LO SVILUPPO COMUNICATIVO-RELAZIONALE DEL BAMBINO
Capitolo 1 - LO SVILUPPO COMUNICATIVO-RELAZIONALE DEL BAMBINO
- Teorie e sviluppi dell’intersoggettività
- Sviluppo dell’intersoggettività e precursori della comunicazione
- I neuroni specchio: intersoggettività e neuroscienze
- Caratteristiche comunicative-relazionali in bambini con disordini dello sviluppo
Capitolo 1 - LO SVILUPPO COMUNICATIVO-RELAZIONALE DEL BAMBINO
La comunicazione è un ampio concetto costituito da una natura sia relazionale che sociale, alla base della quale si collocano idee ed emozioni che vengono condivise all’interno di uno scambio interpersonale, con l’uso di parole o gesti. Lo sviluppo dell’intersoggettività e delle forme primarie di comunicazione che si manifestano nei primi due anni di vita del bambino costituiscono i precursori di un sistema comunicativo-relazionale sempre più complesso, della comparsa del linguaggio e del suo successivo ampliamento.
L’intersoggettività è definibile come un costrutto che descrive le interazioni continue e reciproche, presenti fin dai primi giorni di vita, attraverso le quali gli esseri umani “giungono [progressivamente] a conoscere la mente degli altri” (Bruner, 1996). Il tema dell’intersoggettività negli ultimi decenni ha attirato l’attenzione di diverse discipline e campi scientifici, spaziando dalla psicologia, psichiatria, pedagogia, fino a sconfinare con gli studi più recenti nel campo delle neuroscienze.
La quantità enorme di dati di ricerca e osservazioni cliniche costituisce una problematica per la costruzione di un modello di riferimento unitario, in quanto differenti aree disciplinari si intrecciano su questo tema basandosi su approcci teorici e metodologici molto diversi tra loro.
I recenti studi hanno però posto l’attenzione su prospettive teoriche legate all’interazione dell’azione umana con il mondo circostante, portando il focus della ricerca sulla relazione sé-Altro: fin dai primi studi condotti da Sameroff e Chandler (1975) si è delineata l’importanza di focalizzare l’attenzione su molteplici sistemi interagenti. Secondo gli autori, infatti, il contesto ambientale e il genotipo (l’organizzazione biologica individuale) interagiscono reciprocamente generando il fenotipo (bambino in evoluzione), il quale a sua volta influenza e modifica il contesto ambientale e la dotazione genetica (Ammaniti e Gallese, 2014).
I progressi relativi alla genetica ed alla neurobiologia hanno confermato questa tipologia di approccio, che risulta adottato anche nella psicoanalisi relazionale e nell’Infant Research, ambiti in cui si delinea l’importanza della complessa rete relazionale del Sé individuale. All’interno di questo campo molti studi hanno messo in evidenza l’importanza di concepire il bambino come un individuo che si evolve nella relazione con altre persone: si è ormai dimostrato che i bambini sono in grado di entrare in relazione con gli altri grazie alla loro precoce capacità di mettere in atto dei pattern comunicativi in-carnati (embodied) che consentono di coinvolgersi e coinvolgere l’altro in un processo interattivo dotato di senso, e di come i neonati ed i loro caregivers possiedano molteplici canali di comunicazione alternativi e complementari al linguaggio verbale. La forma più complessa di questa natura relazionale è l’intersoggettività, intesa come la capacità dei bambini di prestare attenzione agli elementi del mondo circostante condividendo tale focus attentivo con il loro partner sociale, entro uno schema che contempla il Sé, l’Altro-da-Se, e il contesto.
Bruner (1996) risulta uno dei principali promotori di quest’area di studi: egli, infatti, sostiene che lo studio dell’intersoggettività risulta fondamentale, in quanto il bambino inizia ad attribuire significato agli eventi del mondo proprio attraverso l’esperienza soggettiva. La “modalità intersoggettiva” costituisce una delle forme primitive di costruire significati da parte del neonato che consiste nel situare espressioni, azioni ed eventi nello “spazio simbolico” condiviso con l’adulto che interagisce con il piccolo (Lavelli, 2007).
Lo psicologo statunitense evidenzia come l’incontro con la mente dell’altro non derivi perciò dalla maturazione di una capacità individuale ma dalla natura dell’interazione sociale in cui gli esseri umani sanno coinvolgersi già dai primi mesi di vita.
L’Infant Research, come già accennato, rappresenta un’area della psicologia che negli ultimi anni si è occupata dello studio dello sviluppo del bambino tramite l’osservazione diretta del comportamento in situazioni strutturate o libere. I contributi provenienti da quest’area di ricerca hanno attualmente modificato la concezione dello sviluppo del bambino e dell’interazione precoce con le sue figure di accudimento.
Col tempo si sono dunque delineate diverse teorie e forme di pensiero relative all’intersoggettività, di seguito descritte, tutte accumunate dalla concezione di quest’ultima come un’esperienza condivisa con un altro essere umano e del ruolo attivo del bambino nella attivazione e regolazione di tale stato.
Teorie e sviluppi dell’intersoggettività
Cowlyn Trevarthen e la teoria dell’intersoggettività innata
Nell’ambito della psicologia dello sviluppo il primo ad introdurre il termine “intersoggettività” fu Trevarthen (1979), per spiegare la capacità dei lattanti a soli 2-3 mesi di saper “adattare il controllo soggettivo alla soggettività dell’altro per poter comunicare” (Trevarthen, 1979). Egli, osservando le modalità comunicative instaurate nelle interazioni diadiche genitore-bambino nei primi mesi di vita, definisce come gli esseri umani nascano con una motivazione innata ad entrare in relazione con gli altri al fine di condividere la propria esperienza soggettiva: il neonato ha la capacità di reagire alle espressioni facciali e vocalizzazioni materne, che interpreta a sua volta lo stato emotivo del bambino contribuendo a creare all’interno della diade un primo scambio comunicativo (Trevarthen, 1979). Queste interazioni portano dunque, dalla nascita fino ai 2 anni, alla riorganizzazione del sistema nervoso attraverso il susseguirsi di fasi strettamente connesse, che conducono allo sviluppo di ciò che lo psicologo definisce come “coordinazione intersoggettiva” (Trevarthen, 1998).
Secondo l’autore, i meccanismi basilari posti alla base del concetto appena citato sono costituiti dal processo di “accoppiamento” di movimenti o azioni comunicative che ha luogo da parte del neonato durante l’imitazione. Il fondamento di queste sensibilità per la mente delle altre persone consiste in un “rispecchiamento empatico” (Trevarthen, 2001, 2005) degli intenti e dei vissuti affettivi manifestati nei movimenti del corpo degli altri: questa capacità di rispecchiamento risulta essere una delle evidenze empiriche della capacità dei neonati di instaurare una comunicazione intersoggettiva. Le più recenti scoperte sui neuroni specchio arrivano a sostegno di ciò che viene affermato dallo psicologo, in particolare l’idea di una rappresentazione cerebrale delle espressioni e delle azioni intenzionali dell’altro, fondata su un’immagine motoria mirata a un obbiettivo.
