I DISTURBI DELLA NUTRIZIONE E DELL’ALIMENTAZIONE (DNA)
- I DISTURBI DELLA NUTRIZIONE E DELL’ALIMENTAZIONE (DAN)
- NON SOLO CIBO
- IL TRATTAMENTO NEURO E PSICOMOTORIO
- LA TERAPIA NEURO E PSICOMOTORIA NEI PAZIENTI CON DISTURBI DELLA NUTRIZIONE E DELL’ALIMENTAZIONE IN ETA’ EVOLUTIVA
OBIETTIVI DEL PRESENTE PROGETTO DI TESI
I DISTURBI DELLA NUTRIZIONE E DELL’ALIMENTAZIONE (DAN)
Classificazione
Più comunemente conosciuti come “Disturbi del Comportamento Alimentare” (DSM IV), i disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione sono inseriti all’interno del DSM V, “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, secondo cui sono caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione oppure da comportamenti inerenti l’alimentazione che comportano un alterato consumo o assorbimento di cibo e che compromettono significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale. (American Psychiatric Association, 2018)
Le diagnosi di disturbo alimentare riportate nel DSM V includono, ma non sono limitate, anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata e disturbo evitante/restrittivo dell'assunzione di cibo. (Nagata, Ganson, Murray, 2021)
Anoressia Nervosa
L’anoressia nervosa ha una prevalenza, tra la popolazione a rischio, dello 0,2-0,9 % circa, soprattutto giovani donne.
Questa forma di disturbo alimentare è caratterizzata da una restrizione nell’assunzione di calorie in relazione alle necessità, che porta ad un peso corporeo significativamente basso nel contesto dell’età, del sesso, della traiettoria di sviluppo e della salute fisica. Un altro criterio diagnostico dell’anoressia nervosa è un’intensa paura di aumentare di peso o di diventare grassi, oppure un comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, anche se significativamente basso. La diagnosi prevede infine un’alterazione del modo in cui viene vissuto dall’individuo il peso o la forma del proprio corpo, un’eccessiva influenza del peso o della forma del corpo sui livelli di autostima, oppure persistente mancanza di riconoscimento della gravità dell’attuale condizione di sottopeso. (Mansi, 2021)
Bulimia Nervosa
La diagnosi di bulimia nervosa si fa quando sono presenti i seguenti sintomi: ricorrenti episodi di abbuffata, ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso e livelli di autostima indebitamente influenzati dalla forma e dal peso del corpo. Per giustificare tale diagnosi, gli episodi di abbuffate e le condotte compensatorie inappropriate devono verificarsi almeno una volta alla settimana per almeno tre mesi.
Con il termine “abbuffata” si intende l’ingestione in un determinato periodo di tempo limitato di una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili. (American Psychiatric Association, 2018)
La prevalenza puntiforme della bulimia nervosa è circa lo 0,5-1,8% della popolazione a rischio. (Mansi, 2021)
Binge Eating
Anche noto come disturbo da alimentazione incontrollata, il binge eating ha una prevalenza puntiforme di circa il 2-3% di tutta la popolazione. (Mansi, 2021)
La caratteristica prevalente di tale disturbo è rappresentata dai vari episodi di abbuffata, che devono verificarsi, mediamente, almeno una volta alla settimana per tre mesi. Tale episodio di eccessivo consumo di cibo deve essere accompagnato inoltre da una sensazione di perdita di controllo. Un indicatore della perdita di controllo è l’incapacità di astenersi dal mangiare o di smettere di mangiare una volta iniziato. (American Psychiatric Association, 2018)
Disturbo Evitante Restrittivo dell’assunzione di cibo
Questo disturbo sostituisce ed estende la diagnosi del DSM-IV relativa ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione nell’infanzia e nella prima infanzia. La caratteristica principale di tale disturbo è l’evitamento o la restrizione nell’assunzione di cibo manifestati da un’incapacità clinicamente significativa nel soddisfare i requisiti per la nutrizione oppure da un apporto energetico insufficiente attraverso l’assunzione orale di cibo.
Le caratteristiche associate a tale disturbo sono le seguenti: significativa perdita di peso, significativo deficit nutrizionale, dipendenza dall’alimentazione parenterale o da supplementi nutrizionali orali, oppure una marcata interferenza con il funzionamento psicosociale. (American Psychiatric Association, 2018)
Durante l’infanzia, i disturbi legati all’alimentazione e della nutrizione hanno manifestazioni frequenti e molto variabili.
Il DSM V ha quindi ampliato l’etichetta diagnostica di tali disturbi, inserendo tra questi anche i disturbi alimentari con esordio durante l’età evolutiva, tra cui troviamo anche alimentazioni selettive, alimentazioni restrittive e fobie/paure specifiche con evitamento dell’alimentazione. (Zanna, Castiglioni, Chianello, Criscuolo, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2019)
AFRID
Spesso, più il bambino è piccolo, tanto più il disturbo alimentare si configura attraverso forme restrittive e selettive; andando poi avanti con l’età si può assistere ad una sovrapposizione dei quadri clinici con quelli più tipici dell’età adulta. (Spitoni Aragona, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2019)
FAED
Definito come “Disturbo emozionale con evitamento del cibo”, questa condizione vede coinvolti bambini che sono consapevoli della loro condizione di eccessivo sottopeso e che vorrebbero aumentare, ma non riescono in quanto pervasi da stati emozionali che impediscono al bambino di alimentarsi. (Pizzo Massignani, Disturbo emozionale con evitamento del cibo (FAED), 2014)
Fattori di rischio
Cosa c’è alla base di questi disturbi? Quali sono i fattori di rischio, i fattori che predispongono una persona ad ammalarsi di queste patologie?
L’eziologia di tali disturbi è sicuramente complessa e multifattoriale e si inserisce in un quadro bio-psico-sociale.
È necessario dunque prendere in considerazione vari aspetti della persona, tra cui quelli individuali e familiari.
I fattori individuali che sembrano poter predisporre ad un DAN sono: basso concetto di sé, alto livello di perfezionismo patologico, rimugino ansioso generalizzato, ruminazione depressiva su errori del passato, sui difetti e sulle critiche subite, pensiero dicotomico, esagerata tendenza al “controllo”, una preoccupazione estrema per il peso e le forme corporee e una distorsione dell’immagine corporea. (Mansi, 2021)
Elemento cruciale nello sviluppo e nella storia di tali disturbi è quello familiare.
Le relazioni che l’individuo ha avuto e ha con i propri genitori, la sua storia di attaccamento e le dinamiche interne a questi rapporti sono allo stesso tempo sia dei fattori protettivi, sia dei fattori di rischio per lo sviluppo di tali disturbi.
Non esiste un prototipo di famiglia “tipica” che possa favorire l’insorgenza o meno di un disturbo alimentare, bensì diversi studi hanno sottolineato alcuni elementi che potrebbero favorirne l’insorgenza.
Ciò che caratterizza una famiglia come un potenziale fattore di rischio è:
- Negazione di bisogni emotivi
- Eccessiva invadenza, che comporta dunque una scarsa definizione dei confini
- Ostilità e criticismo
- Eccessivo controllo
- Esagerata preoccupazione genitoriale
Ulteriore aspetto da considerare quando ci troviamo di fronte ad una patologia di questo tipo è l’importanza che alcune famiglie danno al cibo, al peso e alle forme corporee, per esempio accompagnando con apprezzamenti positivi o negativi sul corpo, possono portare il figlio a voler rispondere alle aspettative familiari adeguandosi all’ideale che “magro è bello”. In queste famiglie la mamma, per esempio, potrebbe essere spesso a dieta. (Mansi, 2021)
Il rapporto che quindi ciascuno di noi ha con il cibo è profondamente condizionato da questioni che riguardano le nostre abitudini, le credenze, le radici, la cultura e gli aspetti inconsci. È quindi opportuno che i genitori di un ragazzo o ragazza affetti da disturbo alimentare, riflettano sul modo con cui mostrano ai propri figli il loro rapporto con l’alimentazione, in quanto avrà forti conseguenze, orientando le scelte alimentari del proprio bambino. (Mendolicchio , Il peso dell'amore, 2021)
Alcuni motti tipici di “famiglie a rischio” sono:
“Siamo una famiglia perfetta” oppure “Sindrome della brava ragazza”.
Nel primo caso sono famiglie che negano la presenza dei normali problemi esistenti in ogni famiglia e che passano il messaggio della perfezione. Questo comporta dunque nei figli una tendenza ancora più forte a raggiungere e a vivere secondo ideali irrealistici di perfezione.
Nel secondo caso invece, le famiglie trasmettono il messaggio di essere sempre e comunque una “brava ragazza”, accondiscendendo a tutto ciò che i genitori desiderano, mettendo da parte i propri bisogni. Ciò potrebbe portare ad una frustrazione e depressione. Di conseguenza il controllo sul cibo, sul peso e sulle forme potrebbe fornire uno sfogo indiretto a questi sentimenti.
Determinanti nella predisposizione ai DAN, sono senza ombra di dubbio la società e la cultura in cui si cresce, che portano con sé stereotipi e ideali ben specifici, come: un criterio di bellezza dominante e pregiudizi che influenza il grado di accettazione del proprio corpo. L’immagine attuale di successo non è legata al possesso di particolari capacità, bensì a modelli irreali di donne attraenti e molto magre.
La cultura dominante oggi promuove valori come la magrezza, l’autocontrollo, l’indipendenza, il fascino, il successo e l’apprezzamento sociale, così come la presenza di pregiudizi nei confronti delle persone in sovrappeso e/o obese.
Inoltre, le diete ferree aumentano il rischio di sviluppare un disturbo alimentare e le persone che si lasciano suggestionare dal mito del corpo sano e perfetto possono intraprendere, pur non avendone necessità, una dieta che con il tempo e dopo i primi risultati, può diventare sempre più restrittiva rendendole più predisposte a sviluppare la patologia. (Mansi, 2021)
È di fondamentale importanza dunque focalizzarsi su quelli che possono essere fattori protettivi all’insorgenza del disturbo, i quali rappresentano una combinazione di ingredienti ambientali, socioculturali e di variabili intrapsichiche o personali in grado di aumentare le competenze sociali, l’autostima, l’autoefficacia e di conseguenza ridurre gli effetti del rischio, favorire le competenze, rafforzare l’individuo nei confronti delle avversità, consolidando le sue risorse e strategie. (Centro disturbi del comportamento alimentare (DCA), 2013)
Il trattamento
Data la complessità di tali disturbi, l’intervento precoce riveste un’importanza particolare. (Ministero della Salute, 2019)
In tutto lo spettro dei disturbi alimentari, c'è ancora molto da sapere e conoscere circa la loro eziologia, il loro sviluppo e le modalità attraverso cui possono essere efficacemente gestiti e trattati. (Davis Attia, 2019)
Vista la patogenesi complessa e le elevate probabilità di gravi complicazioni e scarsi risultati, il trattamento dei disturbi alimentari prevede un intervento integrato e precoce, che tenga in considerazione i seguenti aspetti:
- Fornire informazioni ai genitori dei pazienti: il coinvolgimento dei genitori è fondamentale, affinché comprendano la natura del disturbo e le basi su cui si appoggia l’intervento terapeutico. È necessaria chiarezza nello spiegare ai genitori tutto ciò che è determinante nella storia della patologia del figlio, tra cui diagnosi, decorso, fattori di rischio, fattori protettivi e trattamento proposto, con le possibili complicazioni che possono presentarsi durante il percorso.
- Coinvolgere i genitori nella terapia: nonostante il trattamento sia ovviamente incentrato sul piccolo paziente, il ruolo dei genitori è essenziale in quanto il terapeuta stabilirà gli obiettivi dell’intervento sia con il bambino che con i genitori, che sono le principali figure di riferimento di quest’ultimo e che dovrebbero collaborare insieme alle figure dell’equipe tramite dei feedback sui progressi e sulle difficoltà incontrate dal bambino nel decorso della patologia e nella gestione di aspetti prettamente tecnici a casa, quali la pianificazione dei pasti, la loro preparazione o l’accompagnare il bambino ai vari appuntamenti.
- Considerare la necessità di un ricovero ospedaliero: nello stabilire l’esigenza o meno di tale strada devono essere tenuti in considerazione vari aspetti, tra cui le condizioni fisiche e mentali del bambino, l’apprensione dei genitori e la disponibilità o meno di servizi sul territorio di appartenenza. Tale decisione e tale intervento dovrebbe essere gestito con molta attenzione, tenendo in considerazione i bisogni educativi e sociali del bambino.
- Creare un’alleanza terapeutica: fondamentale per una buona riuscita del trattamento. Inizialmente l’alleanza si deve creare con i genitori, in secondo luogo con il bambino.
