La natura pervasiva dell' esposizione digitale: i rischi nella prima infanzia
Le cattive abitudini possono radicarsi nei nostri neuroni con la stessa facilità di quelle buone. La mente, quindi, si allena ad essere “malata" A.Pascual-Leone
L' "assenza presente"
In un recente sondaggio effettuato nell'autunno del 2014, presso una clinica pediatrica in una comunità a basso reddito, sono state indagate le abitudini di utilizzo dei media digitali da parte di 350 bambini nella fascia di età che va tra i 6 mesi e i 4 anni (Kabali et al., 2015). Ai genitori sono stati somministrati questionari contenenti 20 item, che richiedevano, tra le altre cose, quale fosse l'età del bambino al primo utilizzo, la frequenza d'uso, nonché l'abilità mostrata nel maneggiarli e la quantità e la qualità delle applicazioni fruite. Dai dati è emerso che su 350 soggetti solo 12 (3,4%) non hanno mai usato un dispositivo mobile, mentre la maggior parte (96,6%) ci gioca quotidianamente e guarda i video. Il primo contatto avviene prima del compimento di 1 anno di età ed aumenta a partire dai 2 anni. A 4 anni un bambino possiede già un proprio dispositivo multimediale, sa utilizzarlo senza aiuto e lo fa tutti i giorni. Le applicazioni preferite dai genitori risultano essere quelle educative, in quanto pubblicizzate come favorenti un ampliamento del vocabolario ed un miglioramento della comprensione verbale. Tuttavia i digital scaffolds (sostegni digitali), come narrazione orale, effetti sonori ed animazioni, tendono a distrarre il bambino, allontanandolo dal contenuto educativo e di fatto lo intrattengono. Inoltre le capacità interattive, la mobilità e le dimensioni di questi strumenti, insieme ai costi diminuiti, ne hanno permesso una fruizione universale, che prescinde da fattori etnici e culturali. Si tratta dunque di un fenomeno che riflette la natura pervasiva della tecnologia digitale e rispetto al quale rimangono aperti molti interrogativi sugli effetti a lungo termine nei bambini, sempre più precoci utenti. Nelle famiglie con figli piccoli aumenta infatti la disponibilità di tv (97%), tablet (83%), smartphones (77%) e sono proprio i genitori che ne consentono l'uso mentre svolgono faccende domestiche (70%), per mettere a letto i bambini (29%) o per calmarli in luoghi pubblici (65%). A tal proposito, osservando il comportamento assunto dalle famiglie in ristoranti e fast food, la Dottoressa Jenny S. Radesky (Università di Boston) e i suoi collaboratori hanno rilevato la presenza di patterns comportamentali sovrapponibili dell' interazione caregiver-bambino (Radesky et al., 2014). Le osservazioni naturalistiche sono avvenute all'insaputa dei soggetti, senza conoscere i loro dati anagrafici ed all'interno di 15 vicinati della città di Boston, dove il reddito medio si aggira tra i 45 mila e i 100 mila dollari. Gli osservatori si fingevano clienti del ristorante e consumavano i pasti sedendo in postazioni attigue ai soggetti da osservare. In ogni nucleo familiare analizzato, figurava almeno un caregiver ed uno o più bambini di età verosimilmente compresa tra 1 e 3 anni. L'èquipe preposta alle osservazioni era composta da studiosi di antropologia, i quali hanno valutato l'espressione facciale, il tono di voce, il linguaggio non verbale di genitori e figli, per un arco di tempo compreso tra i 10 e i 40 minuti. Tra le variabili considerate vi sono la durata, la frequenza e la modalità d'uso dello smartphone in particolare e le risposte dei bambini a tali comportamenti. La costante emersa da tutte le osservazioni è rappresentata dall'assorbimento da parte del caregiver in attività con lo smartphone. Mentre durante le telefonate viene mantenuto un contatto visivo col bambino, questo viene perso quando il cellulare è usato per leggere e/o scrivere. L'attenzione del genitore rimane comunque bilanciata tra figlio e telefono. L'oggetto mediatico non viene quasi mai lasciato, anzi è continuamente tenuto tra le mani e controllato per tutto il tempo del pasto. Il più alto grado di assorbimento da parte dei genitori si evidenzia con sguardi diretti al telefono anche quando i figli rivolgono loro parole, richieste e/o domande, cui rispondono senza guardare i bambini negli occhi e dando loro istruzioni robotiche con tono di voce sgarbato o ignorandoli completamente. Talvolta vi sono risposte fisiche come spinte o calci. I bambini osservati manifestano spesso condotte provocatorie e ricerca di attenzione, ma anche indifferenza e autoconsolazione. Se genitori e figli possiedono entrambi il proprio dispositivo vi è un isolamento totale; se invece è solo il genitore ad averne uno, il figlio protesta e cerca di afferrarlo; quando invece ne condividono uno insieme, il grado di assorbimento cala. I suddetti patterns si instaurano indistintamente in presenza di uno o due caregivers. Tali comportamenti possono senza dubbio incidere sull' interazione faccia a faccia, fondamentale per lo sviluppo cognitivo, linguistico ed affettivo del bambino. Inoltre potrebbero rappresentare un rischio elevato per l'incolumità dei figli stessi, in quanto viene negata loro la giusta attenzione. Gli autori definiscono assenza presente il tempo condiviso da genitori e bambini, quel tempo speso per chattare, digitare ininterrottamente e guardare altrove, quando invece il motivo della riunione familiare era il pranzo o la cena. E sempre più dubbi nascono su quelli che possono essere gli effetti a lungo termine di abitudini del genere, soprattutto se ignorate e reiterate. Quali ricadute vi possono essere, ad esempio, sui meccanismi di attaccamento se i genitori lasciano che la loro presenza possa essere, sempre in più occasioni, rimpiazzata dai media digitali?