Trevarthen inoltre delinea l’importanza del ruolo dell’adulto all’interno degli scambi comunicativi, sottolineando come il neonato fino dai primi mesi di vita tenda a produrre movimenti espressivi delle braccia e delle mani coordinati con il linguaggio materno, creando ciò che l’autore definisce come contatto “simpatetico” tra madre e lattante: egli è quindi in grado di esprimere configurazioni motorie (ad esempio direzione dello sguardo, gestualità..) per fornire al caregiver informazioni circa il suo stato. Quest’ultimo, tendenzialmente, risponde a questi stimoli sintonizzandosi con il bambino e fungendo da agente regolatore rispetto a tali stati (Weibnerg e Tronick, 1994).
Andrew Meltzoff e l’esperienza dell’imitazione all’origine dell’intersoggettività
Risultati ottenuti dagli studi di altri ricercatori sostengono ciò che è ipotizzato da Trevarthen, in particolare il modello teorico proposto da Meltzoff e Moore (1977), definito come “mappatura intermodale attiva”, che evidenzia come l’individuo sia in grado di “mappare” ciò che osserva nell’altro basandosi sulla percezione che deriva dal proprio corpo. Da questo modello deriva il concetto di corrispondenza transmodale, cioè la capacità del bambino di percepire corrispondenze tra le azioni che vedono prodotte dai loro partner e i propri stati interiori.
Meltzoff ha infatti dimostrato che i neonati risultano in grado di imitare le espressioni facciali manifestando la presenza di una relazione innata tra osservazione ed esecuzione dell’azione e di una connessione tra bambino e caregiver, sostenendo come la predisposizione intrinseca del bambino ad interagire con gli altri esseri umani mostri precocemente una natura puramente imitativa.
L’imitazione risulta essere particolarmente importante per la comunicazione non-verbale, attraverso la codifica di gesti ed espressioni facciali, che si verifica subito dopo la nascita prima di qualsiasi altro apprendimento; attraverso di essa il neonato riesce dunque a percepire corrispondenze tra comportamenti osservati ed auto-prodotti, permettendogli di differenziare l’altro da sé attraverso la propria consapevolezza propriocettiva. In particolare, Meltzoff attraverso un’osservazione microanalitica di comportamenti (Meltzoff e Moore, 1999) afferma l’intersoggettività come modello attivo della costruzione del sé da parte del neonato, e ciò viene dimostrato dall’intenzionalità dei tentativi ripetuti che il bambino compie nell’imitare le azioni altrui.
Secondo Meltzoff il processo evolutivo dell’imitazione potrebbe essere suddiviso in tre stadi:
- Un’innata equivalenza tra il sé e l’altro, confermata dall’imitazione e dal riconoscimento dell’equivalenza tra le azioni osservate e quelle eseguite.
- La registrazione da parte del bambino della relazione ripetuta tra il proprio comportamento e gli stati mentali corrispondenti
- Il riconoscimento da parte del bambino che gli altri agiscono in modo simile al suo e hanno stati mentali analoghi; da ciò avrebbe inizio l’inferenza sugli stati mentali degli altri (Ammaniti e Gallese, 2014, pag. 193)
Questo processo si focalizza sull’importanza dell’imitazione precoce, “una prestazione sociale cognitiva che stabilizza l’importanza del “come me” negli scambi sociali”.
Quindi si può affermare che sia Meltzoff che Trevarthen considerino l’imitazione innata nei lattanti come il meccanismo di coordinazione alla base dell’intersoggettività, anche se quest’ultimo pone un’attenzione maggiore agli scambi diretti che avvengono all’interno della diade madre-bambino ed ai loro pattern di sincronizzazione.
Un altro aspetto importante che prende in considerazione l’intersoggettività e la diade madre-bambino, sono i processi di co-regolazione che si realizzano all’interno di questo scambio diadico, ovvero “la continua messa in atto di azioni che possono essere continuamente suscettibili di modifiche dai continui cambiamenti comportamentali del partner” (Fogel, 1993). Si tratta di un modello di mutua regolazione continua, reciprocamente stimolata e in cui la comunicazione è continuamente costruita da entrambi. La stessa posizione è condivisa da Stern (1989), che sostiene come lo schema della relazione si delinei nel sistema diadico e non in quello individuale.
In relazione a questo punto sono di seguito brevemente analizzate le teorie di tre autori che hanno contribuito alla concettualizzazione di tale proposito.
Alan Fogel e i processi di cambiamento nella relazione mamma-bambino
Raramente Fogel utilizza il termine intersoggettività, discostandosene dall’uso in quanto ritiene che il termine evochi una “nozione retificata di separatezza individuale”.
Ciononostante, egli ritiene che i processi di co-regolazione rappresentino le basi per la creazione di sequenze di azioni condivise e per rappresentare dei pattern specifici di relazione.
Concentrandosi dunque sulle dinamiche che si verificano all’interno del processo di comunicazione che il lattante è in grado di condividere con l’adulto (Lavelli, 2007), egli individua due concetti chiave per lo sviluppo dinamico-relazionale: il primo riguarda l’adattamento continuo biunivoco che si verifica all’interno della diade genitore bambino come generatore di stabilità o cambiamento (Fogel, 1993); il secondo è la “creatività” che caratterizza questo processo di co-regolazione, osservabile già alla fine del secondo mese di vita (Fogel, 1995).
Questa co-regolazione dei comportamenti secondo l’autore risulta osservabile all’interno di un sistema di protoconversazione, ovvero “un processo costante di creazione portato avanti da entrambi i partecipanti attraverso una continua modificazione delle proprie azioni sulla base delle risposte dell’altro” (Fogel, 1993), in grado di generare emozioni sia positive che negative in situazioni di conflitto o disaccordo. Si creano quindi dei pattern di azione condivisa che regolano l’interazione e la vicinanza emotiva del partner: questi pattern sono definiti come “frames”, ovvero cornici di significato dell’esperienza soggettiva. Alcuni esempi di frames sono: il richiamo dell’attenzione del lattante, le “protoconversazioni” faccia a faccia, il gioco del solletico ed altre situazioni condivise create nell’esperienza intersoggettiva della diade madre-bambino.
Secondo Fogel la flessibilità dei frames che regolano l’interazione stabilisce la qualità dell’esperienza intersoggettiva: la capacità di adattarsi a nuove situazioni e di passare da un frame all’altro stimolano processi di cambiamento e opportunità di sviluppo nella relazione madre-lattante, mentre al contrario la rigidità̀ dei frames e la scarsa capacità di variare i pattern di comunicazione o di svilupparne di nuovi, limitano le opportunità di crescita.
Edward Tronick e mutua regolazione
Una posizione analoga a quella descritta appena sopra è sostenuta da Tronick (1998, 2005), il quale sostiene che l’intersoggettività si sviluppi attraverso un processo di mutua regolazione degli stati affettivi.