- Considerare l’aspetto motivazionale: la motivazione a compiere un cambiamento è composto da due parti. Il desiderio di cambiare e la fiducia riguardo alla possibilità che questo cambiamento avvenga realmente. La motivazione al trattamento deve essere stimolata e suscitata e non imposta.
- Calcolare l’intervallo di peso considerato nella norma
- Ristrutturare i modelli alimentari
- Valutare un approccio cognitivo comportamentale
- Svolgere un lavoro con la famiglia
- Prendere in considerazione gli ambiti educativi
(Pizzo Massignani, La terapia cognitivo-comportamentale dei disturbi alimentari in età evolutiva, 2014)
Negli ultimi anni è aumentata la disponibilità di trattamenti specialistici per i DNA e si è cercato di individuare i percorsi sempre più specifici e rispondenti alle caratteristiche della persona e del suo disagio. (Figlie in lotta con il cibo, 2003) Il trattamento per i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione è di base un trattamento multi-specialistico integrato, in cui sono coinvolte diverse figure professionali, tra cui il nutrizionista, lo psicoterapeuta e lo psichiatra. È un intervento che prende in considerazione la persona sia individualmente sia la famiglia e le dinamiche di essa. (Mansi, 2021)
Le cure possono includere interventi informativi, terapie motivazionali, psicoterapie individuali, familiari o di gruppo, riabilitazione nutrizionale, gruppi di auto-aiuto per genitori o pazienti, terapia farmacologica, ospedalizzazioni ordinarie o in day hospital per problemi acuti o a fini riabilitativi, fino all’inserimento in comunità protette. (Figlie in lotta con il cibo, 2003)
Il trattamento dei DNA, a qualsiasi livello esso sia, si basa su due principi: approccio multidisciplinare integrato con la presa in carico del paziente da un’equipe multidisciplinare, che coinvolge a 60 gradi l’operato di vari professionisti sia dell’areainternistica/nutrizionale, sia dell’aerea psichiatrica/psicologica. Ciascuna figura professionale appartenente all’equipe deve collaborare con gli altri professionisti e condividere con loro lo stesso progetto terapeutico, gli stessi obiettivi e le medesime strategie per raggiungerli. (Dalla Ragione Vicini, Se la mappa non è il territorio. Percorsi di cura nel trattamento dei disturbi dell'alimentazione e della nutrizione, 2019) Trattamenti efficaci hanno tradizionalmente incluso terapie incentrate sul comportamento e diverse strategie terapeutiche. Gli ultimi anni hanno visto sviluppi promettenti in questi trattamenti, tra cui un supporto aggiuntivo per approcci basati sulla famiglia per bambini e adolescenti, nuove prove per terapie comportamentali di "terza ondata" e nuovo supporto per l'uso di lisdexamfetamina per il disturbo da alimentazione incontrollata e olanzapina per l'anoressia nervosa. (Solmi, Radua, Stubbs, Ricca, Moretti, 2021). Ad oggi le due terapie che sembrano essere le più efficaci sono quella cognitivo comportamentale (CBT), la terapia interpersonale (IPT) e quella incentrata sulla famiglia (TF). (Figlie in lotta con il cibo, 2003)
Gli interventi psicoterapici rappresentano una parte decisamente importante della terapia; quelli utilizzati nella pratica clinica sono estremamente eterogenei e non è stata dimostrata in modo certo la superiorità terapeutica di uno rispetto all’altro. Per iniziare un trattamento psicologico è necessario raggiungere una adeguata motivazione al cambiamento e, per quanto riguarda l’anoressia, il percorso va iniziato solo dopo una stabilizzazione delle condizioni fisiche. (Centro disturbi del comportamento alimentare (DCA), 2013)
Terapia cognitivo comportamentale
L’approccio di tipo cognitivo-comportamentale sostiene che i sintomi del disturbo alimentare sono principalmente mantenuti da un insieme caratteristico di idee sopravvalutate sulle implicazioni personali della forma corporea e del peso.
L’obiettivo di questa terapia consiste dunque nel trovare le strategie per far cadere queste idee e questi intricati meccanismi, che sono alla base della patologia. (Dalle Grave, El Ghoch, Sartirana, Calugi, 2016)
Il modello cognitivo comportamentale si fonda essenzialmente su due aspetti principali: la modificazione degli aspetti emozionali del paziente e la modificazione di alcuni comportamenti in relazione al cibo. Affinché avvenga il secondo è necessario lavorare precedentemente sul primo e cioè “imparare a identificare ed etichettare correttamente le sensazioni e le emozioni per poterle poi affrontare correttamente”
Nei bambini è spesso comune che alcune emozioni e sentimenti negativi vengano confusi e fraintesi con altre sensazioni; è necessario, perciò, fornire al bambino gli strumenti per comprendere ciò che è un “pensiero” e riconoscere le proprie emozioni, in modo che possa poi identificare e gestire i propri pensieri automatici.
I pensieri automatici tipici di alcuni soggetti affetti da anoressia nervosa, per esempio possono essere: “Quando perdo peso, piaccio di più alla gente” oppure “L’esercizio fisico mi aiuta a mantenere il mio peso”, ecc.
Oltre a questi pensieri possono affermarsi anche delle convinzioni dettate da stili cognitivi difettosi che alterano la realtà e possono contribuire ad alterare la percezione che il paziente ha di sé e del proprio corpo, “Se riesco a diventare più magra, sarò felice o più considerata”. (Pizzo Massignani, La terapia cognitivo-comportamentale dei disturbi alimentari in età evolutiva, 2014)
Terapia famigliare
La terapia famigliare si basa sulla convinzione che il bambino e il suo comportamento si esistono e si manifestano all’interno di un preciso contesto, fatto di persone e convinzioni. Dunque, il disturbo alimentare sorge all’interno di meccanismi intricati che legano fra loro i membri di una famiglia (disturbi della nutrizione e dell’alimentazione in età. (Pizzo Massignani, Interventi familiari, 2014)
Ad oggi, la terapia basata sulla famiglia (FBT) risulta essere quella più supportata dalla ricerca scientifica nel trattamento di giovani pazienti con anoressia nervosa e quello con maggiori evidenze nel trattamento della bulimia nervosa. Però questo approccio non è accettato da tutte le famiglie e da tutti i pazienti, inoltre risulta essere costoso e poco sostenibile. Questo approccio si fonda sulla constatazione che l’ambiente familiare gioca un ruolo molto importante nello sviluppo e nel mantenimento di un disturbo alimentare. (Figlie in lotta con il cibo, 2003)
La terapia famigliare diviene infatti parte di un lavoro di equipe dove è indispensabile la collaborazione degli operatori per raggiungere una coesione, in quanto operando sul sistema familiare e sugli altri sottosistemi permette un’integrazione e non una scissione. L’iter terapeutico passa, dalle gestioni delle crisi alimentari, a quelle familiari evidenziando: le coalizioni sotterranee con un genitore contro l’altro, le difficoltà nei rapporti con i fratelli, che portano quindi all’esplicitazione dei problemi relazionali e alla risoluzione tramite prescrizioni modulate sulla struttura della famiglia. (Montecchi, 1994) È indiscutibile che la presenza di un disturbo alimentare comporti un profondo disagio in casa, ingenerando circoli viziosi che tendono a mantenere il problema. (Figlie in lotta con il cibo, 2003)
I livelli assistenziali e i livelli essenziali di assistenza (LEA)
Nel 1998, la Commissione di studio del ministero della Salute, prevedeva quattro livelli di trattamento per i pazienti con disturbi alimentari, in base alla necessità di intervento e al bisogno e alla fase di evoluzione della patologia. Tra questi vi sono: ambulatorio, day hospital, ricovero ospedaliero in fase acuta e residenzialità extraospedaliera.
Negli ultimi anni, oltre a questi livelli, che sono stati riconosciuti da tutte le linee di indirizzo nazionale e linee guida internazionali, sono stati aggiunti i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta, con l’intento di evidenziare l’importanza del loro ruolo nella diagnosi precoce e nel percorso terapeutico dei pazienti.
Tali livelli di assistenza non sono tra loro né sovrapponibili né disarticolati, ma rappresentano le varie possibilità di intervento più o meno appropriate e idonee a seconda di quanto è stato definito nella fase di assesment.
Infatti, quando un paziente accede ai servizi per la valutazione del disturbo e la successiva presa in carico, il tipo di intervento necessario e dunque il livello assistenziale di cui necessità è stabilito da specialisti sulla base di una valutazione sia fisica sia psichica e prende in considerazione tali aspetti:
- Tipo di disturbo alimentare (anoressia nervosa, bulimia nervosa, binge eating, ecc.)
- La durata del disturbo
- La gravità del disturbo
- Le condizioni fisiche generali e le eventuali alterazioni e compromissioni delle funzioni organiche
- Il profilo psicopatologico del paziente
- La motivazione al trattamento
- La compliance del paziente
- Eventuali comorbidità
- Eventuali trattamenti alternativi passati
- Le dinamiche familiari e la situazione socioambientale
(Dalla Ragione Vicini, I livelli di trattamento e la rete integrata, 2019)
Negli ultimi decenni i DAN sono stati soggetto di un’insorgenza sempre più precoce e sempre più diffusa tra la popolazione, soprattutto in età evolutiva. Per tale motivo, il 21 dicembre 2021 tali disturbi sono stati inseriti all’interno della lista di patologie che richiedono i LEA.
I LEA non sono altro che le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tuti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di un ticket, con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale. (Ministero della Salute, 2019)
Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione in Età Evolutiva
L’alimentazione svolge un ruolo fondamentale all’interno del processo evolutivo fin dalla nascita, costituendo di fatto il primo rapporto del bambino con le sue figure di attaccamento e quindi con l’ambiente esterno (Zanna, Castiglioni, Chianello, Criscuolo, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2019). Molte condizioni psichiatriche hanno inizio in età infantile o adolescenziale, e se non prontamente e adeguatamente trattate, possono determinare conseguenze nell’età adulta. Tra queste patologie vi sono i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione (Riva, 2022). In età pediatrica, i problemi legati all’alimentazione e alla nutrizione si manifestano in maniera frequente e possono costituirsi come fenomeni dalla rilevanza clinica estremamente variabile: accanto a quadri transitori che rappresentano la modalità con cui il bambino manifesta una difficoltà attribuibile ad alcune tappe evolutive precise e di alcuni momenti critici dello sviluppo, quale lo svezzamento, l’avvio di abitudini nuove, ecc.., vi sono quadri molto seri caratterizzati dal rifiuto totale del cibo con un conseguente impatto significativo sullo sviluppo fisco e psicologico del bambino. (Zanna, Castiglioni, Chianello, Criscuolo, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2019) L’insorgenza precoce interferisce con un sano processo evolutivo sia biologico che psicologico e si associa dunque a conseguenze molto più gravi sul corpo e sulla mente. Un esordio precoce può infatti comportare un rischio maggiore di danni permanenti secondari alla malnutrizione, soprattutto a carico dei tessuti che non hanno ancora raggiunto una piena maturazione, come le ossa e il sistema nervoso centrale.
Nell’arco degli anni l’esordio della malattia è diventato sempre più precoce e in un nostro studio abbiamo potuto documentare che nel corso di 15 anni vi è stato un anticipo di diagnosi di malattia di circa 8 anni: la fascia di età interessata da tali disturbi si è dunque decisamente ampliata. Questa distribuzione lungo un’ampia fascia di vita può voler dimostrare la maggior vulnerabilità delle persone rispetto a un sentimento di inadeguatezza alle sempre più stringenti richieste dalla società e quindi ricerca di controllo e quindi sicurezza o di conforto nel cibo. (Centro disturbi del comportamento alimentare (DCA), 2013)
Lask e Bryant-Waugh hanno effettuato una classificazione dei disturbi alimentari che possono caratterizzare giovani pazienti in età evolutiva, tra questi vi sono:
- Anoressia nervosa
- Bulimia nervosa
- Disturbo emozionale con evitamento del cibo
- Alimentazione selettiva
- Alimentazione restrittiva
- Rifiuto del cibo
- Fobia/paura specifica con evitamento dell’alimentazione
- Sindrome del rifiuto pervasivo
- Perdita dell’appetito secondario a depressione
(Pizzo Massignani, I disturbi alimentari secondo la classificazione Great Ormond Street Criteria, 2014)
I disturbi dell’alimentazione possono avere, come più volte sottolineato, un precoce esordio pediatrico e rimanere spesso poco conosciuti, in primis dai genitori. Il disagio della nutrizione e dell’alimentazione può insorgere molto presto durante l’infanzia poiché l’atto del nutrirsi rappresenta in primis per il bambino un mezzo attraverso cui comunicare i propri bisogni e i propri stati emotivi. Dunque, la funzione nutritiva e quella affettiva- relazionale si intrecciano fin dalla nascita, spiegando così la facilità con cui l’azione del nutrirsi può snaturarsi e divenire un veicolo di messaggi che il bambino indirizza verso i propri care givers. Al giorno d’oggi, nei bambini, le difficoltà nel percorso di crescita e determinati malesseri e disagi, tendono ad esprimersi più facilmente tramite un utilizzo distorto del cibo e dell’atto alimentare in sé, con la possibilità di strutturare anche un vero e proprio disturbo alimentare. In età pediatrica oggi, i disturbi alimentari più frequenti sono: anoressia, iperfagia e obesità. È importante cercare di comprendere a questo punto il motivo per cui il bambino sceglie, come mezzo di comunicazione dei propri disagi, proprio il cibo e che significato assumono queste malattie nell’età evolutiva. L’anoressia, l’iperfagia e l’obesità in età pediatrica sono quasi sempre un messaggio profondo e potente diretto ai genitori: sono una messa in scena di un rifiuto, un modo di dire “no”, un grido che dice: “Guardatemi, sono qui e soffro”. Sono soluzioni, anche transitorie, che il bambino trova per colmare il vuoto dell’anima, riempendosi di cibo oppure affamandosi. (Associazione Pollicino e centro crisi genitori onlus, 2006)
NON SOLO CIBO
Quando le difficoltà alimentari evolvono verso quadri psicopatologici, il cibo può diventare il canale attraverso cui il bambino o l’adolescente veicolano le proprie difficoltà emotive e relazionali. (Zanna, Castiglioni, Chianello, Criscuolo, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2019)
I disturbi dell’alimentazione e della nutrizione sono dei disturbi che coinvolgono la relazione che il paziente ha con il cibo e con il proprio peso e la forma corporea.
