappresentazione della genitorialità viene distribuita ed estesa anche agli altri membri della famiglia e alle figure più care, ogni bambino viene accudito come “il figlio di tutti” con responsabilità condivise e attribuite all’intero clan familiare, facendo in modo che la madre possa così contare su una vera e propria rete di sostegno solidale. Questa visione si scontra con la rappresentazione più europea del ruolo genitoriale riferito e ridotto alla sola coppia madre/padre, che viene a questo punto sovracaricata di responsabilità.

Anche la visione della gravidanza muta da cultura a cultura: per alcune popolazioni essa viene vissuta nella dimensione del “qui e ora”, per altre viene progettata ed elaborata nel tempo prima e durante l’attesa. Inoltre il bagaglio informativo e i consigli su come allevare un figlio possono essere trasmessi al genitore secondo modalità differenti: in alcuni paesi le nozioni riguardanti la gravidanza e la crescita dei bambini vengono tramandate da generazione a generazione e sono essenzialmente di tipo esperienziale. In un contesto distante dal proprio network familiare, queste informazioni arrivano ai genitori attraverso il dialogo con figure professionali, libri, siti e servizi dedicati alla cura dell’infanzia. Gli operatori dei servizi educativi e sanitari diventano allora gli altri adulti allevanti, che sostengono la madre e allargano l’orizzonte familiare, andando ad occupare ruoli fino ad allora riservati solo a consanguinei [11].

In questo processo di rimodellamento, la figura che maggiormente si mette in discussione è quella della futura madre, che si trova ad affrontare il delicato momento della gravidanza da sola, in una terra straniera, senza poter godere dell’aiuto del cerchio familiare e di una rete di supporto.

Considerando poi, come in alcune culture, la gravidanza e l’accudimento dei figli siano compiti esclusivamente femminili, e che la figura paterna sia troppo spesso impegnata ad adempiere ai bisogni economici di tutta la cerchia familiare (spesso anche di coloro rimasti nel paese di origine), è normale che la donna migrante si senta sola e poco sostenute dal partner. Le sue preoccupazioni, si fanno sempre più reali e concrete al momento della nascita, facendo emergere determinate fragilità emotive e psichiche.

Per tutta questa serie di motivi, è frequente che le madri straniere sviluppino uno stato di depressione legato alla situazione di isolamento che esse sono chiamate a vivere. Diversi studi sottolineano poi come le donne migranti si rechino meno spesso a visite presso medici specialisti, facciano uso frammentario delle strutture sociosanitarie rispetto alle donne non migranti, e, in particolare quelle di prima generazione, arrivino più tardivamente a fare i controlli prenatali e richiedano assistenza prenatale dopo rispetto alle donne non migranti [8].

Nel periodo conseguente alla nascita e per tutta la crescita del bambino, il vissuto della madre può avere effetti e ripercussioni sul vissuto interiore del bambino divenendo un fattore decisivo per lo sviluppo. Questa condizione già di per sé faticosa, può peggiorare se consideriamo i casi di prematurità o di nascita di figli con disabilità. Se la madre vive con ansia, preoccupazione o avversione la migrazione può trasmettere queste sensazioni, anche in maniera involontaria, al figlio che vive e gestisce la nuova situazione in funzione delle percezioni materne. Proprio per questo motivo è importante permettere alle madri di portare i loro modelli di maternage e far presenti le loro usanze culturali all’interno dei servizi di assistenza.

Anche il padre risentirà della migrazione ritrovandosi in una società totalmente diversa in cui la figura del padre assume ruoli e funzioni differenti e lontani da quelli conosciuti e tramandati nella propria cultura.

In occidente difatti si è assistito ad un’evoluzione dai modelli patriarcali classici ancora presenti in tanti paesi orientali, verso una società in cui si respira una maggiore parità di genere, in cui entrambi i genitori si prendono cura dei bisogni dei figli ed entrambi hanno la possibilità di portare avanti una carriera lavorativa per sostenere la famiglia.

Questo può portare gli uomini immigrati a sentirsi padri in un modo totalmente diverso da quello previsto dal proprio modello di origine, trovandosi a rivalutare e mettere in discussione il proprio ruolo all’interno della società e della famiglia.

 

      1. Le conseguenze della migrazione sul bambino

 

Essere figli in una famiglia migrante può voler dire affrontare numerose difficoltà dovute allo scontro e al dualismo tra la cultura d’origine e quella del paese ospitante.

Lo stress attribuito al conflitto tra la necessità di assimilare e integrarsi all’interno della nuova società e l’ereditare e portare avanti la cultura d’origine, può deteriorare significativamente lo stato di salute mentale ed emotiva del bambino migrante.

il ruolo dei figli nelle famiglie migranti molto spesso diviene quello di mediatore linguistico e culturale all’interno della famiglia per facilitare il rapporto dei genitori con le istituzioni ed i vari servizi (scuola, servizi sanitari e sociali). Questo “essere l’anello di congiunzione” tra la famiglia e il mondo esterno può gravare sul benessere del bambino o dell’adolescente che si trova a farsi carico di responsabilità tipici dell’età adulta, sentendosi sovraccaricato da tale delega genitoriale.

Non sempre poi si ha la disponibilità e la propensione da parte della famiglia, all’apertura verso la nuova cultura: i genitori spesso tendono a restare ancorata ai valori della cultura d’origine, faticando a comprendere i processi d’acculturazione dei figli e a percepirli come una formazione personale piuttosto che vedere questo atteggiamento come un’opposizione nei confronti della cultura d’origine.

Ancora più difficile è quando i genitori non hanno elaborato il trauma migratorio provocando nei figli una costruzione insicura della propria identità.

Tutte queste dinamiche vengono sofferte in particolar modo nei bambini appartenenti alla seconda generazione di migranti che non vivono direttamente la migrazione ma ne subiscono gli effetti. Questi bambini crescono e si adattano a contesti totalmente differenti da quelli dei loro genitori, vivendo intensamente il conflitto e l’ambiguità tra le aspettative e le richieste della cultura d’origine e quelle del paese ospitante [4].

I bambini appartenenti alla prima generazione, invece, vivono una situazione integralmente diversa rispetto a chi nasce e cresce nel nuovo paese, perché oltre che subire le conseguenze della migrazione in prima persona, vanno in contro al cambio di stile di vita. Questo può voler dire trovarsi ad affrontare la separazione da uno o entrambi i genitori (che può creare problemi di attaccamento e sviluppo successivo), l’adattamento alla nuova abitazione e ad un diverso sistema scolastico, il senso di esclusione e isolamento, la trasformazione dei ruoli all’interno della famiglia, la necessità di apprendere una nuova lingua, la comprensione dei nuovi codici di riferimento sociali (di norme trans generazionali + transculturali) e situazioni di precarietà economica fortemente sentita al momento del confronto coi coetanei.

Per ultimo c’è da considerare anche il fatto che i bambini della prima generazione non scelgono volontariamente di vivere la migrazione, ma si trovano inevitabilmente costretti a farlo. Una delle possibili conseguenze è che rifiutino il nuovo paese, la sua cultura e il suo stile di vita, che si oppongano alla scuola e che ritengano i genitori direttamente responsabili del loro malessere [8].

 

      1. La migrazione come fattore di rischio

 

Sebbene il fenomeno migratorio non sia di per sé un elemento scatenante la malattia, numerosi studi dimostrano come l’effetto della migrazione abbia un forte impatto sulla salute del migrante. Poiché la migrazione richiede un adattamento costante a un nuovo ambiente e comporta uno stato di stress cronico, è generalmente ritenuta un importante fattore di rischio nell’insorgenza e nell’aggravarsi di diverse patologie [7].

Oltre 30 pubblicazioni internazionali hanno dimostrato come bambini migranti di prima e seconda generazione abbiano, rispetto ai coetanei nativi dei diversi paesi ospitanti, una qualità di vita peggiore con possibili effetti sulla salute mentale, sulla funzione sociale e sull'impegno scolastico [9] oltre ad avere tassi di ospedalizzazione e di ricovero in terapia intensiva più elevati, soffrire maggiormente di carie dentali e avere il doppio delle probabilità di sviluppare disturbi alimentari come l’obesità, mentre per gli adolescenti migranti, essere più frequentemente colpiti da problemi psicologici e ricadere precocemente nell’abuso di alcool e sostanze stupefacenti [20].

Anche se non possiamo affermare con certezza assoluta che certi stati patologici siano influenzati più da eventi pre-migratorie piuttosto che dal fenomeno migratorio in se e per se, diverse ricerche hanno esaminato come patologie quali depressione [12] e disturbi dell'umore siano maggiormente presenti nei migranti (in particolar modo di prima e seconda generazione [26] e più comunemente nelle donne [30] rispetto alle popolazioni locali e come questi presentino un profilo più grave, con più casi di eventi psicotici e tassi più elevati di schizofrenia [8]. Non sorprende come la prevalenza del disturbo post traumatico da stress tra i migranti sia molto alta, soprattutto tra i rifugiati, e come ulteriori difficoltà di vita post-migrazione ne aumentino significativamente il rischio, con l’ipotesi che abbiano un effetto ritraumatizzante su individui già di per se vulnerabili [1]. La migrazione è stata associata inoltre ad una maggiore prevalenza di disturbi d'ansia, nella prima, seconda e terza generazione con un aumento attraverso le generazioni [27].

 

        1. I disturbi neuroevolutivi nei figli di migranti

 

 

Sempre più prove basate sulle revisioni della letteratura affermano che i figli di migranti siano soggetti a più alto rischio di disturbi neuroevolutivi, in particolare disturbo dello spettro autistico (ASD). Altri disturbi neuroevolutivi, come il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), disabilità intellettiva e disturbi specifici dell'apprendimento, sono stati studiati meno frequentemente e con risultati variabili (alcuni studi segnalano rischi più elevati e altri che segnalano rischi inferiori o uguali).

In diversi studi si è notato come i bambini appartenenti a minoranze etniche, vengano in media diagnosticati più tardi rispetto ai bambini autoctoni o rimangano non diagnosticati, il che suggerisce che i problemi di sviluppo nei bambini di queste popolazioni potrebbero essere sistematicamente trascurati.

Un ulteriore problema è che vengano commessi errori di valutazione da parte dei medici che potrebbero attribuire erroneamente determinati sintomi a difficoltà linguistiche o differenze culturali; potrebbero inoltre incontrare maggiori difficoltà nell'accesso a cure sanitarie appropriate e al mantenimento del trattamento (per scarsa conoscenza dei propri diritti da parte del migrante, per via di sottoassicurazioni, per incomprensioni o mancata comunicazione, differenze culturali, mancanza di supporto sociale da parte della comunità).

Soprattutto in relazione allo spettro autistico questo è molto preoccupante, poiché i figli degli immigrati potrebbero essere a rischio di perdere interventi precoci, che hanno dimostrato di essere altamente benefici in termini di prognosi clinica.

I tempi e le circostanze della migrazione sembrano svolgere un ruolo importante nelle disuguaglianze neuroevolutive nelle popolazioni immigrate. Tuttavia, si osservano rischi elevati anche nelle generazioni successive alla prima, il che potrebbe suggerire effetti transgenerazionali della migrazione. È importante sottolineare che i rischi differiscono fortemente in base alla regione di origine dei genitori.

Il disturbo dello spettro autistico (ASD) è di gran lunga il disturbo neuroevolutivo più studiato in relazione alla migrazione dei genitori. Secondo alcuni studi, i figli di genitori migranti presentano un rischio maggiore di autismo a basso funzionamento e questo rischio è più alto quando i genitori vengono da regioni con un basso indice di sviluppo umano. Il rischio per questa patologia varia inoltre a seconda del timing migratorio della mamma: sembra essere più alto quando la migrazione si verificava nell'anno prima della nascita [29].

In certi paesi, come la Somalia, l’autismo non è riconosciuto e non esiste una parola corrispondente nella lingua locale per definirlo. Ecco perchè, molte famiglie provenienti da queste regioni, non avendo familiarità con il termine "autismo" al momento della diagnosi, risultano poco consapevoli. Inconsapevolezza di tale patologia, talvolta può portare i genitori a ritardare l'accesso alle cure e a nascondere i propri figli alla comunità per paura di risposte negative al comportamento dirompente del bambino.

Inoltre, in alcune culture, avere un figlio con ASD è percepito come una punizione divina, una conseguenza di fatture o essere attribuito al mondo sovrannaturale. Questo può portare il genitore migrante a non dubitare su ulteriori cause del comportamento del proprio figlio, che per altro, potrebbe essere tenuto nascosto per evitare di subire lo stigma della loro stessa comunità.

D’altro canto, è difficile in certe situazioni, che i medici, riconoscano segni e sintomi dell’autismo poiché alcuni comportamenti tipici dell'ASD, come evitare il contatto visivo, possono essere fraintesi come un modo per esprimere rispetto verso le figure autoritarie piuttosto che un segno di sviluppo atipico in alcune culture asiatiche.

Per quanto riguarda invece il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, alcuni studi dimostrano come il tasso di ADHD nei bambini sia generalmente più alto nelle popolazioni migranti e vari in base allo stato di origine: in particolar modo quando le madri hanno origine dall'ex Unione Sovietica, dalla Jugoslavia, dall'Africa subsahariana e dal Nord Africa, dal Medio Oriente (mentre la migrazione paterna indipendentemente dalla regione di nascita dei padri, influisce sulla probabilità di ADHD)[2].

La probabilità che l’ADHD sia maggiore nei figli di migranti varia comunque anche in base al paese in cui vengono fatte le valutazioni e ai metodi di valutazione utilizzati (valutazione sulla base delle aree in cui si vendono più farmaci per l’ADHD, considerando questionari per i genitori, utilizzando scale valutative). Questa probabilità si differenzia anche da generazione a generazione a seconda del grado di assimilazione e di stress culturale. È ancora da dimostrare se ciò dipenda effettivamente dal fenomeno migratorio o se vari sulla base di fattori quali la struttura familiare, le barriere culturali e linguistiche e le potenziali differenze nell'utilizzo dell'assistenza sanitaria tra le famiglie di immigrati [25]

Come per i disturbi dello spettro autistico, anche nell’ADHD, i genitori stranieri sono portati a segnalare meno i sintomi di ADHD nei loro figli rispetto ai genitori del paese accogliente, e ciò potrebbe essere dovuto al fatto che le diverse culture si differenziano anche nella misura in cui considerano i problemi comportamentali come problema medico piuttosto che problema sociale o spirituale.