Egli evidenzia come i messaggi scambiati nell’ambito della comunicazione tra adulto e neonato abbiano una funzione essenzialmente regolatoria, riferendosi allo stato dell’interazione in corso: il piccolo è in grado di esprimere delle configurazioni motorie (vocalizzazioni, espressione del volto...) per poter condividere con il caregiver informazioni circa il suo stato, alle quali l’adulto generalmente si sintonizza fungendo da agente regolatore rispetto a tali stati (Weibnerg e Tronick, 1994). In questo modo di creano le cosiddette “action match”, ovvero azioni coordinate, tra il bambino e l’adulto, così come possono verificarsi delle situazioni di “actions mismatch”, che portano a stati affettivi non coordinati.
Secondo l’autore, generalmente la sintonizzazione tra i due agenti della diade appare caratterizzata da processi di coordinazione, anche se possibili rotture della sintonizzazione hanno l’importanza di permettere al bambino di comprendere la valenza casuale delle azioni compiute, in particolar modo quando i mismatching vengono velocemente ripristinati dall’altro (Tronick, 2007). Questi processi di riparazione messi in atto dall’adulto permettono di ripristinare la sintonizzazione e di generare nuovi stati di match per la formazione di uno spazio di co-regolazione intersoggettiva, da cui si svilupperà successivamente una realtà condivisa con l’adulto.
Ciò è stato dimostrato dal paradigma dello Still Face, esperimento svolto dall’autore negli anni ’70, in cui al bambino viene mostrato il volto della madre che inizialmente comunica attraverso vocalizzi ed espressioni facciali con il piccolo, per poi diventare improvvisamente inespressivo. Il lattante in reazione a questo comportamento cerca di ricoinvolgere la madre ed il fallimento di questo suo tentativo porta all’evitamento dello sguardo materno e a comportamenti autoconsolatori.
Tronick, perciò, sottolinea come il processo di mutua regolazione e la generazione di stati diadici di coscienza nell’ambito dell’interazione madre-lattante sia determinante per lo sviluppo emotivo, sociale e rappresentazionale di quest’ultimo.
Beatrice Beebe e il modello dell’equilibro
Un’altra studiosa ad interessarsi al ruolo della co-regolazione allo scambio diadico fu Beatrice Beebe, che concettualizza l’intersoggettività come un processo dinamico che emerge dall’integrazione tra regolazione interattiva e autoregolazione durante l’interazione tra due soggetti (Beebe, Rustin, et al., 2005). Da questa interpretazione deriva il concetto di come l’autoregolazione risulti parte integrante dell’esperienza di incontro con l’altro e di come questa influenzi il flusso della relazione e ne è a sua volta influenzato (Sander, 1975, 1977, 1987). Il modello teorico della psicologa pone il suo fondamento da ciò che è stato ipotizzato da Sander, ovvero l’impossibilità di separare i processi interni degli individui e i processi interattivi.
I lavori di ricerca della Beebe portano in aggiunta un importante contributo riguardo alla relazione tra le connessioni esistenti all’interno dei processi regolatori e attaccamento/processi cognitivi dell’altro: da quanto affermato dall’autrice ciò che conduce ad un’esperienza intersoggettiva funzionante è dato dal grado di coordinazione tra i due partner, ovvero la possibilità di predire il comportamento dell’altro. Si individuano tre gradi di coordinazione:
- Un grado medio di coordinazione, predittivo di un attaccamento sicuro a 12 mesi
- Un eccessivo grado di coordinazione, caratterizzato da un partener che tendenzialmente non lascia spazio all’incertezza e all’iniziativa personale, che sfocia in un attaccamento “disorganizzato”.
- Un basso grado di coordinazione, che porta ad un’eccessiva messa in atto da parte del bambino di forme di autoregolazione derivanti da una chiusura del partner. Quest’ultima forma porta verso un attaccamento “insicuro-evitante”
Questi dati permettono quindi di affermare che in base al modello di equilibro di autoregolazione e regolazione interattiva, un grado medio di coordinazione tra questi due fattori permettono un esito positivo per lo sviluppo dei processi cognitivi del bambino ed il raggiungimento di livelli ottimali di attenzione e risposte contingenti da parte del lattante nei confronti del partner all’interno dell’interazione diadica (Lavelli, 2007; Beebe, Rustin et al., 2005).
Per concludere, nonostante i diversi termini adottati dai vari autori e le originali aggiunte che ciascuno di loro ha portato nel corso negli anni, si conferma all’interno di ciascuna delle teorie sopradescritte di come il bambino nasca con la predisposizione e la motivazione innate per partecipare fin dalla nascita all’interno di schemi relazionali, caratterizzati da un’alternanza di momenti di stabilità e destabilizzazione, che portano allo sviluppo di competenze socio-relazionali e comunicative col passare del tempo sempre più complesse.
Sviluppo dell’intersoggettività e precursori della comunicazione
Nei primi due anni di vita le continue riorganizzazioni del sistema nervoso fanno sì che le forme di intersoggettività presenti nel bambino si sviluppino gradualmente, assumendo col tempo una sempre maggiore complessità.
In particolare, nel periodo che va dai tre ai nove mesi, si ha una significativa modifica della sincronia tra genitore e bambino: nel primo trimestre, infatti, è il caregiver che conduce l’interazione con l’altro, mentre più tardi quest’ultima è caratterizzata dalla mutua sincronia e dall’adattamento, favorito dai diversi comportamenti dinamici sviluppatesi nell’infante, quali ad esempio l’imitazione. Queste esperienze precoci risultano fondamentali per il successivo sviluppo del mondo simbolico, dell’empatia e dell’autoregolazione, fino al maturare di capacità comunicative-relazioni più articolate (Ammaniti e Gallese, 2014).
Intersoggettività primaria
I primi scambi comunicativi si osservano fin dal secondo mese di vita del neonato: si instaurano delle particolari relazioni “faccia a faccia” tra bambino ed adulto all’interno delle quali l’infante osserva attentamente il volto del genitore, mostrando una precoce capacità non solo di saper rispondere intenzionalmente ed emozionalmente in un contesto comunicativo, ma anche monitorando il comportamento dell’interlocutore, mettendo in atto dei pattern organizzati di espressioni vocali e gestuali, in relazione ad eventi e partner che si succedono nell’interazione.
Queste precoci competenze da parte dell’infante di mettersi in relazione con l’altro sono descritte nella teoria dell’intersoggettività innata delineata da Trevarthen che illustra, come già precedentemente descritto, la presenza nei bambini di un’innata capacità sociale, in grado di stimolare una condivisione affettiva da parte dei genitori (Trevarthen, 1982, 1987, 1988, 1989).
È in questa fase dello sviluppo del bambino appena sopra descritto che si può parlare del concetto di intersoggettività primaria (Trevarthen, 1979): i bambini iniziano ad esprimere una risposta immediata ed implicita nei confronti delle intenzioni comunicative dell’adulto, coinvolgendosi attivamente nelle primitive conversazioni instaurate e, contemporaneamente, sviluppando un primo senso di sé come agente.