Ma, come sostiene il Dottor Mendolicchio, il cibo non è il problema centrale di tali patologie, bensì è secondario, non è altro che il manifestarsi di problemi più profondi e impliciti che risiedono nella storia evolutiva di ogni paziente.
Uno fra questi aspetti riguarda la relazione di attaccamento che il bambino ha sviluppato nella prima infanzia con la madre.
Il neonato infatti, quando è piccolo, non necessita solamente di essere nutrito e pulito, bensì ha bisogno di essere toccato, massaggiato, accarezzato, deve essere “tenuto” dalla madre che ne attenua in tal modo le intense angosce di annichilimento e frammentazione. Alla nascita, infatti, il bambino avverte confusamente i vari bisogni fisiologici, ed è attraverso l’esatta risposta ai suoi segnali che apprende a differenziare e percepisce chiaramente consolidando la percezione del proprio corpo e la costruzione dell’immagine corporea.
Dunque, per comprendere e studiare i disturbi alimentari infantili è opportuno prendere in esame il complesso intreccio tra le caratteristiche del bambino, della madre, della loro relazione e i compiti evolutivi che entrambi devono affrontare, soprattutto durante il processo di separazione-individuazione del bambino.
Infatti, esperienze precoci, responsabili del mancato sviluppo di una base sicura (relazione di attaccamento), potrebbe, in concomitanza di altri fattori e in maniera complessa, favorire l’esordio di un disturbo alimentare, interferendo sulla capacità di gestire le emozioni (disregolazione emotiva), oppure ostacolando la costruzione di un’identità corporea positiva (immagine e percezione corporea) o non permettendo lo sviluppo di un senso d’identità integrato. (Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013)
La regolazione delle emozioni e l'immagine di sé sono sviluppate nelle interazioni continue con le figure di attaccamento primarie, a partire dalla prima infanzia ma in continuo sviluppo per tutta la vita. Inizialmente, tutti gli stati affettivi sono riconosciuti, etichettati e regolati dai caregiver, ponendo le basi per lo sviluppo e il funzionamento socio-emotivo.
Relazione di attaccamento
Secondo Bowlby, l’essere umano, come gli altri esseri viventi, possiede una tendenza innata a ricercare e mantenere la vicinanza di un adulto in particolare in presenza di un pericolo, di paura o sofferenza. La relazione di attaccamento del neonato con il genitore o un altro caregiver è di fondamentale importanza dal punto di vista dell'evoluzione e garantisce l'esistenza.
Di conseguenza la qualità del legame che si instaura tra la figura materna e il bambino nel corso del primo anno di vita è essenziale per lo sviluppo del piccolo.
La teoria dell'attaccamento postula che i modelli di attaccamento siano modellati precocemente da esperienze interpersonali con le principali figure di attaccamento che costituiscono la base per lo sviluppo di convinzioni, emozioni e pensieri sul sé e l'altro. (Pastore, La teoria dell'attaccamento di Bowlby, 2019)
Attaccamento sicuro
Un bambino il cui attaccamento è sicuro, gioca con i giocattoli, mostra segni di disagio quando la madre esce dalla stanza, interrompendo il suo comportamento di gioco o di esplorazione e sollecitando in qualche modo una riunione. Quando la madre ritorna, egli viene confortato facilmente, si tranquillizza e torna a giocare. Si tratta di bambini che hanno fatto esperienza nel primo anno di vita di una madre “sensibile e responsiva”, in grado di riconoscere e rispondere adeguatamente alle loro richieste. (Pastore, La strange situation e le tipologie dell'attaccamento, 2019)
Attaccamento ambivalente
Questa tipologia rappresenta circa il 10% del campione totale. Si tratta di bambini che mostrano un grande disagio durante tutta la registrazione, in molti casi, addirittura, prima della separazione dalla madre, fin dal momento d’ingresso in un ambiente sconosciuto o all’entrata dell’estranea. Quando la madre rientra, dopo l’allontanamento, essi cercano di riunirsi a lei e di essere consolati, ma possono anche mostrare rabbia e passività; tendendo a piangere in modo inconsolabile, senza riuscire a riprendere l’esplorazione, riescono ad esprimere in maniera esagerata le loro emozioni, tant'è che in caso di stress sono per lo più inconsolabili ed enfatizzano i loro bisogni al fine di aumentare le probabilità di ricevere attenzione. Le basi di questo comportamento sembrano risiedere nell’esperienza d’interazione con un genitore che risponde in modo imprevedibile alle richieste del bambino e che risulta quindi potenzialmente inaffidabile nei momenti di difficoltà. In questi casi, il bambino si trova pertanto nella necessità di “estremizzare” i propri comportamenti di attaccamento ed appare quasi completamente assorbito dalla figura di attaccamento e dai luoghi circostanti ad essa. (Pastore, La strange situation e le tipologie dell'attaccamento, 2019)
Attaccamento disorganizzato
Questa categoria è stata individuata partendo dalla considerazione che alcuni bambini, provenienti sia da campioni a basso che da ad alto rischio, risultavano “inclassificabili” secondo il sistema messo a punto dalla Ainsworth. Si tratta dibambini, per esempio, che durante l’assenza della madre piangono e la ricercano attivamente per poi rimanere in silenzio, evitarla ed ignorarla apertamente al momento della riunione. Altri bambini si avvicinano alla madre e quindi, dopo aver stabilito il contatto con lei, si scostano bruscamente e rimangono immobili al centro della stanza, come “congelati” (freezing). Tali patterns comportamentali, che costituiscono caratteristiche inclassificabile di comportamenti evitanti e resistenti, presentano notevoli analogie con quei comportamenti che alcuni studiosi definiscono “conflittuali”. (Pastore, La strange situation e le tipologie dell'attaccamento, 2019)
Attaccamento ansioso evitante
Appartengono a questa categoria i bambini che in presenza e in assenza della madre sembrano indifferenti, sono tutti presi dai giochi, mostrando indifferenza alla separazione e alla solitudine. In situazioni in cui madre e bambino sono distanti e poi si ritrovano, il bambino evita la vicinanza stretta con la madre, quando lei è presente, non piange, né mostra apertamente disagio, quando lascia la stanza. Quando la madre rientra, inoltre, questi bambini evitano decisamente ogni contatto con lei e durante tutta la procedura sembrano più attenti agli oggetti inanimati che agli avvenimenti interpersonali. Questo tipo di comportamento viene interpretato come il risultato di meccanismi di difesa: il bambino si volge agli oggetti piuttosto che agli esseri umani, nasconde il suo disagio ed evita la vicinanza per tenere sotto controllo il sentimento di avere bisogno che, nelle sue previsioni, non potrà comunque essere soddisfatto adeguatamente. I bambini dopo avere subito uno stress come accade in situazioni di pericolo o paura, mettono in atto comportamenti di falsa autonomia in quanto hanno appreso a negare i loro bisogni di sicurezza e a non esprimere le emozioni legate a questi bisogni quali l'ansia, la rabbia, la tristezza. (Pastore, La strange situation e le tipologie dell'attaccamento, 2019)
Stile di attaccamento: fattore di rischio per lo sviluppo di un DNA?
A parte lo stile di attaccamento sicuro che implica la percezione del sé come degno, due dimensioni di attaccamento adulto insicure sono state proposte come possibili fattori di rischio: l’attaccamento ansioso e l’attaccamento evitante. Il primo è caratterizzato dalla paura del rifiuto interpersonale e ricerca della vicinanza e dell'approvazione degli altri, combinata con una bassa autostima e fiducia in sè. Al contrario, l’attaccamento evitante è correlato alle paure della vicinanza e della dipendenza interpersonale, con una forte enfasi sull'autosufficienza mentre lo sono i bisogni di vicinanza negato. (Klein, et al., 2022)
Lo stile di attaccamento che il bambino acquisisce all’interno della relazione è dunque fondamentale e può costituire un fattore di protezione, o al contrario, di rischio, rispetto agli esiti evolutivi del bambino. Uno studio clinico ha sottolineato una relazione tra stili di attaccamento problematici e disturbi dell’alimentazione. (Disturbi della nutrizione e dell'alimentazione in età evolutiva, 2014)
Lo stile di attaccamento, dunque, deve essere un elemento fondamentale da tenere inconsiderazione durante l’assesment del paziente, poiché ha un’influenza significativa sulla presentazione clinica del disturbo, sulla relazione tra il bambino e le persone intorno a lui e sulla sua capacità di valersi o meno della terapia psicologica. Per poter dunque analizzare il tipo di relazione e di attaccamento che c’è stato, è necessario capire, da parte del medico specialista, se in passato ci siano stati alcuni fattori che possono aver contribuito e continuare a contribuire all’insorgenza e al mantenimento del disagio del bambino. Nella valutazione è necessario ottenere il racconto veritiero della storia familiare e i dettagli sulle abitudini alimentari e varie diete intraprese nella famiglia, oltre che constatare la qualità del rapporto genitoriale e coniugale e l’integrità delle regole genitoriali, l’atmosfera generale e le risposte affettive familiari, allo stesso modo dei processi comunicativi fra i membri della famiglia e il grado di autonomia di ciascuno di esso. (Pizzo Massignani, L'assesment dei disturbi alimentari in età evolutiva, 2014)
Le sensazioni tattili, gli odori, il calore del corpo, la stretta dell’abbraccio, lo sguardo, la voce e le parole della madre nutrono il cuore e rispondono alla domanda d’amore, al desiderio del bambino di “essere desiderato”, accolto, riconosciuto e rassicurato.
La bocca è l’organo attraverso il quale il bambino conosce il mondo ed i suoi oggetti: mangiare o rifiutare il cibo implicano anche accettare o rifiutare qualcosa che viene dall’altro e dall’esterno. Quindi, fin dall’inizio, la relazione del bambino piccolo prima con la propria madre, poi con l’ambiente familiare è attraversata dal complesso intrecciarsi della dimensione affettiva con la funzione alimentare. Queste sono le ragioni per cui il cibo e il comportamento alimentare veicolano dinamiche complesse, i cui riflessi positivi o negativi si possono ripercuotere sia all’interno delle relazioni intrafamiliari, sia direttamente nel rapporto del bambino con il cibo. Su tale sfondo il cibo/latte inizia ad esistere per il bambino come un “oggetto affettivo”, cioè come uno dei termini privilegiati del suo primitivo linguaggio privato con la madre e con l’intero contesto familiare. (Associazione Pollicino e centro crisi genitori onlus, 2006)
Frequentemente il comportamento genitoriale inadeguato è imputabile ad un quadroclinico psicopatologico preciso che genera una serie di comportamenti disfunzionali che inevitabilmente impattano sullo sviluppo del bambino, andando innanzitutto a compromettere la possibilità di instaurarsi un legame di attaccamento basato sulla sicurezza e sull’affetto reciproco. Il legame di attaccamento rappresenta infatti la base a partire dalla quale si struttureranno le modalità di comportamento e le capacità relazionali dal bambino. Dunque, una relazione caregiver—bambino basata sulla sicurezza e su un parenting di tipo sensibile promuove uno sviluppo globale armonioso, di contro un legame che vede minate le proprie basi, spesso a causa della patologia psichiatrica del genitore, rappresenta il prodromo di specifiche difficoltà sul piano comportamentale, affettivo e relazionale, nonché adattivo.
