La selettività alimentare in bambini con Disturbo dello Spettro Autistico: caratteristiche e impatto sullo stress genitoriale
PARTE PRIMA - Inquadramento teorico
Il Disturbo dello Spettro Autistico
- La selettività alimentare nei bambini normotipici
- La selettività alimentare nei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico
Il Disturbo dello Spettro Autistico
Il termine Disturbo dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorder) indica un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da un deficit persistente nella comunicazione e nell’interazione sociale in molteplici contesti di vita e da interessi, comportamenti e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati. L’esordio è precoce nell’infanzia e i sintomi sono tali da portare alterazioni significative nello sviluppo del soggetto e nel suo funzionamento nella vita quotidiana. La parola “spettro” denota una significativa variabilità all’interno di tale categoria diagnostica e sottolinea come l’espressione clinica dell’ASD si presenti in modo estremamente mutevole, in termini di complessità e di severità, in relazione al tempo, a fattori personali e a elementi ambientali e sociali.
Inquadramento diagnostico
Con l’ultima revisione del Manuale Statistico e Diagnostico che ha portato alla pubblicazione del DSM-51, è stata introdotta l’etichetta diagnostica “Disturbo dello Spettro Autistico”, che include le sottocategorie cliniche dei “Disturbi Pervasivi dello Sviluppo” di Sindrome di Asperger, Disturbo disintegrativo della fanciullezza, Disturbo autistico e il Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato presenti nella precedente versione DSM-IV. La quinta versione del DSM ha portato infatti all’eliminazione di tali etichette diagnostiche inquadrando le loro caratteristiche fenotipiche in un unico grande ombrello diagnostico. La sindrome di Rett, che pure rientrava nella famiglia dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, invece ha trovato dignità diagnostica a sé stante, a fronte del suo decorso degenerativo ed eziologia su base genetica specifica e neurologica.
Con il DSM-5 (APA, 2013) si è approdati alla novità terminologica della parola “spettro”, per evidenziare l’eterogeneità e la vasta casistica clinico- sintomatologica del disturbo che rientra nel medesimo denominatore comune della patologia, all’interno della quale ogni individuo presenta le proprie caratteristiche e specificità. La mancata accuratezza di inquadramento delle precedenti sottocategorie diagnostiche vigenti, ha portato infatti a porre maggiore attenzione scientifica e clinica all’espressione fenotipica dei disturbi più che alle categorie diagnostiche in cui collocarli.
Con la revisione, sono inoltre stati modificati parzialmente i criteri diagnostici per l’ASD, affermando la necessità per fare diagnosi di autismo di individuare la presenza di deficit persistenti nella comunicazione sociale e nell'interazione sociale, che si manifestino con:
- deficit nella reciprocità socio-emotiva;
- deficit nella comunicazione non verbale;
- deficit nel comprendere, sviluppare e nel mantenere relazioni sociali appropriate al livello di sviluppo.
Il secondo criterio diagnostico definito dal manuale è inoltre la presenza di un pattern ristretto e ripetitivo di comportamenti, interessi o attività, che si manifesti in almeno due delle seguenti modalità:
- eloquio, movimenti o uso degli oggetti stereotipato o ripetitivo
- eccessiva aderenza a routine, pattern ritualizzati di comportamenti verbali o non verbali, eccessiva resistenza al cambiamento (sameness) o domande ripetitive;
- interessi altamente ristretti, perseverativi e fissi, atipici per intensità o per focalizzazione, forte attaccamento o preoccupazione per oggetti insoliti;
- iper o ipo reattività a input sensoriali o interessi atipici per aspetti sensoriali dell’ambiente.
Secondo la nuova definizione diagnostica tali sintomi devono limitare e compromettere il funzionamento quotidiano in vari contesti, essere presenti nel periodo precoce di sviluppo e non devono essere meglio spiegati da disabilità intellettiva o ritardo globale di sviluppo. Il DSM-5 (APA, 2013) inoltre, grazie all’introduzione di precisi specificatori, permette di approfondire la fenomenologia clinica del disturbo descrivendone alcune caratteristiche aggiuntive, come la presenza o assenza di una compromissione intellettiva associata, la presenza o assenza di una compromissione del linguaggio associata, l’associazione a una condizione medica o genetica o a un fattore ambientale conosciuto, la presenza di un altro disturbo del neuro sviluppo, mentale o comportamentale, l’associazione alla catatonia.
Questi fattori supplementari sono fondamentali per definire la gravità (da un livello 1 che richiede poco supporto a un livello 3 che richiede molto supporto) e l’espressione fenotipica del disturbo e nel contempo sono indici predittivi del futuro andamento di vita della persona autistica in termini di autonomia e qualità di vita (Smith, Klorman e Mruzek, 2015).