Si osservano dunque in questo periodo le prime “protoconversazioni”: il neonato osserva attentamente il volto del genitore, rispondendo con vocalizzazioni e gorgoglii alle espressioni dell’adulto, che si rivolge al piccolo con sorrisi, tono della voce e mimica facciale enfatizzati (Papousek & Papousek, 1989; Stern, 1985; Trevarthen, 1977). Queste modalità messe in atto dall’adulto facilitano l’apprendimento dell’individuo, che è coinvolto fin dalla nascita ad osservare ed imitare i diversi pattern facciali e comunicativi che il genitore produce, dimostrando con questa condotta l’innata predisposizione a interagire con gli altri esseri umani (Lavelli, 2007).
La capacità di adattarsi agli altri esseri umani è supportata da diversi studi: Legerstee (1991) rivela che i neonati imitano le azioni delle persone, ma non se le stesse vengono prodotte da altri oggetti, dimostrando che l’imitazione non è una risposta riflessa, bensì uno stimolo sociale che costituisce una primitiva forma di comunicazione e occasione di apprendere (Legerstee, 2005). Inoltre, è stato dimostrato che i bambini prima di riprodurre la risposta imitativa “cerchino” i gesti corretti per riproporla, cimentandosi più volte nel tentativo al fine di aumentare progressivamente la corrispondenza tra la propria azione e il modello (Lavelli, 2007).
Anche la musicalità che caratterizza questi primi scambi comunicativi è particolarmente significativa. Il bambino, infatti, risulta attratto dalla prosodia emozionale messa in atto dai genitori effettuando un’imitazione più efficace in presenza di una cornice affettiva, interpretando i segnali del genitore come un invito a partecipare allo scambio comunicativo e aspettandosi di essere imitato a sua volta dallo stesso per proseguire poi di nuovo l’interazione.
In questo senso, l’imitazione costituisce uno degli elementi fondamentali per dell’esperienza soggettiva e il primo elemento per entrare in connessione con l’altro.
Con l’avvento del terzo mese di vita, compare nel bambino una significativa manifestazione della sua capacità di “riconoscere” l’altro e alcuni tratti distintivi della nuova entità percettiva che egli sta costruendo mentalmente, espressa dal sorriso sociale. Considerato da Spitz (1958) il primo organizzatore della psiche, il sorriso messo in atto di fronte ad uno stimolo quale il volto umano, delinea il passaggio dalla dominanza dei meccanismi adattivi endogeni a quella del controllo esogeno.
Nel neonato, infatti, inizialmente il sorriso è costituito da riflessi che manifestano benessere, quali ad esempio il sonno o stimoli esterni a lui piacevoli (sorriso endogeno), mentre già intorno alle 5-6 settimane questa condotta assume un maggiore significato, in quanto l’infante inizia a sorridere di fronte a stimoli esterni più delineati (sorriso esogeno). La complessità delle modalità espressive che si delineano nel lattante è stata evidenziata da diversi studi sullo sviluppo del sorriso nel contesto dell’interazione con l’adulto. Oltre al sorriso “semplice” si sono individuati altri due tipologie tipiche di sorriso nel bambino: la prima è definita “sorriso Duchenne” ed è caratterizzato dal sollevamento degli zigomi e correlato principalmente a stimoli visivi e cognitivi, in quanto si manifesta in situazioni in cui il neonato è mantenuto in posizione eretta in modo tale da vedere il genitore e le sue espressioni; la seconda tipologia è invece chiamata “sorriso di gioco”, caratterizzato da mascella aperta e bocca rilassata, associato ad attività di tipo tattile e fisico-motoria, per esempio durante il solletico o quando il piccolo è stretto al corpo della madre (Lavelli, 2007).
L’espressione del sorriso si delinea ulteriormente alla comparsa verso i tre mesi della connotazione “sociale” di questa modalità comunicativa. A questa età il neonato non sorride solo al volto della madre o dei familiari, ma a tutti i target visivi che raffigurano in maniera esplicita le caratteristiche di un volto. In particolare, egli manifesta il sorriso preferenzialmente quando al target del viso dell’adulto è associato uno stimolo uditivo, cioè la voce, accompagnando questa sua espressione con uno sguardo più attento, una condotta di attesa e una mimica partecipativa, mostrando di saper discriminare le espressioni facciali e vocali del partner ed una prima consapevolezza del significato di tali espressioni, testimoniata dalle risposte contingenti che il bambino fornisce all’interlocutore.
Dal momento della sua comparsa le manifestazioni del sorriso sociale diventano via via più significative ed integrate nel processo di scambio affettivo che avviene durante le relazioni faccia a faccia tra genitore e lattante (Lavelli, 2007), delineando nel piccolo lo sviluppo di alcuni importanti correlati comportamentali: l’orientamento, ovvero la capacità di reagire ad un nuovo stimolo e distinguere le informazioni rilevanti da quelle non rilevanti; l’attivazione, intesa come la capacità di attivarsi fisicamente ed emotivamente; la capacità di alternanza dei turni, nonché il tempismo di tipo conversazionale nello scambio alternato di suoni e movimenti che avvengono negli scambi tra genitore-bambino.
Verso i 4 mesi queste condotte iniziano a delinearsi anche all’interno del gioco: il bambino risulta sempre più coinvolgibile in schemi di gioco interpersonali ancora poco condivisibili con l’adulto, caratterizzati da tempi ritmici ed esiti prevedibili accompagnati da precoci competenze triadiche, in quanto si apprezza nel neonato una primitiva capacità di seguire lo sguardo dell’adulto verso un terzo polo di interesse.
Intersoggettività secondaria
La capacità di coordinare il focus di attenzione verso un oggetto esterno alla diade si accentua con l’avvenire del 5-6 mese di vita, periodo nel quale il repertorio comportamentale del bambino si va ad arricchire via via di più rappresentate modalità espressive, ed in cui assume particolare importanza la comparsa dello sguardo referenziale, ovvero la capacità del bambino di guardare l’altro per stabilire un’esperienza di sintonizzazione emotiva. Esso può comparire, ad esempio, quando si manifesta una situazione nuova che porta il bambino a ricercare lo sguardo della madre per cogliere le sue emozioni relative all’evento sconosciuto e regolare il proprio stato emotivo di conseguenza: si basa perciò sulla reazione mostrata da un altro agente, in relazione ad un oggetto, persona od evento che porta novità all’interno di una situazione. Il bambino utilizza questa modalità anche per cercare l’approvazione o la disapprovazione del genitore rispetto ai diversi comportamenti che mette in atto: ad esempio, quando si accinge a lanciare un oggetto, il piccolo tende ad osservare l’adulto “leggendo” il feedback dato da quest’ultimo attraverso lo sguardo, la mimica facciale e le intonazioni verbali in grado di trasmettere al bambino il proprio stato in relazione a ciò che sta compiendo.
Il fenomeno appena descritto, globalmente definito con il termine di emotional referecing, è strettamente collegato alla comparsa di un’ulteriore funzione più complessa, ovvero la joint attention (attenzione condivisa): l’attenzione condivisa, o congiunta, è definita come una forma di attenzione coordinata tra due persone che condividono il focus su uno stesso oggetto all’interno di un contesto sociale (Adamson&Mc Arthur, 1995). Perché si possa parlare di attenzione congiunta è necessario che si osservi un monitoraggio attivo da parte del bambino del comportamento delle altre persone, che si manifesta seguendo spontaneamente lo sguardo ed il movimento del corpo dell’altro.
