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Le competenze trasversali del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva (TNPEE)

 

LE COMPETENZE TRASVERSALI DEL TNPEE

Breve excursus introduttivo

Il seguente articolo nasce da una riflessione che mi ha accompagnato personalmente nel corso degli anni di formazione universitaria. Ritengo questa professione unica nel suo genere. Proprio per le proprietà che la caratterizzano; anche lo studente che volesse avviarsi a questa tipologia di percorso, a mio avviso, dovrebbe presentare un’attitudine particolare. In queste pagine si affrontano due tematiche differenti ma concatenate tra loro. Partendo da un argomento di attualità come le “soft skills”; presentando le medesime come parte intrinseca appartenente al mondo delle comunicazioni interpersonali e del lavoro. Ho provato a declinarle, pensarle; scegliendo quelle che ho ritenuto essere fondanti per la professione del TNPEE. Su questa personale scelta ho proposto un questionario per indagare quale fossero le considerazioni e i pensieri del professionista TNPEE. Un’altra parte dello scritto propone una riflessione sull’adeguatezza degli attuali sistemi di selezione relativi ai test di accesso al corso di laurea in terapia della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva. L’articolo è stato suddiviso in due parti per facilitare il lettore data la lunghezza del testo.

Abstract:

Il seguente articolo vuole porre in evidenza l’importanza che le competenze, non solo di natura tecnica, ma interpersonale assumono come fondamenta nella pratica operativa multi contestuale  e multidimensionale per la  professione del TNPEE ; e come qualità intrinseche per lo studente che vuole intraprendere questo percorso.

The article aims to highligth the importance, that not  only technical’s competences, but interpersonal skills can be basicals in the multi-contextual and in multidimensional operational practice for  the TNPEE work ; and also as intrinsic qualities that the student who wants to undertake this course of study should also posses. KEY WORDS: Soft skills; Personal skills; Boytzis; competenze trasversali  TNPEE; PNRR; 5°piano nazionale di azione ed interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva

Il contesto nazionale

Nel panorama politico attuale nazionale, si evidenzia come i giovani neo diplomati o neo laureati abbiano difficoltà nel fronteggiare le prime esperienze lavorative; questo prevalentemente in termini di gestione relazionale e controllo dello stress, soprattutto in ambiti professionali competitivi. Il confronto con altre realtà europee ha portato il governo a riflettere sull’effettiva necessità di intervento sia in ambito formativo didattico che occupazionale. Difatti  il piano “Nuove Competenze” (PNC) rientrante nel più vasto Progetto Nazionale Di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha inoltre rilevato come in Italia quasi il 59% dei lavoratori nella fascia di età 25-64 anni necessiti di riqualificazione. Spesso le proposte formative sono attese maggiormente da coloro che attendono già un’occupazione altamente qualificata (13,9%); rispetto a chi (2,7%) presenta un livello di istruzione medio-basso. Inoltre si è rilevato come l’ambiente scolastico non sia in grado di preparare lo studente ad affrontare il futuro mondo del lavoro, e per ovviare a questa mancanza l’11 gennaio 2022 la camera approva la proposta di legge sulle “Non Cognitive Skills” presentata dall’ intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà. La proposta di legge prevede un piano triennale sperimentale rivolto alle scuole di ogni ordine e grado che vede la valorizzazione delle competenze non cognitive. L’obiettivo rispecchia una realtà sempre più richiestiva dove le competenze tecniche specifiche e di settore non sono sempre sufficienti. Certe tipologie di occupazione e certi ambienti ad alta tensione richiedono le capacità di corretta gestione della propria emotività; un corretto investimento del canale comunicativo; pensiero creativo e critico; empatia e capacità di problem solving.

Nel Piano Nazionale per l’ Infanzia e Adolescenza si evidenzia l’orientamento delle politiche governative: troviamo infatti nel settore educativo l’azione n. 9 con specificate le modalità di implementazione e i programmi sulle “life skills”.