Media digitali e attaccamento
I patterns che emergono dall'osservazione della famiglia-tipo contemporanea suggeriscono stili di attaccamento connessi a distorsioni della relazione caregiver-bambino. In un esperimento molto famoso, quello della "Strange Situation", Ainsworth e collaboratori individuarono diversi tipi di attaccamento, correlati a schemi relazionali specifici (Ainsworth et al., 1978). In particolare, nell'attaccamento definito "evitante" coesistono entità isolate all'interno della diade: il bambino evita il contatto con il caregiver perché ha realizzato che egli non è stato mai capace di rispondere efficacemente ai suoi bisogni. L'indifferenza e la mancata ricerca di contatto sono una risposta al senso di rifiuto e trascuratezza sperimentato dal bambino. Nell'attaccamento "ambivalente" invece, il bambino richiede continuamente attenzione e conforto attraverso un pianto inconsolabile alternato a momenti di calma e condotte aggressive. Questo atteggiamento si spiega considerando l'imprevedibilità a cui il caregiver lo ha abituato: vi è una alterata corrispondenza degli stati mentali di entrambi, anzi quelli dell'adulto tendono ad imporsi su quelli del bambino. Tornando all'esperimento antropologico di Radesky, si può pertanto supporre che quando il bambino reagisce con indifferenza al comportamento assunto dal caregiver, lo faccia perché ha mentalizzato il rifiuto e l'assenza di quest'ultimo, per cui non lo cerca più autoconsolandosi allo scopo di ridurre la sua frustrazione. Quando invece il bambino reagisce con capricci , pianto e continue richieste di attenzione, potrebbe farlo perché è semplicemente confuso dall'incoerenza mostrata dal caregiver, che è di fatto instabile nel soddisfare le esigenze del bambino.
L'attaccamento si basa su meccanismi cerebrali innati, ovvero biologicamente predeterminati, volti a cercare la vicinanza dei genitori e a stabilire una connessione con loro. Da un lato esso garantisce la sopravvivenza e dall'altro aiuta il bambino a coordinare le attività del suo cervello immaturo, attraverso i processi cerebrali dei genitori. Le relazioni di attaccamento hanno effetti sull'organizzazione psichica e comportamentale del bambino e per stabilirsi necessitano dell'allineamento degli stati mentali e della sintonizzazione affettiva. La presenza costante del caregiver, trasmessa attraverso input sensoriali insostituibili quali vista, voce, odore e tatto, suggerisce al bambino la sicurezza di essere soccorso in caso di bisogno e gli consente di sperimentare quella che Winnicott definì la continuità dell'esistere. (Winnicott, 1965). I modelli mentali che derivano dall'attaccamento plasmano i comportamenti futuri, contribuendo allo sviluppo delle competenze sociali e di capacità come la regolazione delle emozioni. Bowlby sottolinea l'importanza delle esperienze realmente sperimentate dal bambino nel rapporto con la/e figura/e di attaccamento, sostenendo che il comportamento e il tipo di relazione affettiva che i genitori stabiliscono con i figli avranno ripercussioni non solo sul modo in cui si organizza il legame, ma anche sull'adattamento futuro (Bowlby, 1969; 1973; 1980).
In definitiva, considerando che la relazione caregiver-bambino è asimmetrica, non si possono trascurare le responsabilità legate ai comportamenti che sono alla base di diversi stili di attaccamento, soprattutto se nelle fasi precoci della vita di un bambino la disponibilità nei suoi confronti assume il carattere dell'intermittenza.