Rispondere al pianto del neonato è il primo “lavoro mentale” della madre che si attiva a pensare a delle soluzioni, a immaginare delle possibili interpretazioni del pianto. Le madri davanti ai primi pianti del bambino attribuiscono un senso alla richiesta del proprio figlio e gli offrono una soluzione. La prima risposta che spontaneamente molte madri tendono ad offrire è il latte perché la prima interpretazione che fanno del pianto del proprio bambino è “avrà fame” … A volte però i bambini piccoli continuano a piangere. Cosa domanda questo pianto dei piccoli, già sazi, appagati nei loro bisogni? Questo pianto inarrestabile nei bambini piccoli non può essere letto come un capriccio, un ricatto, ma come una domanda di consolazione, di vicinanza... di presenza di un altro a cui affidarsi. Questi pianti domandano che la madre continui a pensare al proprio bambino, domandano che la madre non si arresti alla soddisfazione del bisogno, ma offra la propria presenza come segno dell’amore. Se il pianto e le esigenze del bambino non vengono interpretati correttamente e non si distingue il pianto del piccolo dovuto alla fame, da quello che esprime il desiderio della madre, si rischia di rispondere sempre alle sue richieste in unico modo, cioè attraverso il cibo, confondendo cioè il piano dei bisogni, delle cure con quello del desiderio, dell’amore. La madre che offre cibo al pianto che domanda il segno d'amore produce un “ingozzamento” che confonde e agita il bambino e fa sì che il bambino incontri nel cibo qualcosa di indigesto: la risposta “confusa”, dunque mancata, alla sua domanda d’amore. Il bambino si nutre del desiderio dell’altro, del suo sguardo che lo faccia sentire un soggetto unico e desiderabile. Il bambino che chiude la bocca vieta l’acceso a ciò che viene dall’altro, segnalando in tal modo che non è la fame il vero motivo del suo pianto, ma il dubbio sull’amore: “Che posto ho io nel tuo cuore?” I disordini alimentari pongono in risalto l’inconsistenza del cibo in confronto all’amore dell’altro, mostrano come niente di materiale, per esempio il cibo, potrà mai riempire veramente un vuoto, che non è il vuoto dello stomaco, ma è un vuoto che può essere colmato solamente dall’amore di un’altra persona. (Associazione Pollicino e centro crisi genitori onlus, 2006)
Dall’attaccamento alla regolazione emotiva
La teoria dell'attaccamento è un quadro potenzialmente importante per aiutare a comprendere e trattare i disturbi alimentari. Tuttavia, nei modelli psicologici più diffusi di disturbo alimentare, viene ignorato in gran parte l'impatto della regolazione degli affetti e della qualità delle relazioni che possono avere sui sintomi e sulla qualità della vita.
Alcuni ricercatori si sono rivolti quindi alla teoria dell'attaccamento per colmare le lacune nella concettualizzazione dei disturbi alimentari e per informare le scelte terapeutiche.
La teoria dell'attaccamento postula che le interazioni ripetute basate sui comportamenti di attaccamento con i caregiver vengono codificate all'interno della memoria e risultano in modelli operativi interni di attaccamento, che sono alla base delle differenze individuali negli stili di attaccamento degli adulti (tipicamente concettualizzati come variabilità lungo due dimensioni: ansia di attaccamento ed evitamento) o stati mentali (cioè coerenza della narrativa riguardante le prime esperienze di attaccamento raggruppate in schemi di sicuro, preoccupato, allontanante e disorganizzato).
In termini di stati mentali di attaccamento, gli individui attaccati in modo sicuro sono in grado di impegnarsi in relazioni soddisfacenti e sicure, moderare le proprie esperienze affettive durante i periodi di stress e riflettere sulle proprie esperienze interne e su quelle degli altri. La regolazione delle emozioni, così come l'immagine di sé, si sviluppano tramite interazioni continue con le figure di attaccamento primarie, a partire dalla primissima infanzia, e sono in continuo sviluppo per tutta la vita. Inizialmente, tutti gli stati affettivi sono riconosciuti, etichettati e regolati dai caregiver, ponendo in questo modo le basi per lo sviluppo e il funzionamento socio-emotivo. (Monell , Clinton, Birgegard, Emotion dysregulation and eating disorder outcome: Prediction, change and contribution of self-image, 2021)
Alcuni studi suggeriscono che la regolazione affettiva disadattiva, associata all'insicurezza dell'attaccamento può svolgere un ruolo chiave nell'espressione e nel mantenimento della sintomatologia dei disturbi alimentari. Cioè, i sintomi del disturbo alimentare possono essere concettualizzati come un mezzo per far fronte agli effetti della disregolazione emotiva.
Inoltre, un attaccamento di tipo insicuro o evitante, è stato sottolineato che possono sensibilizzare agli effetti negativi del perfezionismo disadattivo, che è un rischio noto per lo sviluppo e il mantenimento di un DAN.
Dunque, è stato valutano un principio centrale della teoria dell'attaccamento in cui le esperienze infantili di legame genitoriale o di avversità rendono vulnerabili a un disturbo alimentare che è parzialmente spiegato da un attaccamento di tipo insicuro. (A Tasca, 2019)
Disregolazione emotiva
La disregolazione emotiva è stata postulata come un fattore trans diagnostico chiave delle difficoltà di salute mentale, compresi i disturbi alimentari. (Monell, Clinton, Bigegard, Emotion dysregulation and eating disorders-Associations with diagnostic presentation and key symptoms, 2018)
Alcuni studi hanno dimostrato che la disregolazione emotiva può seguire eventi traumatici e diventare perciò il collegamento tra questi e i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, provocando rabbia, esperienze dissociative, impulsività e compulsività. (Brustenghi, et al., 2019)
Ma cos’è esattamente la regolazione emotiva e come si sviluppa nel bambino?
Non è altro che la capacità di modificare in maniera adattiva il proprio comportamento e le proprie emozioni, supportando la capacità di perseguire i propri obiettivi e adattandosi alle richieste sociali e cognitive dell’ambiente, riuscendo a riconoscere e nominare le emozioni, tollerando la frustrazione e modulando emozioni intense. (Conti, Scionti, Marzocchi, 2021). La capacità del bambino di regolare i propri stati emotivi e di organizzare l’esperienza e le sue risposte comportamentali è un processo biologico, che il bambino sviluppa fin dalla nascita e che è primariamente condizionato dal rapporto che il bambino instaura già dai primi giorni con la figura di attaccamento, cioè la mamma. È dunque un sistema diadico quello di autoregolazione, che dipende sia dal bambino che dalla mamma, che inizialmente, in modo non consapevole, offre al bambino dellestrategie che verranno poi interiorizzate dal bambino per poter giungere gradualmente alla regolazione degli affetti e delle emozioni.
In questo scambio diadico un momento di fondamentale importanza è rivestito dall’allattamento o comunque dalla nutrizione del bambino, in quanto permette ripetuti scambi relazionali faccia a faccia e stimolazioni sociali. Alcuni studi, perciò, hanno voluto prendere in considerazione la relazione fra i disturbi alimentari e lo stile di attaccamento con il caregiver per capire quanto questo fosse un possibile fattore di rischio nell’esordio e nello sviluppo della patologia alimentare. È stato infatti dimostrato che le relazioni che il bambino esperienza fin dai primi giorni possono, in concomitanza con determinate situazioni, interferire sulle capacità di gestire le emozioni spiacevoli, oppure sulla creazione di un’identità corporea positiva o lo sviluppo di un senso d’identità integrato. (Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013)
L’interazione esistente tra la disregolazione emotiva, un fattore transdiagnostico, e le preoccupazioni relative al peso/forma, fattore specifico del disturbo alimentare, può contribuire al mantenimento e al potenziale sviluppo dei disturbi alimentari. (Trompeter, Bussey, Forbes, Mitchison, 2021)
Schema corporeo e immagine corporea
Il primo oggetto che il bambino percepisce è il proprio corpo: benessere e dolore, attuazione di movimenti e di spostamenti, sensazioni visive e uditive ecc., e questo corpo è il mezzo dell’azione, della conoscenza e della relazione. (Converti, 2014) Il corpo rappresenta dunque il terreno d’espressione del disagio del bambino, che utilizza la sua corporeità sin da subito come canale comunicativo. (Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013). Attraverso l’esperienza che il bambino fa con il mondo esterno il bambino acquisisce un’immagine di sé sempre più completa, integrando la dimensione affettiva con quella cognitiva e permettendo la strutturazione dello schema corporeo (S.C.), che seguirà diverse tappe, a seconda della fase di sviluppo del bambino. Secondo le Boulch, infatti, lo S.C. si sviluppa seguendo delle tappe generali:
Corpo subito (0 - 2 mesi)
In questo stadio il bambino è praticamente orientato al raggiungimento di un equilibrio omeostatico interno, attraverso meccanismi fisiologici. È il periodo che la psicoanalisi definisce stadio del narcisismo primario in cui ogni soddisfazione delle pulsioni è legata al corpo proprio poiché́ il neonato è in uno stato simbiotico con l’ambiente, dal quale non si distingue. La sua attività̀ è legata esclusivamente ad automatismi primitivi innati, legati ai bisogni della respirazione, della suzione e ai riflessi arcaici. (Balatti, 2011)
Corpo vissuto (3 mesi - 3 anni)
Entrare in questo stadio significa per il bambino iniziare ad usare il proprio corpo in quanto strumento per l’esplorazione e la conoscenza del mondo, per la conoscenza progressiva del corpo stesso e dunque per l’acquisizione delle prassie elementari. Le funzioni intracettive, che hanno caratterizzato i primi mesi del neonato, lasciano ora spazio a quelle extracettive e quindi rivolte verso l’esterno, poiché́ grazie alla sua attività̀ iniziano a crearsi i legami tra i due ambiti.
Il bambino dunque diventa più̀ esplorativo, inizia a percepirsi e a percepire l’ambiente esterno come una realtà̀ differenziata da lui, attraverso l’esplorazione e l’attivazione del proprio corpo diventa soggetto attivo nel suo processo conoscitivo. Il movimento che in questa fase riesce ad effettuare, procura in lui sensazioni differenti, ma che incominciano ad unificarsi nell’acquisizione di un Io-corporeo a partire proprio da un Io-agente. In questo modo nel bambino avviene una coscienza del proprio corpo come qualcosa di unitario, che contiene e unifica, a differenza della fase precedente, tutte le sensazioni e le esperienze che vive. (Balatti, 2011)
Corpo percepito (3 anni - 6 anni)
Questa fase rappresenta un periodo di transizione, attraverso il quale il bambino non solo aumenta la coscienza e la consapevolezza di sé iniziando a costruirsi la propria immagine mentale, ma aumenta anche la sua capacità di organizzazione spazio-temporale, fondamentale per muoversi correttamente nello spazio ed adattarsi ad esso. È la tappa del narcisismo secondario per la psicoanalisi, dell’egocentrismo per i cognitivisti e la fase preoperatoria per Piaget.
Nello stadio del corpo vissuto l’interiorizzazione era latente, perché́ ogni impressione era ricevuta in modo prevalente emozionale; in questa fase invece, la percezione del corpo e delle sue parti, mettendo in gioco una forma di attenzione interiorizzata è più̀ significativa per la presa di coscienza dell’Io, poiché́ il bambino si concentra su se stesso. In questo stadio quindi, si percepisce il corpo come unità, come un “immagine simmetrica e se, nella fase precedente, l’attenzione era rivolta al mondo esterno dal quale riceveva sensazioni e percezioni, ora l’attenzione è al suo corpo “oggetto”. Il bambino va incontro a una presa di coscienza del proprio corpo a partire dall’asse trasversale (il sopra e il sotto), seguito dell’asse sagittale (il davanti e il dietro) e infine tramite quella dell’asse longitudinale (i due lati). Le prime due sono legate alla strutturazione percettiva dello spazio, la terza è possibile grazie all’arricchimento della funzione d’interiorizzazione. La strutturazione dello schema corporeo si effettua a partire dalla conoscenza e presa di coscienza delle differenti parti del corpo, associando a queste la verbalizzazione corrispondente. (Balatti, 2011)
Corpo rappresentato (dai 6 anni)
È proprio in questa fase in cui l’immagine mentale del corpo si arricchisce e si perfeziona.
Viene acquisita l’immagine operatoria del corpo, cioè̀ l’immagine del proprio corpo che si muove nello spazio. A questo punto si riesce a percepire la tridimensionalità̀ del corpo, la successione dei gesti, dei movimenti e degli spostamenti; questo permette, a partire dalla rappresentazione mentale di una prassia, di assumere l’atteggiamento naturale corrispondente e quindi un atteggiamento non pensato; è la fase che Piaget definisce delle operazioni concrete.