È con la comparsa di questi due fenomeni che si entra quindi, tra il nono ed il dodicesimo mese, nella fase dell’intersoggettività secondaria. Le strutture triadiche (genitore-bambino-oggetto) si sostituiscono a quelle diadiche (bambino-genitore) con la comparsa di nuovi comportamenti che includono la prospettiva dell’altro: l’osservazione e l’imitazione di azioni dell’adulto su un oggetto di attenzione (Carpenter et al., 1998) e la capacità del bambino di coordinare il proprio focus attentivo sugli oggetti/eventi con quello dell’interlocutore (Carpenter, Nagell e Tomasello, 1998; Rochat e Striano, 1999). L’evoluzione della natura intersoggettiva che porta a forme di interazione triadiche costituite da Sé/Altro-da-sé-Contesto consente al bambino di solidificare la capacità di co-costruzione di significati condivisi con l’altro, con un’interdipendenza ed una congiunzione di intenzioni verso elementi di un contesto in cui si trova ad interagire con il genitore.
I fattori determinanti per il passaggio all’intersoggettività secondaria sono collegati allo sviluppo sia motorio che cognitivo del bambino, nonché all’esperienza di “intersoggettività primaria” vissuta nei primi mesi.
Nell’ultimo trimestre di vita il bambino acquisisce la capacità di muoversi in autonomia, prima a carponi e poi con il cammino, conquistando una nuova indipendenza che gli permette di rapportarsi all’ambiente ed alle persone con più ricche modalità. Ciò apre la possibilità di manifestarsi ad una nuova tipologia di comunicazione costituita dalla direzione di sguardi, l’orientamento posturale e i gesti introdotti nello scambio intersoggettivo dall’adulto. Questi cambiamenti sono accompagnati da un incremento anche in ambito cognitivo, dimostrato da un aumento della focalizzazione dell’attenzione sugli oggetti utilizzati dal bambino durante il gioco spontaneo, testimoni di un più elevato sistema organizzativo dell’attenzione che, coordinandosi con quella dell’adulto, porta alla consapevolezza da parte del bambino del fatto che anche gli altri agiscono intenzionalmente (Lavelli, 2007).
Il piccolo quindi riorganizza la propria esperienza in relazione con gli altri, attraverso le nuove condotte comunicative già trattate, e la sua inedita capacità di coordinare la propria prospettiva con quella dell’altro è strettamente legata all’esperienza intersoggettiva vissuta nei mesi precedenti: esiste perciò un collegamento evolutivo tra le esperienze di intersoggettività primaria che caratterizzano il contesto diadico nella comunicazione faccia a faccia e quella di intersoggettività secondaria che si sviluppa nel contesto triadico. Solo i bambini con un’ottimale esperienza intersoggettiva precoce mostreranno a 9 mesi la capacità di seguire lo sguardo e l’espressione facciale dell’adulto per comprenderne le intenzioni (Lavelli, 2007).
Si osserva perciò una graduale evoluzione delle capacità del bambino: a nove mesi si mostra in grado di rispondere ai tentativi di condivisione messi in atto dal genitore (Butterworth, 1995; Tomasello, 1995), mentre successivamente, tra il dodicesimo ed il quattordicesimo mese, l’alternare lo sguardo dall’adulto all’oggetto assume una funzione “proto-dichiarativa” in quanto il bambino utilizza questa modalità per iniziare una condivisione spostando lo sguardo verso il focus di interesse e riportandolo poi sul genitore per accertarsi che l’attenzione di entrambi sia focalizzata sullo stesso oggetto (Tomasello, 1995).
Questa capacità si arricchisce ulteriormente con la comparsa dei gesti come forma di comunicazione non verbale, quali indicare, mostrare, offrire un oggetto all’adulto o richiedendone l’aiuto.
Già a soli otto mesi si osservano dei comportamenti di esibizione messi in atto al fine di attirare l’attenzione del genitore, composti prevalentemente da azioni convenzionali, insolite o bizzarre, al fine di dirigere la concentrazione dell’adulto su di sé, e di “abilità”, ovvero sequenze di azioni che hanno portato a lodi e rinforzi positivi. Alla fine del primo anno assumono un significato di maggior rappresentanza con la comparsa dei segni comunicativi, di natura prevalentemente richiestiva e dichiarativa (Lavelli, 2007)
Per quanto riguarda i gesti richiestivi, si osservano nel bambino prime modalità di richiesta attraverso comportamenti che includono condotte ritualizzate, come alzare le braccia per richiedere di essere presi in braccio, solitamente accompagnate da prime vocalizzazioni. Entro gli 11 mesi compaiono i veri e propri gesti di richiesta, quali ad esempio il pointing, che permettono all’adulto di indentificare gli oggetti di interesse. Si delinea, inoltre, una più chiara intenzionalità comunicativa da parte del bambino, che riproduce il gesto in continuazione fino a che non raggiunge ciò che desidera.
In merito ai gesti dichiarativi, invece, si delinea come siano prodotti con l’obbiettivo primario di stimolare una condivisione emotiva ed attentiva dell’adulto. Il gesto di indicare si arricchisce di significato con l’intenzione da parte del bambino di condividere stati emotivi riguardo ad una situazione con condotte più esplicite, accompagnate da una “verifica” da parte dello stesso con lo sguardo al fine di controllare che il proprio partner stia mantenendo l’attenzione su ciò che sta mostrando e con la tendenza a ripetere il gesto se non osserva commenti di alcun tipo da parte del genitore. (Lavelli, 2007)
Entrambe le modalità gestuali sono poi gradualmente accompagnate da vocalizzi e prime parole che rinforzano l’intenzione del piccolo, solitamente in modo sincrono e coordinato a semplici verbalizzazioni emesse dall’adulto che hanno lo scopo di commentare e condividere la situazione o l’oggetto che costituisce il focus dell’attenzione, costituendo una prima opportunità per il bambino di apprendimento linguistico. Fra i 12 e 18 mesi, infatti, sono stati individuati dei parallelismi tra le prime produzioni verbali e gestuali, definite referenziali (Caselli, 1983), attraverso i quali il bambino nomina o racconta ciò che desidera comunicare.
La capacità di commentare verbalmente da parte del genitore quello che succede si è dimostrata di fondamentale importanza per il successivo sviluppo del linguaggio nei mesi successivi e l’acquisizione di un ampio vocabolario a 18 mesi, in quanto la svolta di carattere triadico che si osserva alla fine del primo anno di vita include la prospettiva dell’altro all’interno della relazione e ciò consente la creazione di modelli di significato condivisi, che portano ad un corretto apprendimento linguistico e culturale.
I neuroni specchio: intersoggettività e neuroscienze
Le competenze sociali dell’essere umano sviluppatesi fin dalla prima infanzia permettono, come già precedentemente descritto, di comprendere le intenzioni che l’altro mostra attraverso le sue azioni all’interno di uno scambio comunicativo.
