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Mio figlio presenta disturbi nell'area della NEURO e PSICOMOTRICITÀ - Che cosa devo fare?

Autismo: Screening, Diagnosi Precoce e Valutazione del Terapista della Neuropsicomotricità per un Intervento Completo

 

CAPITOLO 1: I DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

CAPITOLO 2: L’IMPORTANZA DELLO SCREENING E DELLA DIAGNOSI PRECOCE

CAPITOLO 3: IL RUOLO DEL TNPEE NELLA VALUTAZIONE E PRESA IN CARICO DEL PAZIENTE CON DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO

INDICE PRINCIPALE

CAPITOLO 1: I DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

Definizione ed incidenza

Con Disturbo dello Spettro Autistico (in inglese Autism Spectrum Disorder ASD) intendiamo una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, con esordio nei primi 3 anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative alla comunicazione sociale, all’interazione sociale reciproca e al gioco funzionale e simbolico (ISS-SNLG, 2011). Tale disturbo si presenta come una disabilità permanente che accompagna il paziente in tutto l’arco della sua vita; tuttavia, le caratteristiche del quadro e la sintomatologia possono variare nel tempo.

Il Disturbo dello Spettro Autistico rientra a far parte dei Disturbi del Neurosviluppo: un gruppo di condizioni eterogenee con esordio nel periodo dello sviluppo caratterizzati da una compromissione dello sviluppo ed una compromissione del funzionamento sociale, personale, scolastico e/o lavorativo. Oltre al Disturbo dello Spettro Autistico (ASD), all’interno dei Disturbi del Neurosviluppo rientrano anche: le Disabilità Intellettive (DI), i Disturbi della Comunicazione, il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (conosciuto con l’acronimo ADHD), i Disturbi Specifici dell’Apprendimento e i Disturbi del movimento.

Ad oggi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che il Disturbo dello Spettro Autistico abbia una prevalenza dello 0.76% e sia riscontrato in 10 casi ogni 10000 persone, anche se l’incidenza sembra essere destinata ad aumentare nei prossimi anni. Dai recenti studi si può evincere che non abbiamo una prevalenza di etnia o di area geografica in quanto il disturbo è stato individuato in tutte le popolazioni del mondo delle diverse aree geografiche con diversi tassi di incidenza; ciò che colpisce è invece la prevalenza di sesso: l’autismo sembra interessare maggiormente gli individui di sesso maschile rispetto a quelli di sesso femminile in un rapporto di 3:1 (Loomes R, Hull L, Mandy WP, 2017).

Questi dati, confrontati con quelli raccolti nel passato da altri autori (Fombonne, 2003; Yeargin-Allsopp et al., 2003) riportano un incremento dei casi di autismo di 3-4 volte maggiore rispetto a 30 anni fa. L’aumento dei casi potrebbe essere dovuto ad una serie di fattori riconosciuti, tra cui una definizione maggiore dei criteri diagnostici, una maggiore formazione dei professionisti sanitari sulle procedure e strumenti standardizzati per la diagnosi, un’aumentata sensibilizzazione dei clinici e della popolazione generale sul tema e una più vasta rete di servizi offerti ai pazienti con diagnosi di tale disturbo (servizi che purtroppo sembrano ancora non essere sufficienti per numero e per qualità).

FIGURA 1: Prevalenza autismo ogni 10˙000 abitanti dal 2012 al 2021

FIGURA 1: Prevalenza autismo ogni 10˙000 abitanti dal 2012 al 2021

INDICE

Origine e Storia

Il termine “autismo” deriva dal greco “αὐτός” e significa “ripiegamento verso il sè”. Questo termine fu inizialmente usato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuer nel 1911 per descrivere “il ritiro attivo della fantasia tipico dei pazienti affetti da schizofrenia”. In prima battuta quindi il termine autismo non fu usato per indicare un disturbo o una patologia, bensì per indicare uno dei sintomi tipici della schizofrenia. La prima descrizione di “autismo infantile” si deve invece a Leo Kanner che nel 1943 condusse uno studio attento su un campione di 11 bambini tra i due e i dieci anni che mostravano sintomi di una sindrome non ancora conosciuta. Tra i sintomi individuati da Kanner troviamo:

l’incapacità, presente sin dall’inizio della loro vita, di mettersi in contatto con gli altri e con le situazioni secondo il modo consueto, e un desiderio ansioso e ossessivo di mantenere inalterato il proprio ambiente e le proprie abitudini di vita.”

Sempre nello stesso periodo (1944), il pediatra austriaco Hans Asperger descrisse casi simili a quelli descritti da Kanner in precedenza utilizzando la terminologia “psicopatia autistica”. A differenza di Kanner però, i pazienti studiati da Asperger presentavano sintomi lievi e una minore o addirittura assente compromissione cognitiva. Ad oggi il quadro descritto da Asperger è meglio noto come Sindrome di Asperger.

Molti sono stati gli studiosi che nel corso degli anni si sono dedicati allo studio e alla definizione di questo disturbo; tra questi ritroviamo Rimland che lavorò per creare una prima lista di controllo per i sintomi principali dell’autismo e arrivò a definire l’autismo come un concetto a sé e non come una prima manifestazione della schizofrenia. Qualche anno più tardi, nel 1978, Rutter riprese la definizione di autismo dandone una nuova visione: l’autore incluse nella definizione anche abilità sociali e linguistiche ritardate o deviate dal livello di sviluppo generale unite ad interessi e comportamenti ristretti e ripetitivi con esordio nelle fasi precoci di vita del paziente. Negli anni ‘70 ci furono grandi sviluppi nella diagnosi psichiatrica e nell’autismo: grazie agli studi avviati sulla fenomenologia e sull’età di esordio si abbandonò gradualmente l’idea dell’origine psicogena (dando meno valore anche alla teoria dell’autismo come causa delle “madri frigorifero” di Bettelheim) e si diede più supporto all’origine biologica. Grazie a queste nuove osservazioni si decise di includere per la prima volta l’autismo come categoria diagnostica all’interno del DSM-III (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) del 1980 con la dicitura di “autismo infantile”, facendolo rientrare sotto la grande classe dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (PDD). Ben presto però si segnalarono le prime importanti problematiche: la poca flessibilità dei criteri e la ridotta prospettiva evolutiva della diagnosi resero rapidamente necessaria una rivisitazione al manuale. Nel 1987 venne pubblicato il DSM-III-Revised e il termine “autismo infantile” fu sostituito con il termine “disturbo autistico” ad indicare l’aspetto evolutivo e l’interessamento del disturbo di tutte le fasi della vita dell’individuo, da quella infantile a quella adulta. All’interno del manuale furono individuati e descritti 16 criteri diagnostici suddivisi in tre domini di disfunzione:

  1. menomazioni qualitative nell'interazione sociale reciproca
  2. menomazioni nella comunicazione
  3. interessi ristretti, resistenza al cambiamento, ripetitività nei movimenti

Per effettuare diagnosi di disturbo autistico era necessario vedere soddisfatti un totale di otto criteri: due nel dominio dell’interazione sociale e almeno uno nei restanti domini; per i disturbi che non soddisfacevano tutti i criteri richiesti ma solo alcuni venne introdotta una nuova categoria: il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (NOS).

Mentre negli Stati Uniti veniva pubblicato il DSM-III-R, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) pubblicava la Classificazione Internazionale delle Malattie ICD-10 che ammetteva altri disturbi quali la Sindrome di Rett, la Sindrome di Asperger e il Disturbo Disintegrativo dell’Infanzia. Le diverse opinioni sull’inquadramento del disturbo minacciarono le collaborazioni tecniche-scientifiche tra i diversi stati e si rese necessario trovare un accordo sugli standard diagnostici. A questo seguì un periodo di revisione e nel 1994 venne pubblicato il DSM-IV: all’interno della quarta edizione si decise di inserire in modo semplificato i criteri dell’ICD-10, di mantenere il modello della diagnosi basato sui tre domini di disfunzione ma di ridurre il numero dei criteri. In aggiunta venne poi inserita separatamente la diagnosi di Sindrome di Asperger. Salirono così a cinque il numero dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo all’interno del DSM-IV:

  1. Disturbo Autistico,
  2. Sindrome di Asperger,
  3. Sindrome di Rett,
  4. Disturbo Disintegrativo dell’infanzia,
  5. Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (NOS).

Nonostante le continue revisioni e modifiche, era presente ancora una grande variabilità fenotipica e di gravità fra i vari quadri clinici appartenenti allo stesso sottogruppo ma anche tra sottogruppi diversi nonché una scarsa predizione evolutiva delle varie sottocategorie. Nel 2013 venne pubblicato il DSM-5 che portò un importante cambiamento nella concezione e nella diagnosi del disturbo autistico. La prima grande novità fu il passaggio da una diagnosi categoriale ad una dimensionale: le varie condizioni non erano da intendersi come a sé stanti ma come condizioni all’interno di un’unica dimensione diagnostica. Si introdusse così il termine Disturbo dello Spettro Autistico (ASD). Seconda grande novità fu il passaggio da un modello a tre categorie diagnostiche (triade) ad un modello con due categorie (diade), raggruppando le menomazioni dell’interazioni sociali e della comunicazione in un unico dominio e mantenendo separato il dominio degli interessi e/o comportamenti ristretti e ripetitivi. Ultima grande novità fu l’introduzione dei livelli di gravità del quadro, basati sul funzionamento dell’individuo, sulla presenza o meno di altre condizioni mediche, cliniche, psichiatriche all’interno del quadro e sul livello di assistenza che il paziente necessita.

Tali cambiamenti apportati all’interno del DSM-5, non sono certamente stati risparmiati dalle critiche della comunità scientifica e delle famiglie dei pazienti autistici ma sono certamente apprezzabili per la maggiore specificità e sensibilità che hanno portato alla diagnosi e all’approccio al Disturbo dello Spettro Autistico.

INDICE

Cause e fattori di rischio

Il disturbo dello Spettro Autistico si configura come un disturbo ad eziologia multifattoriale: attualmente non è ancora stata trovata una causa unica e singola ma secondo ricerche recenti questo disturbo potrebbe essere fortemente influenzato e determinato da condizioni genetiche, condizioni familiari e/o materne, fattori di rischio ambientali prenatali o perinatali. Nella maggior parte dei casi però (circa 75%), il Disturbo dello Spettro Autistico è di origine idiopatica.

Grazie ai recenti studi e all’introduzione di nuove tecnologie, è stato possibile sequenziare ed analizzare l’intero corredo cromosomico dell’individuo individuando possibili variazioni nel numero di copie o di piccoli segmenti di DNA. Questo ha portato all’individuazione di oltre 800 geni associati a quadri di autismo e importanti per diverse funzioni del nostro organismo quali: la proliferazione cellulare, la funzionalità e architettura delle sinapsi, la regolazione della trascrizione genica. Di seguito si riporta una visione complessiva dei geni implicati (rilasciata il 26 ottobre 2020 da diversi autori con dati dal sito gene.sfari.org).

