Consapevolezza del terapista, del caregiver, autoconsapevolezza
Consapevolezza
Dopo aver “seminato” nei primi 2 capitoli, il terzo vuole rappresentare metaforicamente la "raccolta dei frutti”. Attraverso l’analisi di un unico termine, a cui siamo giunti gradualmente e che rappresenta la parola chiave del progetto, ossia “consapevolezza”, cercherò di mettere insieme i pezzi per giungere ad una visione più completa di cosa rappresenta la consapevolezza per il bambino.
Il mio percorso riguarda il mondo del bambino; parte dunque dalla consapevolezza del terapista, passando da quella del caregiver, per sottolineare l’importanza che riveste l’ambiente che lo circonda. Concluderò la mia disamina affrontando il tema della maturazione della consapevolezza nel bambino che globalmente, ma in particolare in riabilitazione, si esplica attraverso la costruzione di un’immagine di sé completa. Una visione di sé a 360° permetterà al bambino di comprendere al meglio le proprie risorse ed i propri limiti. La consapevolezza del disagio, in particolare, affrontata precocemente in un setting neuropsicomotorio, rappresenterà un elemento chiave per un’evoluzione equilibrata delle varie aree di sviluppo e acquisirà inoltre un fondamentale ruolo di prevenzione del disturbo socio-relazionale e psichico.
Del terapista
A seguito dell’ideazione del progetto, mi sono ritrovato a dover rispondere ad una serie di quesiti cui non avevo pensato inizialmente; la domanda che più mi ha messo in difficoltà è: “come posso rendere il lavoro sulla consapevolezza di sé e del proprio disagio il più possibile efficace?”.
Ovviamente, questa domanda ci offre moltissimi spunti di riflessione e apre ad interpretazioni differenti. Certamente, all’efficacia dell’intervento, concorrono una serie di aspetti che devono essere costantemente presi in considerazione, indipendentemente dal target che si vuole raggiungere in terapia neuropsicomotoria; individuare gli elementi rilevanti per ciascuna delle categorie psicomotorie attraverso l’osservazione, costruire un setting adeguato a seconda dei bisogni del bambino, utilizzare il gioco come strumento di riabilitazione, sono solo alcuni degli obiettivi trasversali del TNPEE che possono concorrere a validare l’intervento.
Facendo riferimento ai “nostri” obiettivi, relativi al progetto di tesi, cui chiaramente parlerò in modo più specifico nella seconda parte, e agli studi che la letteratura attualmente ci offre, ho potuto riflettere su un aspetto che sembra rispondere al principio dell’ovvietà ma che invece viene spesso ignorato.
Prima di poter pensare di assumere il ruolo di facilitatore, di guida nel processo che mira alla maturazione della consapevolezza del sé e del proprio disagio, attraverso la sperimentazione e gestione dei propri pensieri e dei propri stati emotivi, è necessario che il terapista faccia un passo indietro, lavorando su sé stesso. Portare ad una consapevolezza più matura il proprio “stile personale” diventa una prerogativa indispensabile, nonché garanzia di una buona riuscita del progetto, indipendentemente dalle caratteristiche specifiche dello stile personale di ognuno.
Lavorare sul proprio stile personale significa, ad esempio, conoscere il proprio ventaglio di strategie ed il proprio “alfabeto” di azione, comprendere le modalità di utilizzo del proprio corpo, gestire e padroneggiare al meglio le emozioni, al fronte delle emozioni dell’altro, …; solo in questo modo il terapista sarà in grado di modificare le modalità a seconda delle esigenze che la situazione richiede. (14) Se è vero che lo stile personale del TNPEE, si plasma continuamente attraverso la pratica, è fondamentale imparare a sperimentarlo e padroneggiarlo già durante il percorso di formazione; esso, infatti, inizia a generarsi precocemente ed è formato dalla fusione tra osservazione, esperienza, modalità di utilizzo delle categorie psicomotorie e una serie di componenti biologiche-personali innate cui è necessario portare a consapevolezza. (14)
Una recente ricerca americana affronta la questione di cui sopra, prendendo come oggetto di studio il personale medico-sanitario nella sua globalità. Secondo i ricercatori, l’indagine in questione nasce dall’esigenza di dare una spiegazione plausibile a 2 aspetti statistici differenti ma connessi, che potrebbero avere un’origine comune; questi due aspetti sono l’aumento dei casi di burnout all’interno del personale sanitario, e, parallelamente, il calo della fiducia dei pazienti nei confronti del personale stesso. Attraverso la valutazione di alcune ipotesi, gli studiosi sono giunti alla propria conclusione: medici, infermieri, operatori e, nel nostro caso, i terapisti, non sono sufficientemente abituati a lavorare su loro stessi, sulla gestione dei propri pensieri e delle proprie emozioni, sulla consapevolezza personale. Ciò fa sì che il professionista non sia in grado di fornire una risposta adeguata a livello empatico, interattivo ed emozionale e, inevitabilmente, viva quotidianamente una situazione di stress. Il professionista medico-sanitario, in quanto esperto della persona a 360°, dovrebbe globalmente differenziarsi dal resto della popolazione per la propria formazione riguardo alla consapevolezza di sé in relazione con il paziente, almeno tanto quanto è formato riguardo alle competenze tecniche strettamente legate al proprio ambito di intervento. (21)
Vi è un ultimo aspetto interessante trattato dallo studio che ci avvicina ancor di più alla nostra realtà. Indubbiamente qualcosa nel corso degli ultimi anni è stato modificato nei programmi accademici per poter rispondere a questa chiara esigenza. Tuttavia, l’attenzione è fortemente indirizzata agli strumenti che deve possedere il professionista per risolvere situazioni critiche, come la depressione del paziente o le crisi emotive dei familiari, piuttosto che sulla padronanza delle modalità con le quali far fronte in modo adeguato ai bisogni del mondo del paziente che vanno oltre il sintomo in sé.
