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DIPLEGIA SPASTICA o Diplegia Cerebrale Infantile o Sindrome di Little

LA DIPLEGIA SPASTICA

Definizione

Nel corso degli anni sono state proposte da autori differenti numerose definizioni del termine “diplegia spastica”.

William Little (1862), idealmente il “padre” della paralisi cerebrale infantile (PCI), ha descritto quadri clinici che oggi farebbero pensare alla diplegia, ma non ha mai utilizzato questo termine, che è stato invece utilizzato, insieme al termine paraplegia, da Sachs e Petersen (1890) nella loro proposta di classificazione della PCI. Nella griglia interpretativa di Minear (1956), la diplegia viene presentata come una forma di PCI bilaterale “paralysis affecting like parts on either side of the body”. A partire dalla classificazione di Ingram (1955) però in ambito clinico si parla abitualmente di diplegia quando l’interessamento degli arti omologhi del paziente è abbastanza simmetrico e quando, in relazione a segni patognomonici quali “ipertonia”, “iperreflessia”, “debolezza”, ecc. e ad attività motorie quali stare in piedi, camminare e manipolare, la compromissione degli arti inferiori risulta “significativamente” maggiore di quella dei superiori: “Diplegia… as a condition of more or less symmetrical paresis of cerebral origin more severe in the lower limbs than the upper and dating from birth or shortly thereafter”. Un ulteriore criterio discriminativo proposto da Milani Comparetti (1965), assai pratico e spesso chiarificatore nei confronti della tetraplegia, è quello di considerare la capacità degli arti superiori del paziente di esprimere un’efficace reazione di sostegno attraverso l’impiego di idonei supporti ortopedici (diplegia = tetraparesi funzionalmente paraparesi).

I diplegici sono dunque dei soggetti complessivamente meno compromessi dei tetraplegici, in grado di raggiungere in ogni caso la stazione eretta e il cammino e di conservarli almeno per un certo periodo della loro vita (11).

Eziopatogenesi

La diplegia spastica, conosciuta da più di un secolo come malattia di Little, è la forma più frequente di Paralisi Cerebrale (PC) (40%-45%) ed è correlata in particolare con la nascita pretermine.

In realtà la distribuzione della diplegia spastica fra i nati pretermine e i nati a termine è risultata essere bimodale, con la presenza di due gruppi distinti eziologicamente (Atkinson, 1983). Drillen (1964) suggerì che le cause della lesione cerebrale sono differenti nei due gruppi di diplegia spastica e che i fattori di rischio perinatali e sociodemografici sono diversi nei nati pretermine rispetto ai nati a termine. Gli studi epidemiologici condotti per verificare queste ipotesi hanno dato risultati discordanti e solamente l’utilizzo recente della Risonanza Magnetica (RM) ha permesso di confermare la diversità del pattern eziologico e patogenetico della diplegia spastica del neonato pretermine da quella del nato a termine.

Eziopatogenesi nel bambino pretermine

Nel bambino pretermine la diplegia spastica ha un pattern neuropatologico omogeneo e ben conosciuto rappresentato dalla leucomalacia periventricolare (LPV), lesione anossico-ischemica.

La LPV predomina come aspetto patogenetico nei bambini moderatamente pretermine, di età gestazionale compresa fra le 28 e 36 settimane (Hagberg, 1993). Volpe (1992) sostiene che la causa primaria della LPV è l’ipotensione sistemica anche di lieve entità ed attribuisce un ruolo fondamentale a tre fattori nella patogenesi della LPV:

  1. il fatto che le strutture vascolari periventricolari rendono questa regione nel bambino pretermine particolarmente vulnerabile all’ischemia cerebrale;
  2. la circolazione cerebrale del pretermine, in particolare se in condizioni generali depresse, è dipendente passivamente dalla pressione arteriosa per l’insufficienza dei meccanismi di regolazione vasale;
  3. la maggior vulnerabilità delle cellule gliali periventricolari in fase di attiva differenziazione e mielinizzazione.