CATEGORIA

SIMBOLO DEL GENE

ALTERAZIONI

SINDROME ASSOCIATA

Regolatori della cromatina

ANKRD11

Mutazioni, perdita del numero di copie

Sindrome di KBG; Sindrome di Cornelia de Lange

ARID1B

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie; traslocazione

Sindrome della bara-Siris

ASXL3

mutazioni

Sindrome di Bainbridge-Ropers

ATRX

mutazioni; perdita del numero di copie

 

AUTS2

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie; inversione; traslocazione

 

CHD2

mutazioni; perdita del numero di copie

Sindrome di Tourette

CHD7

mutazioni; perdita del numero di copie; traslocazione

Sindrome di CHARGE

CHD8

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie; traslocazione

 

CREBBP

mutazioni; perdita del numero di copie

Sindrome di Rubinstein-Taybi, sindrome di Menke-Hennekam 1, sindrome di Tourette

EHMT1

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie; traslocazione

Sindrome di Kleefstra

MBD5

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie; inversione; traslocazione

Sindrome da microdelezione 2q23.1, sindrome di Kleefstra

MECP2

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie; metilazione del promotore

Sindrome di Rett, ritardo mentale legato all'X, sindrome da duplicazione MECP2

SETD5

mutazioni; perdita del numero di copie

 

Fattori/regolatori della trascrizione

ADNP

Mutazioni, perdita del numero di copie

Sindrome di Helsmoortel-Van der Aa

FOXG1

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie; traslocazione

Sindrome di Rett, sindrome FOXG1, sindrome di West

FOXP1

mutazioni; perdita del numero di copie; inversione; traslocazione

 

FOXP2

mutazioni; perdita del numero di copie; traslocazione

Disturbo del linguaggio

MED13L

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie

 

POGZ

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie

Sindrome di White-Sutton

RAI1

mutazioni; perdita del numero di copie; guadagno del numero di copie

Sindrome di Smith-Magenis, sindrome di Potocki-Lupski

TBR1

mutazioni; perdita del numero di copie

 
 

TCF4

mutazioni; perdita del numero di copie; traslocazione

Sindrome di Pitt-Hopkins

ZBTB20

mutazioni; perdita del numero di copie; traslocazione

Sindrome da microdelezione 3q13.31, sindrome di Primrose,

Regolatori del legame e del traffico di mRNA

FMR1 e suoi percorsi

Mutazioni; perdita del numero di copie

Sindrome dell'X fragile, sindrome da tremore/atassia associata all'X fragile

Degradazione delle proteine

UBE3A

mutazioni; guadagno del numero di copie

Sindrome di Angelman

Crescita/proliferazione cellulare

PTEN e suoi percorsi

mutazioni; perdita del numero di copie

Sindrome di Cowden, Sindrome da macrocefalia/autismo, Sindrome da tumore amartomico PTEN

SYNGAP1

mutazioni; perdita del numero di copie; traslocazione

 

TSC1/TSC2

Mutazioni

Sclerosi tuberosa 1/2

Modificatori delle proteine

CDKL5

mutazioni; perdita del numero di copie; traslocazione del guadagno del numero di copie

Sindrome di Rett, sindrome di Angelman

In un 10% dei casi di autismo, le caratteristiche possono essere associate a diversi dismorfismi o sindromi genetiche rare e solitamente correlano con un quadro severo di autismo. Tra queste ritroviamo: la sindrome dell'X- fragile, la Sclerosi Tuberosa, la duplicazione 15q11-q13 della sindrome di Prader-Willi/Angelman, la Sindrome di Cornelia De Lange, la Sindrome di Down e la Neurofibromatosi (NFM) di tipo I. La forte importanza che il background genetico ha sull’eziologia del Disturbo dello Spettro Autistico viene confermata dagli studi effettuati su famigliari di bambini con ASD e sulla concordanza fenotipica tra gemelli monozigoti (MZ), che condividono la totalità del loro corredo genetico, e tra gemelli dizigoti (DZ), che invece condividono solo il 50% del loro corredo genetico. In uno dei più grandi studi svolto in Svezia tra il 1982 e il 2006 (Sandin, Lichtenstein et al. 2014) si è evidenziata una grande concordanza del disturbo autistico nei gemelli monozigoti (60-90%) rispetto ai gemelli dizigoti (5-40%). Ulteriore conferma della componente genetica del disturbo viene data dagli autori Sandin e Ozonoff: secondo i loro studi dopo che ad un figlio viene diagnosticato l’ASD, il disturbo si può ripresentare in un 7-20% dei fratelli successivi; il rischio triplica nei ragazzi rispetto alle ragazze. Lo studio delle possibili cause genetiche e dei geni coinvolti è stato utile per meglio interpretare le manifestazioni fenotipiche dei quadri di autismo ma anche per scoprire nuove procedure diagnostiche, nuove terapie e per fornire maggiore supporto alle famiglie dei pazienti.

Il rischio genetico di ASD può essere regolato da fattori di rischio ambientali. Il periodo che va dalla vita in utero ai primi tre anni di vita è estremamente importante per il bambino. Durante questi processi possono esserci molte influenze ambientali che portano ad alterazioni genetiche e di alcuni circuiti neuronali. Ad oggi, gli studi si concentrano sull’individuazione dei fattori di rischio e sulle conseguenze che questi hanno sullo sviluppo del bambino. I fattori di rischio ambientali individuati possono essere suddivisi in fattori prenatali, perinatali e post-natali.

Tra i fattori di rischio prenatali più consolidati abbiamo l’età genitoriale paterna e/o materna avanzata (>40/50 anni). Secondo diversi studi condotti da Wu e collaboratori (Wu, Ding et al. 2016), l’età paterna avanzata (definita con l’acronimo APA) correla con lo sviluppo di diverse psicopatologie: disturbi bipolari, schizofrenia, ADHD e anche DSA. Si stima infatti che un aumento di 10 anni dell’età paterna (APA) è correlato ad un aumento del 20% del rischio di avere un figlio autistico. Questo potrebbe essere spiegato da mutazioni ritrovate all’interno del liquido seminale maschile che possono essere associate a malformazioni del sistema nervoso centrale nel feto come, ad esempio, un minor spessore della corteccia cingolata ventrale posteriore.

Lo stato di salute e condizioni di vita della madre in gravidanza sono significativi per l’aumento del rischio di Disturbo dello Spettro Autistico. È importante che durante il periodo della gravidanza e del parto la madre segua una dieta sana, bilanciata e ricca di nutrienti in quanto la carenza di certi elementi quali vitamina D, di ferro e di altri oligoelementi possono anche arrivare a quintuplicare il rischio di DSA. Si è osservata l’importanza dell’integrazione di zinco e di acido folico per ridurre questo rischio e supportare la crescita del feto. Anche brevi intervalli tra le gravidanze (<24 mesi) possono essere un fattore di rischio per ASD in quanto il corpo della madre ha bisogno di un tempo sufficiente per recuperare elementi necessari per la gravidanza e per il feto. Altra area di interesse per studi e ricerche è l’associazione che sembrerebbe esserci tra un aumento del rischio di DSA e malattie materne. Malattie autoimmuni (come diabete, psoriasi e malattie della tiroide) e infezioni virali e batteriche materne correlano con un maggiore rischio di autismo nella prole; questo sarebbe causato non tanto dai batteri e i virus presenti nel corpo della madre, quanto dalla risposta immunitaria che questi scatenano. In modo particolare si è osservato un aumento di ASD del 62% tra le madri affette da diabete rispetto a quelle non diabetiche e del 43% tra le madri affette da diabete gestazionale.

I fattori di rischio perinatali sono stati quelli più studiati ma anche più difficili da determinare. Secondo uno studio di Gardener e collaboratori condotto nel 2009 e 2011, esistono ben sessanta fattori ostetrici che possono aumentare il rischio di autismo nella prole; tra questi ritroviamo: complicanze del cordone ombelicale, lesioni o traumi alla nascita, emorragia intrauterina, basso peso alla nascita (<1500gr) o bassi punteggi di indice Apgar, parto pretermine (<32 settimane), anemia neonatale, malformazioni genitali, incompatibilità del gruppo sanguigno o del suo RH, iperbilirubinemia e ipertensione materna.

Tra i fattori ambientali invece, si è osservato che l’esposizione ad alti livelli di metalli pesanti, inquinanti e organo-fosfati durante la gravidanza possono portare a danni neurologici e comportamentali nel feto. In particolare, un elevata esposizione al mercurio inorganico e ad altre sostanze inquinanti durante la gravidanza aumenta del 60% il rischio di autismo nel feto (Yoshimasu et al. 2014)

Nessuna forte correlazione è stata evidenziata tra l’aumento del rischio di ASD e il consumo di fumo/alcool in gravidanza e la vaccinazione contro morbillo/parotite/rosolia (MMR) nei bambini.

INDICE

Criteri diagnostici DSM-5 e clinica

In accordo con il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-5), i criteri diagnostici principali per la diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico sono il deficit persistente della comunicazione sociale reciproca e dell’interazione sociale (Criterio A) e la presenza di pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi (Criterio B).

Analizzando nei particolari i precedenti criteri, il Criterio A prevede che si siano manifestati nel passato o che siano presenti attualmente in diversi contesti i seguenti fattori:

  1. Deficit della reciprocità socio-emotiva, che può manifestarsi per esempio con un approccio sociale anomalo; con un fallimento della normale reciprocità della conversazione; con una ridotta condivisione di interessi, emozioni o sentimenti; con l’incapacità di dare inizio e/o di rispondere ad interazioni sociali.
  2. Deficit dei comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l’interazione sociale che possono riguardare per esempio una comunicazione verbale e/o non verbale scarsamente integrata; anomalie del contatto visivo, del linguaggio del corpo e dell’uso dei gesti; una mancanza totale o una ridotta espressività facciale e comunicazione non verbale.
  3. Deficit dello sviluppo, della gestione e della comprensione delle relazioni dove possiamo evidenziare per esempio difficoltà a adottare un comportamento adeguato ai diversi contesti sociali; difficoltà nel condividere il gioco di immaginazione e fare nuove amicizie con gli altri; assenza di interesse verso l’altro e verso i coetanei.

Il Criterio B definisce che devono essere presenti attualmente o si sono manifestati nel passato nei diversi contesti sociali i seguenti fattori:

  1. Movimenti, uso degli oggetti o eloquio ripetitivi o stereotipati come stereotipie motorie semplici, disporre gli oggetti e i giochi in fila, ecolalia, frasi idiosincratiche (parole associate a contesti non pertinenti).
  2. Insistenza nell’immodificabilità (in inglese sameness), aderenza alla routine senza possibilità di flessibilità, rituali di comportamento verbale/non verbale come, ad esempio, disagio e difficoltà di fronte ai cambiamenti, difficoltà ad accettare le transizioni, schemi di pensiero rigidi e rituali.
  3. Interessi molto limitati e anomali sia per intensità che per profondità, esempio: attaccamento ad oggetti insoliti, interessi perseverativi e circoscritti.
  4. Iper- o ipo-reattività in risposta a stimoli sensoriali o stimoli insoliti verso gli aspetti sensoriali dell’ambiente come avversione o al contrario eccessivo interesse per luci o suoni molto forti, reazioni avverse a determinate consistenze, modalità anomale di esplorazione degli oggetti come annusare o esplorarli in modo eccessivo.