(L’azione risponde agli Obiettivi di sviluppo sostenibile n.4 e 8 dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite, all’obiettivo n.2 della Strategia dell’Unione europea sui diritti delle persone di minore età per il periodo 2021-2024, e all’obiettivo n.2 della Garanzia europea per l’infanzia)[1]. Andare oltre le nozioni proprie alla specifica professione, in ambito sanitario risulta fondamentale. Nel settore della riabilitazione, dove la componente emotiva e relazionale diventa una parte preponderante del lavoro terapeutico; la competenza nella gestione delle dinamiche di contesto definisce il livello di professionalità dell’operatore sanitario.

Nel Regno Unito ad esempio, esiste già a livello formativo la comprensione nei percorsi didattici universitari dello studio delle “soft skills”; le stesse infatti sono codificate e riconosciute parte integrante di una buona attitudine e propensione alla professione. 

Le competenze trasversali

“Il concetto di competenza e quello di capacità sono equivalenti. Dunque la competenza deriva dal mettere in pratica quelle attitudini che caratterizzano il substrato del soggetto. Tale attitudine, preesistente alla capacità, delinea la “propensione a”, la tendenza naturale di un individuo ad agire ad uno specifico livello di abilità. In tal senso l’attitudine sta alla base della competenza, infatti senza di essa non sarebbe possibile raggiungere alcun risultato” (Michel C. 1993).

Le competenze trasversali sono biologicamente innate e come tali andrebbero ricordate tanto nello studente quanto nel professionista e fatte emergere dall’interno.  Vi sono componenti molto soggettive di difficile trasmissione; ad esempio aspetti relativi alla capacità empatica sono per natura rientranti in una naturale predisposizione individuale. Aspetti di natura maggiormente cognitiva come le strategie di problem solving, comunicazione funzionale e organizzazione, si possono esercitare e declinare all’interno del contesto didattico e lavorativo. Ad ogni modo il lavoro sulle proprie attitudini sociali e di gestione del proprio ruolo professionale è soprattutto responsabilità personale. La considerazione dei limiti intesi come carenze specifiche relative al vasto contenitore del “pensiero laterale”, inducono di fondo un buon lavoro introspettivo e di presa di coscienza del proprio valore funzionale in relazione alle interdipendenze contestuali.  Il termine “trasversale” introduce una considerazione multifattoriale e multi contingente del livello qualitativo individuale delle proprie capacità adattive. Competenza: dal latino cum-petere (chiedere, pretendere, orientarsi verso, fronteggiare); comprende aspetti pratico-cognitivi e meta-cognitivi costitutivi dei processi mentali insiti nell’apprendimento (Boterf, 2000). Ambel la definisce come la risultante delle nozioni di sapere volere e potere in una costruzione congiunta fra individuo, comunità e organizzazione. Oppure descritta come quella capacità di organizzare logicamente una serie di azioni per raggiungere un dato obiettivo (Nelson, Winter, 1982). A prescindere dalle numerose definizioni teoriche è nel 1973 che Mc Clelland introduce il termine “competenza” nell’ambito della psicologia delle organizzazioni; dove egli ritiene che non siano i test attitudinali a predire il successo professionale ma piuttosto il successo che il soggetto riesce ad ottenere nel corso della sua vita. Vi è dunque un iniziale focus sulle capacità relazionali e comunicative differibili da quelle prettamente tecniche. Prospettiva influenzata dalle teorie comportamentiste che vedono nell’esposizione al contesto un relativo condizionamento; come tale  l’apprendimento è descritto come una forma di adattamento agli stimoli esterni (Pavlov). Differentemente, nel pensiero cognitivista, il soggetto viene posto nuovamente come autore del proprio apprendimento e comportamento tale per cui  la mente risulta essere un sistema dinamico in grado di elaborare le informazioni secondo una logica di input-output. Altra concettualizzazione sul pensiero laterale deriva dagli studi di Polanyi, il quale, in un suo scritto The tacit dimension, 1966 espone la teoria dell’epistemologia personalista. Egli afferma che la conoscenza oggettiva e scientificamente dimostrabile si interseca con una conoscenza non codificata né strutturata in dogmi procedurali; quest’ultima propria della natura dell’apprendimento esperienziale e trasversale. Polanyi riprende nel suo pensiero la così detta “partecipazione personale” appartenente alla psicologia della Gestalt. In tal senso l’individuo è attivo fautore della propria conoscenza dal momento che essa deriva dall’incontro tra soggettività individuale e realtà oggettiva.