In ambito clinico e descrittivo è utile poi differenziare i tipi di funzionamento dei Disturbi dello Spettro Autistico, attraverso la categorizzazione in due forme: ASD a basso funzionamento e ASD ad alto funzionamento. Nel caso in cui il funzionamento cognitivo del soggetto risulti a livello testale inferiore alla media di popolazione, si utilizza l’espressione a basso funzionamento, che descrive la presenza di un deficit cognitivo, dalla gravità variabile. Classificati come ad alto funzionamento sono invece i soggetti il cui quoziente intellettivo risulta da test specifici nella norma o superiore alla norma.
Ad oggi l’assenza o presenza di disabilità intellettiva rappresenta in ambito scientifico infatti uno dei più importanti predittori dell’outcome sintomatologico in età adulta nei soggetti con ASD (Begovac et al., 2009), oltre ad altri fattori come la presenza di comorbidità (Orinstein et al., 2014; Troyb et al., 2014, Pellecchia et al., 2015). Recenti ricerche in letteratura2 hanno evidenziato come la presenza e la storia naturale delle comorbidità siano importanti in termini di migliore efficacia nel trattamento e migliore definizione prognostica, perché le comorbidità peggiorano in modo sostanziale nel paziente, i suoi familiari e negli operatori sanitari curanti il modo di sentirsi, di comportarsi, di pensare se stessi, l’altro e la realtà, andando globalmente ad influire sulla salute presente e futura del soggetto affetto da ASD (Gillberg C. et al., 2000).
Le comorbidità con il Disturbo dello Spettro Autistico sono raggruppabili in quattro categorie: comorbidità neuropsichiatriche, comorbidità neurologiche, comorbidità genetiche e comorbidità mediche: in età prescolare e scolare sembrano emergere maggiormente disturbi comorbidi come ADHD, ansia, DOC, disabilità intellettiva, difficoltà negli apprendimenti, irritabilità e disturbi del comportamento dirompente3, mentre in adolescenza risultano prevalenti i disturbi depressivi4.
Attualmente i dati di prevalenza sulla presenza di disturbi concomitanti all’autismo variano molto a seconda del contesto, del campione, delle metodologie utilizzate, dell’età, della regione geografica e del livello di funzionamento cognitivo (Havdahl et al. 2019, Lord et al., 2020), perciò risulta ancora difficile ottenere una stima esatta della presenza di comorbidità nelle persone con autismo: secondo alcune indagini epidemiologiche l’associazione ad altre patologie risulta essere compresa in un range molto ampio, tra il 9% e l’89% dei soggetti con ASD (De Micheli et al., 2012), tuttavia un recente studio ha identificato assenza di disturbi concomitanti nel campione di individui con ASD solo nel 4% dei casi (Lundström S. et al., 2015).
Prevalenza e incidenza
Una recentissima revisione sistematica di letteratura di Zeidan e colleghi5 ha esaminato gli studi sulla prevalenza dell'autismo in tutto il mondo, considerando l'impatto di fattori geografici, etnici e socioeconomici sulle stime di prevalenza in 34 Paesi; i risultati ottenuti hanno mostrato una prevalenza variabile tra 1.09/10.000 e 436/10.000, con prevalenza mediana di 100/10.000 e rapporto maschio-femmina mediano di 4,2:1. La prevalenza complessiva di ASD per bambini di età 8 anni in un recente monitoraggio del Centers for Desease Control and Prevenction (CDC)6 è stimata invece 23/1.000 , con variazioni tra 16,5/1.000 e 38,9/1.000, e con rapporto maschio-femmina che si conferma di 4,2:1.
Diversamente, le ultime linee guida fornite dall’Istituto Superiore di Sanità7 riportano una prevalenza di 10-13 casi per 10.000 per le forme classiche di autismo, mentre se si considerano tutti i disturbi dello spettro autistico la prevalenza si stima a 40-50 casi per 10.000.
Esaminando gli studi sulla prevalenza dell'autismo, emergono quindi dati ancora poco omogenei: a livello mondiale si può affermare che a circa 1 bambino su 100 viene diagnosticato il Disturbo dello Spettro Autistico; si evidenzia inoltre un aumento della prevalenza nel tempo e una variazione della stessa tra gruppi sociodemografici. Questi risultati riflettono da un lato i cambiamenti nella definizione diagnostica di autismo e dall’altro le differenze nella metodologia e nei contesti degli studi di prevalenza. Le stime sono leggermente più elevate nei Paesi ad alto reddito e si accumulano prove in ambito scientifico che la variazione della prevalenza rifletta le disparità legate a un'ampia categoria di variabili sociali incluse quelle demografiche, etniche e socioeconomiche, la diversa possibilità di fare diagnosi di ASD tra stati differenti, la mancanza di dati statistici nei Paesi a basso reddito, la variabilità delle metodologie diagnostiche, la discrepanza nella formazione del personale medico tra territori diversi, le modifiche dei criteri diagnostici e l’aumentata conoscenza del disturbo da parte della popolazione nei Paesi sviluppati.