In aggiunta, i precedenti sintomi devono essere presenti nel periodo precoce dello sviluppo anche se spesso possono essere mascherati da strategie messe in atto dal paziente (Criterio C), i sintomi devono essere causa di un deficit di funzionamento sociale, lavorativo e in altri ambiti di vita del paziente (Criterio D) e i segni/sintomi non devono essere dovuti ad altre condizioni quali disabilità intellettiva (DI) e/o ritardo globale dello sviluppo (Criterio E).

Per fare diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico il DSM-5 prevede che siano soddisfatti i criteri A, B, C e D.

Come già definito in precedenza, all’interno della quinta edizione del manuale sono state introdotte delle novità volte a favorire una maggiore sensibilità e accuratezza della diagnosi ed una maggiore definizione dei segni, sintomi e del quadro clinico. Tra queste abbiamo la definizione del livello di gravità del paziente, che viene definito su tre livelli in base al grado di assistenza che il paziente necessità:

Livello di gravità

Comunicazione sociale

Comportamenti ristretti, ripetitivi

Livello 3

“è necessario un supporto molto significativo”

Gravi deficit delle abilità di comunicazione sociale verbale e non verbale causano gravi compromissioni del funzionamento, avvio molto limitato delle interazioni sociali e reazioni minime alle aperture sociali da parte di altri. Per esempio, una persona con un eloquio caratterizzato da poche parole comprensibili che raramente avvia l'interazione sociale e quando lo fa mette in atto approcci insoliti solo per soddisfare esigenze e rispondere solo ad approcci sociali molto diretti.

Inflessibilità di comportamento, estrema difficoltà nell’affrontare il cambiamento o altri comportamenti ristretti/ripetitivi interferiscono in modo marcato con tutte le aree del funzionamento. Grande disagio/difficoltà nel modificare l’oggetto dell’interazione con l’altro o l’azione.

Livello 2

“è necessario un supporto significativo”

Deficit marcati delle abilità di comunicazione sociale verbale e non verbale; compromissioni sociali visibili anche in presenza di supporto; reazione ridotte o anomale alle aperture sociali da parte di altri. Per esempio, una persona che parla usando frasi semplici, la cui interazione è limitata a interessi ristretti e particolari e che presenta una comunicazione non verbale decisamente strana.

Inflessibilità di comportamento, estrema difficoltà nell’affrontare il cambiamento o altri comportamenti ristretti/ripetitivi sono sufficientemente frequenti da essere evidenti ad un osservatore casuale e interferiscono con il funzionamento in diversi contesti. Disagio/difficoltà nel modificare l’oggetto dell’interazione con l’altro o l’azione.

Livello 1

“è necessario un supporto”

In assenza di supporto, i deficit della comunicazione sociale causano notevoli compromissioni. Difficoltà ad avviare le interazioni sociali e chiari esempi di risposte atipiche o infruttuose alle aperture sociali da parte di altri. L’individuo può mostrare un interesse ridotto per le interazioni sociali. Per esempio, una persona che è in grado di formulare frasi complete e si impegna nella comunicazione, ma fallisce nella conversazione bidirezionale con gli altri, e i tentativi di fare amicizia sono strani ed in genere senza successo.

Inflessibilità di comportamento causa interferenze significative con il funzionamento in uno o più contesti. Difficoltà nel passare da un’attività all’altra. I problemi nell’organizzazione e nella pianificazione ostacolano l’indipendenza.

Sempre all’interno della quinta edizione del manuale diagnostico ritroviamo una sezione denominata “specificatori”. Infatti, oltre a definire la gravità del quadro clinico, spesso durante la diagnosi vengono aggiunte delle specifiche in base al quadro globale del paziente e in base alle comorbidità che si possono presentare. Tra gli specificatori troviamo:

con o senza compromissione intellettiva associata”: questo ci aiuta a comprendere il profilo intellettivo del paziente con ASD in quanto possono avere capacità cognitive che variano dalla grave disabilità intellettiva ad una intelligenza superiore alla norma e diversi studi (Gotham et al. 2007; Hus et al. 2007) hanno rilevato una grande correlazione tra livello di quoziente intellettivo (QI) e gravità dei sintomi;

con o senza compromissione del linguaggio associata”: ci aiuta a capire il funzionamento verbale del paziente differenziandolo tra linguaggio espressivo e linguaggio recettivo. Non tutti i pazienti con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico mostrano difficoltà/ritardo nell’acquisire il linguaggio e il suo sviluppo varia da soggetto a soggetto; diversi studi (Luyster et al. 2008) hanno confermato la possibilità che possa esserci, come per il livello di QI, una stretta relazione tra compromissione delle abilità verbali e gravità dei sintomi;

associato ad altra condizione medica o genetica nota o ad un fattore ambientale” spesso, il Disturbo dello Spettro Autistico può essere accompagnato da diverse condizioni genetiche (es. Sindrome di Down, Sindrome di Rett, Sindrome dell’X-fragile), disturbi medici come l’epilessia, disturbi gastro-intestinali, disturbi del sonno o disturbi mentali/comportamentali: tra queste abbiamo ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività), i disturbi d’ansia, i disturbi depressivi o bipolari, disturbi oppositivo-provocatori, condotte aggressive o autolesionistiche e disturbi dell’alimentazione. L’incidenza di queste comorbidità all’interno del quadro è estremamente variabile: secondo recenti stime si è visto che in un 68-78% dei casi si ritrovano condizioni psichiatriche associate mentre in una percentuale che va dal 10% al 77% si ritrovano altre condizioni mediche.

INDICE

Teorie alla base dell’autismo

Tra il 1980 e il 2000 nasce l’esigenza di dare una spiegazione unitaria al disturbo autistico e di comprendere meglio il funzionamento mentale dei soggetti autistici. Nascono così quattro diversi modelli interpretativi della clinica, suddivisibili in due macrocategorie. La prima categoria racchiude al suo interno le teorie che vedono l’autismo come un fenomeno primario: secondo queste teorie i tratti caratteristici del disturbo deriverebbero da un deficit unico e primario sottostante; tra questi ritroviamo la Teoria Socio-Affettiva di Hobson e il modello della Teoria della Mente (ToM) di Baron-Cohen. Alla seconda categoria appartengono invece le teorie che vedono l’autismo come una conseguenza secondaria di un deficit che interessa le funzioni psicologiche di base; a questa categoria appartengono il modello del Deficit delle Funzioni Esecutive (FE) di Remington e il modello di Deficit di Coerenza Centrale (DCC) di Frith e Happè.

Andiamo ora ad esaminare più nel dettaglio questi modelli.

La Teoria Socio-Affettiva: questa teoria fu elaborata da Hobson intorno al 1993 e individua come fattore psicopatologico scatenante una compromissione dei meccanismi interpersonali responsabili della percezione delle emozioni, meccanismi che negli individui sani aiutano la comprensione immediata degli stati emotivi degli altri. La conoscenza e la comprensione degli altri si acquisiscono tramite l’esperienza: fin dalla nascita si evidenzia nei bambini la volontà di essere coinvolti in relazioni di reciprocità con l’altro e in modo particolare con i caregiver. Grazie a queste esperienze i bambini sviluppano la capacità di riconoscere e manifestare stati mentali ed emotivi, osservando in un primo momento quelli dell’adulto. Secondo diversi studi condotti da Hobson, questa capacità non si svilupperebbe nei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico e da questo danno primario ne deriverebbero vari segni clinici tipici: difficoltà nella sintonizzazione sociale, incapacità di riconoscere le proprie emozioni e di descrivere gli stati mentali dell’altro, difficoltà a decifrare le espressioni mimiche, gli stimoli sociali e gli elementi prosodici della comunicazione (come l’intonazione o il ritmo). Tutto ciò si riflette in un’incapacità nel decodificare i codici e i simboli che gli uomini usano nella comunicazione e questo genera negli individui autistici un senso di smarrimento, rabbia, ansia e paura in quanto immersi in un mondo che non riescono a decifrare. Negli ultimi anni la Teoria Socio-affettiva è stata superata da altri modelli esplicativi.  

La Teoria della Mente (ToM): questa teoria fu elaborata dai primatologi Premack e Woodruff ma solo verso la fine degli anni 80 con gli autori Baron-Cohen, Leslie e Frith si pensò che questa teoria potesse spiegare l’origine del Disturbo dello Spettro Autistico. Con “Teoria della Mente” (ToM) intendiamo la capacità del bambino di riflettere e attribuire agli altri pensieri, desideri, fantasie, stati mentali e la capacità di prevedere il comportamento degli altri in base a questi stati. Nel bambino “sano” questa capacità si sviluppa intorno ai quattro anni; già intorno ai due anni si vanno a sviluppare nel bambino i precursori di quella che poi sarà la Teoria della Mente. Tra questi ritroviamo:

  • L’attenzione condivisa: si sviluppa intorno ai 9 mesi ed è la capacità del bambino di voltarsi e osservare nella direzione in cui sta guardando l’adulto e di alternare il focus dello sguardo sull’oggetto e poi sull’adulto stesso. Questa capacità è spesso deficitaria nel bambino con autismo in quanto spesso si osserva la tendenza ad osservare nella stessa linea dell’adulto ma non di alternare lo sguardo sull’oggetto e poi sull’adulto.
  • Il gioco di finzione: la capacità di elaborare giochi simbolici si sviluppa tra i 18 e 24 mesi durante i quali emerge una grande abilità meta-rappresentativa: il bambino gioca a “far finta” e utilizza gli oggetti in modo simbolico (esempio: far finta che la banana sia un telefono, far finta di dare da mangiare alla bambola). Nel paziente autistico spesso la capacità di finzione non si evidenzia.
  • La comunicazione intenzionale proto-dichiarativa: si sviluppa intorno ai 3 anni ed è la capacità che si sviluppa nel bambino di utilizzare e produrre gesti dichiarativi (esempio: indicare un oggetto per condividere l’interesse con l’altro o per poterlo avere). Nel bambino autistico si nota la capacità di osservare e riprodurre il gesto osservato dall’adulto ma senza una funzione dichiarativa e senza la tendenza a coinvolgere l’altro su questo.

Presentando dei deficit in questi tre diversi processi, il bambino autistico non riesce a sviluppare nel modo corretto la Teoria della Mente. La presenza o meno nel bambino delle abilità sopra descritte può essere testata attraverso il “compito della falsa credenza”. Ne esistono di diverse tipologie ma quello utilizzato negli esperimenti di Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) è la prova di Sally e Anne: le due bambine, protagoniste della storia, giocano con una biglia. La biglia viene messa in una cesta da Sally e successivamente spostata da Anne all’insaputa di Sally. La domanda che viene posta al bambino è: “Dove cercherà la biglia Sally?”. I bambini che hanno correttamente sviluppato la Teoria della Mente riusciranno a rispondere nel modo giusto, cosa che invece non avviene nei soggetti autistici.

La Teoria della Mente presenta però dei limiti in quanto non è in grado di spiegare il perché di certi comportamenti presenti nel quadro autistico (esempio: stereotipie, atipie sensoriali).