Le recenti scoperte neuroscientifiche hanno dimostrato che quando cerchiamo di comprendere l’intenzione dell’azione compiuta dall’altro il nostro sistema nervoso mette in atto un processo che permette l’immediata comprensione del comportamento altrui, senza che venga compiuta una simulazione attiva dello stesso. L’esistenza di tale meccanismo di comprensione è ormai supportata dalle scoperte compiute da un gruppo di neurofisiologi guidati dal Prof. Giacomo Rizzolati agli inizi degli anni Novanta, che hanno portato all’individuazione dei cosiddetti “neuroni specchio” (mirror neurons).
I neuroni specchio fanno parte di una categoria di neuroni visuo-motori appartenenti all’area F5 situata in una particolare regione cerebrale denominata corteccia premotoria ventrale (Pellegrino et al., 1992). Già nei primi studi condotti sulle scimmie macaco si era delineato come i neuroni motori dell’area F5 codifichino la relazione pragmatica tra l’agente e l’obbiettivo dell’atto motorio (Ammaniti e Gallese, 2014), osservando come si attivino specialmente nel momento in cui l’animale esegue un atto motorio finalizzato, come portare il cibo alla bocca, che sia quindi caratterizzato da una finalità concreta e che prevede l’interazione diretta della mano con l’oggetto bersaglio (Gallese et al. 1996, Rizzolatti et al. 1996).
Una delle proprietà più significative di questo gruppo di neuroni è la corrispondenza tra la risposta visiva e quella motoria: diversi studi hanno dimostrato l’esistenza di due tipologie di neuroni specchio, quelli “strettamente congruenti”, in cui si osserva che l’atto osservato e il motorio che ne consegue sono conformi sia per lo scopo che per le modalità in cui è eseguito, e quelli “congruenti in senso lato”. Quest’ultima categoria risulta particolarmente interessante perché sembra rispondere allo scopo dell’atto motorio indipendentemente da ciò che viene osservato, consentendo un livello più astratto di categorizzazione dell’azione (Fogassi, 2008).
Un altro studio ha cercato di dimostrare se la visione incompleta dell’azione potesse comunque attivare la scarica di neuroni specchio (Umiltà et al., 2001), provando a mostrare alla scimmia solo la parte iniziale dell’azione e non quella finale, nascondendola dietro un pannello e permettendone perciò solo una versione parziale. I risultati hanno dimostrato che più della metà dei neuroni in F5 si attivavano in questa condizione, dimostrando come il meccanismo specchio funzioni anche solo in relazione alla rappresentazione mentale del significato motorio di un’azione e non solo sulla base delle contingenze visive.
Una grande quantità di dati elettrofisiologici e di neuroimmagini hanno ormai riconosciuto l’esistenza del meccanismo specchio anche nel cervello umano, e Buccino et al. (2001) hanno dimostrato che a differenza di ciò che accade nella scimmia, nell’uomo si ha una scarica da parte di questi particolari neuroni anche quando l’azione che un’altra persona mette in atto non è rivolta ad un oggetto concreto; inoltre, ulteriori studi hanno affermato che le regioni premotorie e parietali posteriori che si attivano in relazione a normali azioni condotte da mano, bocca o piede si attivano anche nel momento in cui osserviamo la medesima eseguita da altri. (Buccino et al., 2001; Cattaneo e Rizzolatti, 2009)
Col tempo ulteriori ricerche hanno evidenziato l’esistenza dei neuroni specchio anche all’interno dell’area del lobo frontale sinistro, che pare sia corrispondente all’area di Broca (Iacoboni, 2008). Gli studi suggeriscono che il meccanismo specchio presente in quest’area possa essere alla base del successivo sviluppo del linguaggio, in quanto alla base dello stesso si colloca un tipo di comunicazione mimico-gestuale basata sull’imitazione (Rizzolatti et al., 1998) che necessita della continua interazione con gli altri per poter “potenziare” i neuroni specchio al fine di renderli alla base, con l’esperienza, dell’apprendimento imitativo.
Le conclusioni derivanti da queste scoperte portano alla definitiva concettualizzazione dei neuroni specchio come facenti parte di un sistema che permette di comprendere e simulare in maniera implicita le medesime azioni che vengono osservate negli altri, e non solo per l’esecuzione delle stesse; questo ha portato ad estendere questa capacità dei neuroni anche alla codifica delle intenzioni altrui, con la condivisione di emozioni e sensazioni. (de Vignemont, Singer, 2006; Decety, Sommerville, 2003; Gallese, 2001, 2003a, 2003b, 2006)
Il sistema dei neuroni specchio, perciò, con la sua capacità di percepire i gesti altrui e di codificarli in maniera immediata fornisce il “substrato neurale per una compartecipazione empatica che, sia pure in modi e modelli diversi, sostanzia e orienta le nostre condotte e le nostre relazioni interindividuali” (G. Rizzolatti e C. Sinigaglia; 2006, p. 182).
Gallese definisce con il termine di simulazione incarnata (embodied simulation) la sintonia interpersonale e intenzionale che si evidenzia nell’uomo circa gli aspetti appena delineati, fornendo una spiegazione circa l’intersoggettività innata. (Gallese 2001, 2003a, 2006).
La comprensione diretta che abbiamo degli altri viene ottenuta grazie all’attivazione immediata dei sistemi neuronali alla base di ciò che sentiamo e vediamo (Ammaniti e Gallese, 2014) e con le stesse modalità il bambino, fin dalla prima infanzia, elabora gli stati del corpo associati a sensazioni ed emozioni come se stesse sperimentando uno stato emotivo identico a quello che sta osservando.
Questi aspetti, alla base dell’intersoggettività, sono quindi spiegati dalla simulazione incarnata, illustrata esaustivamente da Gallese e Ammaniti:
“La teoria della simulazione incarnata fornisce una descrizione unitaria di aspetti di base dell’intersoggettività, evidenziando come le persone riutilizzino i propri stati o processi mentali, rappresentati in un formato corporeo, per attribuirli funzionalmente agli altri.” (Gallese e Ammaniti, 2014, pag. 31)
Gli autori sottolineano il ruolo della simulazione incarnata nella spiegazione del meccanismo specchio in funzione ai fenomeni ad esso connessi, proseguendo come di seguito.
“Definendo il meccanismo specchio in termini di riutilizzo di stati mentali, la simulazione incarnata fa riferimento alla somiglianza intrapersonale, o corrispondenza, tra il proprio stato mentale quando si esegue un’azione o si esperisce un’emozione o una sensazione, e quando osserviamo le azioni, le emozioni e le sensazioni degli altri. La somiglianza interpersonale tra il simulatore e lo stato o processo mentale dell’individuo osservato non può essere considerata simulazione, se non ha origine dal riutilizzo intrapersonale dello stato e del processo mentale del simulatore […] La teoria della simulazione incarnata non implica necessariamente che noi esperiamo gli specifici contenuti delle esperienze altrui; implica che esperiamo gli altri come persone che hanno esperienze simili alle nostre.” (ibidem; pag. 32)
Caratteristiche comunicative-relazionali in bambini con disordini dello sviluppo
L’importanza delle precoci interazioni e delle esperienze relazionali nei primi anni di vita, come descritto nei paragrafi precedenti, sono state dimostrate essere di fondamentale importanza per il successivo sviluppo delle più evolute forme di comunicazione sia verbale che gestuale.