Anche in Italia, a fronte dei dati forniti da studi epidemiologici nazionali recenti, si è rilevato negli ultimi decenni un incremento generalizzato della prevalenza di ASD: le stime di prevalenza del disturbo in Italia sono attualmente di circa 1 bambino su 77 (età compresa tra i 7 e 9 anni), con patologia presente circa 4,4 volte in più nei maschi rispetto alle femmine (Ministero della Salute della Repubblica Italiana, 2020).
La selettività alimentare
Nonostante negli ultimi decenni le problematiche legate all’alimentazione nell’età evolutiva siano state prese in maggiore considerazione in ambito di ricerca e clinico, ad oggi non esiste una definizione comune e standardizzata di selettività alimentare.
Ciò ha comportato nel passato, e comporta anche oggi, una limitazione nella possibilità di valutare tale costrutto in termini qualitativi e soprattutto quantitativi, e di confrontare i dati ottenuti dagli studi in ambito di ricerca (Bandini et al., 2010).
Attenendoci dunque a una definizione generale, per selettività alimentare si intende un’anomalia dell’alimentazione che consiste in una forte rigidità nelle scelte degli alimenti associata ad un’assunzione di un numero limitato di questi (meno di cinque cibi) e una scarsa accettazione e disponibilità ad assaggiare nuovi cibi8. Tale problematica è riferibile principalmente a due aspetti dell’alimentazione: una ristretta varietà di cibi assunti e la presenza di comportamenti disfunzionali legati ai pasti. Tali elementi si possono declinare in numerose tipologie di comportamenti o situazioni quali il rifiuto del cibo o il comportamento di piluccare i cibi, una diminuzione della varietà di alimenti e un ristretto apporto calorico. Inoltre la selettività può manifestarsi attraverso una preferenza per una tipologia di cibo consumata, rituali e comportamenti rigidi e ossessivi, problematiche legate al momento del pasto e la presenza di un regime dietetico ristretto a specifiche categorie di alimenti.
Ad oggi la categoria diagnostica che sembra meglio descrivere la selettività alimentare all’interno del DSM-5 (APA, 2013) è quella del disturbo evitante- restrittivo dell’assunzione di cibo, che si caratterizza da una limitata assunzione di cibo, associata a almeno uno dei seguenti criteri: significativa perdita i peso o mancata crescita prevista, significativo deficit nutrizionale, dipendenza da nutrizione enterale o da supplementi nutrizionali orali. All’interno di tale categoria diagnostica viene dato peso in particolare all’impatto psicosociale del disturbo, sia sulla routine familiare in associazione al distress, sia globalmente sulla qualità di vita del soggetto affetto. Si affronterà in modo più approfondito l’impatto della selettività sulla sfera familiare-sociale nel capitolo 2.2.1
“L’impatto sul contesto familiare e sociale”.
La selettività alimentare nei bambini normotipici
La letteratura scientifica è unanime nell’affermare che la selettività alimentare riguarda sia i bambini normotipici sia bambini con disturbi o alterazioni del neurosviluppo (Carruth et al, 2004; Bandini et al. 2010, Molina-López, 2021). Nello sviluppo tipico del bambino in età prescolare spesso si riscontra un atteggiamento di rifiuto verso alcuni alimenti e di preferenza verso altri cibi: si delinea così il profilo dei cosiddetti picky eaters, caratterizzati da una condotta alimentare selettiva che si risolve entro i 6 anni di età (Carruth, Skinner, 2000) e che consiste in difficoltà alimentari transitorie e intermittenti che rientrano nella fisiologia dello sviluppo in età evolutiva. La temporaneità della selettività nei bambini a sviluppo tipico infatti riflette la variazione della sensibilità gustativa che si verifica durante la crescita, che porta da una preferenza verso i sapori dolci e un rifiuto verso quelli amari ad una attenuazione della percezione di alcune sostanze, in particolare quelle amare (Engel et al., 2003; Drewnowski and Gomez- Carneros, 2000; Whissell-Buechy, 1990), che consente lo scemare dell’atteggiamento alimentare selettivo col passare del tempo.