Nel bambino di età gestazionale molto bassa (< 28-30 sett.) predominano gli infarti emorragici periventricolari di frequente associati ad emorragie intraventricolari; spesso questi infarti sono di origine venosa, asimmetrici, e in generale secondo Volpe legati alla immaturità dei sistemi di coagulazione e alla fragilità capillare dei bambini molto prematuri.

Gli studi di RM condotti negli ultimi anni hanno codificato gli aspetti morfologici caratteristici della LPV, che secondo Barkovic (1990) sono costituiti dalla triade:

  1. iperintensità del segnale nella sostanza bianca periventricolare nelle regioni del trigono dei ventricoli laterali;
  2. marcata riduzione della sostanza bianca in queste regioni con alterato segnale;
  3. dilatazione dei ventricoli nelle porzioni adiacenti a quelle con alterato segnale con irregolarità dei bordi ventricolari.

La relazione fra gli aspetti morfologici della LPV e il quadro clinico della diplegia spastica è ormai chiaro (Volpe, 1992): la compromissione motoria prevalente agli arti inferiori rispetto agli arti superiori è dovuta alle lesioni della sostanza bianca prevalenti nelle aree laterali e dorsali dell’angolo esterno dei ventricoli laterali e che interrompono i tratti corticospinali provenienti dalla corteccia motoria e diretti agli arti inferiori.

Dagli studi di RM anche l’estensione e la distribuzione della LPV è risultata correlata con diversi aspetti clinici della diplegia: Yokochi (1991) ha rilevato una correlazione fra la gravità del quadro clinico e il grado di riduzione della sostanza bianca periventricolare. Koeda (1992) riscontra una correlazione significativa fra la diminuzione del volume della sostanza bianca peritrigonale e la presenza di disordini visuopercettivi nei bambini con diplegia spastica. Fedrizzi (1996) riporta una relazione significativa fra il livello di Q.I. totale e di Performance alla scala WISC dei bambini diplegici e il grado e l’estensione della riduzione della sostanza bianca periventricolare, il coinvolgimento delle radiazioni ottiche che decorrono parallelamente al margine superiore dei ventricoli laterali, e l’assottigliamento della parte posteriore del corpo calloso.

Eziopatogenesi nel bambino nato a termine

Il pattern di cause e fattori di rischio della diplegia del nato a termine è molto più eterogeneo e complesso rispetto a quella del pretermine (Hagberg, 1993; Krageloh-Mann, 1995). In uno studio del gruppo australiano (Atkinson e Stanley, 1983) fra i fattori di rischio del nato a termine vennero individuati alcuni fattori socioambientali materni, come il basso stato socioeconomico e l’alto numero di gravidanze e la presenza di complicazioni perinatali. Hagberg (1993) elenca fra i fattori eziologici della diplegia spastica del nato a termine fattori prenatali, fra i quali fattori genetici, quadri malformativi come le agenesie del corpo calloso e le displasie corticali, anomalie della gravidanza con disturbi della circolazione placentare; fra i fattori perinatali sofferenza di tipo anossico-ischemico in neonati in condizioni non ottimali, e nel periodo postnatale la presenza di un idrocefalo progressivo, non derivato o con shunt malfunzionante. Nelle serie seguite dal gruppo svedese, i dati epidemiologici del gruppo dei bambini con diplegia spastica nati a termine hanno evidenziato la netta prevalenza dei fattori di sofferenza prenatale o l’assenza di cause identificabili, rispetto ai fattori di sofferenza perinatale, molto elevati nel gruppo dei pretermine.

Anche in questo caso gli studi morfologici di RM hanno contribuito a chiarire in gran parte la patogenesi della diplegia spastica nel nato a termine. Koeda (1990) rilevò, in uno studio neurofisiologico comparativo fra diplegici pretermine e a termine, aspetti morfologici molto variabili nel gruppo degli a termine, a differenza dell’omogeneità del quadro di LPV dei pretermine. Nei diplegici a termine, infatti, vennero osservati sia aspetti correlati a danni prenatali, come malformazioni cerebrali, LPV, lesioni poroencefaliche, che aspetti indicativi di lesioni perinatali, quali lesioni ischemiche focali e multifocali o leucomalaciche sottocorticali.