Un altro modello cui fare riferimento è il modello ISFOL (Istituto per Lo Sviluppo Della Formazione Professionale Dei Lavoratori). Questo ha introdotto in Italia il dibattito sulle competenze trasversali, differenziandole in base a diverse peculiarità:

Multidimensionalità (capacità strategiche, flessibilità e problem solving);

Dinamicità (competenza come processo di apprendimento che coinvolge aspetti cognitivi, emotivi e sociali);

Soggettività (il percorso che l’individuo costruisce, deriva anche dai suoi valori e dalle sue preferenze);

Competenze di base (competenze generali che fanno riferimento ad una dimensione di appartenenza culturale). Queste competenze sono trasferibili a vari compiti e contesti e rispecchiano una preparazione sia professionale che generale della persona;

Competenze tecniche (competenze specifiche di un dato lavoro, acquisite in determinati ambiti disciplinari);

Competenze trasversali (sono quelle competenze che si traducono in comportamenti efficaci, consistono nel saper utilizzare le proprie abilità in base al contesto. Sono dunque molto flessibili e adattabili, non connesse ad uno specifico lavoro o mansione ma derivate dall’esperienza. Queste si ricollegano al concetto di risorse personali e sono suscettibili ad essere utilizzate in vari ambiti). É stato proprio il modello ISFOL a promuovere il concetto di competenze trasversali nell’ambito del lavoro, identificandole come quelle abilità che derivano dall’esperienza e che costituiscono il nostro bagaglio personale e professionale. Dette anche “soft skills”, “cross competencies”, “key skills” e “core skills”; queste abilità si distinguono da quelle prettamente tecniche. Infatti il termine “trasversale” denota una maggiore flessibilità contestuale. Boyatzis (1982) le definisce quell’insieme di caratteristiche individuali connesse ad una prestazione lavorativa e situazionale di natura relazionale, organizzativa e cognitiva. Tali competenze sono infatti divisibili in quattro macro categorie. La prima categoria concerne le competenze personali. Queste pongono l’accento sulla sfera della consapevolezza del sé. A partire dall’osservazione e dalla comprensione delle proprie emozioni, l’individuo sviluppa una buona conoscenza di sé, capacità di gestione dello stress, senso di autoefficacia e orientamento all’ obiettivo. Coloro i quali dispongono di una buona capacità riflessiva su di sé e sui propri comportamenti individuano con maggiori probabilità i punti di forza e di debolezza e sanno rapportarsi al compito con maggiore successo. Di conseguenza il senso di autoefficacia percepito sarà elevato, garantendo una buona gestione della frustrazione. La seconda categoria riguarda le competenze relazionali. Queste rispecchiano le capacità comunicative e di affiliazione, quali l’intelligenza emotiva e le relazioni efficaci. Il possedere buone capacità empatiche permette all’individuo di comprendere e dunque modulare il proprio comportamento in relazione a chi si ha di fronte. Un secondo aspetto è la comunicazione efficace, che non si compone unicamente della parte logico-cognitiva ma riguarda soprattutto l’adattamento al contesto e all’interlocutore a cui è rivolto il messaggio. Ultimo aspetto della categoria relazionale è il lavoro di gruppo o team work. Quest’ultimo è facilitato da buone competenze comunicative ed empatiche che portano a tener conto sia delle esigenze dei singoli membri che dell’obiettivo. La terza categoria è quella cognitiva. Tra le competenze che ne fanno parte vediamo la capacità di analisi e sintesi delle informazioni. Un’altra competenza è il problem solving, ossia la capacità di trovare una soluzione semplice e concreta ad un problema complesso. E