Ad oggi non esiste una definizione universalmente accettata di alimentazione “schizzinosa”, né vi è accordo clinico e scientifico sullo strumento migliore per identificarla. Le origini del picky eating possono infatti affondare le loro radici nelle difficoltà di alimentazione precoci, nell’introduzione tardiva di cibi solidi durante lo svezzamento o nelle pressioni fatte al bambino da parte dei caregivers nel mangiare; i fattori protettivi includono la fornitura di cibi freschi e il consumo da parte dei genitori dello stesso pasto del bambino (Taylor, 2018).
La selettività alimentare nei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico
Il DSM-5 (APA, 2013) non inserisce la selettività alimentare tra i criteri diagnostici del Disturbo dello Spettro Autistico, tuttavia la difficoltà in ambito alimentare costituisce a livello clinico una delle caratteristiche fenotipiche più frequenti nei soggetti autistici9. Inoltre, per le sue caratteristiche sintomatologiche, la selettività alimentare risulta facilmente inquadrabile all’interno dei criteri diagnostici già presenti e definiti per l’ASD nel DSM-510, che appaiono per essa esplicativi: innanzitutto la presenza di interessi e comportamenti ristretti e ripetitivi, che durante il pasto spesso si esacerbano, e inoltre la presenza di un’alterazione a livello percettivo, che spesso influenza fortemente le condotte selettive.
Ad oggi le ricerche fatte in ambito scientifico11 stimano la prevalenza della selettività alimentare nell’autismo in un range compreso tra il 17% e l’83% dei bambini con ASD. Tale variabilità di risultati è attribuibile, da un lato, alle differenti metodologie di indagine utilizzate dagli studi e dall’altro lato alla mancata presenza di una definizione comune, univoca e standardizzata di selettività alimentare.
Le conseguenze della dieta selettiva nel bambino con autismo possono assumere molteplici sfaccettature: una scarsa varietà o una possibile distorsione dell'assunzione di nutrienti, una bassa assunzione di ferro e di zinco, un basso consumo di fibre alimentari associato a costipazione (Taylor et al., 2018) e ancora malnutrizione per difetto o malnutrizione per eccesso (Jen e Yan, 2010, Şengüzel et al., 2020). Sebbene non sia esacerbato il nesso di causalità, la letteratura scientifica evidenzia una possibile associazione tra autismo e disturbi gastrointestinali (Coury et al., 2012) e tra selettività alimentare e disturbi gastrointestinali (Nickolov et al., 2009; Ibrahim et al., 2009).
La differente gravità e il diverso impatto della selettività alimentare sui bambini con ASD è riconducibile in gran parte all’alterata sensorialità che caratterizza il loro funzionamento (Cemark, Curtin and Bandini, 2010); in particolare, sembrerebbe incidere sulla selettività un alterato pattern di organizzazione sensoriale gustativa e olfattiva (Bennetto, Kuschner and Hyman, 2007; Tavassoli and Baron-Cohen, 2012). Uno studio di Riccio e colleghi del 201812 ha inoltre dimostrato che il rifiuto del cibo nei bambini con ASD è mediato da una maggiore sensibilità al gusto amaro data dalla variazione del gene TAS2R38.
Ad oggi tuttavia non si è giunti in ambito scientifico a conclusioni definitive in merito all’organizzazione percettiva dei soggetti con ASD. Certo è che le abitudini alimentari selettive associate al Disturbo dello Spettro Autistico non sono derivanti da mancanza di appetito (Nadeau, 2021) e che le evidenze di letteratura sembrino attribuire comunque un ruolo rilevante della percezione nelle scelte alimentari di persone con autismo (Page, 2022), soprattutto in quanto legate alla consistenza del cibo (Williams et al., 2000) e la presentazione dei piatti (Shreck and Williams, 2006).
In secondo luogo la selettività alimentare associata all’autismo è ricollegabile all’elevata rigidità cognitiva e comportamentale che definisce il quadro del disturbo. Infatti i profili di funzionamento dei soggetti con ASD spesso sono caratterizzati da un’aderenza alla routine e eccessiva resistenza al cambiamento13, per cui anche piccole variazioni di elementi relativi pasto possono creare disagio e portare al rifiuto del cibo e a manifestazioni comportamentali disfunzionali. Infatti come evidenziato da Page e colleghi in una recentissima revisione sistematica di letteratura14 le difficoltà di alimentazione legate all'assunzione selettiva tendono ad essere positivamente associate a rigidità e comportamenti oppositivi- provocatori.