Anche riguardo i disturbi dello sviluppo del linguaggio e della parola, delle capacità scolastiche o della coordinazione, sono state riscontrate probabilità più elevate nei casi in cui le madri fossero nate nell'ex Unione Sovietica, nell'ex Jugoslavia, nell'Africa subsahariana e Nord Africa e nel Medio Oriente, in Asia e in America Latina, ma non in altri paesi occidentali. La migrazione paterna, anche in questo caso è associata a probabilità più elevate di questi disturbi indipendentemente dalla regione di nascita dei padri (ad eccezione degli uomini nati in America Latina, dove non sono state riscontrate differenze significative con la popolazione non migrante).

 

        1. L’esposizione differenziale ai fattori di rischio neuroevolutivo

 

 

Perché tanta relazione tra l’aumento del rischio neuroevolutivo con il timing di migrazione materna? Varie ipotesi sono state fatte a riguardo:

  1. Per questioni legate ai problemi di accesso alle cure parentali;
  2. Per maggiori rischi di carenza di vitamina D durante la migrazione nelle popolazioni dalla carnagione più scura;
  3. Per via dello stress psicosociale sperimentato durante i periodi di pre-migrazione, migrazione o post-migrazione, che può avere un impatto negativo sullo sviluppo neurale del feto, ad esempio attraverso meccanismi epigenetici;
  4. Per motivi legati alla provenienza da regioni a basso sviluppo umano, il che può essere considerato un indicatore dell'entità delle avversità nel paese di origine.

 

Quindi, nonostante i bambini migranti siano individui con modelli di salute e problemi di sviluppo simili ai coetanei non migranti, è assai più probabile che essi abbiano esigenze di salute più specifiche e che necessitino di un’attenzione particolare da parte nostra.

 

La presa in carico del bambino migrante

 

3.1. Leggi sull’assistenza sanitaria agli stranieri

 

Il tipo di assistenza per gli stranieri viene mediato da una serie di leggi e varia in base allo status del paziente straniero (permesso di soggiorno, residenza, visti ecc.). I diversi piani assistenziali applicabili del nostro paese prevedono:

  • "Assistenza per gli stranieri iscritti al Servizio Sanitario Nazionale" per gli immigrati con un regolare permesso o carta di soggiorno;
  • “Assistenza sanitaria per gli stranieri non iscritti al Servizio Sanitario Nazionale” per la salvaguardia e la salute nei confronti di coloro “non in regola con le norme relative all'ingresso ed al soggiorno” i cosiddetti irregolari e/o clandestini;
  • “Ingresso e soggiorno per cure mediche”, per tutti i cittadini di paesi stranieri che hanno la necessità di venire in Italia per sottoporsi a cure mediche.

 

Questi atti sanciscono il diritto alla salute ed all’assistenza sanitaria per tutti i cittadini stranieri presenti nel territorio nazionale con l’obiettivo di dare assistenza a parità di condizioni ed a pari opportunità con il cittadino italiano, garantendo sia cure urgenti che essenziali, continuative e preventive. Per non ostacolare l’accesso alle cure, è stato vietato, la segnalazione all’autorità di polizia da parte delle strutture sanitarie, la presenza di immigrati clandestini che richiedono aiuto medico [16].

I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti,

altrimenti chiamateli privilegi.” Gino strada

    1. Storia del nursing e della clinica transculturale

 

La nascita della "Clinica Transculturale" viene da molti attribuita a George Devereux, antropologo e psicanalista ungherese, che ha condotto, durante la sua vita, numerosi studi sul campo fra le popolazioni indigene della  California, dell’Australia, della Nuova Zelanda, della Nuova Guinea e del Vietnam, studiandone le formazioni culturali al fine di individuare le invarianti strutturali comuni ad ogni cultura. È considerato il pioniere della etnopsichiatria, essendo colui che ha per primo trattato tale argomento, affermando che "solo l'intima correlazione tra fattori mentali e culturali, può spiegare lo sviluppo di processi psichici consci e inconsci".

A riprendere il lavoro iniziato da Devereux, è però Marie Rose Moro, psichiatra infantile e avanguardista nella consulenza transculturale per i figli di migranti e le loro famiglie.

M. R. Moro, rientra tra le figure più significative che hanno contribuito a unire antropologia e medicina avviando un nuovo modo di pensare e approcciarsi ai pazienti stranieri. Per la prima volta, nel 1988, Moro introduce lo studio della vulnerabilità specifica del figlio dei migranti, ponendo particolar attenzione alle interazioni madre-bambino, sottolineando l’interesse a tenere conto della” specificità culturale della famiglia e della situazione transculturale del bambino, per coglierne la realtà clinica”. Moro dedica una particolare attenzione a temi quali: le fragilità dei bambini stranieri, i sistemi terapeutici, gli incroci, il bilinguismo, i traumi psicologici, conducendo ricerche su neonati, infanti e adolescenti, figli di migranti o di coppie miste, bambini bilingui, bambini adottati o bambini espatriati. Con il suo impegno ha contribuito a creare un’unità di assistenza transculturale destinata alle famiglie migranti, in cui le differenze culturali tra pazienti e professionisti della sanità vengono utilizzate come leva terapeutica per la cura.

Un’altra figura rilevante per l’approccio alla multiculturalità all’interno del sistema sanitario è Madeleine Leininger, antropologa e infermiera che a metà degli anni cinquanta del ‘900 ha posto il fenomeno migratorio per la prima volta come oggetto di riflessione delle professioni sanitarie, ponendo le basi per il nursing transculturale, ovvero dell’assistenza terapeutica, palliativa, riabilitativa, educativa e preventiva rivolta all'individuo con una cultura differente [17].

Con questa nuova prospettiva si aggiungono all’approccio olistico del nursing (incentrato su bisogni biologici, psicologici, socioculturali e ambientali) l’attenzione alla cultura del paziente, l’accertamento di credenze sulle pratiche sanitarie e la personalizzazione del piano terapeutico.

 

    1. Lo scontro tra culture

 

La cultura di ognuno di noi è strettamente collegata al benessere bio-psico-sociale e, di conseguenza, a tutti quei comportamenti correlati alla salute quali l’alimentazione, l’attività fisica, l’igiene e l’approccio al concetto di malattia, disabilità e cura [6]

Ma perché è così importante avere una visione interculturale in campo socio-sanitario?

Perché è così importante capire la visione altrui nella nostra professione?

Perché il concetto di malattia, il modo in cui viene accettata, la motivazione che ognuno di noi le attribuisce, la reazione ad essa e la compliance terapeutica, variano anche in base alla cultura.

Ciò che preoccupa una determinata cultura può essere differente da ciò che preoccupa la nostra realtà. Certi segni clinici per noi comuni per altri possono risultare insoliti e gravi e quest’incongruenza può portare il paziente straniero a sentirsi poco considerato, non preso abbastanza seriamente, sottovalutando il suo caso. Questo può di conseguenza portare il migrante ad assumere un atteggiamento diffidente e di chiusura verso i diversi servizi.

A tal proposito è doveroso citare l’influenza della sindrome di Salgari sui professionisti socio-sanitari e le sue conseguenze sul paziente. La Sindrome di Salgari è l’inconsapevole convincimento che gli immigrati siano portatori di malattie rare, in particolare tropicali, infettive e trasmissibili, e ha come controrisposta il fatto che davanti a casi piuttosto comuni, diversi da quelli immaginati, e quindi non interessanti come sperato, il medico valuti il paziente con poca attenzione e in modo superficiale, vedendolo come un “malato immaginario” e perditempo. Inoltre, non scoprire malattie esotiche, non poter fare emergere diagnosi brillanti, fa dubitare la figura medica della propria carriera e della reale necessità di assistenza del paziente. Il paziente migrante, partendo dall’idea di una sanità occidentale ipertecnologica, pronta ed efficiente, dopo l’assistenza ricevuta, spesso abbandona la sua idealizzazione della sanità perché si scontra con cose usuali forse per noi che ben conosciamo la natura della realtà sanitaria del nostro paese, ma che assumono per chi ha altre aspettative, il senso di sgarbi premeditati, ingiustizie volute, incapacità professionale, assistenza inadeguata. Come conseguenza, il paziente migrante tenderà ad assumere un atteggiamento di chiusura e diffidenza verso il mondo clinico in generale con ripercussioni anche nei nostri ambiti lavorativi [16] [23].

Le discrepanze tra diverse culture si possono percepire anche nell’osservazione di come vengono vissute in altre culture, esperienze quali la gravidanza, il parto, il taglio del cordone ombelicale, gli esami diagnostici ecc. In alcuni casi, per esempio le madri si rifiutano di fare anche solo una semplice ecografia per proteggere il feto da fattoli “maligni” esterni.

Questo per dire che davanti al rifiuto di certi tipi di indagini e trattamenti, dovremmo essere consapevoli che talvolta l’atteggiamento del paziente può esser determinato da un’ideologia culturalmente significativa e che quindi si debba sempre cercare la modalità migliore adeguata per presentare eventuali analisi e terapie.

 

 

    1. Quando disabilità e migrazione si incontrano

 

La partecipazione delle famiglie è essenziale per sia nei processi di apprendimento e di inclusione che nei percorsi terapeutici dei bambini, specialmente quando disabilità e migrazione si incontrano.

La migrazione porta con sé sentimenti e sensazioni complesse, stravolgendo i ruoli all’interno del nucleo familiare e cambiandone lo stile di vita e la rete affettiva ad esso connessa. La disabilità ne cambia la quotidianità, le aspettative e i sogni comportando un rimodellamento nel proprio modo di vivere [15].

Quando queste due condizioni s’incontrano avviene quindi una doppia ridefinizione dell’organizzazione e delle relazioni familiari e sociali, processo non semplice e molto spesso doloroso.

È quindi nostro compito includere nel programma riabilitativo i familiari, capire il modo in cui interpretano la disabilità, comprendere il loro sentire e le loro vulnerabilità, per accompagnarli nell’accettazione di queste condizioni, sviluppando un modo all’interno del percorso terapeutico lavorando verso una compliance ottimale.

 

      1. L’interpretazione della disabilità

 

 

I fattori culturali influenzano la vita su più livelli. In primo luogo, cultura e società modellano il significato che noi attribuiamo ai vari eventi della vita. In secondo luogo, determinano quali sintomi e segni siano normali o meno. In terzo luogo, la cultura aiuta a definire il concetto di salute e di cura modellando ulteriormente il comportamento in risposta alla malattia e l’avvio di una terapia [3].

Anche il concetto di disabilità assume significati diversi in base alle classificazioni internazionali e alla cultura di appartenenza, per cui la percezione e l’interpretazione dei genitori stranieri al momento di una diagnosi di disabilità del figlio è direttamente connessa al paese d’origine e da questo dipendono il grado del loro coinvolgimento nel percorso terapeutico e d’inclusione più in generale [31].

Nelle società occidentali, la causa della disabilità è di norma considerata interna al soggetto, ossia avviene per cause concrete genetiche o traumatiche (ipossia, incidenti, infezioni), mentre in alcune società più tradizionali può venir considerata esterna ad esso e legata dunque al contesto, alla società e al mondo sovrannaturale. Tante popolazioni difatti, attribuiscono segni e sintomi patologici a maledizioni, a fenomeni divini, a possessioni o malocchio. Queste credenze non sono ne dà ignorare ne dà giudicare, quanto da tenere in considerazione per comprendere il volere della famiglia e trovare le soluzioni terapeutiche più adatte.

Il processo di accettazione della disabilità del figlio dipende molto anche dalla modalità con la quale avviene la diagnosi:

  • se il bambino è nato in Italia e mostra segni evidenti di disabilità, la diagnosi presenta poche difficoltà;
  • Se il bambino invece è nato nel paese di origine e la disabilità, pur essendo evidente, è stata diagnosticata solo in Italia, le famiglie faticano a concepire come il figlio nel loro paese fosse sano, mentre in Italia è malato. Allo stesso modo succede se il bambino non presentava segni e sintomi prima della migrazione. Per questo motivo, alcuni genitori, riportano per qualche tempo il figlio nel paese d’origine, convinti che lì il bambino possa stare meglio. Gli operatori però non vedono di buon occhio questi soggiorni poiché li considerano un’interruzione non necessaria e non positiva del percorso prescritto al bambino [24].

 

 

 

      1. La valutazione del paziente straniero

 

 

La valutazione neuropsicomotoria viene eseguita dal terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva in presenza di traiettorie di sviluppo atipiche per individuare eventuali difficoltà nell’organizzazione neuropsicomotoria e valutare eventuali problemi nel sistema nervoso centrale, nel sistema motorio, sensoriale e cognitivo. Include la valutazione del comportamento e del gioco spontaneo, l’eventuale somministrazione di test standardizzati, scale valutative e questionari.

Nel caso del paziente migrante, la valutazione può essere profondamente distorta da fattori etnici e culturali. Oltre alle diversità riguardanti i vari concetti, le aspettative, la reazione alla disabilità e alla migrazione, dobbiamo dunque tener conto di ulteriori problematiche derivanti da un nostro errore di interpretazione di segni, sintomi e comportamenti del paziente. A riguardo dovremmo prendere in considerazione le seguenti considerazioni:

  • La raccolta di informazioni anamnestiche dovrebbe sempre tenere conto del background culturale della persona e del suo nucleo familiare. Spesso però i familiari non riescono a descrivere dettagliatamente i sintomi del paziente per la presenza di una barriera linguistica e i professionisti sanitari non riescono a interpretare il sentire dei genitori migranti;
  • la maggior parte delle scale di valutazione da noi utilizzate vengono sviluppate in contesti occidentali e possono risultare inadeguate nel condurre un’analisi cross-culturale. L’aspetto valutativo di fatti dovrebbe tenere conto delle diverse modalità di gioco, alimentazione, comunicazione dettate dalla cultura. Numerosi studi hanno, inoltre, documentato come l’uso di strumenti di valutazione fortemente influenzati dalle differenze culturali può contribuire alla misdiagnosi (sia in termini di sovradiagnosi che di sottodiagnosi) di diversi disturbi. È quindi necessario sviluppare e rendere diffusamente disponibili test che risentano in modo limitato dell’impatto di fattori culturali in modo da garantire una valutazione più attendibile;
  • Molte delle domande dei questionari per la famiglia e dei test che quotidianamente vengono somministrati ai pazienti sono potenzialmente influenzate non solo dalla barriera linguistica, ma anche da fattori culturali. Ad esempio, le domande sull’orientamento spaziale e temporale, la valutazione sulla modalità di alimentazione (uso della forchetta, consistenza dei cibi.). Alcune prove inoltre richiedono conoscenze proprie della cultura generale del Paese in cui viene effettuata la valutazione e il riconoscimento di oggetti tipici del tempo e della cultura occidentale [14].