Sarebbe più opportuno e proficuo concentrarsi dunque, a livello preventivo, sul fornire dei feedback di ritorno conformi alle manifestazioni del paziente, possibili segnali o cause di disagio, e ciò premetterebbe di ridurre le situazioni nelle quali si è costretti a trovare le modalità per risolvere e gestire le conseguenze. (21)
Il percorso di formazione del TNPEE prevede, indubbiamente più di altre facoltà medico-sanitare, alcuni studi ed esperienze atte ad approfondire la consapevolezza del sé e del proprio stile personale. Tuttavia, facendo ancora riferimento agli altri ambiti professionali, possiamo dire che il TNPEE è forse uno dei professionisti che maggiormente vede messa alla prova la propria integrità psichica, rapportandosi quotidianamente con le realtà in età evolutiva, che non comprendono solamente il bambino in sé, con le proprie esclusive esigenze, ma anche la scuola e, in particolare, i caregivers e la famiglia.
Del caregiver
Come già evidenziato in alcuni punti dello studio, il terapista, nel momento della presa in carico, deve prendere in considerazione l’intero nucleo in cui è immerso il bambino. Il bambino stesso, infatti, vive la maggior parte della quotidianità in ambienti differenti rispetto a quello di terapia (casa, scuola); questo fa sì che un progetto riabilitativo di 1/2 ore a settimana potrebbe, anzi, risulterebbe quasi sicuramente inefficace se non pensato all’interno di un lavoro integrato che presupponga delle implicazioni anche al di fuori delle mura neuropsicomotorie. Per garantire la validità di un lavoro integrato, è necessario che si crei una sorta di “equipé allargata”, formata dai genitori in primis, ma anche da medici, insegnanti, terapisti, che remano tutti dalla stessa parte verso un fine comune.
Il ruolo dei genitori, in generale, è chiaramente il più importante, ma anche il più complesso; se consideriamo nello specifico i genitori di bambini che frequentano gli ambienti riabilitativi, la complessità aumenta a dismisura. Alle difficoltà che devono quotidianamente affrontare tutti i genitori con i propri figli, infatti, si sommano una serie di ostacoli che i caregivers devono cercare di superare. Questi ostacoli possono mettere alla prova il genitore a livello pratico, organizzativo ma, soprattutto, psicologico; riconoscere il proprio figlio in quanto tale, con le sue peculiarità, le sue risorse, i suoi limiti è, indubbiamente, indispensabile, ma non sempre così scontato. La maturazione della consapevolezza del caregiver rispetto al bambino viene frenata da una serie di meccanismi psicologici potenzialmente patologici che vanno ad ostacolare, oltre al benessere dell’adulto in questione, anche il processo di individuazione e soddisfacimento dei bisogni del bambino.