La tendenza alla sameness dei soggetti autistici con selettività alimentare, così come l’alterata sensorialità, si può ricondurre al secondo criterio diagnostico per l’ASD secondo il DSM-5 (APA, 2013), cioè la presenza di un pattern di comportamenti, interessi o attività di comportamenti ripetitivi e rigidi, e si può ritrovare nella necessità, per esempio, di utilizzare sempre gli stessi utensili, di mangiare alcuni cibi in modo molto frequente, nell’insistenza che alcuni cibi abbiano determinati packaging o marche di commercio, nella preferenza verso una tipologia di presentazione del piatto o verso il luogo dove consumare gli alimenti e ancora nell’ostinazione che non vi sia contaminazione tra cibi differenti o che il cibo sia sempre identico per aspetto, quantità, consistenza, temperatura o gusto (Schreck e Williams, 2006). E’ evidente quindi come tale profilo comportamentale influenzi fortemente il funzionamento del soggetto con ASD. Infatti da una ricerca condotta da Postorino15 sono emersi dati rilevanti sull’impatto della selettività sulla manifestazione sintomatica della patologia: lo studio, indagando le caratteristiche cliniche e comportamentali degli individui con ASD con e senza selettività alimentare associata, ha evidenziato nei questionari compilati dai genitori una sintomatologia autistica più elevata nei bambini autistici con selettività alimentare rispetto ai bambini con autismo senza selettività alimentare.
E’ bene porre attenzione al fatto che la manifestazione delle problematiche alimentari nell’autismo rischia a volte di passare in secondo piano rispetto ad altre sintomatologie caratterizzanti il disturbo e a non esser adeguatamente valutate e trattate. Inoltre ad oggi non vi è omogeneità scientifica e clinica nella valutazione della selettività alimentare nell’autismo e gli strumenti valutativi standardizzati a disposizione degli operatori sanitario-educativi sono pochi: questo compromette ulteriormente la possibilità da parte dei clinici di riconoscere e trattare in modo adeguato le difficoltà legate all’alimentazione.
L’impatto sul contesto familiare e sociale
Il pasto rappresenta il cuore della routine quotidiana familiare perché costituisce un luogo fisico e emotivo in cui avvengono scambi comunicativo-relazionali tra membri della famiglia e in cui hanno modo di svilupparsi molti aspetti fondamentali della crescita sensoriale, autonomica, neuropsicologica, affettivo- relazionale e sociale del bambino16. L’alimentazione infatti non sopperisce al semplice bisogno di nutrizione, ma assume anche valenza educativa e sociale nella misura in cui costituisce essa stessa un’esperienza in cui avvengono dinamiche di condivisione e interazione: il momento del pasto si fa teatro di imitazioni, scambi reciproci comunicativi e di affetto, di gioco ed esplorazione, di conoscenza si sé e dei propri gusti, nonché di maturazione della propria autonomia e definizione del Sé. Mangiare inoltre è un gesto profondamente intriso di tradizione e si fa veicolo di valori culturali e sociali profondi.
Partendo da questa considerazione appare evidente come una difficoltà nell’alimentazione del bambino abbia un grande impatto su tutto l’assetto familiare-sociale, soprattutto se il bambino manifesta comportamenti disfunzionali che risultano invalidanti nella gestione del pasto, poiché ciò si scontra con un substrato psicologico genitoriale e sociale spesso già fragile per la coppia genitoriale di un bambino autistico.
Il ruolo del genitore
I genitori di bambini con Disturbo dello Spettro Autistico si ritrovano a vivere dinamiche e a instaurare modelli di interazione spesso diversi con l’immaginata modalità di relazione tra se stessi e il bambino (Siegel, 2004). In prima istanza si confrontano quindi con il lutto dovuto alla discrepanza tra figlio reale e figlio immaginato, che caratterizza fortemente il momento che segue la comunicazione della diagnosi, ma che continua ad accompagnare i caregivers per tutto l’arco di vita del soggetto autistico, emergendo in vari momenti dell’esistenza del figlio, soprattutto nelle fasi di transizione e quando l’ambiente e il contesto di vita pongono nuove sfide.
L’autismo, proprio perché è caratterizzato da un’ampia variabilità di manifestazioni cliniche, conduce alla creazione di un assetto affettivo-educativo di per sé incerto ed altalenante nei caregivers, che rende ancora più faticosa l’accettazione della condizione del figlio, la riorganizzazione intrapsichica e l’elaborazione della disabilità del figlio da parte dei genitori.
La selettività alimentare dunque costituisce un ulteriore fattore di vulnerabilità per la coppia e frequentemente amplifica le sensazioni di inadeguatezza e sconforto già presenti nell’assetto psicologico del caregiver. Se il bambino ha una selettività alimentare, nei genitori spesso si ritrova anche un vissuto di angoscia di morte; tale emotività catastrofica derivante dalla percezione che il bambino non abbia un adeguato apporto nutrizionale, porta il genitore al pensiero che il comportamento alimentare del figlio possa quindi ledere alla sua salute conducendolo al deperimento e al decesso, anche in assenza di un rischio reale per il bambino. Inoltre il rifiuto del cibo o la difficoltà di alimentazione porta spesso il genitore al pensiero che il bambino rifiuti il caregiver che lo nutre.