 

Nella pratica quindi, ricadere in errori di valutazione e incomprensioni davanti ad un paziente migrante è un problema reale ed è per questo che bisogna tener conto delle diversità culturali e individuali ricercando il giusto equilibrio per evitare di generalizzare troppo l’identità del migrante in base alla sua provenienza (“dall’Africa”), di omologare a noi chi vive effettivamente esperienze diverse e uniche, e allo stesso tempo, ritenere i pazienti stranieri completamente differenti dalla nostra realtà e quindi incomprensibili.

Generalizzare sulla provenienza porta alla frustrazione colui che subisce questo giudizio, perché non valorizza l’identità culturale della persona, cosa che anche all’interno del territorio italiano è facile da comprendere, visto il modo in cui teniamo a specificare, spesso con vigore, la città da cui proveniamo, sentendoci anche leggermente offesi quando qualcuno scambia per errore anche solo la nostra provincia di appartenenza.

È dunque fondamentale per garantire una pratica competente, ritenere che la cura basata sulla cultura abbia diversità ma anche punti in comune [22].

 

 

 

      1. Verso una prospettiva interculturale

 

 

Una volta analizzate le informazioni relative alla visione del mondo della famiglia e ai dati relativi alla sua struttura sociale (fattori economici, religiosi e stile di vita) possiamo capire come queste influenzino la nostra pratica assistenziale e decidere se conservare, adattare o rimodellare completamente il programma terapeutico del bambino migrante [28].

Davanti a un paziente migrante possiamo adoperare diverse modalità di intervento:

  • Multiculturale: dove la cultura del terapista e quella del paziente sono differenti ma coesistono senza necessariamente incrociarsi;
  • Metaculturale: dove terapista e paziente provengono da culture differenti e il terapista non conosce la cultura del paziente, ma conosce l’importanza del fattore culturale nella costruzione dell’esperienza e sa come tenerne conto nella relazione terapeutica;
  • Interculturale: dove terapista e paziente provengono da culture diverse, ma il terapista conosce la cultura d’origine del bambino e la utilizza nel trattamento; le culture di entrambi entrano in stretta relazione tra loro, creando una convivenza basata sul mutuo riconoscimento e rispetto reciproco dei valori e dei modi di vivere. L’approccio interculturale è quello a cui dovremmo auspicare perché promuove l’interazione, lo scambio, l’abbattimento delle barriere, la reciprocità, la solidarietà obiettiva.

 

La competenza interculturale è sostenuta da specifiche attitudini all’apertura verso il prossimo e alla tolleranza, nonché da riflessioni (inter)culturali. Si sviluppa in diversi campi in modo dinamico e per acquisirla non è sufficiente la sola capacità linguistica e le conoscenze esplicite (ossia imparate) delle caratteristiche culturali del paziente.

 

Il terapista che vuole mettere in atto un approccio interculturale deve in primis cercare di creare una relazione basata sul rispetto reciproco e sull’empatia e avere l’inclinazione verso:

  • La comprensione dell’altrui visione del mondo, dei valori, delle norme e degli stili di vita;
  • La comprensione del ruolo e dell’impatto esercitato dai diversi elementi sul comportamento e sulla comunicazione;
  • La comprensione dei contesti storici, politici e religiosi del paese di origine e della famiglia;
  • La consapevolezza della diversità di espressione e significato tra culture;
  • La capacità di cambiare prospettiva;
  • Il saper riconoscere la normalità nella differenza, in tutti gli aspetti della vita umana, anche nella nostra pratica clinica;
  • La promozione delle pari opportunità e dei diritti umani anche nel nostro ambito.

 

In Italia, negli ultimi anni si assiste a un continuo aumento della percentuale di bambini stranieri che accedono alle strutture sanitarie: ciò porta gli operatori a confrontarsi con saperi diversi dai propri, con differenti modalità di cura parentali, differenti visioni della salute e della malattia. La presa in carico di un bambino migrante deve tenere in considerazione e rispettare le diverse caratteristiche culturali, nel rispetto dell’originalità del paziente e della diade madre - figlio. Il terapista deve essere pronto ad accogliere il bambino in un ambiente facilitante, adatto ai suoi bisogni e a quel preciso momento evolutivo, sostenendo anche il genitore migrante che porta con sé il vissuto importante della migrazione. Per l’attuazione di un piano davvero personalizzato, anche le nostre proposte di gioco devono essere adattate e modellate sull’esperienza del bambino, per assecondare e mai limitare l’identità culturale del paziente migrante. L’ambiente terapeutico può così avere funzioni di holding per il bambino e la sua famiglia, divenendo per la stessa uno spazio fertile in cui possa portare anche la propria storia di vita.

Cosa possiamo fare, dunque, per la creazione di un nuovo modello assistenziale culturalmente personalizzato?

  • Richiedere il mediatore culturale, dove necessario senza timorarsi;
  • Fare una raccolta anamnestica con supplemento di informazioni inerenti al percorso migratorio e alla cultura d’origine;
  • Richiedere una valutazione a 360° globale del paziente;
  • Discutere in Equipe sul modo di comunicare e restituire la diagnosi alla famiglia straniera;
  • Consultare l'Assistente Sociale, in base alle necessità del caso, per conoscere lo stile di vita, le condizioni domestiche, le condizioni legali (permesso di soggiorno/visti/residenza) per l’assegnazione di terapie e ausili, le possibilità della famiglia;
  • Consultare la scuola, quando necessario;
  • Spingere per creare una rete di collaborazione sia a livello europeo che coi paesi di origine dei pazienti, per scambiare idee e metodi di valutazione, ma anche per validare i test e raccogliere dati in modo più mirato;
  • Cercare di far emergere l’identità culturale e personale del bambino all’interno del programma riabilitativo;
  • Proporre alle scuole, l’introduzione di progetti interculturali e integrativi promuovendo l’appartenenza culturale e la diversità come punto di forza valorizzando ogni sfumatura sociale;
  • Supportare e incentivare la ricerca sui casi di bambini disabili e migranti, affinché aumenti la consapevolezza e la conoscenza in merito a questi bambini.

 

Riportare l’attenzione allo specifico tema dell’intercultura deve essere considerato sia come un obbiettivo in campo clinico, ma anche di intervento educativo, da approfondire e da diffondere non solo in ambito accademico, ma anche nei contesti scolastici, sociali, professionali e sanitari impegnati quotidianamente a costruire processi di integrazione e di inclusione [15].

 

      1. L’importanza della figura del mediatore

 

La nascita di un figlio disabile o l’acquisizione di un deficit a seguito di un incidente o di una malattia sono eventi potenzialmente traumatici che sconvolgono chiunque ne sia testimone. Se alla disabilità poi si aggiunge l’evento migratorio, la modificazione dell’organizzazione e delle relazioni famigliari è ancora più radicale.

La comunicazione della diagnosi di disabilità è in generale, il momento più traumatizzante per una famiglia e ha un impatto fortissimo sulla coppia e sul singolo membro del nucleo familiare poiché confonde tutte le certezze, le aspettative, i sogni per il futuro, la quotidianità e la vita in generale. Diventa quindi un momento delicato che andrebbe preparato con cura da parte dei servizi visto che l’attenzione verso una corretta comprensione della diagnosi da parte della famiglia è fondamentale per tutto il lungo e tortuoso percorso da affrontare in seguito. Si dovrebbe dunque curare la scelta lessicale, la modalità della conversazione e il luogo del colloquio [24].

In questi momenti delicati, la presenza del mediatore culturale diventa quindi particolarmente importante. La sua figura professionale non si limita esclusivamente alla traduzione e all’interpretazione linguistica tra personale sanitario e famiglia, ma ha il compito di mediarne la comunicazione spiegare all'uno le ragioni dell'altro, chiarendo domande ed aspettative di entrambe le parti, aiutando a individuare e interpretare eventuali atteggiamenti disturbanti (come il guardarsi negli occhi). Proprio per l’importanza di quest’incarico, è necessario che la persona che svolge questo ruolo non sia “culturalmente schierata” e che conosca non solo la lingua, ma anche le usanze e le tradizioni dei paesi da mediare.

Il mediatore è dunque estremamente utile all’interno del setting valutativo/riabilitativo nei casi in cui le culture sono più differenti, in quanto fonte di rassicurazione e icona della comprensione, per la creazione di un'alleanza tra clinico e paziente.

Nella maggioranza dei casi è accolta molto positivamente, soprattutto dalle madri che si sentono maggiormente capite investendo su questa figura la propria fiducia, anche se spesso, soprattutto davanti a scelte non consentite nella cultura di origine (come nei casi di interruzione di gravidanza) non viene utilizzata;

All’interno del mio progetto di tesi vedremo poi, quali saranno le percezioni e le necessità del nostro personale riguardo questa figura professionale.

 

 

 

Parte sperimentale

 

    1. Scopo dello studio

 

Lo scopo principale del mio studio è rilevare le criticità nella presa in carico del paziente migrante e ipotizzare soluzioni per fornire un’assistenza migliore alle famiglie straniere da parte del TNPEE.

 

    1. Materiali e metodi

 

Popolazione:

  • Campione: 46 TNPEE;
  • Sottocampione: 13 TNPEE in servizio presso IRCCS Stella Maris.

Strumenti:

  • Questionario valutativo per TNPEE sulla presa in carico del paziente migrante;
  • Dati dei pazienti migranti degli ultimi 3 anni forniti dalla direzione sanitaria della Stella Maris.

È stato elaborato un questionario ad hoc da sottoporre ai TNPEE che valutasse la presa in carico del paziente migrante e la compliance dei terapisti con le famiglie straniere negli ultimi tre anni. Tale questionario è stato successivamente proposto ai TNPEE iscritti all’albo delle province Pisa-Livorno-Grosseto e poi inoltrato in modo informale, per raccogliere maggiori risposte, via whatsapp ad un gruppo non istituzionale con al suo interno 106 terapisti della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva provenienti da tutta Italia.

Per poter fare un confronto più realistico con i dati della direzione sanitaria della Stella Maris, sono state poi raccolte esclusivamente le risposte dei partecipanti che hanno dichiarato di lavorare presso un istituto di ricerca IRCCS (domanda n°27) all’interno della regione la Toscana (domanda n°26), considerando il sottocampione “TNPEE in servizio presso IRCCS Stella Maris”.

Il periodo in cui sono stati raccolti i risultati va dal 24 giugno al 31 ottobre 2024, per un totale di 46 risposte.

L’analisi dei dati è stata eseguita in termini di percentuali.

Il suddetto questionario è composto da 30 domande diverse divise in due sezioni: una parte valutativa riguardo la presa in carico dei pazienti stranieri e una parte relativa ai dati anagrafici e descrittivi dei partecipanti al campione.

Sezione 1: Nella prima parte si va a indagare la percentuale di pazienti stranieri sul totale dei pazienti in carico. Successivamente viene richiesto se negli ultimi 3 anni si sia osservato un incremento di pazienti stranieri in carico e principalmente di quale tipologia: se stanziali o nuovi arrivi.

Rispetto a questi dati si è poi domandato quale fosse il principale continente d’origine (chiedendo di fare una stima ulteriore sui maggiori paesi d’emigrazione). È stato poi indagato attraverso due domande separate, la fascia d’età prevalente dei pazienti stranieri in carico (attraverso le scelte preimpostate 0-2 anni, 3-5 anni, 6-10 anni, > 11 anni) e la diagnosi predominante tra le seguenti scelte:

  • Disturbo dello spettro autistico;
  • Disturbo da deficit di attenzione, iperattività, impulsività;
  • Disturbo della coordinazione motoria;
  • Disturbo dell'apprendimento;
  • Disturbo della regolazione;
  • Disturbo dello sviluppo intellettivo;
  • Disturbo neurosensoriali;
  • Paralisi cerebrali infantili;
  • Patologie acquisite;
  • Patologie neurodegenerative;
  • Sindromi genetiche;
  • Altro.

 

A seguire è stato chiesto con quale tipologia di pazienti, migrante e non, ogni terapista avesse avuto maggiori difficoltà, in condizioni di diagnosi e funzionalità paragonabili. Ulteriori quesiti hanno poi raccolto dati su quali fossero le maggiori problematiche nell'imbastire un trattamento Neuropsicomotorio con soggetti stranieri fornendo diverse opzioni:

  • Adesione e attaccamento alla terapia;
  • Comunicazione e relazione con il bambino;
  • Comunicazione e relazione con la famiglia;
  • Far comprendere la disabilità alla famiglia;
  • Somministrazione di test;
  • Altro.

 

Successivamente è stato richiesto di mettere in ordine di importanza le maggiori problematiche individuate. Nel caso si fossero indicate difficoltà nella somministrazione di test e scale di sviluppo, è stato di conseguenza domandato in quali di queste si fossero presentati i maggiori problemi.

Il questionario prosegue con domande a risposta aperta in modo da lasciare spazio a riflessioni su ulteriori difficoltà riscontrate con il paziente migrante ma anche su esperienze personali, risorse e opportunità che possano conseguire alla presa in carico di bambini di origine straniera, oltre che a proposte per migliorare la gestione di questi pazienti.