ancora, la creatività che consiste nel ricercare idee alternative ed originali per risolvere questioni di vario tipo. La creatività implica il saper andare oltre la logica e la linearità, abbracciando prospettive e punti di vista diversi. Ulteriore competenza cognitiva è la capacità di decision making, processo mentale che ci guida nel compiere la scelta migliore fra varie opzioni disponibili. Quando si è propensi a prendere la decisione giusta si calcolano i vantaggi e gli svantaggi di ogni opzione. Possedere una buona capacità di decision making prevede l’abilità di fare previsioni circa i risultati ottenibili. In ultimo, la quarta categoria concerne le capacità organizzative. Queste prevedono una maggiore operatività in quanto si collocano direttamente nella realizzazione concreta di un progetto. E dunque la capacità di pianificazione, ossia l’individuazione di un piano di lavoro a partire dalle risorse e dalle attività. La seconda competenza è la gestione dei tempi, traducibile nel rispettare le scadenze e darsi delle priorità. Infine, la capacità di controllo prevede una fase di monitoraggio e la correzione di eventuali errori presenti nel progetto. Le competenze trasversali possono anche essere considerate competenze multiple, ossia comuni a differenti contesti lavorativi. Sono capacità trasferibili da una professione all’altra. Tale trasversalità è traducibile su due livelli; il primowork based: sono quelle competenze correlate ad attività lavorative e comuni a vari contesti. L’importanza del loro apprendimento risiede nella possibilità di utilizzarle in differenti ambiti lavorativi. Il secondo livello worker based: sono strategie collegate alla propensione naturale dell’individuo. Le così dette “personal requirements”. Esse rappresentano il cuore emozionale delle persone, non sono direttamente osservabili ma al contempo determinanti. Dalle diverse accezioni trattate sino ad ora si evince che il pensiero laterale è frutto della combinazione fra sapere, saper fare e saper essere; e deriva dal lavoro contingente tra pensiero ed azione. Perché tale pensiero si possa esprimere efficacemente è fondamentale che esso stesso sia relazionato alla realtà operativa. Quindi, sono basilari la capacità di contestualizzazione (l’adattamento delle proprie conoscenze ed abilità al contesto di riferimento); la capacità di concretizzare motivazione personale nella performance (la quale prevede una logica procedurale); la dimensione soggettiva (che garantisce le competenze e le risorse individuali in un’ottica di autoconsapevolezza delle proprie capacità); in ultimo la disponibilità effettiva di risorse (l’analisi delle possibilità concrete del soggetto di compiere determinate azioni).

 

Le competenze trasversali nel contesto neuropsicomotorio

 Il TNPEE è chiamato a fronteggiare più relazioni interdipendenti e intercontestuali; si interfaccia con professionalità provenienti da ambiti di lavoro differenti attivamente coinvolte nel progetto terapeutico. Si è voluto proporre in questo capitolo un focus sulle possibili competenze trasversali necessarie al terapista per essere oggettivamente valido e corrispondere correttamente all’attitudine propria al TNPEE. Lo studio orientativo finale prova a tracciare qualche linea identificativa. Essendo il contenitore di tali aspetti estremamente ampio, si è scelto di presentare tre principali qualità attitudinali risultanti tra le numerose competenze identificate.

Intersoggettività

Esperienza di “contatto mentale con l’altro che ha luogo durante la comunicazione interpersonale (C. Trevarthen, 1998).

“processo per cui si giunge a sapere cosa hanno in mente gli altri e ci si adatta di conseguenza” (Bruner, 1996).