A ciò si aggiunge il fatto che l’autismo va a colpire ciò che c’è di più spontaneo e innato nella relazione genitore-figlio, cioè l’intersoggettività e lo scambio affettivo: perciò alcuni bambini con autismo possono avere difficoltà nel trovare modalità e canali per manifestare affetto e mostrare piacere nel mangiare, nel gioco e nella relazione con il genitore, con conseguente fragilità nell’autostima e nella percezione di autoefficacia genitoriale derivante dalla difficoltà del caregiver nel trovare altri canali funzionali e validi per interagire e relazionarsi con il proprio figlio.
Partendo dall’assunto che lo sviluppo dei figli è fortemente correlato dal modo in cui i genitori li percepiscono e comunicano con loro e dalla loro capacità di stabilire comunicazioni basate sull’empatia e sul senso di sicurezza (Siegel, Hartzell, 2004), l’alimentazione è strettamente connessa anche allo spazio di relazione diadica e sociale che si crea nel momento del pasto e al di fuori di esso. Già dal primo momento in cui il bambino entra in contatto con il cibo, cioè durante l'allattamento, l’alimentazione non si presenta solo come un puro atto nutritivo, ma anche una relazione affettiva con i caregivers. Il genitore svolge un ruolo chiave nell’alimentazione del figlio primariamente perché costituisce a colui/colei che sceglie e seleziona la tipologia del cibo da presentare al bambino, ma è anche colui/colei che gestisce le modalità di svolgimento del pasto.
Il recente studio di Oz e Bayhan17 ha evidenziato come in presenza di un bambino con scarso interesse nel mangiare, i suoi genitori tendano a essere più insistenti, a usare più ricompense e ad offrire pasti speciali. Al contrario, l'alto interesse di un bambino per il cibo diminuisce la presenza di tali comportamenti dei genitori. I comportamenti disfunzionali messi in atto da bambini con selettività alimentare in risposta a tentativi di cambiare rituali del pasto o tipologia di cibo da parte dell’adulto spesso quindi portano i caregivers ad adattarsi alle richieste del figli, con forme di rinforzo che portano il bambino a imparare l’evitamento di cibi sgraditi emettendo comportamenti problema. Questo conduce, come sottolineano recenti studi, a circoli viziosi collusivi in direzione di un’alimentazione non equilibrata (Marì-Bauset et al., 2015) e a difficoltà relazionali in ambito familiare, soprattutto se la selettività è stabilizzata (Bandini et al., 2010).
E’ chiaro quindi come il comportamento dei genitori possa incidere positivamente o negativamente sul il comportamento alimentare dei bambini autistici con selettività; per questo motivo in fase valutativa, come vedremo al capitolo 2.2.4, risulta importante considerare la prospettiva genitoriale e utilizzare assessments calati anche nel contesto di vita familiare.
Lo stress genitoriale
Una delle caratteristiche più frequenti appartenente al microcosmo affettivo dei genitori nel confrontarsi con il Disturbo dello Spettro Autistico del figlio è sicuramente lo stress. Recenti studi hanno evidenziato come la maggior parte dei genitori con figli con ASD hanno aumentati livelli di disagio psicologico, in particolare di ansia18, e ottengono punteggi più alti nelle misurazioni dei livelli di stress rispetto ai genitori di bambini con sviluppo tipico19. A questo spesso si aggiungono le sfide quotidiane della cura del bambino con ASD, tra le quali la gestione dell’alimentazione del bambino, impattando ancora di più sulla la salute mentale del genitore e la capacità di gestire i bisogni del bambino e della famiglia.
Con nascita di un figlio con Disturbo dello Spettro Autistico, la coppia genitoriale si trova a dover rinunciare almeno in parte al proprio assetto di vita precedente e i sentimenti di inadeguatezza e incapacità da parte dei genitori, anche in termini di gestione del pasto, spesso rischiano di condurre alla rinuncia o limitazione della loro vita comunitaria-sociale alla ricerca di isolamento per evitare di confrontarsi con l’esterno o per fatiche e paure legate alla manifestazione della sintomatologia del bambino, soprattutto se caratterizzata da comportamenti problema.
Un recente studio di Thullen e Aaron20, ha sottolineato proprio l'importanza di affrontare le sfide dell'alimentazione legate anche ai comportamenti dirompenti durante i pasti, e farlo nel contesto della famiglia e dell'ambiente domestico. La ricerca ha valutato la qualità della co-genitorialità, lo stress genitoriale e le difficoltà di alimentazione dei bambini, evidenziando che la selettività alimentare è il tipo di comportamento alimentare problematico riportato più frequentemente dai genitori soprattutto nell’associazione a problematiche di tipo emotivo- comportamentale e che i comportamenti dirompenti del bambino durante i pasti sono correlabili alla qualità della co-genitorialità.