FIGURA 2: Test della falsa credenza, tratto da Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985.

FIGURA 2: Test della falsa credenza, tratto da Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985.

Deficit delle Funzioni Esecutive (FE): questo modello fu elaborato in primo luogo da Remington intorno al 1996 e negli ultimi anni ha suscitato un grande interesse tra i ricercatori e gli studiosi. Le Funzioni Esecutive (FE) sono una serie di abilità neuropsicologiche complesse implicate nell’organizzazione, nella pianificazione, nel monitoraggio e nella coordinazione di comportamenti cognitivi e motori per arrivare alla risoluzione di un problema o scopo. Il controllo di queste funzioni superiori è svolto da alcuni circuiti che trovano nei lobi frontali del nostro Sistema Nervoso Centrale (SNC). Da un deficit di queste funzioni ne derivano sintomi come: comportamenti rigidi, inflessibili e dipendenza ossessiva dal seguire una routine specifica, difficoltà ad inibire le risposte inappropriate, ripetizione di pensieri o azioni in modo stereotipato, incapacità di direzionare l’attenzione in maniera flessibile da cui ne deriverebbe l’iper-selettività per alcuni particolari e/o oggetti. Tutti questi sintomi si possono evidenziare sia in soggetti autistici sia in pazienti con danno frontale.

Deficit di Coerenza Centrale (DCC): il modello fu elaborato da Frith e Happè nel 1994. Per Coerenza Centrale intendiamo la tendenza dei processi cognitivi dell’uomo a riunire e sintetizzare le diverse informazioni per costruire sempre più alti livelli di significato. Questa capacità di processare a livello centrale i diversi stimoli viene definita come una spinta alla coerenza centrale. Una carenza a livello di questa spinta porterebbe quindi all’incapacità del soggetto di processare lo stimolo percettivo nel suo complesso e di soffermarsi e concentrarsi solo sui singoli elementi che lo compongono. Questa spinta alla coerenza centrale sarebbe fortemente deficitaria nei soggetti con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico e andrebbe in parte a spiegare la triade sintomatologica (di interazione sociale, comunicativa e di comportamento) alla base di questo disturbo.

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CAPITOLO 2: L’IMPORTANZA DELLO SCREENING E DELLA DIAGNOSI PRECOCE

Negli ultimi anni, la letteratura ha evidenziato una crescente e maggiore consapevolezza sull’importanza dell’identificazione, dell’invio e della diagnosi precoce dei pazienti affetti da disturbi mentali o dello sviluppo, tra questi ultimi il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD). Secondo le linee guida per l’autismo elaborate dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA), segnalare e diagnosticare in modo tempestivo un bambino con ASD è di fondamentale importanza per perseguire diversi obiettivi:

  • programmare un intervento precoce: avere la possibilità di disporre interventi, spazi e tempi in una fascia di età precoce (2-4 anni) permette di limitare la progressiva organizzazione di meccanismi neurobiologici atipici, di lavorare sulle potenzialità del bambino e di ridurre la gravità del quadro clinico andando a migliorare la qualità di vita dei pazienti;
  • prevenire situazioni di disagio e/o malessere all’interno del sistema famiglia: spesso i genitori sono i primi a notare comportamenti atipici nel loro bambino senza però conoscerne la causa e questo può portare ad un senso di disorientamento. Avere l’opportunità di effettuare tempestivamente approfondimenti diagnostici permette di avere risposte esaustive per rassicurare ed informare i genitori;
  • fornire consulenza genetica ai genitori di bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico: questo permetterà di avere una maggiore attenzione e sorveglianza per i fratelli/sorelle del bambino colpito in quanto l’incidenza di una ricorrenza di ASD tra i fratelli è di 50-100 volte superiore rispetto alla popolazione generale;
  • rispondere a quesiti di natura epidemiologica: questo permette di avere numeri e stime più accurate circa l’incidenza del Disturbo dello Spettro Autistico in età infantile.

All’interno del Sistema Sanitario Pubblico Italiano, le attività di individuazione, sorveglianza, identificazione e diagnosi precoce di bambini affetti da ASD e/o altri Disturbi del Neurosviluppo sono possibili grazie alla stretta collaborazione di diversi professionisti sanitari esperti (quali pediatri, specialisti in neuropsichiatria…) e l’interconnessione di diverse strutture di Neuropsichiatria infantile.

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Le strutture e le figure coinvolte

I programmi di identificazione ed individuazione precoce del Disturbo dello Spettro Autistico prevedono due differenti livelli: il primo livello (definito anche screening) coinvolge tutti i bambini di una certa età con lo scopo di individuare quei soggetti che presentano dei segnali di rischio per ASD; il secondo livello (la diagnosi) è invece svolto dai clinici specialisti in Neuropsichiatria Infantile ed interessa solo i bambini risultati positivi allo screening o aventi segnali di rischio per ASD nella prima fase.

Le strutture di primo livello

Lo screening è solitamente svolto dal pediatra durante le normali visite di salute ai nove, dodici, diciotto, ventiquattro e trenta mesi. Lo screening si basa sulla valutazione dei comportamenti del bambino e su una serie di domande che vengono poste al genitore. Di fondamentale importanza per il pediatra è effettuare in primo luogo un’accurata anamnesi familiare per individuare se in famiglia ci sono fratelli o familiari affetti da autismo o da altre condizioni psicopatologiche. Successivamente il pediatra può porre delle domande ai genitori circa le loro preoccupazioni in merito al bambino, ai suoi comportamenti e all’acquisizione o meno di alcune competenze fondamentali dello sviluppo motorio, sociale, emotivo e linguistico. Tra i segnali d’allarme a cui il pediatra deve porre attenzione troviamo:

  • Assenza di babbling, pointing o altri gesti all’età di 12 mesi;
  • Assenza di parole ai 16 mesi;
  • Assenza di emissione spontanea di frasi formate da due o più parole all’età di 24 mesi;
  • Progressiva perdita di competenze motorie, linguistiche e sociali precedentemente acquisite.

In aggiunta alle domande effettuate ai genitori circa le loro preoccupazioni sul bambino, il pediatra può utilizzare diverse prove e strumenti standardizzati per completare al meglio l’attività di screening. Al controllo di salute dei 12 mesi, il pediatra può somministrare al bambino la “prova di risposta al nome”: questa prova valuta la capacità del bambino di riconoscere il proprio nome e voltarsi quando chiamato. Il bambino viene posizionato seduto in braccio al genitore mentre gioca con un giocattolo di forte interesse. Una volta accertatosi che il bambino ha la piena attenzione sull’oggetto, il pediatra si sposta dietro al bambino e al genitore a circa un metro di distanza e prova a chiamare il bambino in modo chiaro e a volume normale. Se il bambino si volta al primo tentativo la prova è pienamente superata, se invece il bambino non si volta al primo tentativo è necessario riprovare a chiamare il bambino fino ad un massimo di tre tentativi. Il pediatra poi terrà conto del comportamento del bambino e del numero di tentativi fatti. Al controllo di salute dei 18 mesi il pediatra può somministrare un’ulteriore prova al bambino, la “prova dell’attenzione condivisa”: questa valuta la capacità del bambino di indicare e condividere con l’altro l’attenzione verso un oggetto. All’inizio della prova, bambino e pediatra sono seduti uno di fronte all’altro con il bambino impegnato a giocare con un gioco o libro. Dietro al bambino, a circa un metro di distanza è posizionato un giocattolo rumoroso azionato con un telecomando a distanza dal pediatra. All’improvviso il pediatra aziona il giocattolo e valuta la risposta del bambino: generalmente i piccoli sono molto sorpresi dall’oggetto e si girano per guardarlo, lo indicano e/o stabiliscono un contatto di sguardo con genitore e/o pediatra per condividerne l’interesse. Se al primo tentativo il bambino non si gira, è utile aspettare circa dieci secondi e riprovare con un secondo tentativo fino ad un massimo di tre tentativi.

Tra gli strumenti standardizzati per lo screening sono incluse una serie di questionari volti ai genitori e creati appositamente per aiutare il pediatra nelle attività di screening; tra i questionari ritroviamo: il First-Year Inventory (FYI), la Childhood Autism Rating Scale (CARS) e la CHecklist for Autism in Toddlers (CHAT). Questi strumenti verranno meglio approfonditi al termine di questo capitolo nella sezione “gli strumenti utilizzati”.

Negli ultimi anni, grazie alla maggiore consapevolezza sull’importanza dell’individuazione e della diagnosi precoce di bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico (DSA), sono state istituite nuove piattaforme online che permetterebbero una maggiore interconnessione tra pediatri, specialisti di Neuropsichiatria Infantile ma anche tra le strutture che si occupano della valutazione e della diagnosi di soggetti con autismo. Tra queste piattaforme ritroviamo la piattaforma “NIDA” e la piattaforma “WIN4ASD”.

La piattaforma NIDA

La piattaforma NIDA (Network Italiano per il Riconoscimento Precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico) è stata istituita a partire dal 2012 dall’Istituto Superiore di Sanità e coinvolge diverse Unità Operative di Neuropsichiatria Infantile che si occupano di diagnosi, valutazione clinica, farmacologia, genetica e ricerca su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo principale del progetto era quello di fondare un network italiano per l’identificazione precoce della popolazione a rischio ASD in modo da prevenire l’instaurarsi di anomalie comportamentali e sociocomunicative. Il protocollo iniziale del progetto ha coinvolto quattro regioni principali (Lazio, Lombardia, Sicilia e Toscana) e prevedeva diverse fasi: la prima prevedeva il monitoraggio degli indici di benessere del bambino a dieci giorni e a sei, dodici, diciotto e ventiquattro settimane di vita attraverso dei brevi filmati inviati dai genitori; la seconda prevedeva la raccolta dei dati di crescita dei bambini e in particolare le misurazioni di circonferenza cranica, peso e lunghezza; nella terza fase venivano esaminati brevi filmati condotti dai genitori circa le interazioni sociali e comunicative dei bambini in modo da esaminare la presenza o meno di eventuali anomalie; nella quarta fase veniva svolta una valutazione cognitiva, linguistica, adattiva e socio-comunicativa del bambino attraverso diverse scale e nell’ultima fase era previsto uno screening genetico attraverso Array-CGH per individuare la presenza di possibili duplicazioni o delezioni di alcuni tratti di DNA. Il progetto ultimato ha portato alla stesura, validazione e standardizzazione di un protocollo per la sorveglianza e valutazione del ASD, esportabile poi anche agli altri Disturbi del Neurosviluppo.