L’evoluzione di questa competenza rappresentativa permette che il bambino acquisisca la capacità di decentramento. Il bambino in questa fase non si limita più ad utilizzare il suo corpo come punto di riferimento, ma al contrario, considerando che sono aumentate le richieste di adattamento e le sue capacità cognitive, grazie all’acquisizione di schemi dazione articolati e grazie alla capacità rappresentativa, vengono scelti altri sistemi referenziali, attraverso i quali il bambino può̀ porsi secondo altre prospettive. (Balatti, 2011)
La costruzione dello schema corporeo, ossia l’organizzazione delle sensazioni relative al proprio corpo, in rapporto con i dati del mondo esterno, come è stato sottolineato precedentemente, esercita una funzione fondamentale nello sviluppo del bambino. Essa si elabora progressivamente con lo sviluppo e la maturazione nervosa, parallelamente all’evoluzione senso-motoria e in rapporto al corpo degli altri. Lo schema corporeo, quindi, è la rappresentazione mentale del nostro corpo. (Converti, 2014) È una sintesi unificante della rappresentazione mentale della struttura reale e funzionale del corpo e dell’interiorizzazione delle caratteristiche affettivo-emozionali che hanno impregnato e modellato, durante ogni attività, la percezione e la conoscenza del proprio corpo. È in pratica uno schema plastico in cui la persona coglie l’idea di sé, attraverso le modalità̀ di percepire e sentire la realtà a sua disposizione e grazie alle manifestazioni che l’ambiente gli rimanda. (Balatti, 2011)
Secondo Wallon lo sviluppo dello schema corporeo è un processo attivo, che si svolge sia secondo una predeterminazione genetica, che in relazione alle sollecitazioni del mondo esterno e in rapporto alla maturazione dell’equipaggiamento neurofisiologico del bambino. Si comprende dunque che, nonostante sia una struttura che si sviluppa secondo tappe geneticamente definite, che seguono cioè̀ linee comuni in tutti gli individui, lo schema corporeo è il risultato e la condizione di rapporti funzionali ed efficaci tra l’individuo e il proprio ambiente. (Converti, 2014)
Defontaine afferma che lo schema corporeo è un costrutto dinamico e attivo, che rappresenta il corpo in movimento e che agisce secondo certe direzioni e in funzione di determinati scopi. Anche Berges, sulla linea di Defontaine, afferma che lo schema corporeo è il risultato dell’integrazione tra gli stimoli sensoriali e cinestetici afferenti e gli stimoli tonici e motori efferenti, sottolineando come tale coesione e unione permettano all’individuo di raggiungere una conoscenza e una consapevolezza di sé e del proprio corpo, che agisce. (Balatti, 2011)
Il concetto di “schema corporeo”, definito per la prima volta da Bonnier, che lo intendeva come una rappresentazione mentale topografica e spaziale del proprio corpo, delle sue parti e della loro posizione, reciproca e in relazione all’ambiente, non deve però essere confuso con quello di immagine corporea, in cui confluiscono aspetti psicologici, oltre che somatici e neurologici. Infatti, mentre lo schema corporeo può essere considerato un modello che ciascuno ha del proprio corpo, legato esclusivamente alle percezioni, l’immagine corporea è un modello di tipo cognitivo-socio-emozionale. L’immagine corporea è caratterizzata da uno status intenzionale, dal momento che include l’esperienza personale e autoriferita del proprio corpo. (Dalla Ragione Mencarelli, Breve storia del concetto di immagine corporea, 2018)
Alla nascita, il corpo è estraneo al bambino, che tratta le parti che lo compongono come se fossero oggetti esterni. Solo dopo molto tempo, con l’aiuto della madre, le parti vengono riunificate sotto il controllo di un’entità psichica che riceve tutte le sensazioni di piacere e di dolore. Nella formazione della propria immagine corporea la mamma è un elemento fondamentale, in quanto il bambino, già nei primi giorni di vita, si vede prima di tutto nello specchio dell’altro. In realtà potremmo anche pensare che lo sviluppo dell’immagine corporea abbia esordio nella vita intrauterina.
Lo sviluppo di questa immagine mentale è dettato dall’ambiente circostante, dalla possibilità di interagire con gli altri e dalla motricità e dunque la sua evoluzione va di pari passo con la formazione dello schema corporeo. (L'inganno dello specchio, 2012 )
Il termine “immagine corporea” infatti è stato coniato da Schidler, il quale intendeva fare riferimento all’insieme di percezioni, emozioni, sentimenti, pensieri, credenze, azioni e interazioni che riguardano il corpo e l’aspetto fisico. (Cibo, peso, esperienza del corpo, 2019)
Inoltre, a differenza dello schema corporeo, l’immagine corporea può essere parziale e riferirsi ad aspetti specifici del corpo. L’immagine corporea è un costrutto multidimensionale caratterizzato dalle percezioni e dalle valutazioni dell’individuo in merito al proprio aspetto fisico e si riferisce perciò ad un quadro mentale complesso che ogni individuo ha del proprio corpo e cioè il modo in cui il corpo appare a ciascuno. Non si tratta perciò di una mera sensazione o immagine mentale, in quanto include oltre alla percezione anche schemi mentali più intricati, dati dalle esperienze presenti e passate di ciascun individuo. (Dalla Ragione Mencarelli, Breve storia del concetto di immagine corporea, 2018)
Ogni persona possiede a livello mentale una rappresentazione del proprio corpo, la quale svolge un’importante funzione nel mediare il rapporto tra il proprio mondo interno e l’ambiente circostante. La costituzione di questa immagine si realizza soprattutto durante il secondo anno di vita all’interno della relazione con la madre. Il bambino infatti, in questa fase, ha una reazione di giubilo nel riconoscersi allo specchio, e in modo progressivo comprende che è egli stesso l’origine dell’immagine riflessa e trova in questa immagine che gli appartiene un principio unificatore delle sensazioni corporee, che fino a questo momento erano frammentate.
Riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio permette così al bambino di padroneggiare il proprio corpo. Tuttavia, il primo specchio in cui il bambino si vede e si riconosce è lo sguardo della madre e poi del padre. La relazione con la madre soprattutto tra il primo e il secondo anno di vita è intessuta di sguardi e parole che possono essere benevoli, cioè di conferma, o di disapprovazione, cioè di disconferma e restituiscono al bambino una prima forma di definizione di sé. Allo stesso modo, la modalità attraverso cui i genitori incentivano nel proprio figlio l'autonomia nel mangiare, nel camminare e nell’avere il controllo degli sfinteri incide e determina l’aspetto affettivo di questa conoscenza di sé. Molti dei disordini del comportamento infantile nell’impiego delle funzioni corporee hanno a che vedere con questo delicato processo. (Associazione Pollicino e Cnetro Crisi genitori Onlus)
Distorsione dell’immagine corporea nei pazienti con DNA
“C’è il corpo che ho e poi c’è quello che percepisco.
C’è il corpo che tutti vedono e poi c’è quello che vedo io quando mi guardo allo specchio, quando mi vesto o quando mi alzo al mattino e scelgo cosa indossare.
C’è un corpo materia che posso toccare, che gli altri possono abbracciare e a cui tante volte ho fatto del male.
C’è poi un corpo astratto che nasce e prende forma dalle immagini, dalle frasi e dalle emozioni che si rincorrono nella mia mente.
Questo è il corpo che nessuno vede ma che io sento come reale. È questo il corpo che sento quando mi guardo allo specchio.
Dicono che lo specchio mente, che non devo dargli retta, ma questo corpo io lo vedo, lo sento. Questo corpo io lo tocco.
Come posso non credere alle sembianze di questo corpo che mi sembra così reale?
Faccio un passo e poi un altro, sempre più vicina a quella superficie trasparente, ma nel suo riflesso argentato non mi riconosco. Un altro ancora e mi ritrovo a un respiro di distanza, ma il mio naso non lo incontra.
Chiudo gli occhi e immagino una casa senza specchi, senza riflessi e senza ombre.
So che non è lo specchio a farmi male né il suo riflesso, ma tutto ciò che ci porto io dentro quello specchio.
Per capire che quello che vedevo non era reale l’ho dovuto rendere tale, mi sono dovuta sedere a tavolino con tutti quei pensieri e parlarci, ad uno ad uno. Io seduta su una sedia, loro su un’altra.
Inizialmente restavo in silenzio, prendevo tutto ciò che mi dicevano e lo eseguivo.
Come una barca in balia delle onde, non riuscivo a riprendere il timone e mettermi alla guida.
Poi ho imparato a conoscermi, ad accogliermi e a guardare dentro a quel riflesso.
E ora so quali domande farmi quando arriva quella voce.
Ora so che arriva quando sono più vulnerabile, so che mi accarezza le ferite, ma finge e mi promette falsamente che riempirà i miei vuoti e mi farà compagnia, così non dovrò sentirmi così sola.
Ora so che quei vuoti posso guardarli e ascoltarli mentre mi raccontano la mia storia.
Mi guardo allo specchio: appeso alle guance c’è un sorriso.
È il sorriso di chi questa volta prenderà il timone e si rimetterà alla guida.”
(animenta_dca, 2021)
Le preoccupazioni relative alla forma del corpo, al peso e all’alimentazione costituiscono caratteristiche centrali della psicopatologia dei disturbi alimentari.
L’apice di tali preoccupazioni sembra essere raggiunto, soprattutto dalle ragazze, in età adolescenziale. (Hill, 2009)
Il corpo, quando nasciamo, viene strappato dalla sua condizione più naturale, quella gestazionale, per essere catapultato altrove, in un campo dove comanderebbe l’Altro, con le sue cifre, con i suoi tessuti, con i suoi abiti e le sue regole. Cosa sarebbe d’altronde noi esseri umani alla nascita se non solo corpo?
Ed è attraverso la manipolazione del proprio corpo o della propria immagine, l’uomo e la donna costruiscono la loro identità. (Mendolicchio, Prima di aprire bocca, 2018)
I problemi e le alterazioni a carico dell’immagine corporea e le preoccupazioni riguardanti la forma e il peso corporeo sono centrali in alcune forme di disturbi alimentari, tra cui l’anoressia e la bulimia nervosa. (Pizzo Massignani, L'assesment dei disturbi alimentari in età evolutiva, 2014)
“Oggi, al di là delle differenti manifestazioni cliniche dei vari DCA, c’è un ampio ed unanime consenso sul fatto che in tutte le patologie del comportamento alimentare è presente una qualche alterazione nei modi di valutare la propria immagine” (Mencarelli Giombini , 2018)
I pazienti affetti da anoressia nervosa o bulimia nervosa, infatti, tendono ad avere una persistente insoddisfazione per la propria immagine corporea, la quale può essere associata o ad una distorsione dell’immagine corporea di tipo percettivo, cioè riguardante la sovrastima o la sottostima delle dimensioni corporee e all’incapacità di valutarle accuratamente, oppure di tipo affettivo, cioè relativa alle sensazioni, agli stai d’animo, alle emozioni legate all’immagine corporea. (Dalla Ragione Mencarelli, Il disturbo dell'immagine corporea nei disturbi alimentari, 2018)
Nei disturbi alimentari, l’alterazione della percezione corporea è un elemento così importante che, anche quando la sintomatologia corporea e psicologica vanno in remissione, la dispercezione dell’immagine corporea può persistere, più o meno gravemente. Questo fatto può essere spiegato in diversi modi. La spiegazione più accreditata, quella dell’ipotesi percettiva, sottolinea la compromissione dello schema corporeo. “Secondo questo modello l’individuo non riuscirebbe ad abbinare una corretta percezione dello schema corporeo alla rappresentazione considerata reale ed oggettiva del proprio corpo”. (Dalla Ragione Mencarelli, L'enigma dell'alterazione dell'immagine corporea, 2018)
IL TRATTAMENTO NEURO E PSICOMOTORIO
La Neuro e psicomotricità è una disciplina che si prefigge di valorizzare la sinergia tra esperienza corporea ed immagine mentale, tra azione e mondo interiore, tra atto ed intenzionalità, considerando l'individuo nella sua integrità tra gli elementi esperienziali, emozionali ed intellettivi.
La terapia neuro e psicomotoria intende dunque supportare i processi evolutivi dell'infanzia, valorizzando il bambino nel processo di integrazione delle sue componenti emotive, intellettive e corporee favorendo la sua capacità di mettersi in gioco in prima persona attraverso l'azione e l'interazione. (Neuropsicomotricista, 2005)
Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva
Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE) è una figura professionale che svolge attività̀ di abilitazione, riabilitazione e prevenzione nei confronti di persone con età compresa tra gli zero e i diciotto anni, con disabilità e disordini dello sviluppo che fanno riferimento alle categorie diagnostiche classificate nell’ ICD10, tra cui disturbi pervasivi dello sviluppo (disturbi dello spettro autistico) e della regolazione emotivo-comportamentale, ritardo mentale, disturbi della coordinazione motoria (impaccio, maldestrezza, disprassia), disturbi di sviluppo (ritardo, iperattività, disturbi dell’attenzione) e nei disturbi di apprendimento; patologie neuromotorie e neuropsichiatriche acute e croniche. (Neuropsicomotricista, 2005)
La specificità di tale figura professionale è che svolge un “lavoro terapeutico in termini di globalità̀, che vuol dire pensare ad un recupero che va al di là della disabilità fisica o psichica del bambino, coinvolgendo in modo sistemico l’intero processo di sviluppo della persona”. Il TNPEE svolge la sua professione seguendo il Modello bio-psico- sociale della disabilità suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
L’area di intervento del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età̀ Evolutiva è quindi rappresentata dalle Disabilità dell’età̀ evolutiva, intese come quelle situazioni in cui in conseguenza di una malattia, di un disturbo o di una menomazione - comunque determinata - il soggetto presenta difficoltà nella realizzazione del suo processo di crescita.