Krageloh-Mann (1993) riscontrò in un’alta percentuale di bambini nati a termine, che non avevano avuto alcuna sofferenza perinatale, un quadro neuroradiologico di LPV con caratteristiche sovrapponibili a quelle del nato pretermine, e indicativo di una sofferenza fetale intrauterina all’inizio del 3° trimestre di gravidanza. Ciò, secondo Hagberg, permette di ritenere che un’alta percentuale di bambini diplegici, nati a termine senza fattori di rischio identificabili, abbia sofferto in utero un episodio di ipoperfusione silente, passato inosservato, che ha determinato una LPV nel periodo fra la 28° e la 36° settimana di età gestazionale (EG) quando le strutture periventricolari sono particolarmente vulnerabili agli eventi ischemici secondari alla ipoperfusione cerebrale, sia nel feto che nel neonato pretermine.

In uno studio recente (Pagliano et. al, 2002), condotto su due gruppi di bambini diplegici, 15 nati a termine e 15 nati pretermine, la RM ha evidenziato in tutti i bambini pretermine un quadro omogeneo di LPV, mentre nei bambini nati a termine è stato rilevato un quadro di LPV nel 47% dei casi, un quadro di lesioni cortico-sottocorticali nel 20% dei casi e una RM normale nel 33% dei casi. A questa diversità di aspetti morfologici corrispondono pattern clinici diversi, ma non sempre nel diplegico a termine si rileva una correlazione clinico-morfologica analoga a quella che si rileva nella diplegia del pretermine: i bambini diplegici nati a termine infatti, pur presentando una distribuzione della spasticità prevalente agli arti inferiori, presentano un profilo cognitivo diverso senza alcuni elementi caratteristici del pretermine, come i disordini visuo-percettivi, anche nei casi ove il quadro neuroradiologico conferma la presenza di una LPV, esito di una sofferenza ischemica intrauterina.

Epidemiologia

La diplegia spastica rappresenta il 44% delle forme cliniche di PC ed è in costante aumento nel neonato pretermine (70% dei casi, rispetto al 30% dei nati a termine).

La prevalenza della PC nei Paesi occidentali è compresa fra il 2 e il 3 per 1000 nati vivi nella maggior parte di studi condotti su popolazioni infantili nel corso degli ultimi 30 anni.

Aspetti Clinici

Nel neonato pretermine i primi segni di lesione cerebrale visibili all’ecografia nei primi giorni di vita e la loro evoluzione successiva permettono in genere di monitorare e di individuare precocemente l’emergere dei primi segni clinici. A tal proposito, è da sottolineare l’importanza nella valutazione del neonato dell’osservazione della motilità spontanea e dei General Movements secondo l’approccio di Prechtl: questi nel neonato pretermine possono presentare le caratteristiche alterazioni qualitative con un repertorio povero specie agli arti inferiori, o anomalie più marcate come i movimenti sincroni crampiformi, che sono altamente predittivi dell’evoluzione verso una PC (Prechtl, 2001).

In generale la prassi consolidata del follow-up clinico ed ecografico del neonato pretermine nel corso del primo anno di vita garantisce un buon margine di sicurezza nel formulare la prognosi di sviluppo motorio normale o la diagnosi di esiti maggiori come la diplegia spastica entro i primi mesi di vita.

Tuttavia, non sempre la presenza di quadri ecografici di LPV, specialmente se non di grave entità, evolve verso un quadro clinico di diplegia spastica, e infatti alla RM eseguita in età prescolare la LPV si può rilevare in bambini pretermine con disfunzioni neurologiche minori. È perciò importante la valutazione clinica, che nei primi 4 – 6 mesi di vita costituisce tuttora lo strumento migliore per individuare i segni di alterazioni delle strutture neurologiche: secondo l’approccio di Touwen, particolare importanza fra i segni di allarme hanno le anomalie persistenti del tono agli arti inferiori con la presenza di pattern stereotipi fissi in estensione non modificabili nelle diverse posture ed accentuati nella sospensione ascellare, la persistenza di tremori o startle spontanei anche quando il bambino non piange, la povertà di motilità spontanea agli arti inferiori nella postura supina in presenza di una motilità più variabile agli arti superiori, la presenza di uno strabismo costante e l’assenza di movimenti di inseguimento lento degli occhi, il ritardo nella sequenza di raddrizzamento antigravitario dell’asse capo-tronco sia in posizione prona che nella trazione da supino a seduto.