Eventuali alterazioni di queste aree di crescita portano delle notevoli modifiche del processo evolutivo riguardante gli aspetti più significativi della relazione, interazione e comunicazione, sfociando in eterogenee situazioni di sviluppo atipico, ed in particolare, le forme rientranti nella macroarea dei disturbi del neurosviluppo.
I disturbi del neurosviluppo rappresentano una nuova categoria all’interno del DSM-5 (APA, 2013), caratterizzati da un’insorgenza precoce (solitamente la diagnosi viene effettuata prima dell’inizio della scuola primaria) e da un deficit o alterazione riguardante diverse aree evolutive, in particolare la cognitiva, la comunicativa, l’affettiva e le abilità sociali. La logica dimensionale adottata dalla più recente edizione del manuale si pone di superare i confini posti precedentemente tra un disturbo e l’altro, andando ad individuare frequenti condizioni di comorbidità e co-occorrenza dei sintomi e individuando come obbiettivo primario della presa in carico di queste condizioni il “Prendersi Cura” della persona. La compromissione delle aree sopracitate può essere, infatti, di grado variabile, differenziandosi a seconda della severità e del tipo di disturbo (Andrews et al., 2009) e, nonostante alcune abilità possono essere oggetto di un miglioramento nel tempo, esse persistono per tutto l’arco di vita dell’individuo.
I disturbi presenti all’interno di questa categoria sono: la Disabilità intellettiva, i Disturbi della comunicazione, il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, il Disturbo specifico di apprendimento, il Disturbo del movimento e il Disturbo dello spettro autistico.
Gli aspetti riguardanti la compromissione dell’interazione sociale e della comunicazione sono, nonostante la loro estrema disomogeneità fenomenica, riconducibili alla diagnosi di Disturbo dello spettro autistico, in quanto rappresentano il primo criterio della diade sintomatologica che permette di fare diagnosi del disturbo: i sotto-criteri vanno, infatti, ad indagare la presenza di deficit della reciprocità socio-emotiva, deficit dei comportamenti comunicativi non verbali all’interno delle situazioni sociali e deficit nello sviluppo, nel mantenimento e nella comprensione delle situazioni sociali (APA, 2013).
In un bambino che presenta traiettorie atipiche di queste aree di sviluppo è possibile individuare nei primi due anni di vita una serie di comportamenti e atteggiamenti che costituiscono segnali d’allarme per il genitore, in particolare la mancata acquisizione del linguaggio o un ritardo della sua comparsa. Andando ad indagare più a fondo sulla sintomatologia che precede questa più evidente manifestazione, si delineano caratteristiche comuni riguardo le modalità relazionali e comunicative inficiate dai primi anni di vita dell’individuo.
Le manifestazioni precoci che si possono osservare riguardano le compromissioni relazionali inerenti all’intersoggettività primaria, in quanto le interazioni tipiche tra bambino e caregiver che si verificano durante i primi mesi di età sono caratterizzate da un minor coinvolgimento attivo (Muratori F. et al., 2011): si osserva un carente uso dello sguardo, considerato il canale privilegiato di comunicazione nelle prime fasi di vita, che risulta difficilmente evocabile e che si manifesta in maniera spontanea più sporadicamente rispetto ad un bambino con sviluppo tipico. Di conseguenza, le sequenze interattive tra bambino e genitori basate sulla reciprocità dello sguardo appaiono più povere e di minor durata rispetto all’atteso, precludendo al bambino la partecipazione alle prime esperienze intersoggettive che sono solitamente caratterizzate da una cornice affettiva, comprendente la sincronia e l’alternanza dei turni nello scambio interattivo (Vivanti, 2010).
Un altro aspetto che può essere inficiato nelle prime fasi dello sviluppo riguarda la mimica e le espressioni facciali: le competenze precoci del bambino di imitare e di comprendere quando gli altri lo stanno imitando sono correlate allo sviluppo delle capacità sociocomunicative (Nadel, 2002). Le anomalie che riguardano questi aspetti possono essere sia di carattere quantitativo che qualitativo: la mimica ed il sorriso sono poco modulati, o addirittura assenti, e talvolta non adatti al contesto in cui si manifestano, mancando della loro primaria funzione di segnalazione (Bonifacio, 2012). In particolare, il pianto, che costituisce un segnale comunicativo precoce con funzione di preadattamento sociale (Schaffer, 1996), presenta alterazioni sia strutturali che morfologiche, con una diversa percezione dello stesso, accompagnato talvolta da grida e, nelle situazioni più gravi, da stereotipie poco funzionali. Inoltre, nell’ambito delle sollecitazioni sociali, si evidenzia anche un decremento dei vocalizzi, che non rispondono prontamente agli stimoli dei caregivers (Apicella et al., 2013).
Quest’ultimi tendono a rispondere a tali comportamenti in modo differente rispetto a quelli di bambini con sviluppo tipico, attuando modalità meno significative e repentine dei precedenti, con la riduzione di ciò che viene definito Affectionate touch (carezze, baci...), con una riduzione delle interazioni a causa della bassa responsività riscontrata nei bambini. Al contrario, potrebbero però essere portati ad aumentare i comportamenti di attivazione nei confronti di questi ultimi, proprio per cercare di stimolare la loro reattività. (Apicella et. al., 2013).
Anche negli aspetti che compongono l’intersoggettività secondaria si riscontrano delle anomalie. Le aree riguardanti l’attenzione, l’intenzione e l’emozione congiunta sono fondamentali per il successivo sviluppo del linguaggio, in quanto il bambino risulta attratto anche dall’atteggiamento dell’adulto nei confronti di un oggetto, oltre che puramente dallo stesso, (Carpenter e Tomasello, 1998) prestando attenzione ai commenti verbali emessi dal genitore rispetto al gioco condiviso, imitandoli e cimentandosi in tentativi per riprodurli, per poi successivamente acquisire le prime parole.
La mancanza di interesse per gli stimoli e i contesti sociali si traducono in una compromissione della volontà di condividere i propri interessi con gli altri, senza seguire con lo sguardo l’adulto e non ponendo l’attenzione su un target condiviso, che di conseguenza riducono le opportunità ad essere esposti a molteplici contesti linguistici e comunicativi (Dawson e Bernier, 2007). Questo tipo di condotte si arricchisce man mano di aspetti sempre più espliciti: i bambini possono non rispondere al nome, il che porta a un minor spostamento dell’attenzione verso uno stimolo sociale, come può essere ad esempio la voce di un’altra persona (Muratori, 2011; Bonifacio, 2012); rendono meno partecipi i genitori nelle attività, con anche un uso minore dei gesti richiestivi e dichiarativi che si manifestano solitamente per la condivisione di esperienze o emozioni (Bonifacio, 2012), utilizzandoli in prevalenza per appagare le proprie esigenze in determinati contesti, donando loro solo significato di richiesta e non di condivisione (Bonifacio, 2012).