L’intervento è rivolto non solo al disturbo ma anche alla trasformazione che questo subisce nei diversi stadi evolutivi e alla presenza di problemi associati; è necessario focalizzare ogni volta il sintomo emergente nella sua particolare fase evolutiva, per favorire soprattutto l’integrazione e l’armonizzazione delle competenze nelle diverse aree di sviluppo. (Commissione Nazionale del Corso di Laurea in Terapia della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva)
L’intervento terapeutico è indirizzato alle funzioni emergenti che si trasformano nel corso dello sviluppo, ostacolato o rallentato dalla presenza di disturbi di tipo neuro e psicomotorio, comunicativo-affettivo e neuropsicologico, all’interno di quadri clinici complessi ed eterogenei. La caratteristica dell’intervento è rappresentata da un lavoro rivolto non tanto al deficit, ma all’integrazione delle competenze emergenti, ivi incluse quelle atipiche.
Il TNPEE interviene laddove le abilità emergenti pur essendo riconducibili a specifici settori (motorio, linguistico, interattivo) non possono essere scisse dalle funzioni di base: attenzione, percezione, memoria, motivazione, regolazione affettiva. L’integrazione tra abilità emergenti e funzioni di base trasversali caratterizza nello specifico l’approccio neuro psicomotorio dell’età evolutiva.
(Neuropsicomotricista, 2005)
Area di intervento del TNPEE
L’area di intervento dei terapisti della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva è rappresentato dalle disabilità dell’età evolutiva, le quali limitano le capacità del bambino o dell’adolescente a realizzare ciò che è funzionale al loro percorso di sviluppo.
In questo quadro di sviluppo, il terapista della neuro e psicomotricità fornisce un approccio specifico e professionale ai disturbi e ai bisogni dello sviluppo dell’età evolutiva.
Quando le difficoltà sorgono in epoca precoce, possono coinvolgere competenze specifiche o globali che possono inficiare sull’intero sviluppo del bambino.
I bambini che necessitano quindi di un intervento neuro e psicomotorio di solito presentano difficoltà nel muoversi, nel relazionarsi e nel comunicare.
In queste difficoltà si inserisce perciò la figura del tnpee, che effettua sia attività di valutazione, sia di abilitazione e/o riabilitazione, usufruendo di setting e strumenti specifici, utili al terapista e al bambino per stimolare e sviluppare quelle funzioni e quelle abilità necessarie per lo sviluppo del bambino. (Della Corte, 2021)
La terapia neuro psicomotoria, inoltre, integra precocemente gli altri interventi riabilitativi nelle disabilità che derivano dai ritardi/disturbi della comunicazione verbale e non verbale, e dai deficit sensoriali. L’integrazione tra abilità emergenti e funzioni di base trasversali caratterizza nello specifico l’approccio neuro psicomotorio dell’età evolutiva. (Neuropsicomotricista, 2005)
In riferimento al Core Competence, il TNPEE svolge:
Attività di prevenzione
Il TNPEE, in quest’ottica interviene in due sensi:
- previene sviluppi atipici nelle situazioni di rischio, sia biologico che sociale
- previene situazioni di esclusione dell’individuo con disabilità, favorendo la generalizzazione delle competenze apprese nel setting terapeutico agli abituali contesti di vita.
Il terapista della Neuro e Psicomotricità̀ dell’età̀ evolutiva dovrà̀ quindi essere in grado di individuare i bisogni di salute e di effettuare attività̀ di prevenzione nei confronti dei singoli e della collettività̀, sia in condizioni di salute che con problemi di disabilità; promuoverà̀ le azioni necessarie al mantenimento dello stato di salute e contribuirà̀, attraverso le proprie competenze professionali specifiche, all’individuazione delle situazioni potenzialmente a rischio in età̀ evolutiva.
“Associazione Pollicino” e l’importanza della prevenzione primaria nei disturbi alimentari dell’infanzia
L’associazione Pollicino è un’associazione Onlus nata a Milano nel 2006, costituita da psicologi, psicoterapeuti, psicoanalisti, neuropsichiatri, medici, pediatri, ostetriche, psicomotricisti, che promuove iniziative di prevenzione ed intervento sul disagio psicologico in età evolutiva e in particolare sui disordini del comportamento alimentare da 0 a 16 anni.
“Prevenire è meglio che curare e nell’infanzia è un’operazione possibile!
La prevenzione nel campo dell’alimentazione implica la multidisciplinarietà degli approcci e la collaborazione tra le diverse figure specialistiche.”
(Associazione Pollicino e centro crisi genitori onlus, 2006)
È noto, inoltre, che i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione sono in forte aumento tra bambini e adolescenti e hanno un forte rischio di cronicizzare con l’età adulta; per questo motivo un’attività di prevenzione intesa come intervento precoce di sensibilizzazione nei confronti sia dei più piccoli, sia dei genitori può essere molto utile per un contenimento di tali disturbi tra la popolazione.
Vi sono alcuni programmi di prevenzione che sono stati elaborati da alcuni studiosi con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di una buona armonia tra la rappresentazione del corpo, l’autostima e il comportamento alimentare. Questi programmi di prevenzione si fondano sull’evidenza che essere in possesso di un’immagine corporea positiva fin dall’infanzia, coordinata all’aumento dell’autostima e ad uno stile di vita abbastanza regolare, è in grado di diminuire l’esordio e la diffusione dei disturbi alimentari. (Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013)
Attività di abilitazione
Il TNPEE interviene sullo sviluppo di funzioni non ancora acquisite, favorendo l’emergere delle abilità: di motricità̀; di apprendimento e applicazioni delle conoscenze; di comunicazione; di interazioni e relazioni interpersonali, per svolgere compiti e richieste specifiche e generali, al fine di garantire le attività̀ e la partecipazione del soggetto, compatibilmente all’età̀ e al livello di sviluppo rispettando l’originalità̀ della crescita e le caratteristiche dell’ambiente.
(Commissione Nazionale del Corso di Laurea in Terapia della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva)
Attività di riabilitazione
Il TNPEE interviene nel recupero delle funzioni che per ragioni lesive o patologiche sono state ridotte o compromesse attuando interventi terapeutici- riabilitativi nelle menomazioni delle funzioni mentali globali e specifiche, delle funzioni sensoriali, delle funzioni neuro-muscolo- scheletriche e correlate al movimento per favorire i processi di riorganizzazione funzionale svolge attività̀ terapeutica per le disabilità neuromotorie, neuro psicomotorie e neuropsicologiche utilizzando tecniche specifiche per fasce d’età̀ e per singoli stadi di sviluppo, adattando gli interventi alle particolari caratteristiche dei pazienti con quadri clinici multiformi che si modificano nel tempo in relazione alle funzioni emergenti. (Commissione Nazionale del Corso di Laurea in Terapia della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva)
Le mosse del terapista
Nella sua professione il TNPEE mette in atto delle azioni semplici e mirate che hanno l’obiettivo di influenzare e modificare, in modo adattivo e funzionale, il comportamento spontaneo del bambino. Le mosse possono essere pensate come delle leggere pressioni esterne a cui l’individuo può reagire in modo spontaneo. Ciascuna mossa ha una funziona specifica:
- Osservazione: il terapista osserva le azioni del bambino in modo attento e presente, ma non intrusivo. Sceglie un luogo nella stanza e, a seconda delle situazioni, adatta il tono, le posture e l’orientamento che deve avere in modo da lasciare libertà di esprimere il comportamento spontaneo del bambino.
- Contenimento fisico: il terapista impedisce fisicamente al soggetto, attraverso il contatto corporeo, di compiere dei comportamenti indesiderati.
- Rifornimento: fornire al bambino gli oggetti di cui necessita materialmente. Questa mossa è fondamentale per creare un’atmosfera e un’alleanza positiva tra bambino e terapista e per sostenere il bambino nelle sue azioni, dando loro significato.
- Rispecchiamento esatto: imitazione esatta e fedele delle azioni che compie il bambino.
- Rispecchiamento inesatto: imitazione parziale delle azioni che compie il bambino modificando qualche parametro, in modo da portare l’attenzione del bambino sui contenuti delle sue azioni.
- Rispecchiamento enfatico: imitazione “esagerata” delle azioni che compie il bambino per dare valore alla fantasia e all’azione del bambino.
- Azioni parallele: il terapista compie in modo autonomo, affianco al bambino, mosse diverse da quelle che compie il bambino; serve solitamente per ritrovare un equilibrio nella relazione e lasciare al bambino spazio di autonomia.
- Azioni trasformatrici: il terapista interviene e modifica in parte alcune azioni del bambino per spezzare e modificare degli schemi non funzionali, come la ripetitività.
- Scambio: il terapista compie delle azioni complementari a quelle del bambino per arricchire il suo gioco e attivare un adattamento da parte sua.
- Supporto corporeo: il terapista imprime l’azione con il proprio corpo su quello del ambino nel momento in cui percepisce la sua reattività tonica per aiutare nell’azione.
- Monitoraggio: il terapista si siede dietro al paziente aggiustando la postura e indirizzando i gesti degli arti superiori in modo da favorire la costruzione della funzione prassica.
- Contatto corporeo: massaggi, dialogo tonico e gioco corporeo per favorire l’interazione ludica.
- Gioco corporeo: il terapista stimola la comunicazione del bambino in modo giocoso.
- Disequilibrio: piccoli sbilanciamenti del corpo del bambino tramite una modificazione del piano di appoggio, delle leggere spinte, ecc., in modo da stimolare delle reazioni di equilibrio e degli aggiustamenti senso motori.
- Esibizione: il terapista effettua delle azioni motorio in modo esplicito con lo scopo di creare motivazione all’azione nel bambino, aiutandolo ad uscire da un possibile stato inerziale o di inibizione.
- Spinta orientata: il terapista sollecita, tramite una leggera spinta, lo spostamento o un passaggio posturale del bambino, impostando cos’ la direzione dell’azione e aumentando l’attenzione del bambino.
- Cattura dell’attenzione: proporre al bambino degli stimoli sensoriali in modo da incentivare reazioni di orientamento e interesse per la realtà circostante.
- Dialogo sonoro: improvvisazione musicale con strumenti o canto per creare un’interazione e dare libero sfogo all’espressione del bambino.
- Guida verbale: il terapista descrive e accompagna verbalmente l’azione del bambino per rinforzarne il significato.
(Wille, Le principali mosse del terapista, 2010)
Osservazione Neuro e Psicomotoria
In linea generale, osservare significa rilevare alcuni dati che serviranno successivamente alla conoscenza e alla valutazione di qualche aspetto della realtà. L’atto di osservare è un’azione complessa in quanto impone la soggettività dell’osservatore stesso, che rileverà quei dati in modo non oggettivo, dal momento che “non è possibile osservare eventi esterni senza che vi sia l’intervento di processi soggettivi interni, percettivi o cognitivi”. L’osservazione, dunque, è un’interpretazione soggettiva di dati oggettivi e, affinché sia il più oggettiva possibile, deve suggerire all’osservatore cosa guardare, come guardarlo, dove, in che luogo, per quanto tempo e quali strumenti usare. (Minotti, 2021)
L’osservazione neuro psicomotoria è un’osservazione particolare: è diretta, in quanto ha come focus le azioni del soggetto e può essere sia naturalistica, quindi effettuata nell’ambiente naturale della vita del bambino, come ad esempio l’ambiente famigliare, sia di laboratorio, ad esempio la stanza di terapia. Tale procedimento di raccolta e analisi dei dati ha lo scopo di rilevare le potenzialità evolutive e le caratteristiche adattive del bambino tramite l’analisi del suo agire. Nel bambino, l’assenza di esplorazione e gioco è un campanello d’allarme e indicatore di un possibile disagio evolutivo, più o meno grave. (Wille, la valutazione psicomotoria, 2010)
Durante la fase di osservazione il terapista non è passivo, bensì deve essere in grado di alternare il gioco spontaneo inserendosi nella cornice ludica con proposte di gioco condiviso senza essere eccessivamente richiestivo o sostituirsi al bambino.
Il terapista deve essere un punto di riferimento per il bambino, che deve riuscire ad instaurare un rapporto sereno e di fiducia fin dalle prime sedute, in modo da riuscire ad esprimere la propria spontaneità, i suoi interessi e i suoi bisogni.