In uno studio di Yokochi (1991) attraverso l’analisi dei movimenti spontanei degli arti inferiori in posizione supina di un gruppo di bambini pretermine, videoregistrati fra i 3 e gli 11 mesi di età, nei quali successivamente fu posta diagnosi di diplegia spastica, emerse l’assenza totale di movimenti di flessione dell’anca combinati con l’estensione del ginocchio (sollevamento dell’arto) e di movimenti isolati della gamba, presenti invece nei pretermine sani; i bambini diplegici presentavano solo movimenti simultanei e stereotipi di flessoestensione di anca e ginocchio, con le caratteristiche di movimenti sinergici.

Dopo il 6° mese il quadro clinico di solito diviene più chiaro per l’emergere di ritardi nell’organizzazione delle posture e delle sequenze di spostamento e per l’evidente fissità dei patterns stereotipi tipici del comportamento motorio del bambino con diplegia spastica. In alcuni dei casi più lievi, tuttavia, quando la distribuzione della spasticità è distale e comporta la riduzione della motilità spontanea dei piedi, senza interferenze sull’organizzazione motoria delle sequenze prelocomotorie e della postura seduta, può succedere che la diagnosi emerga solo alla fine del primo anno quando, con l’inizio della postura eretta, il pattern di iperestensione distale si accentua e condiziona il tipico appoggio persistente sull’avampiede.

Nel bambino diplegico nato a termine, l’emergere dei primi segni clinici di un quadro di diplegia spastica spesso passa inosservato, in particolare nei casi in cui non si è verificata una sofferenza perinatale e la lesione verificatisi in epoca fetale non ha avuto dei correlati clinici nella gravidanza, per cui questi bambini non vengono inseriti in un follow-up clinico ed ecografico regolare. L’epoca della diagnosi di questi casi dipende dalla gravità del quadro clinico e dall’eventuale presenza di altri disordini associati, come l’epilessia, un ritardo psicomotorio o disordini della funzione visiva.

In sintesi, benché le tecniche di neuroimmagine forniscano un contributo fondamentale nella diagnosi precoce e nella conoscenza della patogenesi di questa forma di PC, l’esame clinico e l’osservazione attenta del comportamento motorio del bambino rivestono tutt’ora un’importanza essenziale nel cogliere i segni lesionali e disfunzionali nei primi mesi di vita.

Il quadro clinico della diplegia spastica del bambino pretermine presenta, a differenza di quanto si riscontra nella forma del bambino a termine, una certa omogeneità per quanto riguarda la presenza dei segni neurologici, la frequenza di disordini visivi periferici e centrali e il profilo cognitivo, e ciò in relazione alla lesione cerebrale caratteristica che lo sottende, la LPV.

La diversità fra i quadri clinici è dovuta all’entità ed estensione della lesione, all’eventuale asimmetria della LPV, che determina i quadri di triplegia spastica, al coinvolgimento delle aree visive parietoccipitali e delle radiazioni ottiche. In generale nelle forme più lievi, la LPV è localizzata nelle aree periventricolari posteriori a livello del trigono e il quadro clinico è caratterizzato in prevalenza dalla spasticità e riduzione di motilità spontanea distale degli arti inferiori; nelle forme più gravi la LPV si estende anche anteriormente lungo le pareti laterali dei ventricoli fino a livello dei corni frontali, e in questi casi alla grave spasticità e riduzione della motilità agli arti inferiori si aggiunge un coinvolgimento più o meno marcato degli arti superiori e importanti disordini visuopercettivi.