La piattaforma WIN4ASD

La piattaforma WIN4ASD (Web Italian Network for Autism Spectrum Disorder) è stata elaborata dall’Istituto Scientifico E. Medea (LC) con lo scopo di promuovere l’identificazione e la diagnosi precoce dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico tra la popolazione generale, facilitare il processo di screening e sorveglianza e rendere più efficiente la comunicazione tra assistenza sanitaria di base e servizi specialistici di Neuropsichiatria Infantile. Il sito web è stato pensato per essere rivolto soprattutto ai Medici di Medicina Generale (MMG) e ai Pediatri di Libera Scelta (PLS) di regione Lombardia in quanto giocano un ruolo fondamentale nella segnalazione precoce del bambino a rischio ASD. Ogni pediatra può accedere alla piattaforma da qualsiasi dispositivo elettronico (computer, tablet, telefono) usando le credenziali in suo possesso. Effettuato l’accesso all’area personale, si possono ritrovare diversi moduli e test, tra cui anche il questionario CHAT (CHecklist for Autism in Toddlers), somministrabile al bambino a partire dai 18 mesi durante le normali visite pediatriche di controllo. Dopo aver somministrato il questionario ed inserito i relativi risultati all’interno della piattaforma questa riporterà in automatico i punteggi ottenuti e il possibile rischio di DSA per il bambino, guidando il pediatra sulle scelte più idonee da seguire. Se il risultato riporta “nessun rischio”, non viene consigliata nessuna azione; se il risultato riporta “rischio medio” allora viene richiesto un monitoraggio a breve termine, solitamente dopo un mese, proponendo ulteriori test al bambino. Il pediatra fisserà l’appuntamento successivo registrandolo anche sulla piattaforma che invierà in automatico un messaggio promemoria dell’appuntamento. Se invece il risultato riporta “rischio alto” il pediatra ha il compito di informare i genitori/caregiver e proporre di indirizzare il bambino a centri specialistici per ulteriori approfondimenti e valutazioni. Nell’eventualità di un riscontro positivo da parte della famiglia, il pediatra procederà a compilare un modulo dedicato sulla piattaforma ed inoltrare la richiesta alla struttura specialistica prescelta. Come concluso dagli studi condotti da Colombo e colleghi nel 2020, la piattaforma WIN4ASD si è dimostrato uno strumento utile per migliorare e perfezionare i servizi di screening e sorveglianza del ASD e ad oggi l’adesione dei pediatri a questa piattaforma sta aumentando notevolmente.

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Le strutture di secondo livello

Dopo un primo livello si passa ad un secondo livello di diagnosi che coinvolge solo i bambini risultati positivi alle indagini di screening. Queste ulteriori indagini vengono svolte presso le strutture di Neuropsichiatria Infantile distribuite sul territorio nazionale e comprendono diverse valutazioni svolte da un’equipe di esperti in Neuropsichiatria e con competenze specifiche nella diagnosi e nel trattamento dei pazienti con Disturbo dello Spettro Autistico (in inglese ASD). Tra questi esperti troviamo: il Neuropsichiatra Infantile (NPI), il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE), il Logopedista, lo Psicologo, il Terapista Occupazionale (TO) e altre figure. Ognuno di questi professionisti ha un ruolo ben definito e molto importante per l’inquadramento del paziente, per la definizione e la diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico. Purtroppo, a causa di una non equa distribuzione dei servizi e dei professionisti su tutto il territorio nazionale, le attese per accedere ai servizi di Neuropsichiatria e per proseguire gli approfondimenti possono essere anche molto lunghe. Durante l’attesa della presa in carico valutativa, il pediatra è tenuto a monitorare l’andamento del bambino e a fornire supporto alla famiglia.

Dopo l’invio del pediatra ad un centro specialistico di secondo livello, il bambino effettua una prima visita con il Neuropsichiatra Infantile (NPI). Durante la visita, il Neuropsichiatra accoglie in studio il paziente e i suoi genitori/caregivers ed esegue un’anamnesi accurata e maggiormente approfondita del bambino e della sua famiglia. Le aree di indagine su cui il Neuropsichiatra pone l’attenzione sono: anamnesi familiare, per determinare se presente consanguineità tra i genitori, familiari affetti da autismo o da altre condizioni genetiche/neuropsichiatriche che possono essere associate all’autismo; storia alla nascita, ponendo domande circa il decorso della gravidanza, il momento della nascita e i primi giorni di vita; anamnesi patologica remota del bambino per raccogliere dati circa eventuali sintomi o patologie avute dal bambino nel corso della sua vita e che possono aver interferito con il normale sviluppo neuropsichico; l’epoca e le modalità di acquisizione delle varie tappe dello sviluppo psichico, motorio, comunicativo e relazionale del bambino; organizzazione delle normali funzioni basali del bambino come alimentazione, ritmo sonno-veglia, controllo degli sfinteri…

Successivamente il Neuropsichiatra Infantile esaminerà lo stato di salute del bambino attraverso l’esame neurologico obiettivo (EO). L’esame neurologico verterà sulla valutazione di diversi parametri generali, neurologici e psichiatrici del bambino; nel dettaglio si andranno ad analizzare: eventuali segni o sintomi riconducibili a patologie e/o sindromi frequentemente associate al quadro autistico (per esempio Sindrome dell’X fragile, Sclerosi Tuberosa…), parametri auxologici e in particolare peso, lunghezza e circonferenza cranica, la presenza di segni neurologici maggiori (come spasticità, distonie, atassia, paralisi…) e segni minori (strabismo, ipoevocabilità o asimmetrie nei riflessi osteo-tendinei…) in modo da valutare l’integrità delle strutture nervose centrali e periferiche e poter escludere tutte quelle patologie che vanno in diagnosi differenziale con il Disturbo dello Spettro Autistico, come la Sindrome di Rett dove si manifestano spesso disturbi della coordinazione motoria generale. Vengono inoltre effettuate delle osservazioni di gioco del bambino in contesti ludici più o meno strutturati volte ad individuare eventuali modalità espressive, comportamenti e capacità di modulazione delle emozioni in base al contesto. Nel caso il paziente sia in grado di sostenere un’interazione verbale con il medico Neuropsichiatra, verrà svolto un colloquio orale.

Conclusa la prima visita neuropsichiatrica infantile, il medico NPI può suggerire ai pazienti con chiari segni di rischio o con sospetta diagnosi di autismo, ulteriori approfondimenti e valutazioni in regime ambulatoriale o in regime di ricovero presso gli istituti ospedalieri volti a meglio approfondire l’eziologia e il funzionamento del paziente ed escludere eventuali cause organiche correlate ad altri disturbi coesistenti nel quadro autistico. Tra i vari approfondimenti che possono essere suggeriti, risulta di fondamentale importanza valutare il livello cognitivo (QI) del paziente e determinare il suo Profilo Funzionale con le specifiche aree di forza e di debolezza. Oltre ai fini diagnostici, questi aspetti risultano utili anche per stipulare un piano riabilitativo che sia il più possibile personalizzato per il paziente. La valutazione del livello cognitivo (QI) e la determinazione del profilo funzionale del paziente possono essere svolti attraverso la somministrazione di test standardizzati quali ad esempio “Griffiths Mental Development Scales” e “Psychoeducational Profile” (PEP) che verranno meglio approfonditi nel capitolo successivo.

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Le strutture di terzo livello

Parte fondamentale dell’iter diagnostico per i pazienti con Disturbo dello Spettro Autistico è lo svolgimento di ulteriori approfondimenti strumentali volti ad individuare ed escludere eventuali condizioni sottostanti e associate all’autismo. Si stima che il tasso di bambini con autismo e altra condizione medica associata varia dal 8% al 37% dei pazienti presi in esame. La presenza di dismorfismi facciali, anomalie neurologiche, regressione dello sviluppo neuropsicomotorio, convulsioni, disabilità cognitiva di livello medio-grave, ritardo del linguaggio e storia familiare complessa indicano la necessità di ulteriori approfondimenti strumentali e diagnostici. Secondo un modello EBM (Evidence Based Medicine), i centri di terzo livello devono essere in grado di fornire gli approfondimenti eziologici e di supporto necessari in tempi rapidi e coordinandosi con i nuclei autismo regionali e territoriali. Tra le indagini proposte troviamo:

  • Valutazione audiologica e audiometrica: soprattutto nei pazienti che presentano ritardo dello sviluppo sociale e del linguaggio è necessario svolgere approfondimenti audiologici e audiometrici volti ad individuare eventuali malformazioni strutturali e/o funzionali dell’orecchio e individuare l’esistenza di una possibile perdita dell’udito. La valutazione completa comprende una batteria di test spesso difficili da somministrare ad una popolazione di bambini e soprattutto a pazienti affetti da autismo; proprio per questo la valutazione dovrebbe essere eseguita da clinici esperti e con esperienza nel trattamento di bambini o pazienti con bisogni speciali. La batteria di test include prove basate su misure audiometriche comportamentali, sulla valutazione della funzione dell'orecchio medio e su procedure elettrofisiologiche. Come evidenziato in uno studio condotto da Klin (Klin et al. 1993), in una considerevole porzione di individui autistici è stata individuata la presenza di ipoacusia periferica.
  • Elettroencefalogramma (EEG): la ricorrenza di epilessia associata a quadri di Disturbo dello Spettro Autistico si aggira intorno al 7-14% dei pazienti in età prescolare (Rapin, 1996; Tuchman et al. 1991) e la prevalenza aumenta se consideriamo i pazienti in età adolescenziale (20-35%). Soprattutto nei casi di regressione precoce, prima dei 36 mesi, ritardo mentale e storia familiare di epilessia, viene consigliato e svolto di routine un EEG volto ad individuare eventuali anomalie soprattutto a carico dei lobi temporali.
  • Test genetici: in presenza di ritardo mentale, dismorfismi facciali e/o malformazioni si consiglia un’analisi del DNA ad alta definizione (cariotipo) al fine di individuare l’eziopatogenesi del disturbo. Grazie all’utilizzo di tecnologie moderne ed avanzate quali ad esempio la FISH (Fluorescent In Situ Hybridization) si è riscontrato che le anomalie cromosomiche maggiormente presenti nei pazienti autistici (circa l’1% dei casi) interessano la duplicazione di alcuni tratti del braccio lungo del cromosoma 15 (15q11-q13), ereditati spesso dalla madre (Cook EH Jr et al. 1997; Schroer RJ et al. 1998) e la delezione 22q13.3. Le stesse anomalie sono state trovate in individui autistici con altri disturbi cromosomici identificabili quali la Sindrome dell’X fragile e la Sindrome di Angelman/Prader-Willi. La possibilità di avere una diagnosi precisa, ottenuta anche grazie ai test genetici, permette di fornire una consulenza genetica alle famiglie soprattutto in vista di successive gravidanze in quanto il rischio di ricorrenza di autismo in una gravidanza futura è stimato tra il 3 e il 7% (Bolton et al, 1994)
  • Test metabolici: in presenza di segni fisici e clinici significativi quali vomito ciclico, letargia, convulsioni, encefalopatia, ritardo mentale e/o caratteristiche dismorfiche possono essere suggeriti esami biochimici di urine, sangue e liquido cerebrospinale per individuare eventuali anomalie metaboliche. Queste anomalie riguardano principalmente errori congeniti in aminoacidi, carboidrati, purine, peptidi ed errori del metabolismo mitocondriale. Ad oggi, si stima che la probabilità che un paziente autistico abbia in concomitanza un disturbo del metabolismo sia inferiore al 5% dei pazienti (Dykens & Volkmar, 1997)
  • Indagini allergologiche, svolte in casi di intolleranze o allergie alimentari presenti all’interno del quadro.