Alla fine del questionario viene indagato l’aspetto della relazione costruita fra la famiglia e il TNPEE, in particolar modo riguardo la consapevolezza della disabilità del figlio, la comprensione della malattia e per finire, argomento molto importante individuato anche nella letteratura, la compliance da parte della famiglia rispetto al trattamento/presa in carico del bambino.

Una particolare attenzione è stata dedicata alle modalità di comunicazione e alla loro efficacia chiedendo di specificare in che modo si comunicasse con la famiglia (in italiano, nella lingua di origine, con il traduttore del telefono, tramite una terza persona, con un mediatore culturale).

Sezione 2: Nella seconda parte del questionario vengono raccolti i dati anagrafici e descrittivi del campione quali: età dei partecipanti e anni di esperienza, tipo di struttura e regione in cui viene esercitata la professione, tipologia di patologie generalmente trattate, fascia d’età principale del totale dei pazienti in carico ed infine, eventuale formazione in campo interculturale.

Parallelamente alla somministrazione del questionario sono stati richiesti alla direzione sanitaria della Stella Maris i dati di tutti i pazienti migranti degli ultimi 3 anni rispetto agli accessi totali, con relativa età, paese d’origine, presenza di codice fiscale, timing di accesso ai servizi e tipo di ricovero, patologia principale e problematiche secondarie per ogni paziente.

Di questi dati è stata fatta un’aggregazione per paesi di origine, stima dei pazienti stanziali e dei nuovi arrivi, (dato raccolto attraverso la tipologia di codice fiscale inserito). Si è approfondito ulteriormente con una discriminazione tra i pazienti provenienti dall’Ucraina pre e post guerra per valutare quanto il conflitto avesse influenzato l’affluenza presso i reparti della Fondazione Stella Maris di questi pazienti negli ultimi anni.

    1. Analisi dei dati

 

      1. Analisi dei dati raccolti presso IRCCS Fondazione Stella Maris

 

Dal 2021, il numero di pazienti migranti che hanno effettuato almeno un accesso ai servizi della Stella Maris è 123 su un totale di 12.603 pazienti afferenti alla struttura negli ultimi 3 anni. Nel 2021 sono stati registrati solo 24 pazienti stranieri su 3882 totali ossia lo 0,62% del totale. L’anno successivo, il 2022, ha registrato un aumento dall’anno precedente con 46 pazienti stranieri su 4249 (1,08%). Nel 2023 c’è stato un ulteriore incremento di questi pazienti con 53 casi su 4472 accessi totali (1,18%). Come si può notare, dal 2021 al 2023, c’è stato quasi un raddoppio del numero di pazienti migranti, ma è anche vero che si è registrato un aumento generale di tutti gli accessi alla struttura. Il numero di pazienti stranieri rispetto al complesso, rimane comunque estremamente basso []. È pur sempre da considerare che alcuni pazienti stranieri possano non essere stati inclusi perché in possesso della cittadinanza italiana acquisita, ossia in tutti quei casi in cui i genitori abbiano ottenuto a loro volta la cittadinanza italiana, nei casi in cui i genitori siano apolidi/ignoti/di nazionalità la cui legge non prevede di trasmettere la propria cittadinanza al figlio nato all’estero o nei casi di adozione.

Figura : numero di pazienti migranti/totali per anno.

 

Effettuando una suddivisione su matrice continentale [], si ottiene che l’area geografica maggiormente rappresentata è quella degli stati europei non appartenenti all’UE con 54 utenti su 123 (43,9% di tutti i migranti). Tra questi stati, i maggiori esponenti sono l’Albania con 25 pazienti (20,3% del totale di pazienti stranieri) e l’Ucraina con 24 pazienti (19,5% del totale di pazienti stranieri).

Figura : percentuali dei pazienti migranti afferenti a IRCCS Stella Maris per ogni continente

 

Nel caso dell’Ucraina, si è voluto ulteriormente indagare sulle possibili variazioni conseguenti al conflitto del febbraio 2022. Rispetto all’anno 2021, è emerso un netto aumento dei casi subito a seguito dello scoppio della guerra, passando da 1 paziente ucraino che afferiva alla nostra struttura a 16 pazienti ucraini nel 2022, ed un incremento ulteriore nell’anno successivo, il 2023, in cui sono giunti altri 7 pazienti dall’Ucraina (con una diminuzione rispetto all’anno precedente) [].

Figura : numero dei pazienti dall'Ucraina per anno

 

Continuando l’indagine sui continenti più rappresentati, troviamo al secondo posto gli stati appartenenti all’UE con 22 casi (di cui 18 solo dalla Romania) andando a coprire il 17,8% del totale di pazienti stranieri, e al terzo posto l’Africa con 19 casi (per la maggior parte dal Marocco e dal Senegal) corrispondenti al 15,45% del totale di pazienti stranieri. Seguono l’Asia con 18 pazienti provenienti principalmente dal Pakistan e dalle Filippine (14,6%), il sud America con 6 pazienti (4,9%) e il centro America con 1 paziente (0,81%). 3 pazienti sono risultati apolidi e non sono stati inclusi nel conteggio di nessun continente, sono quindi stati inseriti nella sezione “altro” [].

Figura : numero di pazienti per Paese d'origine

 

I pazienti stranieri sono stati poi suddivisi per fasce d’età (considerando gli anni al momento del ricovero alla Stella Maris). È risultato che la fascia 0-2 anni fosse quella meno rappresentata con 14 pazienti totali. Nella fascia dei 3-5 anni troviamo 21 pazienti e in quella dei 6-10 anni 34 pazienti. La fascia di età compresa tra gli 11 e i 18 anni è quella col numero più elevato di componenti con 54 casi [].

Figura :percentuale dei pazienti migranti per fascia d'età

 

La suddivisione tra pazienti migranti stanziali e nuovi arrivi è stata fatta sulla base del codice fiscale e dell’appartenenza a un’ASL nel territorio italiano. I pazienti con codice fiscale italiano già appartenenti a un ASL regionale sono stati classificati come stanziali.

I pazienti apolidi sono stati inclusi nella categoria degli stanziali in quanto presi in carico da un ASL regionale italiana.

I restanti pazienti con codice fiscale straniero risultavano in parte ancora presi in carico nel paese di origine e in parte seguiti in un altro stato (es. originari della Turchia e residenti in Svizzera). Nel complesso, tutti questi casi sono stati considerati insieme come nuovi arrivi per un totale di 18 pazienti.

I pazienti sono inoltre stati raggruppati in base alla diagnosi []. Sono state prese in considerazione le patologie primarie, ossia i motivi principali del ricovero, le patologie secondarie e la somma di queste due per capire l’incidenza di ognuna nel totale e valutare una possibile correlazione tra patologia e vissuto del migrante.

Le patologie più frequenti tra le diagnosi primarie sono [] []: le psicosi specifiche della prima infanzia in stato attivo (20 casi), l’iperattività (18 casi) e le encefalopatie (16 casi). Tra le diagnosi secondarie invece riscontriamo un numero maggiore di casi di ritardo mentale di diverso livello (19 casi), disturbo misto del linguaggio espressivo e della comprensione (12 casi) e di disturbo ansioso generalizzato (9 casi).

Figura :numero di casi per le principali diagnosi nei pazienti migranti dell'IRCCS Stella Maris

 

PATOLOGIE

DIAGNOSI

PRIMARIA

DIAGNOSI SECONDARIA

TOTALE

CASI

Atassia cerebellare

 

1

1

Atassia di Friedreich

 

1

1

Anomalie cerebrali specificate

 

3

3

Carenze di enzimi circolanti

 

1

1

Cecità corticale

 

5

5

Difficoltà specifiche dell'apprendimento

 

1

1

Diplegia congenita

3

 

3

Disfagia

 

2

2

Distrofia muscolare progressiva ereditaria

1

 

1

Disordini del metabolismo

 

3

3

Disturbo bipolare di tipo II

1

1

2

Disturbo bipolare di tipo I, più recente (o corrente) episodio non specificato

1

 

1

Disturbo bipolare non specificato

5

 

5

Disturbo dell'alimentazione

1

 

1

Disturbo del sistema nervoso non specificati

 

1

1

Disturbo misti dello sviluppo

 

1

1

Disturbo tipo tic,non specificato

 

1

1

Disturbo ansioso generalizzato

1

9

10

Disturbo delle emozioni non specifici dell'infanzia o dell'adolescenza

2

 

2

Disturbo della coordinazione

 

1

1

Disturbo miotonico

1

 

1

Disturbo ciclotimico

3

1

4

Disturbo ciclotimico senza iperattività

1

 

1

Disturbo del controllo degli impulsi, non specificato

1

 

1

Disturbo oppositivo provocatorio senza iperattività riferita

 

1

1

Disturbo oppositivo-provocatorio

2

3

5

Disturbo misto del linguaggio espressivo e della comprensione

4

12

16

Disturbo del linguaggio simbolico

2

2

4

Disturbo del linguaggio espressivo

1

1

2

Disturbo della parola

 

1

1

Disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso

1

 

1

Disturbo episodico dell'umore non specificato

4

4

8

Encefalopatie

7

2

9

Encefalopatia non specificata

9

 

9

Epilessia generalizzata convulsiva con epilessia non trattabile

1

 

1

Epilessia generalizzata convulsiva senza epilessia non trattabile

 

1

1

Epilessia generalizzata non convulsiva senza epilessia convulsiva

 

2

2

Epilessia parziale,

senza menzione di alterazione della coscienza, senza menzione di epilessia non trattabile

1

 

1

Epilessia parziale

con menzione di alterazione della coscienza, con epilessia non trattabile

 

1

1

Epilessia non specificata,

con epilessia non trattabile

3

 

3

Fobia sociale

 

2

2

Idrocefalo congenito

1

 

1

Idrocefalo ostruttivo

 

1

1

Insufficienza respiratoria acuta e cronica

1

 

1

Iperattività

18

3

21

Malattia di kugelberg-welander

1

 

1

Malattie extrapiramidali e

Disturbi del movimento

2

1

3

Miopatia non specificata

 

2

2

Paralisi cerebrali infantili

7

1

8

Paralisi cerebrale infantile non specificata

1

1

2

Paraplegia

1

1

2

Psicosi non specificata

1

1

2

Psicosi specifiche della prima infanzia,

stato attivo/residuale

20

 

20

Psicosi tipo agitato

 

1

1

Quadriplegia congenita

5

 

5

Quadriplegia non specificata

2

2

4

Ritardo non specificato dello sviluppo

3

 

3

Ritardo mentale lieve

 

5

5

Ritardo mentale medio

 

6

6

Ritardo mentale grave

 

1

1

Ritardo mentale non specificato

 

7

7

Sindrome ansiosa da separazione

 

1

1

Sindrome ipercinetica non specificata

 

2

2

Sindrome ossessivo-compulsiva

 

1

1

Tipo disorganizzato, non specificato

2

 

2

Altre anomalie specifiche

 

1

1

Altri disturbi

 

4

4

 

Tabella : Diagnosi dei pazienti migranti con rispettivi numeri di casi per diagnosi primaria, di casi per diagnosi secondaria e di casi totali; dati riferiti dalla direzione sanitaria di IRCCS Stella Maris.

 

 

 

La correlazione fra origine e patologia è stata studiata attraverso un’osservazione oggettiva dei dati di tutti i pazienti migranti raccolti dalla direzione sanitaria. Leggendo i dati forniti, uno in particolare ha attirato la nostra attenzione: il numero di pazienti ucraini tra i casi con paralisi cerebrali infantili (PCI). Essendo anche la diagnosi più affermata nei migranti secondo TNPEE della Stella Maris, questa incidenza è stata sottoposta a indagine. La prevalenza di pazienti provenienti dall’Ucraina tra i casi con PCI è di fatto del 70% [].

Figura : origine dei pazienti con paralisi cerebrale infantile

 

Si è voluto poi indagare, pensando anche a cosa la letteratura riporta, la prevalenza delle principali diagnosi primarie all’interno delle varie fasce d’età per osservarne l’andamento.

Nella fascia 0-2 anni non si evince particolare prevalenza diagnostica: da sottolineare come, a differenza delle altre fasce d’età, non siano riportati casi di iperattività; le encefalopatie rappresentano il 14,28% delle diagnosi, alla pari con altre patologie, e le psicosi risultano essere il 21,42%, così come i casi di ritardo non specificato dello sviluppo [].

Figura : prevalenza delle principali patologie nella fascia 0-2 anni

 

Nella fascia 3-5 anni invece si iniziano a riscontrare un numero più elevato di casi di psicosi (6 casi su 21 pazienti di questa fascia, ossia il 28,6%) e di encefalopatie (4 casi su 21 pazienti in questa fascia, ossia il 19%). Le diagnosi di iperattività in questa fascia sale al 9,52% con 2 casi su 21 pazienti[].

Figura : prevalenza delle principali patologie nella fascia 3-5 anni

 

 

 

Il numero di psicosi ed encefalopatia aumenta nella fascia 6-10 anni rispettivamente con 10 casi e 6 casi su 33 pazienti in questa fascia (prevalenza del 30,30% delle psicosi e del 18,18% delle encefalopatie su tutte le diagnosi tra i 6-10 anni). Si nota anche un aumento delle diagnosi di iperattività con 4 casi su 33 soggetti, ossia il 12,18% []-

Figura :prevalenza delle principali patologie nella fascia 6-10 anni

 

Spicca come più della metà dei casi di iperattività totali siano stati registrati in pazienti di età compresa tra gli 11 e i 18 anni, con 12 casi su 21 diagnosi di iperattività. Sempre all’interno della fascia dei pazienti più grandi, troviamo tra le diagnosi più numerose: i disturbi bipolari (7 casi su 54, ossia il 12,96%) e le encefalopatie (5 casi su 54, ossia il 9,26%). I casi di psicosi nei pazienti di età compresa tra gli 11 e i 18 anni scendono al 3,70% (2 casi su 54) [].

Figura : prevalenza delle principali patologie nella fascia 11-18 anni

      1. Risultati dell’indagine del campione

 

I questionari compilati in totale sono stati 46.