Naturalmente, come nelle altre forme di PC, il quadro clinico della diplegia spastica, oltre alla varietà dovuta alla diversa gravità della LPV, presenta modificazioni nel corso dell’età evolutiva dipendenti sia dall’accrescimento scheletrico e quindi al possibile instaurarsi di tensioni e blocchi articolari, che dall’emergere di disordini e disfunzioni di altre funzioni neuropsichiche, quali disordini visivi centrali, componenti disprassiche, ritardi cognitivi e problematiche affettive.

Nell’esporre il quadro clinico della diplegia spastica verranno illustrati i segni neurologici più caratteristici, le alterazioni funzionali e le disabilità conseguenti.

I segni neurologici che si rilevano nel bambino con diplegia spastica sono quelli caratteristici dovuti all’interruzione delle vie corticospinali bilaterali che decorrono nel centro semiovale e lungo le pareti dei ventricoli laterali: la perdita della forza e della motilità volontaria, le alterazioni del tono muscolare, le alterazioni sensoriali, l’iperreflessia osteotendinea, con la distribuzione caratteristica prevalente degli arti inferiori rispetto a quelli superiori:

  • le alterazioni della forza e della motilità volontaria prevalgono agli arti inferiori solo distalmente nei casi lievi con assenza dei movimenti attivi di flessoestensione delle dita e riduzione della flessione dorsale del piede; nei casi più gravi coinvolgono anche i distretti prossimali del ginocchio e dell’anca con riduzione dei movimenti isolati e presenza di sinergie stereotipe di flessoestensione ed adduzione. Le alterazioni della forza e motilità volontaria sono sempre presenti anche se in misura variabile al tronco e agli arti superiori, e anche qui il deficit prevale distalmente con riduzione della motilità intrinseca delle dita e della fluidità e rapidità nei movimenti di pronosupinazione e di flessoestensione del polso.

Nelle forme di triplegia spastica un arto superiore può essere gravemente compromesso con perdita della motilità e della forza sia prossimale che distale. A differenza delle forme tetraplegiche (four-limb) nella diplegia spastica non vi è coinvolgimento dei distretti buccofacciali e della muscolatura fonatoria;

  • le alterazioni del tono muscolare sono rappresentate prevalentemente dalla spasticità, con distribuzione prevalente agli arti inferiori, ma presente anche se in misura minore al tronco e agli arti superiori; agli arti inferiori la spasticità interessa di più la muscolatura estensoria e adduttoria rispetto alla muscolatura flessoria, condizionando in questo modo i tipici pattern posturali di incrociamento degli arti inferiori che si riscontrano nelle posture antigravitarie e nel cammino.

Nel bambino pretermine nei primi mesi di vita spesso le alterazioni del tono assumono il carattere dell’ipotonia prevalente al tronco o delle fluttuazioni toniche in relazione alle variazioni posturali e la spasticità emerge solo nel secondo anno di vita.

La presenza di componenti distoniche non è frequente nella diplegia spastica del pretermine: in genere si rileva nelle forme più gravi ed è evidente agli arti superiori nei movimenti di avvicinamento e di manipolazione degli oggetti;