I comportamenti che il terapista deve osservare in questa fase sono:
- Gioco funzionale
- Gioco simbolico
- Interessi e motivazione
- Capacità attentive
- Comportamento sociale
- Comprensione ed uso del linguaggio
- Comportamento non verbale
- Segno grafico
- Uso dello spazio
- Comportamento motorio
- Autonomie (Minotti, 2021)
Il gioco nella terapia neuro e psicomotoria
L’elemento su cui si basa l’operato del terapista e su cui si fonda l’intervento neuro e psicomotorio è il gioco, che rappresenta per il bambino uno strumento molto importante ed efficace per entrare in relazione con ogni aspetto della realtà. Definire il gioco non è affatto semplice, in quanto è una attività che il bambino mette in atto combinando e modificando liberamente i rapporti tra le cose in modo fantasioso e soggettivo, senza preoccuparsi di ricevere una conferma o meno dal risultato delle proprie azioni.
Dal Lago e Rovatti sostengono che il gioco sia come un teatro, che riesce a comunicare qualcosa solo nascondendo quel che di importante ha da dire e svanisce se rivela il suo vero significato. Il gioco nell’intervento neuro e psicomotorio è essenziale in quanto serve, sia al terapista, sia al bambino, per sviluppare e incentivare determinate funzioni e abilità, che possono non esserci o che possono essere compromesse, infatti, diverse osservazioni del comportamento spontaneo dei bambini, suggeriscono che il gioco nasce là dove sono presenti abilità, ovvero alla presenza o meno di schemi di azione e alla loro qualità, che il bambino utilizza per accedere e manipolare la realtà che lo circonda.
“Senza abilità non vi è gioco e la patologia infantile ne è un’ulteriore conferma”.
Il gioco è un elemento fondamentale che agisce a sua volta sullo sviluppo del bambino, in quanto permette di mantenere la distanza dall’oggetto, di non farsi riassorbire da esso dopo la fatica fatta per distinguersi. Il gioco crea l’individuo e ricolloca il movimento in un’area a sé, si riappropria del movimento come mezzo di espressione ludica ed è esercizio di potere gestuale e di azione. Da ciò, dunque, comprensibile come una situazione patologica, di disabilità, comporta anche un limite ludico nel bambino, a cui manca uno strumento importante per fare esperienza. Il gioco è una zona in cui la realtà entra trasformata e con la quale è fondamentale mantenere un aggancio. Possiamo pertanto dire che il gioco è un terreno onirico dominato dalla fantasia, la quale però è sganciata e libera da qualsiasi contatto con la realtà. (Ambrosini, Il gioco in terapia psicomotoria, 2010).
Dal gioco spontaneo del bambino partirà quindi l’osservazione e la valutazione del terapista.
Il setting neuro e psicomotorio
Il setting neuro psicomotorio può essere definito come l’insieme di tutti quegli accorgimenti strutturali, organizzativi e di modalità, che consentono di cogliere maggiormente e con precisione le istanze e le richieste presentate e, a volte, nascoste, dal bambino.
Il setting si concretizza nei seguenti elementi: predisposizione dell’ambiente, accoglienza e chiusura della seduta, modalità di conduzione, ecc.
(Flori)
Nelle sedute di neuro e psicomotricità, rappresenta dunque l’insieme di spazio e tempo in cui si insatura la relazione tra terapista e bambino e in cui vengono posti e, tramite materiali specifici, raggiunti gli obiettivi del trattamento. Il setting è definito da regole, le quali delimitano e rendono significativo l’intervento del terapista, qualificando il suo operato. (Neuropsicomotricista, 2005)
In neuro e psicomotricità, il setting deve essere:
- Un luogo riservato: uno spazio esclusivo in cui il bambino può̀ riconoscersi
- Un luogo dell’interazione: uno spazio in cui terapista e bambino costruiscono una alleanza terapeutica, che è il presupposto fondamentale su cui costruire l’esercizio.
- Un luogo motivazionale: senza motivazione l’azione non c’è, perciò il setting deve configurarsi come spazio motivante per il bambino.
- Un luogo dell’agire: lo spazio in cui si svolge la seduta deve promuovere l’azione del bambino; deve essere facilitato il sentire, il desiderio a muoversi, scoprire, conoscere; per questo occorrerà̀ predisporre arredi, strumenti e giochi che facilitino l’esecuzione del compito e il mettersi in gioco.
- Un luogo esperienziale e significativo: ciò̀ che il bambino vive nell’ambito del setting deve rappresentare un’esperienza significativa: gli attori e gli strumenti lavorano per determinare nel bambino vissuti positivi, che permettono poi di ripetere l’esperienza o di accettare piccole frustrazioni.
(Flori)
Setting spaziale
Il setting psicomotorio consiste in una stanza piuttosto vuota, in cui è possibile camminare e correre. Gli oggetti hanno una loro specifica sistemazione, che suggerisce spazialmente i quattro stadi evolutivi che sono alla base dello sviluppo psicomotorio (stadio senso motorio, tonico-emozionale, simbolico e di realtà) sui quali lo psicomotricista basa la propria terapia. Gli oggetti sono diversi e collocati in punti specifici, volti a stimolare una risposta su quel piano di comunicazione. (Bonavolonta, 2013)
Setting temporale
Il setting temporale si limita generalmente ad uno, massimo due incontri la settimana perché deve essere ben distinto dal tempo quotidiano. Le sedute, per essere significative, non possono svolgersi tutti i giorni perché si tratta di un tempo particolare. (Bonavolonta, 2013)
Oltre alla distinzione tra setting spaziale e setting temporale, è importante sottolineare come il setting possa essere inteso sia come spazio fisico, sia come spazio mentale.
Lo spazio fisico è inteso come un ambiente dedicato e pensato, con riferimento alla dimensione normativa del setting. Allude perciò alla stanza vera e propria della terapia, che in linea generale deve essere ampia e luminosa, pulita, con la giusta temperatura e l’atmosfera, data dai colori, dalle pareti e dalla disposizione dei materiali, deve essere accogliente. (Flori)
All’interno della stanza della seduta neuro e psicomotoria, possiamo trovare delle aree dedicate, come descritto nel setting spaziale.
(Bonavolonta, 2013)
La conduzione della seduta neuro psicomotoria
Parte importante del setting la ricopre la modalità di conduzione della seduta da parte del terapista. A seconda del bambino che entra in stanza e del suo funzionamento, infatti, la conduzione può essere diretta, indiretta o facilitante.
Diretta
Tipo di conduzione che si esplicita tramite “la richiesta esplicita del terapista al bambino di attivazione di schemi d’azione finalizzati alla conquista consapevole di un obiettivo definito in anticipo”. Il terapista e il bambino, all’inizio del percorso stabiliscono e condividono gli obiettivi del trattamento che devono essere raggiunti. Questa conduzione è adatta a bambini con età superiore ai cinque anni che non presentano disturbi nella comunicazione, di personalità, e da deficit neuropsicologici e attentivi. (Ambrosini, Conduzione Diretta, 2010)
Indiretta
In questa modalità il terapista tende ad usare prevalentemente un linguaggio analogico e a non fare richieste esplicite al bambino, il quale solitamente è refrattario vero qualsiasi cosa possa modificare le sue azioni spontanee abituali. Per questo motivo il terapista non può rischiare di fare richieste esplicite, in quanto potrebbe provocare delle reazioni oppositive nel bambino oppure non provocarne nessuna. È necessario quindi in queste situazioni mettere in atto determinate strategie che rispettano lo spazio di libertà che necessita il bambino. La conduzione indiretta si usa in genere con bambini di età inferiore ai quattro anni, poiché difficilmente riescono ad accettare e adattarsi alle regole imposte dall’esterno oppure con pazienti più grandi che presentano Disturbi della Condotta o con un’età mentale inferiore a quella cronologica.
Le principali mosse che il terapista mette in atto durante una conduzione di tipo diretta sono le seguenti: osservazione, contenimento fisico, rifornimento, rispecchiamento esatto, rispecchiamento inesatto, scambio, azioni parallele, dialogo sonoro e azioni trasformatrici. (Ambrosini, Conduzione indiretta, 2010)
Facilitante
Caratterizzata da un continuo supporto e aiuto corporeo al soggetto, in quanto l’azione non può essere spontanea. Tale conduzione, infatti, è indicata per tutti quei pazienti che si trovano in gravi condizioni di disabilità sensoriali, motorie e cognitive e che perciò non riescono ad agire secondo una motivazione interna propria.
Le mosse tipiche del terapista durante questo tipo di conduzione della seduta sono: supporto fisico, contatto corporeo, disequilibrio, spinta orientata, monitoraggio, cattura dell’attenzione visiva e uditiva e guida verbale. (Wille, Conduzione Facilitante, 2010)
LA TERAPIA NEURO E PSICOMOTORIA NEI PAZIENTI CON DISTURBI DELLA NUTRIZIONE E DELL’ALIMENTAZIONE IN ETA’ EVOLUTIVA
Ad oggi, all’interno dell’equipe riabilitativa dei pazienti con disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono presenti diversi specialisti che cooperano e collaborano fra loro: infermieri, psichiatri, psicologi, endocrinologi, dietisti, gastroenterologi, cardiologi, educatori. Tra questi non troviamo la figura del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva.
Nei pazienti affetti da DAN, il problema alimentare è “solo” la manifestazione di un disagio psichico più profondo, che può nascondere difficoltà più complesse e intricate e che può essere dovuto a difficoltà di regolazione emotiva e di comunicazione.
“Il cibo più nutriente per il bambino è l’ascolto, l’essere riconosciuto come una persona unica” (Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013)
Il bambino che manifesta una fragilità nella regolazione emotiva e del comportamento deve essere tempestivamente indirizzato verso un percorso abilitativo/riabilitativo precoce fin dai primi segni di allarme.
Il trattamento terapeutico che più frequentemente viene prescritto dagli specialisti per questa tipologia di problemi è la psicoterapia; tuttavia, non bisogna dimenticare che i soggetti da abilitare/riabilitare sono, in questo caso, dei bambini che presentano, in quanto tali, delle modalità espressive dei propri bisogni peculiari e diverse da quelle dell’adulto. Una di queste è il gioco. Il bambino infatti, attraverso il gioco, esprime bisogni e stati d’animo nonché potenzialità e difficoltà relative alla fase di sviluppo in cui si trova. Esso inoltre permette di effettuare delle esperienze nuove viste come potenzialmente pericolose e/o difficili all’interno di un contesto sicuro e sereno. (Mazza, 2019)
Dunque, il terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva non interverrà in modo diretto sul problema esplicito, e cioè la difficoltà e il disagio alimentare, bensì andrà a lavorare su quegli aspetti dello sviluppo del bambino che sono fattori di rischio e sintomi di sviluppo della patologia alimentare.
È fondamentale infatti tenere in considerazione che in un paziente con tali disturbi, che utilizza il cibo e il corpo per esprimere un disagio significativo, possono essere compromessi alcuni aspetti, tra cui:
- Immagine corporea: è un’immagine vissuta, cioè una rappresentazione soggettiva, affettiva e simbolica, perlopiù inconscia, che si forma sulla base di esperienze affettive e relazionali.
- Interpretazione degli stimoli: il bambino può presentare difficoltà riconoscere le proprie emozioni e le sensazioni, non distinguendo tra stimoli esterni e stimoli interni.
- Processo di separazione-individuazione: il bambino fin dalla nascita inizia a sperimentare se stesso attraverso uno scambio tonico emozionale che avviene con la madre; sono infatti tutte le sensazioni, che derivano dall’essere toccato, manipolato e tenuto in braccio in un continuo scambio comunicativo, ad essere precursori della costruzione del sé ed alla base della prima differenziazione tra sé e gli altri.
- Riconoscimento dei propri stati affettivi: nella prima infanzia è la figura di riferimento del bambino a giocare un ruolo fondamentale in quanto funge da “contenitore” per lui, assorbendo, contenendo, elaborando ed interpretando i suoi stati affettivi.
(Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013)
La storia di Luca
Lo studio di Cartacci e Riva riporta, in questo scenario, un’eccezione: il caso di Luca Luca è infatti un bambino di 33 mesi, nato da inseminazione artificiale, che viene inviato presso il servizio di neuro e psicomotricità su richiesta del pediatra e del servizio di neuropsichiatria infantile, in quanto manifesta disturbi del sonno e dell’alimentazione, inseribili, dagli specialisti, in un quadro psicomotorio. Dal punto di vista alimentare Luca accetta solo la “sua pappa”, cioè esclusivamente cibo frullato e di colore verde, rifiutando qualsiasi altro alimento. Nei momenti dei pasti osserva in modo ambivalente gli altri piatti presenti a tavola con un cibo differente dal suo. I genitori riportano che il bambino si rifiuta di nutrirsi in modo autonomo e che controlla la madre durante la preparazione del pasto. L’anamnesi, riportata dai genitori, sottolinea che il bambino non è stato allattato in quanto la mamma trovava l’azione dell’allattamento troppo animalesca e quindi non adatta. Inoltre, il bambino è stato cresciuto anche da una puericultrice, scelta che ha permesso alla madre, dopo nemmeno un mese dal parto, di poter ritornare al lavoro. Il bambino, fin dalla primissima infanzia, è sempre stato seguito da una “tata” e dalla presenza costante dei nonni. Luca, oltre al disagio alimentare, presenta una difficoltà nella produzione linguistica: il bambino tende a comunicare tramite gesti ed utilizza l’adulto come prolungamento di sé per raggiungere ciò che desidera. Non tollera di sporcarsi le mani e ha utilizzato il pannolino per un periodo di tempo molto lungo.
La terapista, durante le prime sedute, osserva ed evidenzia come Luca tenda a mettere in risalto nei suoi giochi determinate aree corporee, come la bocca del coccodrillo peluche con cui gioca e come lo sguardo del bambino sia alla ricerca insistente di quello della terapista e della madre come richiesta implicita di autorizzazione, accettazione e come forma di controllo.
Da questa osservazione, le proposte iniziali della terapista, dunque ricadono su scelte semplici, come la pasta da modellare, attraverso cui il bambino affronterà, in una cornice ludica, la tematica dell’alimentazione. Luca, infatti, tenderà ad usare la pasta da modellare per creare il cibo con cui nutrirà la terapista. Sarà Luca a preparare il cibo e a spezzettarlo per poi darlo prima alla terapista, che si mostrerà affamata e bisognosa di cure e in un secondo momento a un bambolotto. Il gioco messo in atto dal bambino, infatti, supportato sempre dalla presenza e dalla relazione con la terapista, si amplierà sempre di più: il bambino inserirà nella sua attività ludica altri personaggi da accudire e nutrire: i bambolotti diventano due e iniziano ad assumere degli atteggiamenti e dei comportamenti complessi, rendendoli dei veri e propri personaggi. Il bambino approderà ad un gioco sempre più simbolico: la pasta da modellare, che fino ad allora era stato il cibo con cui nutriva i vari personaggi, si trasforma adesso in animali e in mezzi di trasporto con cui Luca svolge anche un gioco di tipo senso motorio, investendo il suo corpo e trovando in esso fonte di piacere. Nel percorso neuro psicomotorio, la terapista ha cercato di sostenere la globalità del bambino, in tutte le aree, favorendo l’emergere di determinate manifestazioni legate alla sintomatologia del bambino, tramite proposte come la pasta da modellare, la creazione di significati sul tema della nutrizione, l’estensione ai temi della cura, ecc…. La sperimentazione di tutti questi scenari e il crearsi di varie situazioni all’interno della seduta, ha avuto dei riscontri non solo nella stanza di terapia, ma anche nella vita quotidiana di Luca, che, da quanto riportano i genitori, dopo diverso tempo ha iniziato ad assaggiare alimenti nuovi, superando le fissazioni iniziali, aumentando leggermente il peso corporeo e migliorando anche nel linguaggio espressivo. Si è notato anche un aumento delle autonomie personali, con un distacco dalla figura materna e un maggior coinvolgimento del padre nei giochi di ruolo. L’intero percorso ha permesso al bambino di sviluppare e migliorare competenze affettive e comportamentali che a loro volta hanno permesso un’evoluzione in campo alimentare e linguistico e hanno favorite nel bambino la costruzione di un’identità e un incremento dell’autonomia. (Cartacci Riva, 2013)
Il caso di Luca mostra, ad oggi, un raro intervento neuro e psicomotorio di riabilitazione di un paziente in età evolutiva con disturbo alimentare.
Ricollegandoci a quanto dice il Core Competence riguardo all’ambito di intervento che svolge e può svolgere il TNPEE, un ruolo significativo che il terapista ricopre è anche in ambito preventivo. Considerando infatti la precocità con cui i DAN si stanno espandendo e manifestando, il TNPEE è in grado, sfruttando le sue competenze, intervenire con progetti di prevenzione e sensibilizzazione all’interno delle classi delle scuole dell’infanzia e delle scuole primarie, sia nei confronti dei genitori e degli insegnanti, sia nei confronti dei bambini stessi.
In tal senso il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva può:
- Sensibilizzare gli insegnanti e i genitori riguardo ad una relazione positiva del bambino con il proprio corpo, incentivandoli a comprendere la soggettività di dei comportamenti e degli atteggiamenti corporei di ogni individuo: il bambino usa il corpo per esprime se stesso.
- Favorire nel bambino un processo di maggior consapevolezza corporea, proponendo esperienze con cui il bambino si renda più consapevole delle proprie emozioni, dei propri sentimenti e di propri bisogni, offrendo all’individuo “validi strumenti per esprimere se stesso, le proprie difficoltà e i propri bisogni, superando lo stadio in cui il disagio e la rabbia restano imprigionati nel corpo, perché non ancora rappresentabili in alcun modo”. (Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013)
OBIETTIVI DEL PRESENTE PROGETTO DI TESI
Considerato che, ad oggi, l’equipe multidisciplinare che prende in carico i pazienti che soffrono di disturbi alimentari non include tra le varie figure professionali quella del TNPEE, tale lavoro si pone l’obiettivo di mostrare perché e come, considerati i fattori principali della storia della patologia dei DAN, Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, che concorrono al loro sviluppo e al loro mantenimento, il TNPEE, vista la sua specificità di intervento, rivolgendosi a pazienti in età evolutiva, con uno sguardo globale allo sviluppo dell’individuo, possa rappresentare una risorsa riabilitativa e quindi possa presenziare tra gli specialisti presenti nell’equipe interdisciplinare che si occupa di tali pazienti, che manifestano la sintomatologia fin dalla più tenera età.
Per fare ciò è stata dunque effettuata una panoramica generale sulla patologia, molto complessa e sfaccettata, ponendo l’accento su quei fattori, quali la relazione di attaccamento del bambino con il proprio care-giver, in particolare la mamma, la percezione di sé e la capacità di regolazione emotiva, che sono determinanti, insieme ad altri, nell’insorgenza di tali disturbi. Il TNPEE, infatti, come sottolineato nei capitoli successivi, si soffermerà non sull’aspetto nutritivo in sé, che è l’aspetto osservabile della patologia alimentare, bensì su quegli aspetti cognitivi, percettivi ed emotivi che ne rappresentano la causa profonda e nascosta.
MATERIALI E METODI
Tale progetto di tesi è una revisione di letteratura.
Per svolgere questo elaborato e raggiungere gli obiettivi posti e sopracitati, sono state consultate diverse fonti, tra cui articoli di riviste digitali, libri cartacei e siti web, da cui è stato estrapolato tutto il materiale inerente e utile per la stesura del presente lavoro.
Per la selezione degli articoli è stata effettuata una ricerca avanzata tramite le banche dati internazionali di PubMed ed Embase. Ai risultati ottenuti sono stati applicati alcuni filtri, tra cui: l’età dei soggetti con patologia di disturbo alimentare (0-18 anni), una datazione più o meno recente (dal 2000 ad oggi) e la possibilità di lettura dell’articolo in full text. In seguito è stata svolta una prima scrematura tramite lettura del titolo e dell’abstract, escludendo gli articoli che per alcuni criteri non rispondevano alle esigenze di tale tesi. Tra gli articoli che risultavano eleggibili per il lavoro di tesi è stata infine effettuata la lettura in full text, che ha permesso di selezionare ed includere nel progetto solo alcuni articoli.
Lo stesso procedimento è stato seguito per la ricerca della bibliografia cartacea.
Tramite una prima consultazione online dei siti web delle biblioteche del territorio lecchese sono stati ricercati, tramite filtri, quali titolo ed autore, alcune opere cartacee che potessero trattare argomenti utili per perseguire gli obiettivi di questa tesi.
Un primo step ha visto la lettura degli indici e delle introduzioni, per arrivare a selezionare solamente le opere apparentemente più complete ed inerenti al focus di tale progetto.
Dei libri reclutati, è stata effettuata successivamente la lettura completa dei capitoli di interesse per lo svolgimento della tesi, selezionando perciò solo quelli che rispondevano alle esigenze di questo elaborato.
DISCUSSIONE
Il caso di Luca è uno dei pochissimi casi riportati dalla letteratura di pazienti affetti da disturbo alimentare, la cui presa in carico prevede anche un percorso riabilitativo neuro e psicomotorio.
La sua storia permette di evidenziare come nel bambino ogni processo psichico origina e si sviluppa tramite l’esperienza vissuta del corpo e come gli aspetti da valutare e trattare nella riabilitazione di pazienti con disturbi alimentari, sono da cercare nell’emotività e nella capacità di regolazione emotiva del bambino, nella sua bassa autostima ed autoefficacia, in una distorsione e alterazione dell’immagine corporea e nel rapporto con la madre (o altro care giver). Di conseguenza, l’approccio neuro psicomotorio, basandosi sull’agire stesso del bambino, può costituire una risorsa fondamentale e uno strumento utile per favorire la coscienza di sé e una miglior consapevolezza corporea, nonché l’espressione e la regolazione delle emozioni.
Nella clinica neuro psicomotoria il corpo è protagonista della relazione intersoggettiva nel rapporto con lo spazio e il tempo, con i vissuti di vicinanza e di lontananza; momenti che rappresentano la base dell’interazione corporea madre-bambino e che vengono rivissuti all’interno del setting e nella relazione con il terapista.
Lo sguardo del TNPEE sarà principalmente rivolto verso il mondo emotivo del paziente, sostenendo i processi di rottura e ricostruendo quelli di attaccamento. Attraverso il proprio corpo e l’interazione con il terapista, il bambino potrà incentivare la propria autostima, favorire una modalità comunicativa verbale e non verbale più efficace e funzionale esternando i propri sentimenti e le proprie sensazioni. (Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013)
CONCLUSIONI
Vista l’insorgenza sempre più precoce di tali disturbi in età evolutiva, e considerati gli aspetti emotivi, cognitivi e percettivi coinvolti, è comprensibile pensare come l’attività di prevenzione e di riabilitazione del TNPEE possa essere fondamentale nel trattamento integrato di tali patologie. Infatti, riguardo alla terapia neuro e psicomotoria, il Core Competence dice:
E’ una terapia globale perché́ se il corpo rappresenta la totalità̀ della persona nella sua unità psicosomatica e se il movimento e le azioni sono l’origine ed è l’espressione esteriore dell’intera personalità̀ , allora il lavoro terapeutico può̀ essere pensato solo in una dimensione di totalità̀ e unità al fine di ottenere la maggiore autosufficienza e la maggiore autonomia, sollecitando i mezzi più̀ idonei per migliorare lo sviluppo globale; è il bambino l’elemento attivo del processo di crescita ed è essenziale stimolare al massimo le sue possibilità̀ di adattamento rispetto alle limitazioni, primarie o secondarie e rispetto alle caratteristiche proprie dell’ambiente in cui vive. (Commissione Nazionale del Corso di Laurea in Terapia della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva)
Perciò la presenza del terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva all’interno dell’equipe multidisciplinare può essere una risorsa importante e fondamentale per tali pazienti, che, attraverso il cibo, cercano di esprimere un disagio profondo non comunicabile in altro modo, se non tramite il corpo. Il corpo è proprio ciò su cui il TNPEE, agisce “incontrando il soggetto a partire dalla dimensione dell’azione condivisa, facilitando così l’articolazione di affettività, desideri, possibilità di comunicazione e concettualizzazione del bambino, puntando in primo luogo sul corpo, mezzo principale attraverso cui il piccolo paziente esprime e comunica il suo disagio psichico”. Il terapista cerca infatti di comprendere ed analizzare questo disagio psichico e mettere il paziente in una situazione per poterlo esprimere nel modo più funzionale possibile, partendo dalla relazione e dal mondo emotivo del bambino e non dal problema centrale che il bambino manifesta, ovvero, in questo caso, il cibo. (Leoni, I disturbi del comportamento alimentare in età evolutiva, 2013)
Poiché ad oggi, i primi sintomi si possono manifestare già nelle prime classi della scuola primaria, un intervento precoce messo in atto dal TNPPE può essere inoltre pensato e messo a punto tramite progetti specifici nelle scuole dell’infanzia, con l’obiettivo di permettere e favorire esperienze corporee utili ed efficaci per il bambino, affinché quest’ultimo acquisisca sempre maggior consapevolezza del proprio corpo e delle proprie emozioni.
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Indice |
ABSTRACT - INTRODUZIONE |
I DISTURBI DELLA NUTRIZIONE E DELL’ALIMENTAZIONE (DAN) |
CONCLUSIONI |
BIBLIOGRAFIA |
Tesi di Laurea di: Chiara CIRACI |