Nella tabella seguente, riassumerò le diverse fasi che il caregiver sperimenta progressivamente nel processo che lo porta ad un’elaborazione del disagio del bambino (22):
> Tabella 1: effetti della malattia sul caregiver
Shock |
Stato di ansia e confusione in cui si perdono di vista le sicurezze |
Impedisce temporaneamente di reagire |
“Era come se il mondo mi fosse crollato addosso, non sapevo più dove ero e in che direzione andare” |
Negazione |
Tendenza a non riconoscere la diagnosi e/o a credere che sia errata |
Il caregiver tende a ricercare ossessivamente una seconda opinione, rivolgendosi a moltissimi centri clinici |
“Mentre il medico mi parlava, una parte di me mi ripeteva che non poteva trattarsi della verità” |
Rabbia, depressione, senso di colpa |
Meccanismi di difesa disfunzionali, che, a seconda se vengono superati o meno, possono portare a “dolore cronico” o “accettazione” |
Il caregiver può diventare molto reattivo e aggressivo, di solito verbalmente, con gli operatori |
“Mi sentivo in colpa e diversa da tutte le altre madri; ero l’unica che non aveva saputo generare un bimbo sano” |
Dolore cronico |
Radicarsi in modo stabile dei meccanismi di difesa sopra elencati |
• Stato di ansia perenne • Stress nella gestione del bambino • Isolamento sociale • Crisi conviviale |
“Ciò che abbiamo passato, è l’ultimo pensiero prima di addormentarmi ed è il primo al risveglio” |
Accettazione |
“Convivenza” con la realtà, anche se sentita come ingiusta o inaccettabile |
Il caregiver si allontana dal mondo fantasticato, per riconoscere e accettare il bambino reale, traendone affetto e gioia nella relazione |
“Riconosco e sostengo mio figlio così com’è, non come poteva essere” |
Ritengo che la questione emersa nelle righe precedenti sia uno degli aspetti maggiormente ignorati, considerando le forti implicazioni che può avere sia nel bambino che nel caregiver. Detto questo, sempre limitandosi al proprio campo di applicazione, è fondamentale che il TNPEE possa fungere da facilitatore per il caregiver, attraverso il proprio agire con il bambino. La condivisione degli obiettivi e delle strategie del progetto, l’ascolto e la comprensione di questioni affrontate dal genitore, la costruzione di un rapporto di fiducia reciproco sono alcuni dei passi necessari sulla strada verso l’alleanza terapeutica.
Autoconsapevolezza
Il nostro lungo percorso si conclude con questo paragrafo, a cui potevamo giungere solo dopo una disamina approfondita alle spalle. Siamo partiti dal mondo delle cognizioni, siamo passati per quello delle emozioni, fino a svelare la parola chiave, la consapevolezza, riferendoci a terapista e caregiver. Il compimento dello studio riguarda la consapevolezza del sé o, come la identifica Goleman, l’autoconsapevolezza. L’individuo autoconsapevole è in grado di allargare il focus della propria azione, ampliando il più possibile l’insieme delle informazioni personali (pensieri, reazioni emotive, modalità) che può analizzare.
L’accettazione ed il controllo del sé gli consentono di gestire serenamente la propria esteriorità, e, soprattutto, la propria vita interiore, adottando le strategie adeguate anche di fronte a imprevisti inaspettati o situazioni negative e difficili. (23)
Si tratta di un concetto molto complesso da elaborare, soprattutto in un periodo di sviluppo precoce, a cui possiamo pervenire solo attraverso un lavoro indiretto. Il nostro mandato non sarà dunque quello di introiettare nel bambino nozioni, strategie, per dare una risposta alle sue domande, ma di mettere il bambino stesso nelle condizioni in cui possa trovare spontaneamente le proprie soluzioni, le proprie risposte. Appartiene a noi il compito di predisporre delle situazioni stimolanti e rassicuranti, attraverso l’utilizzo degli strumenti di lavoro a cui normalmente ci affidiamo e che ci caratterizzano in quanto TNPEE, gioco in primis. Solo con queste modalità il bambino potrà sentirsi “autorizzato” a mettersi a nudo di fronte agli altri bambini, al terapista ma, soprattutto, a sé stesso.
Se parliamo poi di consapevolezza del proprio disagio, la questione si infittisce ulteriormente. Il bambino della scuola primaria, con buone risorse a livello cognitivo ma anche emozionale, inizierà a comprendere le modalità, le situazioni che lo portano ad essere in difficoltà, che si tratti di difficoltà di apprendimento, disturbi sociali e/o di relazione, patologie motorie non fa differenza, attraverso la sperimentazione quotidiana di questo vissuto. Vi è pero’ molta discrepanza tra la percezione, l’individuazione, la comprensione e la successiva consapevolezza del disagio.
Accompagnare il bambino nel processo che gli consentirà di giungere ad una consapevolezza costruttiva, che riduca questa discrepanza, sarà fondamentale anche per allontanarlo da tutte quelle deviazioni lo porterebbero successivamente ad acquisire una consapevolezza “patologica”, fonte di ulteriore disagio e ostacolo per uno sviluppo che vuole essere il più possibile armonico.
Indice |
INTRODUZIONE |
Parte prima: Inquadramento bibliografico
Parte seconda: dalla teoria alla pratica |
BIBLIOGRAFIA |
Tesi di Laurea di: Filippo PAJARIN |