  • le alterazioni sensoriali: le lesioni caratteristiche della diplegia spastica interessano, come si è detto, le radiazioni ottiche e quindi le vie ottiche retrochiasmatiche che portano le informazioni alla corteccia striata, determinando perciò alterazioni dell’input visivo periferico di entità variabile in relazione all’estensione della lesione. Oltre alla lesione delle vie ottiche, le alterazioni della sostanza bianca localizzate a livello del trigono e cioè delle zone di confluenza fra i corni occipitali e temporali dei ventricoli, possono determinare alterazioni nei circuiti occipito-parieto-temporali, che costituiscono le vie di collegamento fra le zone associative deputate al riconoscimento delle caratteristiche formali degli oggetti (vie occipito-temporali o circuiti del what), e quelle deputate al riconoscimento della localizzazione spaziale degli oggetti (vie occipito-parietali o circuiti del where). Conseguente a queste lesioni è la frequente presenza di disordini visivi centrali che comportano difficoltà di discriminazione visuopercettiva e successivamente problemi di apprendimento scolastico;
  • le alterazioni biomeccaniche dei muscoli e deformità articolari: la spasticità fasica comporta l’instaurarsi di alterazioni della struttura muscolare che perde la normale elasticità ed estensibilità e porta gradualmente all’instaurarsi di contratture, tensioni muscolari e, con il graduale accrescimento delle strutture scheletriche, a deformità articolari. Ciò si verifica abitualmente nel bambino diplegico, anche nelle forme più lievi, proprio per il concorrere di cause diverse. Le tensioni in generale si rilevano già nei primi 2 anni di vita a carico della muscolatura dei flessori e adduttori dell’anca e negli estensori del piede; successivamente coinvolgono gli ischiocrurali e il quadricipite e condizionano in modo rilevante le posture e la funzionalità del cammino; agli arti superiori possono interessare gli adduttori del pollice, i flessori del polso e delle dita e i pronatori, meno frequentemente i muscoli prossimali. Le deformità articolari si sviluppano in genere dopo il 2° anno di vita: la più precoce interessa l’articolazione dell’anca, ove il valgismo dei colli femorali può portare gradualmente all’instaurarsi di sublussazioni e l’antiversione dei colli femorali ad un’intrarotazione di tutto l’arto inferiore; anche l’equinismo del piede con componenti più o meno marcate di varismo si rileva in genere entro i primi 3-4 anni di vita, mentre le deformità del ginocchio si manifestano in genere fra i 4 e i 6-7 anni;
  • le alterazioni visive periferiche: le turbe visive dovute ad alterazioni della retina, dei muscoli oculomotori e dei mezzi diottrici sono molto frequenti nei bambini pretermine in genere e in particolare nei bambini diplegici e devono essere individuate precocemente perché interferiscono con lo sviluppo di tutte le funzioni neuropsichiche; la presenza di un’acuità visiva ridotta dovuta a lesioni retiniche, o del nervo ottico o a miopia elevata, non è sempre di facile rilievo clinico ed è necessario indagare con l’esecuzione di accertamenti oculistici, esame dei Potenziali evocati visivi, e valutazione dell’acuità visiva con le metodologie adeguate. Lo strabismo, anch’esso molto frequente nel bambino pretermine, comporta nel bambino diplegico un’importante riduzione del campo visivo e delle possibilità di esplorazione dell’ambiente circostante, limitando ulteriormente la libertà del comportamento motorio; a questo possono aggiungersi disordini della motilità oculare di ordine centrale, come la paralisi dei movimenti saccadici, che aggravano il quadro clinico, in quanto limitano le possibilità di monitoraggio visivo delle posture e delle sequenze di spostamento.

Il quadro clinico della diplegia spastica del bambino nato a termine, come accennato, è più vario ed eterogeneo rispetto a quello del bambino pretermine, in relazione all’epoca di insorgenza e alle caratteristiche della lesione. I bambini diplegici nati a termine con un quadro di LPV dovuto ad una sofferenza ipossico-ischemica verificatasi in epoca fetale fra la 27° e la 36° settimana presentano i segni clinici tipici della diplegia con riduzione della motilità e alterazioni del tono prevalenti agli arti inferiori, e successive alterazioni biomeccaniche dei muscoli e delle articolazioni. Mancano di solito in questi bambini i disordini visivi periferici, che sono tipici della sofferenza perinatale del pretermine e anche i disordini visivi centrali sono meno frequenti. Nei bambini in cui la diplegia spastica è esito di lesioni ischemiche avvenute in epoca perinatale, come nelle lesioni parasagittali, il quadro clinico varia in rapporto alla estensione della lesione, ed è in genere più grave per il coinvolgimento delle strutture corticali. Infine, non raro è il riscontro di forme di diplegia spastica del nato a termine con RM negativa, per lo più con disordine motorio di lieve entità e normale sviluppo cognitivo: in questi casi la diagnosi differenziale con forma di paraparesi ereditaria non è sempre facile soprattutto quando il coinvolgimento degli arti superiori è modesto e l’anamnesi familiare muta (12).

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