Per quanto riguarda le indagini di neuroimaging, e in modo specifico la risonanza magnetica (RM), può essere utile per individuare anomalie cerebrali focali o disturbi anatomici concomitanti nei quadri di Disturbo dello Spettro Autistico. Le indagini di imaging funzionale quali la tomografia a emissione di positroni (PET), la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la TC ad emissione di fotone singolo (SPECT) vengono utilizzati come strumenti a scopo di ricerca nella valutazione dell’autismo.

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Gli strumenti utilizzati

Come accennato in precedenza, sono disponibili diversi test, scale e questionari per lo screening e la diagnosi del bambino con Disturbo dello Spettro Autistico a partire già dai 18/24 mesi. L’obiettivo futuro è quello di trovare ed elaborare test più specifici che permettano ai clinici di abbassare l’età della diagnosi al primo anno di vita, essendo i sintomi autistici visibili già precocemente nello sviluppo del bambino. DI seguito saranno illustrati nel dettaglio gli strumenti usati per lo screening del Disturbo dello Spettro Autistico; tra questi ritroviamo: la CHAT, la CARS e il FYI.

CHecklist for Autism in Toddlers (CHAT)

La CHecklist for Autism in Toddlers (CHAT) è stata elaborata per la prima volta nel 1992 da Baron-Cohen e colleghi. Il questionario è indirizzato all’individuazione precoce di soggetti con possibile Disturbo dello Spettro Autistico tra i 18 e i 24 mesi e raccoglie le risposte date sia dai genitori che dal clinico. La scala è suddivisa in due parti principali: la sezione A è composta da nove item a cui il clinico (principalmente il pediatra) risponde sulla base di quanto osservato dai comportamenti del bambino nel suo ambulatorio. La seconda sezione (sezione B) è composta da cinque item e la compilazione è riservata ai genitori. Gli item delle due varie sezioni indagano il funzionamento del bambino valutando la presenza/assenza di alcuni comportamenti: pointing dichiarativo, monitoraggio dello sguardo e gioco condiviso. Negli ultimi anni, a causa della scarsa sensibilità della CHAT nell’identificazione dei casi di autismo meno gravi, è stata introdotta la Modified-CHecklist for Autism in Toddlers (M-CHAT). Nella nuova versione, elaborata nel 2001 da Robins et al, non si richiede più la compilazione del questionario da parte del clinico bensì solo dal genitore. Il questionario si presenta come un’estensione alla versione precedente; infatti, la M-CHAT (Figura 3) è composta da 23 item totali che indagano diversi aspetti dello sviluppo del bambino. Oltre alle aree precedentemente descritte nella CHAT, la nuova versione prende in considerazione anche i disturbi sensoriali, le anomalie motorie, le anomalie del contatto di sguardo e le anomalie linguistiche-comunicative che si presentano all’interno del quadro autistico. Il questionario è di semplice compilazione: il genitore deve rispondere solo “sì/no” ad ogni item in base alla presenza/assenza di un determinato comportamento nel suo bambino. Il tempo richiesto per la compilazione è di circa 10-15 minuti e può essere somministrato durante le normali visite di controllo dal pediatra a partire dai 18 mesi. Si considera “a rischio di autismo” un bambino che fallisce tre sui 23 item totali oppure due degli item individuati come critici.

FIGURA 3: Traduzione italiana questionario M-CHAT, Robins et al. 1999

FIGURA 3: Traduzione italiana questionario M-CHAT, Robins et al. 1999

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Childhood Autism Rating Scale (CARS)

La scala CARS (Childhood Autism Rating Scale) è stata pubblicata per la prima volta nel 1980 da Schopler e collaboratori (Schopler et al. 1980) ed è stata poi aggiornata nel 2010 (CARS-2). L’obiettivo è quello di identificare la presenza dei segni e sintomi di autismo e valutarne la gravità. La scala è composta da 15 item carta e penna che indagano diverse funzioni: affettività, gioco con oggetti, livello adattivo, comunicazione verbale ed extra-verbale, funzionamento cognitivo, reazione a stimoli uditivi e visivi, impressioni dell’esaminatore… Gli item vengono compilati da clinici esperti secondo un punteggio da 1 a 4: 1 costituisce il punteggio più basso ed indica una minor gravità dei sintomi mentre 4 è il punteggio più alto e indica la presenza di sintomi gravi. Il punteggio può essere assegnato sia valutando in modo diretto il comportamento del paziente sia in base alle informazioni riportate dagli adulti che meglio conoscono il bambino come genitori, caregivers, insegnanti tenendo presente anche l’età del paziente. I punteggi finali riportati dalla scala variano da 15 a 60 vengono poi suddivisi in tre gruppi, a suggerire la presenza e la gravità del quadro autistico:

  • nessun sintomo o sintomi lievi di autismo: punteggi da 15 a 30
  • sintomi da lievi a moderati: punteggi da 30 a 37
  • sintomi severi di autismo: punteggi maggiori di 37

Ad oggi la scala CARS viene utilizzata per identificare pazienti con sintomi di autismo sia in età prescolare che in età scolare a partire dai 2 anni di età. Grazie alla sua elevata validità e sensibilità, si configura come uno strumento efficace ed affidabile per l’individuazione dei soggetti autistici sebbene debba essere usata assieme ad altri strumenti per la diagnosi a causa della sua bassa specificità.

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First Year Inventory (FYI)

Il questionario First Year Inventory è stato creato dai ricercatori Baranek e Reznick ed i loro collaboratori con lo scopo di identificare i pazienti a rischio autismo in epoca precoce, già dai 12 mesi di età (Reznick, J.S, Baranek, G.T. et al, 2007). Il questionario è di facile somministrazione e compilazione e può essere dato ai genitori anche durante le ordinarie visite di salute dal pediatra ai 12 mesi di vita del bambino. Gli autori hanno stipulato il questionario sulla base di diversi studi retrospettivi effettuati su bambini con successiva diagnosi di autismo ed hanno suddiviso il questionario in due macro-domini di indagine: comunicazione sociale e funzioni sensoriali-regolatorie. Ciascuna macrocategoria è stata successivamente suddivisa in quattro sottodomini; per la categoria “comunicazione sociale” sono stati individuati i seguenti domini:

  1. orientamento sociale e comunicazione recettiva;
  2. coinvolgimento socio-affettivo;
  3. imitazione;
  4. comunicazione espressiva

I domini individuati per la categoria “funzioni sensoriali-regolatorie” sono:

  1. elaborazione sensoriale;
  2. modelli regolatori;
  3. reattività;
  4. comportamenti ripetitivi.

Il questionario è formato da un totale di 63 item che raccolgono informazioni quantitative e qualitative circa la presenza/assenza di comportamenti del bambino e la loro frequenza. I punteggi dei singoli item vengono poi raccolti in un punteggio finale di rischio che varia da 0 a 50; è stato individuato successivamente un punteggio cut-off di 15 sopra il quale il bambino viene considerato a rischio autismo.

Di seguito verranno descritti gli strumenti utilizzati per porre diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico. Va precisato che i seguenti test necessitano di una formazione specifica per la somministrazione e vengono prevalentemente somministrati e compilati dal medico specialista in Neuropsichiatria Infantile (NPI). Come gold-standard per la diagnosi di autismo vengono utilizzati due strumenti standardizzati: il test ADOS e l’intervista strutturata ADI-R.

 

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Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS)

Il test ADOS è stato elaborato da Lord e collaboratori per essere usato inizialmente nell’ambito della ricerca sull’autismo ma successivamente è stato ripreso e adattato per l’ambito clinico (Lord et al. 2000). Il test consiste in una osservazione di gioco semi-standardizzata della durata di circa 30/45 minuti dove si osservano in modo diretto i comportamenti del bambino davanti a stimoli di gioco ben precisi. È suddiviso in quattro moduli differenti che vengono somministrati al paziente a seconda del suo livello linguistico e in base all’età:

  • modulo 1, per bambini con linguaggio limitato a singole parole (preverbale);
  • modulo 2, per bambini che riescono a comporre frasi ma il linguaggio non risulta fluente;
  • modulo 3, per giovani pazienti che presentano un linguaggio fluente;
  • modulo 4, per pazienti adolescenti e adulti con un linguaggio fluente.

Nella versione più recente del test (ADOS-2, 2013) è stato introdotto anche il Modulo-T (Toddlers) per pazienti con un’età inferiore ai 24 mesi. Gli item valutati dal test vertono sull’esaminare le competenze che riguardano le tre aree maggiormente compromesse nei pazienti autistici (interazione sociale reciproca, comunicazione e interessi ristretti e ripetitivi) e permettono di porre diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico basandosi sui criteri espressi nel DSM-5 e ICD-10.

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Autism Diagnostic Interview-Revised (ADI-R)

L’intervista semi-strutturata ai genitori ADI-R è stata elaborata da Lord, Rutter e Le Couteur intorno al 1994 con lo scopo di fornire un quadro completo del bambino analizzando i vari comportamenti nei suoi contesti di vita quotidiana. La somministrazione viene fatta da clinici esperti e formati e ha una durata di circa un’ora; può essere somministrata ad uno o ad entrambi i genitori. L’intervista è composta da un totale di 96 item che indagano le tre aree di funzionamento maggiormente compromesse nei pazienti con Disturbo dello Spettro Autistico descritte all’interno del DSM-5 e dell’ICD-10 (qualità dell’interazione sociale reciproca, comunicazione e linguaggio, interessi ristretti, ripetitivi e stereotipati); in aggiunta vengono indagati comportamenti meno cruciali per porre diagnosi di autismo ma che possono essere comunque presenti in pazienti con disturbi del neurosviluppo quali aggressività, iperattività e autolesionismo. Ad ogni item viene poi attribuito un punteggio che varia da 0 (nessun comportamento definito presente) a 3 (estrema severità); la somma dei punteggi dei vari item andrà a formare il punteggio totale da cui si otterrà un punteggio cut-off che indicherà se è possibile o meno porre diagnosi di autismo al bambino.

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CAPITOLO 3: IL RUOLO DEL TNPEE NELLA VALUTAZIONE E PRESA IN CARICO DEL PAZIENTE CON DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO

Come già introdotto in precedenza, la valutazione e la successiva diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) vengono svolte da diversi professionisti e tecnici sanitari specializzati nel settore della neuropsichiatria infantile. Tutte queste figure, in base alle loro osservazioni e ai dati qualitativi e quantitativi raccolti, contribuiscono a meglio definire il quadro autistico e a valutarne le sue peculiarità. Tra le varie figure ritroviamo: pediatri, neuropsichiatri infantili, fisioterapisti, logopedisti, terapisti occupazionali, educatori, psicologi… Tra queste, un ruolo di fondamentale importanza è ricoperto dalla figura del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva.

Secondo il Decreto Ministeriale n. 56 del 17 gennaio 1997 ed entrato in vigore nel marzo dello stesso anno, si definisce la figura professionale del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’età evolutiva (TNPEE) come:

“l’operatore sanitario che in possesso del diploma universitario abilitante svolge, in collaborazione con l’equipe multiprofessionale di neuropsichiatria infantile e in collaborazione con le altre discipline dell’area pediatrica, gli interventi di prevenzione, terapia e riabilitazione delle malattie neuropsichiatriche infantili nelle aree della neuro-psicomotricità, della neuropsicologia e della psicopatologia dello sviluppo”

Nelle pagine successive verrà meglio approfondita la centralità del ruolo del TNPEE, i suoi strumenti e modalità di intervento e l’importanza della collaborazione con altre figure e professionisti sanitari.