I dati anagrafici e descrittivi dei terapisti sono stati raccolti nella seconda sezione del questionario, tramite le domande dalla n°24 alla n°30. Nella prima sezione invece sono stati raccolti i dati richiesti ai TNPEE in merito alla presa in carico dei pazienti migranti.

Seconda sezione:

Partendo dalla domanda n°24, si osserva che la maggior parte dei partecipanti (il 43%), rientra in un’età compresa tra i 20 ed i 30 anni, mentre il 33% rientra nella fascia 31-40 anni e il 24% nella fascia 41-50 anni. Nessun TNPEE del campione supera i 51 anni d’età. [].

Figura : percentuale di terapisti del campione per ogni fascia d'età

 

 

 

Secondo la domanda n°25, la parte più consistente dei partecipanti (il 39%) lavora da 2-5 anni, il 24% lavora da 11-20 anni, il 20% lavora da 6-10 anni, il 15% da più di 21 anni e solo un partecipante da meno di un anno[].

Figura : anni di esperienza lavorativa dei terapisti del campione

 

Tramite la domanda n°26 si può osservare la distribuzione nel territorio di coloro che hanno preso parte allo studio: la maggioranza delle risposte arriva da TNPEE che esercitano la loro professione in Toscana (38 partecipanti). 4 risposte giungono dalla Lombardia, 2 dall’Emilia Romagna, 1 dalla Sicilia e 1 dalla Liguria [].

Figura : distribuzione dei terapisti del campione in Italia

Secondo le risposte alla domanda n°27, il 36,96% dei terapisti lavora presso il Sistema Sanitario Nazionale, il 30,44% presso un Istituto di Ricerca (IRCCS, CRN, etc), il 28,26% esercita in un ambulatorio privato, il 26,09% in un Centro accreditato/convenzionato privato mentre il 2,18% dei terapisti all’Università [].

Figura : struttura in cui viene esercitata la professione

 

Nella domanda a risposta multipla n°28 viene chiesta la fascia d’età prevalente del totale dei pazienti in carico: il 54% dei partecipanti dichiara di lavorare principalmente con pazienti compresi tra i 3 e i 6 anni. Il 20% dei TNPEE tratta per lo più pazienti che rientrano nella fascia 0-2 anni; un altro 20% dei partecipanti invece lavora con pazienti di età compresa tra i 7 ed i 10 anni, mentre il 6% dei TNPEE ha a che fare generalmente con pazienti di età superiore agli 11 anni [].

Figura : percentuale di pazienti complessivi per fascia d'età

 

La domanda n°29 indaga le principali patologie trattate dai TNPEE intervistati: al primo posto troviamo il disturbo dello spettro autistico con il 15,5% delle risposte, al secondo posto il ritardo globale dello sviluppo con il 14,08% delle risposte, al terzo posto i disturbi della regolazione con il 13,62% delle risposte, al quarto posto il disturbo da deficit di attenzione, iperattività ed impulsività con l’10,80% delle risposte e al quinto posto i disturbi dello sviluppo intellettivo con il 10,33% delle risposte. A seguire troviamo le sindromi genetiche con il 9,86% delle risposte, i disturbi della coordinazione motoria con il 7,52% delle risposte, le paralisi cerebrali infantili con il 7,04% delle risposte, i disturbi dell'apprendimento con il 4,23% delle risposte. Infine troviamo con la stessa percentuale, i disturbi del neurosviluppo e le patologie neuromuscolari pari all’1,88% delle risposte per ciascuna diagnosi, ed infine le patologie acquisite con lo 0,94% delle risposte totali [].

 

Figura : principali diagnosi trattate dai terapisti del campione

 

L’ultima domanda (la n°30), mette in luce come solo 7 TNPEE su 46 abbiano avuto formazione professionale ed extralavorativa in campo interculturale (il 15,21%). Tra le esperienze in ambito inerculturale citate troviamo []:

  • Formazione post-laurea;
  • Esperienze e missioni all’estero;
  • Esperienze e missioni in centri d’Italia specializzati in sostegno alle persone migranti;
  • Corso di formazione sulla multiculturalità.

Figura :percentuale dei terapisti con e senza esperienza i campo interculturale

 

Prima sezione:

Alla prima domanda, solo 2 TNPEE hanno risposto di non aver mai lavorato con pazienti stranieri negli ultimi 3 anni. Dei restanti, solo uno dichiara alla domanda n°2, di aver avuto a che fare prevalentemente con nuovi arrivi, mentre tutti gli altri 43 terapisti (il 96%) sostengono di aver lavorato principalmente con pazienti stranieri stanziali [.

Figura : percentuale dei terapisti del campione con a carico pazienti migranti stanziali/ nuovi arrivi/ nessun paziente migrante

 

 

 

Nella terza domanda a risposta multipla, il 77% dei partecipanti afferma di aver percepito un aumento dei pazienti migranti negli ultimi 3 anni: 8 terapisti, ossia il 17%, percepiscono un aumento di nuovi arrivi mentre 28 TNPEE, il 60%, percepiscono un aumento di pazienti stranieri stanziali. Il 23% non percepisce alcun cambiamento (11 TNPEE) []

Figura : percentuale di terapisti del campione che percepiscono un aumento dei pazienti migranti stanziali, dei nuovi arrivi, o nessun aumento

 

Nella quarta domanda, la prevalenza di pazienti stranieri sui pazienti italiani è stata affermata da 7 TNPEE (16%); 19 terapisti (il 43%) ritengono di aver avuto un numero maggiore di pazienti italiani; i restanti 18 (il 41%) sostengono invece che il numero di pazienti stranieri e quelli italiani sia stato pressoché uguale [].

Figura : prevalenza dei pazienti italiani/stranieri secondo i terapisti del campione

 

Per quanto riguarda l’origine dei pazienti, nella quinta domanda a risposta multipla, l’Africa è stata reputata il continente più rappresentato secondo 25 TNPEE (ossia il 34%); a seguire troviamo i Paesi dell’Europa non appartenente all’UE per 17 terapiste (il 23%) e a seguire gli Stati appartenenti all’UE secondo 16 partecipanti (il 22%). Infine, troviamo il continente asiatico secondo il 16% dei TNPEE (12 terapisti) e il Sud America per il 4% dei partecipanti (3 su 74). Per “altro” è stato inteso lo stato civile di apolide [].

Figura : principale continente d'origine dei pazienti migranti secondo i terapisti del campione

 

Dovendo dare una precisazione sullo stato principale di emigrazione, nella sesta domanda a risposta aperta, la maggioranza dei TNPEE ha collocato al primo posto l’Albania (13 risposte), al secondo posto il Marocco (9 risposte), al terzo posto la Romania (8 risposte), al quarto posto la Nigeria (4 risposte), e a seguire Tunisia e Ucraina a pari merito con 3 risposte ciascuna, Bangladesh e Filippine con 2 risposte a testa e successivamente una serie di altri Stati quali India, Cina, Senegal, Pakistan; Brasile, Perù, Kossovo, Sri Lanka tutti con 1 risposta [].

Figura : principale paese di origine dei pazienti migranti secondo i terapisti del campione

Per quanto concerne le fasce d’età in cui rientrano la maggior parte dei pazienti stranieri, nella settima domanda a risposta multipla, i TNPEE hanno individuato come prevalente quella dei 3-5 anni con 40 risposte (62% del totale), seguita dalla fascia 0-2 anni con 12 risposte (12% del totale), da quella dei 6-10 anni con 11 risposte (17% del totale) e infine dai maggiori di 11 anni con 2 risposte (3% del totale) [].

Figura : fascia d'età prevalentemente dei pazienti migranti secondo i terapisti del campione

 

 

La domanda n°8 indaga le diagnosi più diffuse nei pazienti stranieri secondo i TNPEE del nostro campione, includono il disturbo dello spettro autistico per 31 partecipanti totali (il 25%), i disturbi della regolazione per 21 partecipanti (il 17%), il disturbo da deficit di attenzione, iperattività e impulsività per 19 partecipanti (il 16%), il disturbo dello sviluppo intellettivo secondo 16 partecipanti (il 13%) e le sindromi genetiche per 13 partecipanti (l’11%). A seguire troviamo le Paralisi Cerebrali Infantili secondo 8 TNPEE (il 7%), il disturbo della coordinazione motoria per 5 TNPEE (il 4%), le patologie neurodegenerative per 3 TNPEE (il 2%) e infine i disturbi dell’apprendimento secondo 2 TNPEE, quelli neurosensoriali per altri 2 TNPEE, e le patologie acquisite per 2 terapisti ancora [].

È importante segnalare come le diagnosi più osservate nei migranti combacino in tutto il campione, con le patologie in generale trattate da ogni terapista.

Figura : principale diagnosi nei pazienti migranti secondo i terapisti del campione

 

Nella nona domanda, 39 TNPEE, ossia l’89% di tutti i partecipanti, dichiarano di aver incontrato maggiori difficoltà nella presa in carico dei bambini stranieri rispetto alla presa in carico dei bambini italiani, a parità di funzionalità/ diagnosi paragonabile [].

Figura : difficoltà nella presa in carico del paziente migrante secondo i terapisti del campione

 

Nella domanda 10 a risposta multipla è stato chiesto di segnalare le difficoltà riscontrate nella presa in carico e nella gestione del bambino migrante, chiedendo di metterle in ordine di importanza nella domanda n°11 [].

Figura :maggiori difficoltà riscontrate secondo i terapisti del campione

La maggiore problematica per il 34,86% dei partecipanti, sta nella comunicazione e nella relazione con la famiglia (secondo 38 TNPEE). Tra i TNPEE che hanno segnalato questo problema, si è valutato quanti di questi avessero avuto esperienze in campo interculturale per valutare se questo dato potesse influire nel rapporto con i familiari. Il maggior numero di partecipanti con esperienza in campo interculturale (6 TNPEE su 7) ha dichiarato di aver avuto più difficoltà nella relazione e comunicazione con la famiglia. E’ comunque da segnalare che l’84,21% di chi riscontrato difficoltà nella relazione con la famiglia non ha mai fatto esperienza nell’ambito interculturale [].

32

6

1

Figura : relazione tra problemi nella relazione con la famiglia da parte dei TNPEE e formazione interculturale

 

Il 23,85% dei TNPEE (26 terapisti) riscontra tra le varie problematiche, la difficoltà con i genitori per quanto riguarda la comprensione della disabilità del figlio e difficoltà nell’adesione e nell’attaccamento al percorso terapeutico (per 18 terapisti, ossia il 16,51%) [].

Facendo sempre riferimento alla letteratura abbiamo provato ad approfondire la relazione fra principale diagnosi dei pazienti di questi 26 per osservare se la patologia potesse avere a che fare con la comprensione della malattia.

La maggior parte dei pazienti migranti di coloro che avevano avuto problemi nel far comprendere la disabilità ai genitori aveva una diagnosi di spettro autistico, ADHD, disturbo della regolazione e disturbo dello sviluppo intellettivo [].

Figura : principali diagnosi tra i pazienti migranti dei terapisti che hanno avuto difficoltà nel far comprendere la disabilità alla famiglia

 

Ulteriormente si sono andati a controllare i principali continenti da cui originava la maggior parte dei pazienti migranti dei 26 TNPEE, per vedere se la difficoltà nel far comprendere la diagnosi fosse legata a fattori culturali [].

Figura : principali continenti d’origine dei pazienti migranti dei terapisti che hanno avuto difficoltà nel far comprendere la diagnosi

 

16 TNPEE dichiarano di lavorare principalmente con pazienti africani, 8 con pazienti asiatici e altri 8 con pazienti dell’Europa non appartenente all’UE, 2 con pazienti del sud America e 9 con pazienti di Paesi appartenenti all’UE. In generale, si osserva che la maggior parte di questi TNPEE lavori principalmente con pazienti di origine non europea.

Tra le varie difficoltà incontrate, l’11,93% dei partecipanti (13 TNPEE) evidenzia anche problemi legati ad incomprensioni culturali che possono aver avuto un’incidenza sulla presa in carico del bambino straniero. Si è andato, in questo caso, a controllare quanti di questi TNPEE, usufruissero abitualmente del mediatore culturale. È risultato che solo 5 terapisti su 13, richiedessero di solito, il supporto del mediatore [].

Figura : relazione tra difficoltà legate ad incomprensioni culturali riportate dai terapisti e utilizzo del mediatore

Sono emersi anche problemi nella somministrazione di test o scale di sviluppo (secondo il 9,18% dei terapisti, ovvero 10 TNPEE), tra cui in primo luogo troviamo la Griffiths, la FEPS, l’APCM-2, la Sensory Profile, la BIA e alcuni test che implicavano necessariamente questionari per i genitori (domanda n°12).

Solo il 3,67% (4 TNPEE) ha riscontrato difficoltà nella comunicazione e nella relazione con il bambino. Di questi ultimi quattro terapisti, si è andato a indagare sulla formazione in campo interculturale e su gli anni di esperienza lavorativa.

1

6

Figura : relazione tra problemi nella relazione con il paziente migrante riportate dai terapisti e formazione interculturale

 

È risultato che solo un TNPEE (25%) avesse avuto esperienze nell’ambito dell’intercultura []. e che tutti i TNPEE con difficoltà nella relazione con il bambino migrante, appartenessero a fasce di età differenti [].

 

 

 

Anni di esperienza lavorativa

TNPEE con difficoltà nella relazione con il bambino

Formazione in campo interculturale

2 - 5 anni

Terapista 1

Nessuna esperienza

6 - 10 anni

Terapista 2

Formazione interculturale

11 - 20 anni

Terapista 3

Nessuna esperienza

> 21 anni

Terapista 4

Nessuna esperienza

 

Tabella : terapisti con difficoltà nella comunicazione con il bambino migrante e relativi anni di esperienza lavorativa con informazioni sulla formazione in campo interculturale

 

Nella domanda n°13 a risposta aperta sono state segnalate altre difficoltà quali:

  • Mancanza del mediatore culturali e di questionari tradotti in più lingue;
  • Difficoltà nel proseguire la presa in carico sul territorio per lo status giuridico della famiglia e del bambino;
  • Barriera linguistica e difficoltà comunicativa;
  • Differenze culturali nella relazione con gli operatori sanitari: genitori intimoriti dalla presenza del "dottore", poco disponibili alla creazione di una relazione con chi ha in carico i propri figli, distanti probabilmente per estremo rispetto verso le figure professionali;
  • Differenze nell’attribuire la giusta importanza al trattamento riabilitativo, con conseguente necessità di tempi più lunghi per l’avvio dei trattamenti;
  • Difficoltà legate al contesto sociale disagiato della famiglia e all’aspetto economico;
  • Difficoltà nel far capire come comportarsi nell’ambiente domestico;
  • Difficoltà nel far comprendere la gravità della patologia e l’impossibile guarigione;
  • Difficoltà negli spostamenti per raggiungere il centro riabilitativo (specialmente nei giorni di pioggia);
  • Difficoltà legate all’integrazione della madre all’interno della società;
  • Difficoltà specifiche legate alla religione (es. non poter spogliare il bambino).