Anche l’azione con gli oggetti risulta alterata, con un uso ripetitivo degli stessi e con difficoltà a donare significato simbolico alle azioni e a comprendere il gioco di finzione, in quanto il deficit di attenzione condivisa, oltre che inficiare sui processi per lo sviluppo del linguaggio, è anche causa di una minore maturazione delle competenze simboliche.
In merito agli aspetti che riguardano l’area della comunicazione, oltre a quelli già descritti, i bambini che presentano traiettorie atipiche di sviluppo mostrano una compromissione del linguaggio sia ricettivo che espressivo, con caratteristiche riguardanti anche la componente posturo-cinetica della comunicazione, che si traduce in un’alterazione del dialogo tonico, il quale comprende diversi elementi come, ad esempio, l’uso di gesti sia deittici che referenziali (Bonifacio, 2012), che sono stati dimostrati svilupparsi in modo parallelo alla comunicazione verbale. Per questo nei bambini con atipie dell’uso di modalità comunicative gestuali si mostrano delle maggiori difficoltà per il successivo sviluppo del linguaggio (Mundy, Sigman&Kasary, 1994). Quest’ultimo, nei bambini che ne presentano una maturazione atipica, può essere assente oppure comparire in ritardo rispetto all’andamento tipico e costituito da alcuni elementi particolari: esso appare, infatti, caratterizzato da espressioni idiosincratiche, dalla perseverazione a porre domande che dimostrano lo scarso interesse ad intraprendere uno scambio comunicativo condiviso e il minor bisogno di riconoscere un partner conversazionale, e da strutture della frase inadeguate, con inversioni pronominali, stereotipie verbali ed ecolalie (ripetizioni di parole dette precedentemente dall’interlocutore) immediate o differite (Quill, 2007).
I bambini che presentano queste traiettorie di sviluppo atipico, inoltre, possono presentare come disturbo associato anche la Disabilità intellettiva, che va ulteriormente a compromettere le aree comunicative e relazionali. Con la nuova classificazione del DSM-5 questo termine va ad indicare una condizione definibile ad “ombrello” che copre un ampio range di disfunzioni e che può essere associata a diverse patologie. All’interno di essa si riscontra una significativa variabilità sintomatica (Beukelman, 2014; Zanobini, 2019), in quanto anche in gruppi di persone che presentano il medesimo quoziente intellettivo è possibile delineare profili cognitivi molto eterogenei (Albertini e Caltagirone, 1992).
Tuttavia, in seguito a diverse osservazioni cliniche, si sono delineate alcune caratteristiche comuni in merito allo sviluppo comunicativo-linguistico e sociale in bambini che presentano una disabilità intellettiva, seppur tenendo conto dei diversi livelli di gravità che possono presentare (APA, 2013).
In merito all’area legata alla comunicazione, si contraddistinguono aspetti comunicativi e conversazionali più concreti rispetto all’atteso, con un uso del linguaggio meno complesso che in situazioni di maggior compromissione può risultare assente e che necessita di essere supportato da strategie di comunicazione non verbale e/o strumenti aumentativi per esprimere desideri ed emozioni (APA, 2013). Per quanto riguarda gli aspetti sociali, invece, i bambini con questa condizione possono presentare alcune problematiche comportamentali dovute a ragioni legate principalmente alla mancanza di ambienti funzionali e opportunità per comunicare adeguate (Beukelman, 2014). È importante sottolineare che questi “comportamenti problema” si manifestano con un fine ed un significato: spesso vengono emessi per ottenere conseguenze vantaggiose e per modificare l’ambiente e le azioni delle altre persone, nonostante siano caratterizzati da condotte inadatte, contenuti e stati d’animo non consoni alle regole sociali, quali rifiuto, ansia, stanchezza, ma anche irritabilità e agitazione psicomotoria (Zanobini, 2019).
Queste condotte sono poi ulteriormente influenzate dalla componente interattiva che caratterizza la diade con il genitore: i caregivers di bambini con una disabilità intellettiva tendono ad utilizzare uno stile più direttivo e meno responsivo nei confronti dei propri figli, attraverso l’utilizzo di frasi più corte e imperative (Marin, 1993). È stato osservato che la possibilità di adempiere a strategie più favorevoli all’interazione, quali ad esempio l’uso di un linguaggio meno direttivo e collegato al focus di attenzione del bambino, porta ad un aumento della partecipazione dell’individuo all’interno della stessa, nonostante il miglioramento a livello linguistico non risulta sempre riscontrabile (Tannock, Girolametto, Siegel, 1992).
Conclusioni
Riassumendo lo sviluppo dell’intersoggettività, in concomitanza dei segnali comunicativi che costituiscono i precursori della comunicazione, risulta di particolare importanza per il successivo delinearsi di forme più complicate della stessa, in quanto è proprio grazie alle primitive relazioni e alle modalità comunicative che ne conseguono che il bambino inizia a sviluppare la capacità di esprimere le proprie intenzioni coordinandole con quelle dell’altro. Dalle precoci manifestazioni che delineano gli aspetti dell’intersoggettività primaria (imitazione, sorriso, protoconversazioni) la maturazione comunicativa-relazionale si evolve gradualmente in un sistema di sintonizzazione condivisa che porta nel tempo al manifestarsi intorno all’anno degli aspetti tipici di attenzione congiunta che caratterizza lo scambio triadico tra bambino, adulto e un oggetto di interesse comune, fino a portare col tempo allo sviluppo di capacità linguistiche, emotive e sociali che accompagnerà l’individuo per tutto il periodo della sua crescita.
Si è visto come traiettorie atipiche di sviluppo e disregolazioni che si possono verificare in merito a queste aree portano a significative difficoltà sul piano sia relazionale che comunicativo, andando a compromettere in primo luogo gli scambi all’interno della diade genitore-bambino, per poi riflettersi su ulteriori componenti dello sviluppo. La capacità del piccolo di sintonizzarsi con l’altro, imitando le sue azioni e condividendo interessi, si pone alla base dei processi che portano all’emergere del linguaggio e delle diverse strategie di apprendimento, che risultano compromesse in seguito ad alterazioni delle modalità relazionali descritte in precedenza.
Queste evidenze suggeriscono come intervento prioritario una presa in carico globale e precoce che coinvolga direttamente l’intero nucleo familiare, per poter agire con prontezza ed efficacia in merito alle aree compromesse, andando ad agire in modo mirato all’interno della relazione con il genitore al fine di supportare un miglioramento dal punto di vista sia relazionale che comunicativo.
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INTRODUZIONE |
NB Per questioni di tempi è probabile che per il momento la presente tesi sia stata inserita parzialmente o in formato immagine. Al più presto completeremo l’inserimento rispettando i canoni da noi prefissati e cioè editando direttamente il testo nei diversi articoli del portale. 12/03/2023 - Redazione web |
DISCUSSIONE - CONCLUSIONI |
BIBLIOGRAFIA |
Tesi di Laurea di: Cecilia PARENTELA |