La mente "relazionale" e il ruolo delle emozioni
La relazione di attaccamento che emerge dalle osservazioni di Radesky e collaboratori sembra caratterizzata principalmente dalla discontinuità. L'assorbimento determinato dalle attività del caregiver costanti col proprio cellulare ha come immediata conseguenza la drastica diminuzione delle interazioni faccia a faccia tra lui e il bambino. E ciò pone molte domande circa le ripercussioni che tali limitazioni possono avere, se si immagina che, durante l'arco della giornata, determinati comportamenti si ripetono.
"Le proprietà più raffinate del pensiero e della sensibilità umana, ciò che in altre parole definiamo processi mentali, emergono dalle costanti interazioni tra processi neurofisiologici e relazioni interpersonali.[...]La relazione non è dunque una conquista, bensì una condizione presente e necessaria per lo sviluppo, resa possibile dal fatto che i neonati sono presdisposti alla risposta sociale. Essi possiedono i requisiti comunicativo-sociali che consentono loro un contatto significativo e differenziato con persone e oggetti inanimati" (Bonifacio, Gison e Militerni, 2009). L'interazione faccia a faccia è una delle prime forme di comunicazione tra adulto e bambino e si basa sulla percezione privilegiata da parte del neonato di una Gestalt-segnale, composta da fronte, occhi e naso in movimento, in grado di elicitare la risposta sociale del sorriso. Spitz dimostrò che di fronte ad un volto posizionato di profilo i bambini non sono in grado di riconoscere l'oggetto che in precedenza ha provocato in essi tale risposta e che quest'ultima avviene indifferentemente verso tutti i partners umani. (Spitz, 1965). Meltzoff scoprì che il neonato possiede già alla nascita capacità imitative, attribuendo ad esse un significato evolutivo: l'essere umano ha un bisogno innato di stabilire un contatto coi propi simili (Meltzoff, 1977). Questa intersoggettività è finalizzata a trasmettere le proprie emozioni, ma anche a mentalizzare quelle altrui. Attraverso la sintonizzazione empatica i genitori possono percepire i bisogni dei figli e, di conseguenza, agire in maniera tale da aumentare le loro probabilità di sopravvivenza. Inoltre la funzione sociale delle emozioni si può cogliere nella capacità di percepire le intenzioni degli altri per prevederne il comportamento. Lo scopo principale delle emozioni risulta essere pertanto la comunicazione interpersonale, e ciò è dimostrato dal fatto che esse vengono espresse soprattutto in situazioni sociali più che private e dall'universalità dei patterns mimico-facciali con cui esse si manifestano. Grazie alla funzione imitativa mediata dal sistema dei neuroni specchio, è possibile giungere alla simulazione incarnata: la loro attivazione infatti permette di provare le emozioni associate alle espressioni osservate e di riconoscerle e comprenderle (Iacoboni, 2011). "La capacità del cervello di risuonare alla percezione dei volti e dei gesti altrui e di codificarli immediatamente in termini viscero-motori fornisce il substrato neurale per una compartecipazione empatica, che, sia pure in modi e a livelli diversi, sostanzia e orienta le nostre condotte e le nostre relazioni interindividuali" (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006). La condivisione di emozioni è dunque alla base di ogni relazione. Le emozioni primarie si configurano come i processi con cui la mente inizia a creare significati e si manifestano attraverso stati di attivazione del corpo, espressioni facciali, gesti, toni di voce e altri segnali non verbali. La sensazione di essere adeguatamente compreso e accolto nelle sue richieste, consente al bambino di amplificare gli stati emotivi positivi e ridurre quelli negativi. Per contro, la ripetuta sensazione di essere lasciato solo ad affrontare emozioni troppo intense può fargli sperimentare l'angoscia e condurlo verso risposte impulsive, per inibizione dei meccanismi razionali superiori. Nel suo libro "La mente relazionale" Daniel Siegel, attraverso un approccio neurobiologico all'esperienza interpersonale, sostiene che la mente è un processo incarnato e che le connessioni umane plasmano le connessioni neurali, contribuendo insieme allo sviluppo della mente. Le esperienze influenzano l'espressione dei geni, mentre la regolazione di questi influenza le risposte alle esperienze. Ne deriva che lo sviluppo del cervello è un processo esperienza-dipendente, in cui le emozioni hanno un ruolo fondamentale di guida all'interno delle relazioni.
Diventano essenziali pertanto la qualità e la quantità di tempo investito nelle relazioni genitori-figli, sempre più spesso disturbate e disconnesse dalla presenza massiccia di oggetti tecnologici.