 

Dalle risposte alla domanda n°14 sono emerse anche potenzialità ed opportunità quali:

  • Consapevolezza della necessità di maggiore apertura mentale;
  • Confronto con realtà diverse e arricchimento culturale;
  • Opportunità di cambiare prospettiva e visione diversa rispetto alla propria preparazione e cultura;
  • Sfida personale e sociale difficile ma stimolante che permette di rivalutare il concetto di riabilitazione nell'infanzia e di apportare un cambiamento;
  • Necessità di ampliare la prevenzione anche sui territori più vulnerabili;
  • Conoscere da vicino usanze, gestione familiare e tipi di genitorialità di culture differenti;
  • Fondare un rapporto di grande fiducia reciproca;
  • Integrazione di modalità non appartenenti alla nostra cultura come potenziale spunto e utilità anche per i bambini italiani.

 

 

Secondo le risposte alla domanda n°15, solo il 5% dei TNPEE (2 partecipanti su 44) afferma che i genitori stranieri siano per lo più già consapevole della disabilità del bambino mentre il 32% (14 partecipanti su 44) ammette di essersi trovato il più delle volte davanti a genitori inconsci della situazione del proprio figlio. Il restante 64% (28 partecipanti) sceglie come risposta che solo alcune volte la famiglia è già a conoscenza della disabilità del bambino h[].

Figura : consapevolezza della disabilità da parte dei genitori secondo i terapisti del campione

 

Le risposte alla sedicesima domanda riguardo alla maggiore difficoltà nel far comprendere la disabilità del bambino alle famiglie straniere rispetto alle famiglie italiane, sono state positive per il 70% dei TNPEE (31 partecipanti su 44) [].

Figura : percentuale dei terapisti del campione che hanno avuto difficoltà nel far comprendere la disabilità alla famiglia migrante

 

Anche per quanto riguarda la domanda n°17 sul far comprendere l’importanza della presa in carico riabilitativa, il 66% dei partecipanti (29 su 44) sostiene che sia stato più complicato con le famiglie migranti rispetto alle famiglie di origine italiana [].

Figura :percentuale di terapisti del campione che hanno avuto difficoltà nel far comprendere ai genitori migranti l'importanza della presa in carico

 

Inoltre il 68% dei terapisti (30 su 44), nella diciottesima domanda dichiara di aver riscontrato maggiori difficoltà nella compliance (in termini di condivisione degli obiettivi, adesione alla terapia/ valutazione, rispetto degli orari, etc.) con il genitore straniero rispetto al genitore italiano[].

Figura :percentuale dei terapisti che hanno avuto difficoltà nella compliance con la famiglia migrante

 

Per quanto riguarda la comprensione della lingua italiana, le risposte alla domanda n°19 sono state eguali con un 50% che afferma sufficiente comprensione dell’italiano per la maggior parte delle famiglie italiane e 50% che sostiene che la comprensione della lingua non sia abbastanza sufficiente [].

Figura : comprensione adeguata della lingua italiana da parte dei genitori migranti secondo i terapisti del campione

 

La domanda 20° indaga l’aspetto comunicativo; le modalità di comunicazione più usate sono state prive di intermediario: per il 46,34% delle risposte la comunicazione avviene in lingua italiana, per il 18,30% in una lingua studiata da entrambi e per il 2,44% delle risposte usando la lingua del paese di origine. Solo il 13,4% delle risposte indica che la comunicazione avvenga grazie all’uso del mediatore culturale mentre il 10.99% ci dice che i TNPEE preferiscono l’uso del traduttore del telefono; infine il 7,31% risposte affermano che la comunicazione generalmente avviene grazie all’aiuto di una terza persona [].

Figura : metodi di comunicazione adoperati dai terapisti del campione con le famiglie migranti

 

Tra tutti i partecipanti, 31 terapisti, (il 33,67% delle risposte totali), alla domanda n°21 a risposta multipla riguardo a cosa riterrebbe più utile a supporto della presa in carico del bambino migrante, manifesta la necessità di avere a disposizione un mediatore culturale nei momenti di maggior necessità (inizio, somministrazione di test, definizione degli obbiettivi, restituzione etc.). 28 partecipanti (il 30,44% delle risposte totali) sostengono sia importante anche avere a disposizione delle Brochures sulle diverse disabilità tradotte in varie lingue da consegnare alle famiglie all'occorrenza. 16 partecipanti (il 17,39% delle risposte totali) appoggiano l’idea di avere prima della presa in carico, la possibilità di consultare informazioni rilevanti sulla cultura di appartenenza, sulle cure parentali e sul relativo sistema sanitario del paese d'origine. 11 partecipanti (il 11,96% delle risposte totali) ritengono utile avere a disposizione delle tavole comunicative tradotte nella lingua del bambino con i termini principalmente usati durante le sedute (es. giochi, parti del corpo, verbi etc.). Infine, solo 6 partecipanti (il 6,52% delle risposte totali) pensa sia vantaggioso avere a disposizione un traduttore vocale con riconoscimento della lingua (es. nei casi di analfabetismo) [].

Figura :proposte utili secondo i terapisti del campione per la presa in carico del bambino migrante

 

Ulteriori proposte sono state espresse dai terapisti nella domanda aperta successiva (la n°22). Tra le risposte troviamo delle puntualizzazioni sulle brochure che, oltre a trattare il tema della disabilità in senso stretto, potrebbero lasciare informazioni come “guida pratica alla presa in carico" del bambino, specificando chi sono le figure professionali coinvolte, come funziona il trattamento, quali sono i macro obiettivi, sottolineando l'importanza dell'aderenza terapeutica e della compliance familiare. Altre risposte hanno evidenziato la necessità di sviluppare una rete di servizi a supporto della famiglia migrante per la gestione dei bisogni e della presa in carico del bambino straniero, nonché la necessità di fornire corsi di lingua italiana gratuiti alla famiglia.

Dalla domanda aperta n°23 in cui viene chiesto di riportare qualche episodio della propria esperienza, sono emerse particolari contributi: in una risposta ci viene raccontato che spesso le famiglie migranti, dopo una prima fase iniziale di diffidenza, partecipano con maggiore impegno alle sedute di gioco, accettando di stare a tappeto e giocare insieme imitando le modalità interattive del terapista e risultando meno inibiti e meno direttivi di molte famiglie italiane concentrate sulla performance e poco sul piacere condiviso. In un’altra risposta viene fatto presente che alcune famiglie migranti si fidano del percorso di trattamento più delle famiglie italiane, ma, affidandosi, tendono a delegare al terapista tutto il lavoro, senza eseguire gli esercizi consigliati a casa. È stato segnalato inoltre che spesso capita di trovarsi in difficoltà nel far capire l’importanza e la gravità degli aspetti cognitivi, relazionali e comunicativi dei bambini, persino davanti alle famiglie maggiormente integrate e disinvolte con la lingua italiana. In un altro caso, è stato fatto presente che talvolta i bambini stranieri che accedono al servizio hanno sintomatologia più grave e invalidante rispetto ai pari italiani con la stessa diagnosi.

 

      1. Risultati dell’indagine del sottocampione

 

Dei 46 questionari compilati, sono state estrapolate le risposte dei TNPEE appartenenti ad un centro di ricerca IRCCS della regione Toscana per considerare questi dati come “risposte dei TNPEE esercitanti presso IRCCS Stella Maris”. Le risposte dei terapisti in questo caso, sono state 13.

 

Seconda sezione:

Partendo dalla domanda n°24 ci risulta che la maggior parte dei partecipanti (il 46,15%) rientri nella fascia 20-30 anni, il 30,77% nella fascia 41-50 anni e il 23,08% nella fascia 31-40 anni. Nessuno dei TNPEE supera i 51 anni d’età [].

Figura :percentuali dei terapisti del sottocampione per fasce d'età

 

Secondo la domanda n°25, la parte più consistente dei partecipanti (46,15%), che corrisponde anche a tutti quelli in fascia più giovane, lavora da 2-5 anni, il 23,08% lavora da 11-20 anni, in numero uguale a chi lavora da più di 21 anni, mentre solo 1 partecipante (il 7,7%) ha 6-11 anni di esperienza [4]

Figura : percentuali dei terapisti del sottocampione per anni di esperienza

 

Nella domanda n°28 a risposta multipla viene chiesta la fascia d’età prevalente della totalità dei pazienti con cui ogni terapista ha a che fare: è risultato che principalmente, secondo i terapisti della Stella Maris, i pazienti rientrino in un’età compresa tra i 3 ed i 10 anni: 9 TNPEE lavorano principalmente con pazienti in fascia 3-5 anni e 9 TNPEE con pazienti in fascia 6-10 anni (il 36% del totale per ogni fascia). 5 terapiste (il 25%) trattano principalmente con pazienti appartenenti alla fascia 0-2 anni, mentre quelli maggiori di 11 anni rappresentano la fascia più numerosa per l’8% dei TNPEE (2 terapiste) [].

Figura :fasce d'età principalmente trattate dai terapisti del sottocampione

 

La domanda n°29 tratta le principali patologie con cui i terapisti della Stella Maris hanno principalmente a che fare: al primo posto troviamo il ritardo globale dello sviluppo per il 19,14% dei TNPEE, al secondo posto le paralisi cerebrali infantili secondo il 17,02% dei TNPEE, al terzo posto il disturbo dello spettro autistico per il 14,90% dei partecipanti e al quinto posto le sindromi genetiche secondo il 12,76% dei terapisti. Al quinto posto con il 6,40% di terapisti a favore per ogni patologia, troviamo il disturbo della regolazione, il disturbo da deficit di attenzione, iperattività ed impulsività, il disturbo della coordinazione motoria, le patologie neurodegenerative e il disturbo dello sviluppo intellettivo. Al sesto posto abbiamo il disturbo specifico dell'apprendimento secondo il 4,25% di TNPEE totali e a seguire le patologie acquisite, quelle neuromuscolari e i disturbi neurosensoriali ognuna per il 2,13% di TNPEE [].

Figura : patologie principalmente trattate dai terapisti del sottocampione

 

 

L’ultima domanda (la n°30), indaga la formazione professionale ed extralavorativa dei partecipanti nell'ambito interculturale. All’interno del sottocampione 3 TNPEE hanno riportato esperienze interculturali, di seguito elencate: []

  • Formazione post-laurea;
  • Esperienze e missioni all’estero;
  • Corso di formazione sulla multiculturalità.

Figura : percentuale di terapisti con e senza esperienza in campo interculturale

Prima sezione:

Alla prima domanda, solo 2 TNPEE hanno risposto di non aver mai lavorato con pazienti stranieri negli ultimi 3 anni. Dei restanti, tutti gli altri 11 terapisti sostengono di aver lavorato con pazienti stranieri principalmente stanziali [].

Figura : presa in carico di pazienti migranti negli ultimi tre anni da parte dei terapisti del sottocampione

 

Nella terza domanda a risposta multipla, il 27,3% dei partecipanti (3 TNPEE) afferma di non aver percepito un aumento dei pazienti migranti negli ultimi 3 anni; una stessa percentuale percepisce un aumento dei nuovi arrivi, mentre il 45,5% (5 TNPEE) rileva un aumento dei pazienti stranieri stanziali [].

 

Figura :percezione dell'aumento dei pazienti migranti dei terapisti del sottocampione in valori percentuali

Nella quarta domanda sulla prevalenza di pazienti stranieri sui pazienti italiani, 6 terapisti (il 54,5%) ritengono di aver avuto un numero maggiore di pazienti italiani; i restanti 5 (il 45,5%) sostengono invece che il numero di pazienti stranieri e quelli italiani sia stato pressoché uguale [].

Figura : prevalenza dei pazienti italiani/stranieri secondo i terapisti del sottocampione

 

Per quanto riguarda l’origine dei pazienti, nella quinta domanda a risposta multipla, l’Africa è stata reputata dal 36,8% dei terapisti, il continente più rappresentato; il 26,3% dei terapisti sostiene invece che i pazienti originari dei Paesi appartenenti all’ UE siano quelli più numerosi mentre il 21% dei partecipanti crede che la maggior parte dei pazienti stranieri provenga da Stati europei non appartenenti all’ UE. Infine, il restante 15,7% dei TNPEE considera l’Asia come principale continente di origine dei pazienti migranti [].

Figura :principali continenti d'origine dei pazienti migranti secondo i terapisti del sottocampione

 

Dovendo dare una precisazione sullo stato principale di emigrazione, nella sesta domanda a risposta aperta, il 21% dei TNPEE della Stella Maris ha collocato al primo posto il Marocco, a pari merito con l’Ucraina e l’Albania per numero di TNPEE che hanno espresso lo stesso parere. Il 14,3% ha scelto come principale paese di emigrazione la Tunisia, e infine un 7,15% ha nominato la Romania, la stessa percentuale di TNPEE ha reputato le Filippine e un altro 7,15% ha ritenuto la Nigeria come principale paese d’origine dei pazienti migranti [].

Figura : principali Paesi d'origine dei pazienti migranti secondi i terapisti del sottocampione

Per quanto concerne la fascia d’età in cui rientra la maggior parte dei pazienti stranieri, nella settima domanda a risposta multipla, il 42,1% del TNPEE ha considerato quella dei 3-5 anni la più rappresentata, seguita dalla fascia 6-10 anni considerata la più rappresentata dal 31,6% del totale, e da quella dei 0-2 anni secondo il 21% dei terapisti. Per ultima troviamo la fascia dei pazienti maggiori di 11 anni dichiarata la più numerosa solo dal 5,3% del totale dei TNPEE [].