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La valutazione neuropsicomotoria

Strumento di fondamentale importanza per il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE) è la valutazione neuropsicomotoria. Durante la valutazione, il Terapista mette in atto due diverse tipologie di ricerca: l’Osservazione Psicomotoria del Comportamento Spontaneo (OPMS) e l’Esame Psicomotorio (EPM). Durante il primo incontro il TNPEE osserva in modo diretto e partecipe il bambino e le sue modalità di gioco, di interazione e il comportamento spontaneo all’interno del setting proposto, cercando di modificare il meno possibile le attività impostate dal bambino individuando così le sue potenzialità evolutive e adattive. Successivamente all’Osservazione Psicomotoria il TNPEE svolge l’Esame Psicomotorio (EPM) volto ad investigare le varie aree di sviluppo del bambino e come queste si influenzano vicendevolmente. Le aree di indagine dell’EPM sono: l’area grosso-motoria, l’area manipolatorio-prassica, l’area linguistico-comunicativa, l’area cognitiva, l’area ludica e l’area relazionale-sociale. Durante l’esame psicomotorio il Terapista, confrontandosi con il genitore/caregiver, raccoglie ulteriori informazioni riguardo la vita quotidiana del bambino, il nucleo famigliare nel quale è inserito, le sue autonomie personali (es. alvo e diuresi, controllo sfinterico, alimentazione, ritmo sonno-veglia…), eventuali preoccupazioni o difficoltà riportate dalla famiglia o dalle alte persone che ruotano attorno al bambino. L’Osservazione e l’Esame Psicomotorio permettono di ottenere un quadro globale funzionale e diagnostico del paziente volto alla conoscenza non solo dei segni e sintomi della patologia ma anche alla conoscenza della persona, della sua famiglia e dell’ecosistema nel quale è inserito secondo un Modello Bio-psico-sociale (Engel, 1980). La “conoscenza” della persona, delle competenze raggiunte e messe in atto e dei suoi comportamenti atipici o aree di maggiore difficoltà è importati poi per la stesura degli obiettivi della presa in carico riabilitativa e per la stesura del piano riabilitativo individualizzato (PRI).

A completamento della valutazione neuropsicomotoria vengono effettuati ulteriori approfondimenti attraverso la somministrazione di scale dello sviluppo e/o test standardizzati per meglio definire e comprendere il funzionamento globale del paziente.

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La valutazione testale

Tra le scale e i test standardizzati maggiormente utilizzati dal TNPEE e che esso stesso può somministrare ritroviamo la scala PEP-3, il test di sviluppo Griffith III e le scale Vineland. Tutti i test riportati richiedono una specifica formazione che attesti l’adeguata capacità di somministrazione da parte del professionista.

Psycho-Educational Profile 3 (PEP-3)

La scala PEP-3 permette di valutare e ottenere in modo dettagliato un profilo psico-educativo del paziente ed è rivolta soprattutto ai bambini di età compresa tra i 6 mesi e i 7 anni (Schopler et al. 1990). Il test è suddiviso in tre sottocategorie di indagine:

  1. subtest cognitivo verbale/preverbale: è composto da 34 item totali e indaga le capacità del bambino di risolvere problemi, abbinare forme-colori-oggetti e nominare immagini attraverso attività di gioco che comprendono puzzle, ricerca e ritrovamento di oggetti, nominare e/o ripetere parole, cifre o frasi ed eseguire dei comandi;
  2. subtest linguaggio espressivo: è formato da 25 item e indaga le capacità linguistiche in uscita del bambino come, ad esempio, la capacità di contare, produrre delle frasi sintatticamente adeguate all’età, leggere, denominare oggetti, colori e lettere, indicare il proprio genere o nome e richiedere aiuto;
  3. subtest linguaggio ricettivo: è composto da 19 item e misura la capacità di comprendere ciò che viene detto al bambino durante la comunicazione. Per valutare ciò, al bambino vengono richiesti compiti quali eseguire piccole azioni, rispondere a gesti o domande, indicare parti del corpo, oggetti, forme e colori su comando.

Ogni item viene poi valutato su una scala di punteggi NS, 0, 1, 2 in base all’insuccesso o alla riuscita della prova. I vari punteggi ottenuti vengono successivamente riportati in tabella e convertiti in termini quantitativi per indicare il grado di compromissione del paziente. Inoltre, al termine della somministrazione della scala, vengono riportati tra gli aspetti qualitativi la presenza di possibili comportamenti irregolari o disadattivi del paziente che influiscono sulla stesura del profilo psico-educativo.

Uno dei grandi punti di forza della scala PEP-3 è la sua capacità di limitare le richieste verbali al minimo; infatti, sebbene sia comunque necessaria una minima capacità verbale linguistica per somministrare la scala, il test limita le risposte verbali laddove è possibile. Questo permette al test di essere somministrato ad un’ampia gamma di pazienti autistici o con altri Disturbi del Neurosviluppo anche nei casi in cui il loro funzionamento sia estremamente basso e il loro grado di compromissione sia severo.

Stendere in modo dettagliato e preciso il profilo psico-educativo del paziente con i suoi punti di forza e aree di caduta, permette di pianificare un intervento riabilitativo che sia il più specifico ed individualizzato possibile. Inoltre, l’individuazione delle capacità emergenti del paziente contribuisce alla stesura e alla definizione dei primi obiettivi riabilitativi della presa in carico.

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Griffith Mental Development Scales III (GMDS)

Le scale Griffith Mental Development Scales III (GMDS) permettono di determinare e valutare il profilo e il livello di sviluppo del bambino e sono principalmente rivolte alla fascia di età che va da 0 a 6 anni. Le scale GMDS sono suddivise in cinque sottoscale (basi dell’apprendimento, linguaggio e comunicazione, coordinazione occhio-mano, personale-sociale-emotiva e grosso motorio; (Figura 4); ognuna di queste è stata concepita per esaminare in modo completo ed esaustivo un aspetto dello sviluppo (Griffith, 1970).  La somministrazione della scala inizia determinando l’età corretta (in mesi) del bambino individuando così la fascia di età di appartenenza da cui iniziare il test. Ogni item viene valutato in modo differente in base alle istruzioni riportate nel manuale e ad ognuno di essi il valutatore dovrà apporre un punteggio di 1 se l’item è stato superato o un punteggio di 0 se l’item non viene superato. Al termine della somministrazione dei vari items, viene fatta la somma dei vari punteggi, andando ad individuare un Quoziente di Sviluppo (QS). Grazie all’utilizzo di materiale standardizzato che si avvicina molto agli elementi quotidiani che il bambino sperimenta (es. pasta da modellare, costruzioni, libri, peluche, incastri di varie forme e dimensioni…) la somministrazione della scala viene resa attrattiva ed ecologica per il bambino. Secondo recenti studi (Pino et al. 2022) si è visto come i punteggi delle sottoscale Basi dell’apprendimento, Linguaggio e comunicazione e Personale-sociale-emotiva sono quelli maggiormente compromessi nei bambini con autismo e punteggi molto inferiori rispetto alla norma in queste sottoscale correlano con una maggiore gravità dei sintomi al momento della diagnosi.

Grazie alle valutazioni ottenute tramite le scale Griffith III è possibile individuare il profilo di sviluppo del bambino con le sue aree di maggiore capacità e/o di debolezza al fine di monitorare l’andamento dello sviluppo globale ed impostare un intervento riabilitativo che sia mirato e personalizzato sulle esigenze del bambino.

FIGURA 4: Sottoscale delle Griffith Mental Development Scales III

FIGURA 4: Sottoscale delle Griffith Mental Development Scales III

 

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Vineland Adaptive Behaviour Scales (VABS)

Le scale Vineland (VABS) sono tra le scale psicometriche maggiormente utilizzate per valutare i deficit nel comportamento adattivo nei pazienti da 0 a 18 anni e valutare quanto questi deficit vadano ad impattare sullo sviluppo, sulla vita quotidiana e sul funzionamento in relazione all’età. La prima versione della scala Vineland fu redatta dagli autori Sparrow, Balla e Cicchetti nel 1984; nel 2015 è stata poi introdotta una seconda versione più aggiornata (VABS-2) aggiungendo un modulo di valutazione indirizzato ai genitori, tutor, caregiver del paziente. I domini principali indagati dalla scala sono:

  • Comunicazione: si indaga la capacità del bambino di capire ciò che viene richiesto verbalmente e/o attraverso il linguaggio scritto e la capacità di esprimere i suoi bisogni;
  • Abilità della vita quotidiane: competenze inerenti al prendersi cura di sé e di adesione alle regole domestiche o di comunità nella quale il paziente è immerso;
  • Socializzazione: si valuta la capacità di intrattenere relazioni con altri, inserirsi in gruppi di gioco o attività adeguati all’età e le abilità di fronteggiare le sfide sociali (coping)
  • Abilità grosso e fino motorie, vengono indagate solo nei bambini di età inferiore ai 6 anni.

Ai vari item contenuti nei diversi domini viene assegnato un punteggio attraverso una scala Likert da 0 a 2: “0” se l’abilità non è mai presente o presente raramente, “1” se l’abilità viene utilizzata solo qualche volta e “2” se l’abilità è sempre presente. La scala deve necessariamente essere somministrata da personale competente e debitamente formato ed è rivolta alle diverse figure che meglio conoscono il funzionamento del paziente: genitori, caregiver, tutor, insegnanti…

Grazie alla scala Vineland e ai punteggi riportati in ogni dominio viene delineato il profilo di funzionamento del paziente nelle varie aree della vita quotidiana, consentendo di monitorare nel tempo eventuali modificazioni del comportamento e programmare interventi e servizi idonei per il paziente.

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La restituzione

Al completamento del processo diagnostico e valutativo, viene programmato un colloquio di restituzione alla presenza dei vari membri dell’equipe multidisciplinare e dei genitori/caregiver del paziente. Il colloquio di restituzione non segna un punto di fine ma l’inizio di un cammino che coinvolgerà bambino, famiglia, professionisti sanitari ed eventualmente anche professionisti sociali. Durante il momento della comunicazione della diagnosi e dei risultati ottenuti dalle varie valutazioni, è bene fornire informazioni chiare e precise circa il quadro diagnostico, il profilo funzionale e di sviluppo del bambino, il progetto riabilitativo terapeutico, le ipotesi prognostiche e la gamma di servizi di Neuropsichiatria Infantile offerti dal territorio di appartenenza e ai quali il paziente può accedere. Spesso durante il colloquio i genitori vengono assaliti da dubbi, domande, senso di confusione e disorientamento; sarà compito dell’NPI e dei membri dell’equipe multidisciplinare ascoltare e rispondere alle domande dei genitori/caregiver e riaccendere in loro una speranza di cambiamento e fiducia nel progetto riabilitativo suggerito.