In tale direzione si è mossa anche una ricerca condotta nel 2020 da Zlomke21, che ha mostrato un'associazione positiva tra i problemi di alimentazione dei bambini e la preoccupazione materna per la salute dei loro figli.
Nei casi in cui si evidenzi in fase valutativa una selettività alimentare del bambino con ASD è dunque necessario individuare insieme agli operatori sanitario- educativi le strategie e le risorse più adeguate da mettere in campo, co-creando una rete di persone, servizi e risorse a sostegno della genitorialità e che conducano a un empowerment continuo dei caregivers. All’interno di una rete assistenziale integrata che preveda una cura e un’attenzione specifica non solo per il bambino ma anche per il genitore, si delinea spesso la necessità di proporre un percorso specifico di sostegno psicologico al genitore di figlio con ASD oppure offrire momenti informativi e psicoeducativi, per alleviare la sofferenza e per permettere alla famiglia di affrontare le sfide che la selettività alimentare pone in essere. Un supporto sul piano emotivo, cognitivo e pratico-gestionale in quest’ottica, può infatti prevenire o alleviare scompensi intrapsichici nel genitore e nel sistema familiare riducendo il rischio che ciò influenzi negativamente anche il funzionamento, i sintomi e le condizioni di salute del bambino stesso, innescando così una reazione a catena.
Nella panoramica di interventi per ridurre lo stress genitoriale, l’intervento più indicato è quello di parent training, che è volto a migliorare l’interazione genitore figlio al momento de pasto lavorando su antecedenti e rinforzi dei comportamenti alimentari e proponendo routine virtuose e programmi di alimentazione regolare. L’intervento è basato su evidenze scientifiche22 e coinvolge attivamente i caregivers nel percorso ri-abilitativo, rendendoli più consapevoli e competenti nella gestione del pasto del figlio, riducendo così il senso di isolamento e alimentando il loro senso di autoefficacia. Il training genitoriale mira infatti a lavorare sugli aspetti psicologici della genitorialità di accettazione della condizione del figlio e sulla riduzione dei circoli viziosi mediati dallo stress e l’emotività negativa, favorendo il benessere di tutto il nucleo familiare23.
La valutazione clinico-funzionale
La valutazione della selettività alimentare nei bambini con ASD è un elemento chiave per l’inquadramento diagnostico e per definire l’approccio terapeutico; data la sua complessità nella sua presentazione clinico-funzionale dovrebbe essere effettuata quindi tramite un approccio multidisciplinare (Sharp et al., 2012), che preveda l’integrazione di differenti prospettive e indagini da parte degli operatori medici, sanitari ed educativi (Neuropsichiatra Infantile, pediatra, logopedista, Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva, nutrizionista, psicologo, educatore, pedagogista ecc.).
Generalmente la valutazione della selettività consiste in diverse fasi: innanzitutto risulta fondamentale la raccolta di informazioni circa la storia anamnestica personale, familiare e medica, sia fisiologica sia patologica prossima e remota del bambino. Nella raccolta delle informazioni è importante inoltre indagare lo stato di nutrizione del bambino, per approfondire e delineare il suo stato di salute e di benessere in termini di fabbisogno alimentare e per individuare eventuali fattori di rischio nutrizionale che compromettano la crescita e lo sviluppo del soggetto.
E’ necessario poi effettuare uno screening medico che possa includere o escludere la presenza di problemi medici sottostanti o correlati alla selettività: in presenza di problemi gastrointestinali anche riferiti sarà necessario indirizzare la famiglia per una visita specialistica gastroenterologica. In assenza di fattori organici sarà poi necessaria un’identificazione del problema e del livello di gravità da parte dei vari operatori coinvolti nella presa in carico del paziente.
La valutazione può declinarsi nella raccolta delle informazioni circa la selettività alimentare del bambino attraverso schede di assessment generale che indaghino la rigidità comportamentale al momento del pasto, la componente sensoriale associata al rifiuto e alla selettività di cibi e ancora l’eventuale presenza e correlazione con disturbi gastrointestinali. Nella valutazione è bene inoltre porre la propria attenzione sull’indagine delle abilità adattive e autonomiche presenti nel bambino necessarie per il pasto.