Figura : principale fascia d'età dei pazienti migranti secondo i terapisti del sottocampione

 

La fascia d’età più indicata da ogni terapista coincide con la fascia d’età principale di pazienti che generalmente ognuno tratta (solo in 4 casi su 11 una parte dei pazienti risultavano leggermente più piccoli rispetto alla fascia di età normalmente trattata).

La diagnosi più diffusa nei pazienti stranieri in carico secondo il 17,86% dei terapisti, è in primis quella delle Paralisi Cerebrali Infantili; secondo il 14,3% dei partecipanti invece sarebbe il disturbo dello spettro autistico, il disturbo dello sviluppo intellettivo o le sindromi genetiche. Per il 10.7% dei TNPEE la diagnosi principale è il disturbo della regolazione e per la stessa percentuale sono le patologie neurodegenerative. Il 7,14% sostiene che il disturbo da deficit di attenzione, iperattività e impulsività sia la diagnosi più presente mentre lo stesso numero di TNPEE crede siano le patologie acquisite. Il disturbo neurosensoriale è stato reputato la patologia prevalente dal 3,6% del campione.

Nessun partecipante ha votato tra le varie patologie, il ritardo globale dello sviluppo [].

Figura : principali diagnosi dei pazienti migranti secondo i terapisti del sottocampione

 

Anche per quanto riguarda le diagnosi più osservate nei migranti da ciascun terapista, queste rientrano tra le patologie generalmente trattate da ognuno. Solo in 3 casi su 28, vengono notate patologie nei pazienti migranti che normalmente non vengono trattate. In questi 3 casi troviamo il disturbo neurosensoriale, il ritardo dello sviluppo intellettivo e le patologie neurodegenerative.

Nella nona domanda, 9 TNPEE su 11 (ossia l’81,8% di tutti i partecipanti), dichiarano di aver incontrato maggiori difficoltà nella presa in carico dei bambini stranieri rispetto alla presa in carico dei bambini italiani, a parità di funzionalità/ diagnosi paragonabile [].

Figura : percentuale dei terapisti che hanno avuto difficoltà nella presa in carico del pazienti migrante rispetto ai pazienti italiani

 

Nella domanda 10 a risposta multipla è stato chiesto di segnalare le difficoltà riscontrate nella presa in carico e nella gestione del bambino migrante, chiedendo di metterle in ordine di importanza nella domanda n°11. Il 30% dei TNPEE (9 su 30) segnala come difficoltà principale quella nella comunicazione e nella relazione con la famiglia migrante. Sempre inerente allo scambio con i familiari, vengono segnalate la difficoltà nel far comprendere la disabilità ai genitori da 7 TNPEE su 30 (ovvero il 23,33%) e da 6 terapisti su 30 (il 20%), problemi legati ad incomprensioni culturali. Seguono le difficoltà nell’adesione e nell’attaccamento al percorso terapeutico avvertite da 5 TNPEE su 30 (16,7%) e problemi nella somministrazione di test o scale di sviluppo avvertite da 2 TNPEE su 30 (il 6,7%). Solo 1 partecipante ha riscontrato difficoltà nella comunicazione e nella relazione con il bambino (3,33%) [].

Figura : principali difficoltà nella presa in carico dei pazienti migranti secondo i terapisti del sottocampione

 

Nella domanda n°13 a risposta aperta sono state segnalate altre difficoltà quali:

  • Difficoltà nel proseguire la presa in carico sul territorio per lo status giuridico della famiglia e del bambino;
  • Barriera linguistica e difficoltà comunicativa;
  • Differenze culturali nella relazione con gli operatori sanitari: genitori intimoriti dalla presenza del "dottore", poco disponibili alla creazione di una relazione con chi ha in carico il proprio figlio, distanti probabilmente per estremo rispetto verso le figure professionali;
  • Differenze nell’attribuire la giusta importanza al trattamento riabilitativo, con conseguente necessità di tempi più prolungati per l’avvio del trattamento.

 

 

 

 

Dalle risposte alla domanda n°14 sono emerse anche potenzialità ed opportunità quali:

  • Consapevolezza della necessità di maggiore apertura mentale;
  • Confronto con realtà diverse e arricchimento culturale;
  • Opportunità di cambiare prospettiva e avere una visione diversa rispetto alla propria preparazione e cultura;
  • Conoscere da vicino tipi di genitorialità di culture differenti;

 

Alla domanda n°15 sulla consapevolezza delle disabilità dei genitori migranti rispetto a quelli italiani, 8 terapiste su 11 ritiene la maggior parte dei genitori qualche volta consapevole delle problematiche del figlio. 2 terapisti su 11 pensano che il più delle volte il genitore non sia consapevole e 1 partecipante sostiene che i genitori siano per lo più consci della disabilità del bambino [].

Figura : consapevolezza della disabilità dei genitori migranti secondo i terapisti del sottocampione

 

Secondo le risposte alla sedicesima domanda, far comprendere la disabilità del bambino alle famiglie straniere rispetto alle famiglie italiane, è stato più difficile per il 72,73% dei TNPEE (8 su 11 partecipanti) [].

Figura : percentuale dei terapisti che hanno avuto difficoltà nel far comprendere la disabilità alla famiglia migrante

 

Per quanto riguarda la domanda n°17 sul far comprendere l’importanza della presa in carico riabilitativa, il 54,55% dei TNPEE (6 su 11 partecipanti) sostiene che sia stato più complicato con le famiglie migranti rispetto alle famiglie di origine italiana [].

 

Figura : difficoltà nel far comprendere l'importanza della presa in carico alle famiglie migranti secondo i terapisti del sottocampione

Il 72,73% (8 su 11) dei TNPEE inoltre, nella diciottesima domanda, dichiara di aver riscontrato maggiori difficoltà nella compliance (in termini di condivisione degli obiettivi, adesione alla terapia/ valutazione, rispetto degli orari, etc.) con il genitore straniero rispetto al genitore italiano [].

Figura : percentuale dei terapisti del sottocampione che hanno riscontrato difficoltà nella compliance con la famiglia migrante

 

Per quanto riguarda la comprensione della lingua italiana, le risposte dei terapisti alla domanda n°19 sono state per il 72,73% affermative (sufficiente comprensione dell’italiano) e per il 27,27% negative (insufficiente comprensione dell’italiano) [].

Figura : comprensione della lingua italiana da parte delle famiglie migranti secondo i terapisti del sottocampione

La domanda 20° indaga l’aspetto comunicativo; secondo le risposte date, le modalità di comunicazione più usate sono state in lingua italiana (per 10 TNPEE, ovvero il 45,45%), grazie al traduttore del telefono (per il 18,18%), in una lingua studiata sia dal terapista che dal genitore e in egual modo tramite il mediatore culturale (13,64%). Il 9,09% richiede l’aiuto di una terza persona. Nessuno ha comunicato con le famiglie straniere nella lingua d’origine [].

Figura : modalità di comunicazione con la famiglia migrante per i terapisti del sottocampione

 

Alla domanda n°21 su cosa riterrebbe più utile a supporto della presa in carico del bambino migrante, la maggior parte dei partecipanti (9 su 24, ossia il 37,5%) manifesta la necessità di avere a disposizione un mediatore culturale nei momenti di maggior necessità (inizio, somministrazione di test, definizione degli obbiettivi, restituzione etc.). 8 partecipanti (il 33,33%) sostengono sia importante anche avere a disposizione delle brochures sulle diverse disabilità tradotte in varie lingue da consegnare alle famiglie all'occorrenza. 4 partecipanti (il 16.67%) appoggiano l’idea di avere prima della presa in carico, la possibilità di consultare informazioni rilevanti sulla cultura di appartenenza, sulle cure parentali e sul relativo sistema sanitario del paese d'origine. 2 partecipanti (il 8,33%) ritengono utile l’avere a disposizione un traduttore vocale con riconoscimento della lingua (es. nei casi di analfabetismo). Infine, solo 1 partecipante (il 4,16%) pensa sia vantaggioso avere a disposizione delle tavole comunicative tradotte nella lingua del bambino con i termini principalmente usati durante le sedute (es. giochi, parti del corpo, verbi etc.) [].

Figura : proposte utili nella presa in carico del paziente migrante secondo i terapisti del sottocampione

 

In risposta alla domanda aperta n°22 è stata suggerita una puntualizzazione sulle brochures che, oltre a trattare il tema della disabilità in senso stretto, potrebbero lasciare informazioni come “guida pratica alla presa in carico" del bambino, specificando chi sono le figure professionali coinvolte, come funziona il trattamento, quali sono i macro obiettivi, sottolineando l'importanza dell'aderenza terapeutica e la rilevanza della compliance familiare.

Alla domanda aperta n°23 nessun episodio inerente all’esperienza personale è stato riportato.

    1. Discussione

 

In questo lavoro di tesi è stato indagato quanto il fattore culturale incida sulla presa in carico del bambino migrante, se vi siano differenze da quella del bambino italiano e quanto le caratteristiche descrittive dei TNPEE (anni di esperienza, formazione interculturale) e quelle dei pazienti migranti (tipo di diagnosi, fascia di età, Paese d’origine) abbiano potuto in qualche modo, influire sulle percezioni e sulle difficoltà dichiarate dagli intervistati. Attraverso questa tesi si è cercato anche di individuare possibili strategie per un miglioramento sia all’interno dell’ambiente lavorativo dei TNPEE sia nella presa in carico del paziente migrante e della sua famiglia.

A seguito dell’analisi svolta possiamo osservare alcuni punti sovrapponibili emersi sia dal campione che dal sottocampione, fondamentali per la presa in carico del paziente migrante: entrambi i gruppi individuano difficoltà legate alla gestione del paziente straniero e della famiglia rispetto al paziente italiano.

Ulteriori considerazioni sono emerse dal confronto tra le risposte del sottogruppo al questionario con i dati forniti dalla direzione sanitaria dell’IRCCS Stella Maris.

Seguendo l’ordine delle domande del questionario, innanzitutto si nota come la percezione più forte sia quella di un aumento dei pazienti migranti soprattutto stanziali, il che è abbastanza in linea con il panorama italiano degli ultimi anni. Anche all’interno della Stella Maris è registrato un notevole aumento percentuale dei pazienti migranti dal 2021 al 2023 seppur il numero effettivo dei bambini stranieri rispetto al numero dei pazienti totali sia sempre rimasto al di sotto dell’1,2%. Questo dato così basso rispetto alle risposte raccolte nel sottogruppo ci fa presumere che la presa in carico del paziente migrante venga percepita maggiormente dai TNPEE.

Per quanto riguarda i vari continenti di origine invece, le risposte dei TNPEE risultano paragonabili fra i due campioni segnalando una percezione comune del numero di pazienti maggiormente provenienti dal continente Africano. Il dato del sottocampione in realtà si discosta da quelli che sono i dati reali raccolti dalla direzione sanitaria che confermano i paesi europei non appartenenti all’UE al primo posto []; si può ipotizzare che questo sia legato ad una percezione maggiore della differenza culturale e somatica.

Terapisti del sottocampione

Direzione sanitaria dell’IRCCS Stella Maris

Terapisti del campione

 

 

Figura : principali continenti d'origine secondo i dati della direzione sanitaria; terapisti del campione; terapisti del sottocampione

 

Per quanto riguarda le fasce di età in cui rientra la maggior parte dei pazienti stranieri si può osservare una netta differenza tra i risultati del questionario ed i dati della direzione sanitaria della Stella Maris che confermano la maggior parte dei pazienti migranti in fascia >11 anni. Questo risultato è comprensibile, considerato che, secondo i dati della direzione sanitaria, tra le patologie più frequenti negli adolescenti migranti ci siano per lo più condizioni cliniche trattate in un reparto nel quale non è presente la figura del TNPEE.

Osservando quali fossero le diagnosi principali tra i bambini stranieri secondo i TNPEE, si è osservata una differenza tra le patologie trattate nelle diverse strutture: le patologie più frequentemente trattate dai TNPEE della Stella Maris sono le paralisi cerebrali infantili mentre sul territorio è il disturbo dello spettro autistico. Secondo i dati della direzione sanitaria, i pazienti presi in carico presso la struttura presentano prevalentemente quadri di psicosi, confermando i dati trovati in letteratura riguardo all’effetto della migrazione. Questo dato non coincide con i risultati dei TNPEE dell’IRCCS Stella Maris, inquanto, anche in questo caso, questa patologia viene prevalentemente trattata in reparti in cui la figura del terapista è assente.

Riguardo alla gestione del paziente migrante, si sottolinea come siano state ottenute risposte sovrapponibili tra campione e sottocampione:

  • Più dell’82% dei TNPEE ha avuto maggiori difficoltà nella presa in carico dei pazienti migranti rispetto a quelli italiani;
  • Oltre il 70% dei TNPEE dichiara di aver avuto difficoltà nel far comprendere la disabilità alla famiglia migrante;
  • Più del 55% dei TNPEE dice di aver avuto difficoltà nel far capire l’importanza della presa in carico alla famiglia migrante;
  • Oltre il 68% dei TNPEE sostiene di aver avuto maggiori problemi con la compliance della famiglia migrante rispetto a quella italiana.

 

Si è ulteriormente andato a controllare tra i TNPEE che avevano segnalato difficoltà nella relazione con la famiglia, quanti avessero ricevuto formazione in campo interculturale per vedere se questo dato fosse stato influente nella relazione. Paradossalmente la maggior parte dei partecipanti che aveva avuto esperienza in campo interculturale aveva anche segnalato più difficoltà nella relazione e comunicazione con la famiglia, ma principalmente, i terapisti che avevano riscontrato questa problematica non avevano mai avuto esperienza nell’ambito dell’intercultura, dato che fa riflettere sull’importanza della formazione in questo settore.