Una volta ottenuto il consenso da parte di entrambi i genitori/caregiver all’inizio della presa in carico riabilitativa, vengono stipulati e condivisi con i genitori e i membri dell’equipe gli obiettivi riabilitativi redatti per il paziente e le successive fasi dell’intervento terapeutico. Ad oggi, presso il centro “Riapri il mondo” di Viale Trieste vengono proposti percorsi di presa in carico riabilitativa ciclici della durata totale di 16/18 mesi indirizzati a pazienti con diagnosi o sospetta diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico di entità grave-severa. A causa dell’elevata richiesta di adesione a questo progetto, nell’ultimo periodo sono stati avviati brevi cicli di presa in carico riabilitativa della durata totale di circa tre mesi volti al raggiungimento e al conseguimento di obiettivi specifici riguardanti particolari competenze del paziente. Al termine del raggiungimento degli obiettivi e del ciclo riabilitativo il paziente e la famiglia vengono indirizzati ai servizi di Neuropsichiatria Infantile pubblici, privati o privati accreditati presenti sul territorio di residenza per proseguire il lavoro precedentemente impostato.

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La stesura del Progetto Riabilitativo Individuale (PRI)

Prima dell’inizio della fase “attiva” della presa in carico riabilitativa, il TNPEE ha il compito di stipulare il Progetto Riabilitativo Individuale (PRI) e di condividerlo con genitori/caregiver e con i membri dell’equipe multidisciplinare. All’interno del PRI vengono definiti gli obiettivi a breve, medio e lungo termine su cui si andrà ad impostare il trattamento riabilitativo, suddivisi nelle varie aree dello sviluppo del bambino, e le strategie utilizzate per raggiungere tali obiettivi. Questi si baseranno sulla storia naturale del bambino, sulle informazioni raccolte dalle valutazioni delle varie funzioni e sulle possibili evoluzioni prognostiche del quadro clinico considerando il bambino nella sua globalità fisica, mentale e comunicativo-relazionale. Come viene definito altresì dal Ministero della Sanità nel Decreto Ministeriale 56/1997, la figura del TNPEE ha il compito di:

“adattare gli interventi terapeutici alle peculiari caratteristiche del paziente in età evolutiva con quadri clinici multiformi che si modificano nel tempo in base alle funzioni emergenti”

“svolgere l’attività terapeutica per le disabilità neuro-psicomotorie […] in età evolutiva utilizzando tecniche specifiche per fascia di età e per singoli stadi di sviluppo”

“identificare il bisogno e realizzare il bilancio diagnostico e terapeutico tra rappresentazione somatica e vissuto corporeo e tra potenzialità funzionali generali e relazione oggettuale”.

Proprio secondo tali indicazioni, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine e le strategie individuati e contenuti nel PRI dovranno essere individualizzati e personalizzati in base alle esigenze del bambino per aiutarlo a raggiungere il più alto grado di salute possibile ed aiutarlo a trovare strategie per risolvere i problemi imposti dall’ambiente in cui è immerso.  
Come strumento di lavoro privilegiato per raggiungere gli obiettivi precedentemente descritti il TNPEE utilizzerà il gioco in tutte le sue forme. È ormai ampiamente documentato da diversi autori (Winnicott 1974, Bruner 1976, Wille 1998, Fedrizzi 2004) che il gioco è strettamente correlato all’apprendimento e che l’attività del “giocare” nel bambino non è solo un’azione frivola, ma implica un coinvolgimento attivo e motivato da parte del bambino e permette di sviluppare e apprendere diverse abilità comunicativo-linguistiche, socio-emotive, cognitive, grosso e fini motorie e permette di rapportarsi con il mondo e la realtà circostante al bambino. Lo sviluppo delle varie competenze e delle sequenze ludiche è possibile solo se è presente il supporto dell’altro, dell’adulto; è quindi importante che il TNPEE coinvolga anche i genitori/caregiver durante le sequenze di gioco in terapia.

Periodicamente, il TNPEE si riserva la facoltà di verificare l’andamento del quadro clinico del paziente e l’idoneità del Progetto Riabilitativo Individuale al fine di aggiornare e modificare gli obiettivi terapeutici e le strategie precedentemente individuati riadattandoli alla modificabilità emersa dal quadro clinico, alle nuove competenze apprese e sviluppate dal paziente e al suo contesto sociale.

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L’importanza di fare rete

Il ruolo del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE) nella presa in carico riabilitativa del paziente è cambiato molto nel corso degli anni: ad oggi è considerato protagonista attivo ed in prima linea ad affrontare quotidianamente le problematiche e le difficoltà riportate dal paziente e dal suo contesto familiare. Sebbene la sua grande importanza, l’approccio olistico ed ecologico all’interno del quale il TNPEE svolge le sue mansioni presuppone la collaborazione e il confronto continuo e prolungato nel tempo con diverse figure dell’ambito medico e non medico. Tra le figure con cui il TNPEE collabora ritroviamo la famiglia, gli operatori della riabilitazione, gli insegnanti e gli educatori.

Il TNPEE opera in un’ottica Family Centred Care (FCC). L’approccio incentrato sulla famiglia, in ambito ospedaliero e ambulatoriale, si pone come obiettivo quello di migliorare la qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie, favorire lo sviluppo del bambino, aumentare la soddisfazione dei familiari e il loro coinvolgimento e adesione al programma terapeutico riducendo le preoccupazioni e i loro stati d’ansia, migliorare la qualità e l’organizzazione il servizio offerto dai professionisti sanitari. I punti essenziali su cui si fonda l’approccio Family Centred sono:

  • lo scambio aperto, obiettivo e costante di informazioni riguardanti il bambino con la sua famiglia. Ogni informazione deve essere data in modo chiaro, comprensibile e completo per aiutare i genitori nel processo decisionale e stabilire con loro una relazione di rispetto e fiducia;
  • il rispetto delle differenze e dell’unicità di ogni nucleo familiare, andando oltre i preconcetti e i costrutti mentali, e l’empowerment della famiglia per dare loro la capacità di prendersi cura del loro bambino;
  • la collaborazione con la famiglia: le decisioni riguardanti gli aspetti medici del paziente, spettano alla famiglia e devono adattarsi ai suoi bisogni, valori e punti di vista;
  • la cura del contesto familiare e comunitario, in quanto l’assistenza medica e le scelte prese si riflettono dapprima sul paziente e successivamente sul contesto nel quale è inserito.

Basandosi proprio su tali assunti, il TNPEE ha il compito non solo di condividere il percorso riabilitativo con il genitore ma anche di coinvolgerlo attivamente all’interno del setting di terapia, inteso non solo in termini fisici di spazi e oggetti, ma anche in termini temporali e motivazionali.

Data la complessità del quadro clinico, soprattutto nei casi di Disturbo dello Spettro Autistico, è importante avere una stretta collaborazione tra i vari professionisti sanitari facenti parte dell’equipe multidisciplinare, in modo da intrecciare le varie informazioni ottenute dalle diverse figure circa i molteplici aspetti del profilo del paziente, delle sue difficoltà e progettare un programma riabilitativo di trattamento completo ed esaustivo. Ogni professionista, membro dell’equipe, avrà un ruolo ben preciso nella valutazione e nell’inquadramento diagnostico del paziente.

Tra le varie figure ritroviamo ad esempio quella dello Psicologo. L’obiettivo della valutazione psicologica, oltre all’eseguire valutazioni psicometriche circa il funzionamento del bambino, i suoi stili di apprendimento e le possibili risorse messe in atto per sostenerlo, è quello di fornire supporto alla famiglia e ai genitori/caregivers durante i diversi passaggi della presa in carico: dalla comunicazione della diagnosi fino al termine del percorso riabilitativo.

Altra figura molto importante è quella del Logopedista. La valutazione logopedica raccoglie informazioni qualitative e quantitative circa i precursori linguistici (ad esempio: intenzionalità comunicativa, l’utilizzo di gesti deittici e/o referenziali, l’accesso al simbolo, attenzione congiunta…), la prosodia, la pragmatica, l’inventario fonetico del bambino e le sue abilità narrative. Attraverso la raccolta dei dati anamnestici fornita dai familiari, le osservazioni di gioco spontaneo e i vari questionari rivolti ai genitori e/o caregivers, il Logopedista valuta le abilità comunicative del paziente e individua gli aspetti prioritari dell’intervento riabilitativo.

In base ai bisogni, alle esigenze e alle caratteristiche specifiche di ogni paziente, la valutazione comprenderà ulteriori approfondimenti specifici eseguiti da diversi professionisti (fisioterapisti, terapisti occupazionali…)

Presso il centro “Riapri il mondo” l’importanza di una presa in carico multidisciplinare e interdisciplinare è garantita grazie alla collaborazione dei diversi membri dell’equipe ma anche dalla stretta connessione ed integrazione con le Unità di Neuropsichiatria e Psicologia dell’Infanzia e dell’Adolescenza (UONPIA) pubbliche e private accreditate. Una volta ricevuta diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico, il paziente viene reso noto al servizio di Neuropsichiatria del territorio e al Neuropsichiatra Infantile di riferimento che garantirà la continuità della presa in carico riabilitativa nel corso delle diverse fasi di vita del paziente.

Come citato nelle Linee di indirizzo per la promozione ed il miglioramento della qualità e dell'appropriatezza degli interventi assistenziali nei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo e in particolare per l’ASD:

“sono essenziali il raccordo e il coordinamento tra i vari settori sanitari coinvolti così come l’integrazione tra gli interventi sanitari e quelli scolastici, educativi e sociali, tra servizi pubblici […] e del privato sociale, le famiglie e le loro Associazioni. L’intervento psicoeducativo raggiunge la sua massima efficacia se esercitato nell’ultimo anno di asilo nido e nella scuola dell’infanzia: perciò è essenziale una vera integrazione dei servizi sanitari con quelli scolastici e sociali”

La figura del TNPEE collabora assieme ad insegnanti e educatori nella stesura e nella compilazione degli strumenti operativi per l’inclusione scolastica del bambino con disabilità. L’ambiente dell’asilo nido e della scuola materna sono ambienti di grande importanza che permettono la trasferibilità degli apprendimenti in un contesto dove il bambino ha la possibilità di confrontarsi con i suoi pari. Educatori, insegnanti e TNPEE sono tenuti a organizzare incontri periodici di confronto al fine di condividere informazioni sul bambino, condividere gli obiettivi terapeutici individuati in terapia e stipulare obiettivi raggiungibili anche in ambiente scolastico. Il TNPEE ha inoltre la possibilità di fare parte dell’UVM (Unità Valutativa Multidisciplinare) per analizzare quali siano gli interventi adatti per il singolo caso e dare forma al Profilo di Funzionamento. Oltre a questo, il TNPEE può compartecipare ai Gruppi di Lavoro Operativo per l’inclusione scolastica (GLO) previsti durante tutto il corso dell’anno scolastico e contribuire all’iniziale stesura e alla successiva modifica e verifica del PEI (Piano Educativo Individualizzato) all’interno del quale vengono definiti le attività, gli obiettivi e le strategie individuate per l’inclusione del soggetto con disabilità all’interno dell’ambiente scolastico, in accordo con le insegnanti e le figure genitoriali del paziente.

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