Un’altra modalità per approfondire a livello clinico la selettività alimentare del bambino è l’utilizzo di un diario alimentare, cioè uno strumento non specialistico volto a indagare le abitudini e le routine alimentari del soggetto attraverso la compilazione da parte delle persone che si occupano del bambino in differenti contesti (genitori a casa, insegnanti della scuola, educatori dei centri, parenti) di una griglia nella quale inserire la quantità e tipologia di cibi consumati nell’arco della giornata. Questo strumento è molto utile per raccogliere informazione sulla varietà o ristrettezza di alimenti consumati dal bambino e per calcolare l’assunzione del bambino in termini di calorie e di micro e macro-nutrienti (Barnhill et al., 2018); solitamente viene proposto per una compilazione di 3-7 giorni.
A fronte delle limitazioni nella possibile mancata accuratezza da parte di chi compila il diario alimentare nell’indicare in modo esatto le tipologie e quantità di assunzione di cibi e la mancanza di informazioni relative ai comportamenti del bambino durante il pasto, è bene sempre accompagnare il diario alimentare anche ad un’analisi di tipo funzionale degli aspetti comportamentali24.
L’analisi funzionale infatti indaga in modo approfondito nel caratteristiche, i fattori personali e ambientali e le modalità in cui si presentano i comportamenti associati alla selettività. Tale valutazione permette di individuare gli elementi che influenzano o determinano le manifestazioni comportamentali della problematica alimentare, descrivendoli in modo oggettivo nella loro struttura e funzione, per poi permettere una manipolazione di tali variabili al fine di modificare i comportamenti del bambino stesso. Il comportamento disfunzionale osservato viene quindi scomposto nell’antecedente, comportamento e conseguenza (metodo A-B-C), consentendo di approdare all’individuazione delle componenti e dei meccanismi che lo mantengono25. Tale analisi può essere effettuata in ambiente controllato (Analisi Funzionale), ricostruita sulla base dei riferiti (Analisi Funzionale indiretta) o in ambiente naturale (Analisi Funzionale descrittiva).
Infine in ambito clinico può risultare utile utilizzare anche specifici strumenti diagnostici per ottenere maggiore completezza di informazioni e determinare se effettivamente il bambino con ASD presenta una selettività alimentare.
Ad oggi in letteratura sono stati utilizzati differenti strumenti diagnostico- valutativi per tale costrutto (Bandini et al., 2010) come checklists, interviste, surveys e soprattutto questionari, sia a livello scientifico sia nella pratica clinica. Infatti la valutazione clinico-funzionale delle difficoltà nell’alimentazione associate al Disturbo dello Spettro Autistico è un processo complesso e ancora poco uniformato sia a livello clinico sia a livello scientifico, che trova limiti nella mancanza di una definizione comune e condivisa di selettività alimentare tra studi e ricerche differenti (Bandini et al. 2010) e nella scarsità di ricerche scientifiche sul costrutto che utilizzino strumenti standardizzati e validati sulla popolazione autistica (Postorino et al., 2015).
Tale criticità, che tutt’ora sussiste nell’approccio diagnostico, vede la disponibilità di strumenti costruiti per la popolazione generale e successivamente adattati alla specifica popolazione autistica come la Behavioral Pediatrics Feeding Assessment Scale (BPFAS)26, lo Screening Tool of Feeding Problems (STEP)27, l’Eating Profile28 e l’Adult/Adolescent Sensory Profile (AASP)29 oppure strumenti costruiti ad hoc per valutare la selettività alimentare nei soggetti con ASD, che sono l’Atypical Behavior Patterns Questionnaire (ABPQ)30, il Children’s Eating Behavior Inventory (CEBI)31, il Food Preference Inventory (FPI)32, lo Youth/Adolescent Food Frequency Questionnaire (YAQ), nella sua più recente revisione del 201533, il Meals in Our Household34 e infine il Brief Autism Mealtime Behavior Inventory (BAMBI)35, che ad oggi risulta il primo strumento standardizzato usato in modo specifico per la valutazione del momento del pasto e dei comportamenti manifestati durante esso per bambini con Disturbo dello Spettro Autistico.
Dalla letteratura emerge inoltre la necessità di implementare la validazione italiana di strumenti diagnostico-valutativi affidabili per permettere un approfondimento e una quantificazione più accurata delle difficoltà di alimentazione nella popolazione autistica in età evolutiva (Postorino et al., 2015).
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Indice |
ABSTRACT – INTRODUZIONE |
N.B. Per questioni di tempi è probabile che per il momento la presente tesi sia stata inserita parzialmente o in formato immagine. Al più presto completeremo l’inserimento rispettando i canoni da noi prefissati e cioè editando direttamente il testo nei diversi articoli del portale. 29/09/2022 - Redazione web |
CONCLUSIONI |
BIBLIOGRAFIA |
Tesi di Master di: Arianna ARTIFONI |