Per quanto riguarda invece coloro che avevano segnalato più problemi nella relazione e comunicazione col bambino, si è pensato che questo potesse essere legato all’inesperienza lavorativa. Già in un altro lavoro di tesi precedente a questo, in cui si indagava attraverso un questionario per TNPEE sulla presa in carico dei pazienti stranieri, era emerso che il fattore esperienziale per i terapisti appena inseriti in ambito lavorativo impattava nella relazione con i soggetti stranieri [5]. Si sono quindi, andati a controllare gli anni di lavoro per ogni TNPEE che aveva avuto questa difficoltà, senza riscontrare differenze legate al fattore esperienziale.

Secondo i valori percentuali da noi ottenuti, i problemi nella relazione e comunicazione con il bambino straniero potrebbero essere in parte dovuti all’inesperienza in campo interculturale.

Ad ogni modo, la difficoltà nella relazione con il paziente migrante è stata ammessa da una minima percentuale di TNPEE rispetto alle altre difficoltà, questo probabilmente è dato dal fatto che, all’interno del nostro lavoro, la comunicazione con il bambino si basi in larga parte sull’aspetto non verbale.

Indagando le patologie prevalenti nei pazienti migranti in carico ai TNPEE che hanno riscontrato difficoltà nel far comprendere la diagnosi alla famiglia, è emerso che le più diagnosticate siano il disturbo dello spettro autistico, segue la diagnosi di disturbo da deficit dell’attenzione, iperattività e impulsività e per finire il disturbo della regolazione, diagnosi che, secondo la letteratura, in tante regioni del mondo, non vengono ancora riconosciute come stati patologici, e che quindi, possono risultare effettivamente difficili da comprendere ai genitori migranti originari di quelle zone.

A tal proposito si è voluto indagare anche sull’origine dei pazienti migranti in carico ai terapisti che avevano riscontrato problemi nel far comprendere la diagnosi alla famiglia, ed è stato visto che oltre la metà di questi TNPEE lavora principalmente con pazienti originari dall’Africa e più di 1/3 dei TNPEE anche con pazienti di origine Asiatica, continenti con mentalità e approccio clinico molto differenti dai nostri. Si ipotizza quindi, che tale difficoltà sia in parte legata alle grandi differenze culturali tra il nostro paese e quello di origine dei pazienti.

Si è notato ulteriormente che quasi 1/3 dei TNPEE aveva avuto difficoltà legate ad incomprensioni culturali con le famiglie migranti e si è andato dunque, a controllare se questi terapisti usufruissero in genere dell’aiuto del mediatore. Meno della metà dei TNPEE è solita richiedere il supporto di questa figura ma, dato che non si è avuto modo di sapere quante volte e in che occasioni il mediatore sia stato consultato, non è stato possibile rilevare la connessione tra questo fattore e la difficoltà effettiva.

Tra le varie proposte che sono state ritenute più utili nella presa in carico del bambino migrante, la maggior parte dei terapisti sente la necessità di un mediatore culturale. Sia nel territorio che all’interno della Stella Maris è stato considerato utile anche l’uso di brochures da fornire alle famiglie migranti, con spiegazione delle diverse patologie nelle varie lingue d’origine. Per entrambi i gruppi sarebbe ulteriormente vantaggioso avere a disposizione informazioni utili sulla cultura di appartenenza del bambino prima dell’avvio della presa in carico.

 

    1. Conclusioni

 

Dai risultati ottenuti, dalle problematiche emerse e dalle percezioni raccolte, sono nati alcuni spunti da cui partire per modificare in positivo, sia il nostro lavoro (e il benessere a livello professionale) sia il livello di assistenza fornita, con l’obiettivo finale di migliorare la clinica interculturale nell’ambito delle patologie del neurosviluppo.

Uno dei prossimi obiettivi potrebbe essere quello di proseguire ed estendere il nostro lavoro ampliando il campione di TNPEE e monitorando l’evoluzione della presa in carico del paziente migrante nel tempo. Con l’aumentare della casistica, potrebbe essere interessante utilizzare un’analisi statistica che prenda in considerazione alcuni fattori quali: la diversità dei percorsi lavorativi, le competenze interculturali acquisite in ambito formativo, le differenze nella presa in carico di pazienti di origine differente e le diverse generazioni di migranti.

Un altro spunto per quanto riguarda il questionario, potrebbe essere quello di riadattarlo alle altre figure professionali all’interno dell’equipe multidisciplinare che si occupano di disabilità del neurosviluppo in modo da avere una visione più globale dell’andamento del lavoro con i pazienti migranti.

È indispensabile evidenziare quanto l’uso del mediatore culturale sia da incentivare, proprio come sottolineato dalla maggioranza del campione indagato. La presenza di questa figura può senz’altro migliorare l’approccio con la famiglia migrante risolvendo le incomprensioni culturali che, come si è visto, possono insorgere durante la presa in carico.

Dati i problemi riscontrati nella presa in carico del paziente migrante e le difficoltà relative alle incomprensioni con la famiglia, sarebbe utile una formazione specifica interculturale. Si potrebbero proporre corsi specifici, eventi formativi, seminari o conferenze che forniscano perlomeno le nozioni teoriche alla base della clinica transculturale. Questo sarebbe una risorsa essenziale per la figura del TNPEE in quanto avere informazioni adeguate sui vari approcci alle diverse culture e sviluppare abilità aggiuntive a riguardo, sarebbe d’aiuto per rispondere prontamente ai bisogni di salute dell’utenza straniera sempre più in aumento. Questo rappresenterebbe comunque solo un punto di partenza per un approccio interculturale globale.

Per ampliare ulteriormente le nostre conoscenze, si potrebbe sviluppare una rete di relazioni tra terapisti esercitanti in diverse regioni d’Italia e in altri Paesi del mondo in modo da confrontare le diverse esperienze lavorative arricchendo la ricerca nel campo dell’intercultura.

In futuro sarebbe auspicabile avviare lo sviluppo di una piattaforma digitale con file sulle diverse disabilità traducibili istantaneamente in varie lingue del mondo e stampabili in formato brochures da consegnare alle famiglie migranti che hanno difficoltà ad interpretare la diagnosi e bisogno di più tempo per comprendere la disabilità dei propri figli. Una parte della Brochure potrebbe essere dedicata alla spiegazione del percorso terapeutico e delle figure coinvolte nella presa in carico del bambino.

Date le problematiche riscontrate dai TNPEE nella somministrazione dei test valutativi e osservato anche in letteratura, come sia facile ricadere in errori di valutazione, sarebbe opportuno revisionare alcuni test e scale di sviluppo per assicurarsi che questi siano inclusivi e non richiedano conoscenza specifica della cultura del nostro Paese o esaminino atteggiamenti e modi di fare esclusivi della nostra cultura (es: modificare i questionari in cui viene chiesto se il bambino mangia con la forchetta, nei casi in cui questa non venga usata generalmente nella cultura della famiglia straniera) sostituendo eventualmente le richieste con item che non dipendano né dalla cultura di appartenenza né da quella dal paese ospitante.

Per ampliare la ricerca e migliorare i servizi offerti alle famiglie migranti si potrebbe creare un altro questionario da somministrare in parallelo ai genitori stranieri: tale strumento dovrebbe indagare le percezioni dei genitori in merito al contratto terapeutico e alla sua chiarezza. Altri elementi importanti da catturare potrebbero essere la storia migratoria, il livello dell’integrazione nel nuovo paese e la conoscenza del nostro sistema sanitario e delle figure professionali al suo interno. Il punto focale sarebbe quello di valutare quanto sia presente la consapevolezza e la conoscenza della disabilità. Queste sono solo alcune proposte che potrebbero aiutare a comprendere meglio le problematiche riscontrate in questo studio ed avere dei feedback significativi sulla visione e sulle percezioni dei pazienti stranieri.

Una proposta importante sarebbe quella di inserire la figura del TNPEE in tutti i centri di accoglienza straordinaria, nelle case famiglia ed in tutti quei luoghi che si fanno carico dei bambini migranti in condizioni di irregolarità, per tutte quelle famiglie che, in attesa del permesso di soggiorno o dell’asilo politico, non possono accedere ai servizi necessari, agli ausili e agli spazi adatti ai loro bambini. Perché? Perché anche se prima della partenza il bambino può essere in salute e senza alcuna patologia, abbiamo visto che la migrazione, in quanto evento traumatico, comporti diverse conseguenze sui piccoli migranti a partire dalla malnutrizione e dalle complicazioni psicologiche che possono presentarsi. Questo non esclude ovviamente l’eventualità che possano anche arrivare nel nostro Paese bambini con patologie già diagnosticate o disabilità non ancora riconosciute, che quindi necessiterebbero di cure particolari e percorsi di integrazioni differenti e più specifici. In un’ottica del genere, il TNPEE potrebbe lavorare in equipe con l’assistente sociale affiancandolo nella valutazione dello stato della famiglia migrante. Instaurando un’interazione di tipo ludico, infatti, il TNPEE crea un ambiente sicuro in cui il bambino può rasserenarsi ed esprimersi. In questo contesto, attraverso l’osservazione del gioco, il terapista può cogliere certi aspetti del vissuto personale del bambino e arricchire le informazioni riguardo la storia di migrazione e la situazione familiare. Sarebbe bello inoltre, non che interessante a livello di prevenzione, poter accompagnare il bambino migrante nella nuova vita che lo aspetta sorvegliando il suo sviluppo neuropsicomotorio e facendolo sentire accolto nel nuovo Paese.

Infine, per un approccio interculturale completo che tenga in considerazione l’originalità di ogni paziente, anche nel lavoro del singolo terapista è necessaria l’attuazione di un piano che sia veramente personalizzato, con percorsi modellati sull’esperienza del bambino migrante. A tal proposito, ogni TNPEE potrebbe impegnarsi per modificare la proposta di gioco, integrandola con spunti provenienti da diverse culture, per esempio, con bambole di diversa carnagione, animali di tutto il mondo, passatempi di diversa provenienza, così come riportato in letteratura, per assecondare e mai limitarne l’identità culturale del bambino migrante e per stimolare l’interesse di ogni paziente verso le altre culture, il tutto senza mai perdere la propria identità culturale e le proprie conoscenze.

 

 

 

Bibliografia

 

 

 

 

 

Ringraziamenti

 

Dopo la laurea in farmacia nessuno si aspettava iniziassi un nuovo percorso di studi, a dir la verità nemmeno io! Non era “nei piani” e, ad esser sinceri, neanche ero consapevole che esistesse questo corso universitario, quando quel giorno, all’esame di accesso misi la mia preferenza! Qualche mese prima, proprio qui alla Stella Maris avevo ricevuto la diagnosi di Dislessia. Avere finalmente una risposta ai miei problemi, potergli dare un nome che non fosse “distrazione”, e riuscire a capirmi meglio, è stata una delle sensazioni più liberatorie del mondo! E quando ho riiniziato l’università e ho scoperto che la prima lezione dell’anno era tenuta proprio dal medico che mi aveva dato la diagnosi di DSA, il dott. Gasperini, ho capito che forse questa era la mia strada e che in questo modo avrei potuto aiutare gli altri a trovare le giuste strategie per superare ogni ostacolo e riuscire a farcela nella vita. Grazie professore!

È quindi qui, in questo percorso inaspettato, che, secondo me, i ringraziamenti hanno più senso.

Grazie a...

Ad Aminata, "amore mio" del Senegal, e a tutti i bimbi migranti incontrati nel mio percorso di tirocinio, per avermi ispirato e motivato a proporre il mio progetto di tesi, con la speranza che un giorno anche loro possano diventare tutto ciò che vogliono.

 

A Mareme, mia sorella acquisita, esempio di forza e coraggio, per essersi aperta con me e avermi insegnato a mantenere la calma davanti alle avversità, senza mai perdere la speranza. (A Marieme, ma belle-sœur, exemple de grande force et de courage, pour m'avoir fait confiance et m'avoir appris à rester calme face à l'adversité, sans jamais perdre espoir).

 

Alle dott. Sara e Moira, per la fiducia riposta nei miei confronti e per avermi dato ogni volta, nuovi spunti di riflessione per migliorarmi. Prometto di non deludervi!

Ai miei genitori per aver coltivato in me la curiosità verso le diverse culture, portandomi sempre in viaggio con loro!

A mio papà per avermi sempre stimolato con giochi, strumenti musicali e storie di tutto il mondo; e alla mia mamma, per avermi insegnato ad accogliere ed includere sempre tutti facendo in modo, con la sua premura, che nessuno si sentisse mai escluso; ma soprattutto, grazie ad entrambi, per avermi regalato la cosa più importante e quella mai scontata, la libertà, anche se spesso questa ci tiene distanti.

 

Ai miei nipotini, Anna e Stefano, che mi mancano ogni giorno e con cui vorrei condividere tante nuove avventure in giro per il mondo per crescere insieme, a mio fratello che è sempre orgoglioso di me, e a tutta la mia colorata famiglia che mi ama e mi supporta anche a distanza.

 

Ad Hajar, per avermi aiutato e ispirato con le sue parole e la sua esperienza, perchè a volte, con i piccoli gesti, si possono apportare grandi cambiamenti!

 

A Giulia, Fede, Noe, Ilaria e Diletta, le mie amiche più care, per avermi sempre spinto a seguire il mio cuore anche quando tutto il resto del mondo voleva altro da me. Siete state nutrimento per la mia anima!

 

Ad Alessandro, per ascoltarmi sempre e sopportarmi in tutte le mie sfumature. Il tuo orgoglio verso di me mi motiva ogni giorno ad essere migliore.

 

A Jaffar, a Gabriele e ad Alex, amici sinceri, che hanno sempre tifato per me e con cui mi sono sempre potuta confrontare sui giochi e sulla vita, ritrovando ogni volta tanta complicità e sincerità!

 

Agli amici di S’Avanzada, perchè il vostro affetto incondizionato e il vostro coraggio è stato da esempio per spingermi a cambiare la mia vita. Vi devo tanto!

Alle persone meravigliose conosciute in Tanzania e in ogni mio viaggio, per avermi aperto gli occhi su tanti aspetti della realtà, per avermi insegnato che non si cresce tutti allo stesso modo, ma che si può diventare grandi insieme.

 

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