Le radici dell’osservazione delle dinamiche appartenenti alla dimensione dell’intersoggettività sono dovute in gran parte agli studi osservazionali dell’ “Infant Research”, legati all’ambito della psicologia dello sviluppo e relativi alle prime interazioni del bambino. Questa tematica è stata affrontata e declinata differentemente con un punto di vista soggettivo per ogni autore.

Colin Trevarthen

Trevarthen nella  sua “teoria dell'intersoggettività innata” sostiene che: “il bambino nasce con le motivazioni e le capacità di comprendere e usare gli intenti delle altre persone in negoziazioni 'conversazionali' di intenzioni, emozioni, esperienze e significato” (Trevarthen, 1998). Anche se nel neonato e lattante lo sviluppo della corteccia prefrontale è ancora immaturo, Trevarthen ipotizza che vi sia un controllo di tipo sub-corticale che attiva un rispecchiamento trans modale; questo spiegherebbe le precoci capacità di imitazione e di risposta conversazionale del bambino. Il “rispecchiamento intuitivo” sarebbe dunque l’innesto per la nascita e lo sviluppo delle competenze imitative. Il rispecchiamento è anche parte attiva nel processo di identificazione e separazione: nell’altro riconosco comportamenti simili al mio e agisco o re-agisco di conseguenza. La risposta non è mediata dal controllo esecutivo ma dettata dall’introiezione di immagini motorie cariche di contenuto motivazionale ed espressivo. Tramite la consonanza intersoggettiva sono avviati i primi processi di regolazione emotiva. La componente intersoggettiva è alla base della creazione dei legami affettivi è quindi parte integrante della natura sociale dell’essere umano; è la capacità “di adattare il controllo soggettivo (del proprio comportamento) alla soggettività dell'altro, per poter comunicare” (Trevarthen, 1979). Il paradigma dell’intersoggetività è mediato dall’utilizzo del canale visivo. Intersoggettività primaria: Il bambino tramite un “rispecchiamento empatico” presente soprattutto durante le interazioni “face to face”  sincronizza la sua risposta espressiva mimica e vocale con quella della figura di riferimento e di accudimento. Questa prima forma di dialogo (proto conversazioni) è fondamentale per una corretta regolazione emotiva. Dopo i quattro mesi l’altro diventa oggetto di interesse; attraverso la triangolazione di sguardi si rende possibile la successiva condivisione intenzionale della realtà oggettuale. Dopo i nove mesi, quando emerge l’intenzionalità e durante tutto il secondo anno di vita (intersoggettività secondaria), il bambino adotta ed integra progressivamente il punto di vista dell’altro; acquisizione fondamentale che sostiene l’accesso successivo alla “teoria della mente”.

Jerome Bruner, Alan Fogel, Daniel Stern

“l’intersoggettività è mediata dalla capacità di riconoscere che è possibile condividere la propria esperienza interna: inizialmente attraverso la reciprocità degli sguardi, dei gesti e altre forme di contatto percettivo tra il lattante e la madre; poco dopo, a un livello più elaborato, attraverso la condivisione dell'attenzione verso un oggetto/evento esterno” (Bruner, 1995).

Bruner evidenzia come Il bambino sia dotato di una sorta di meccanismo innato che lo predispone verso la condivisione con l’altro;  verso la creazione di uno spazio condiviso, essenziale per la strutturazione di relazioni interpersonali. La “modalità intersoggettiva” costituisce la prima delle modalità primitive di costruire significati (Bruner, 1996). Pensiero che sostiene le riflessioni di altri studiosi che indirizzano le loro osservazioni sull’importanza che questa assunzione e introiezione di significanti assume nella costruzione dell’immagine e del senso di sé soggettivo. Nello specifico Alain Fogel definisce l’intersoggettività come: “l'acquisizione di un senso di coerenza del sé” (Fogel, 2001), riflesso di un innato senso di integrità. A. Fogel denomina tali patterns come frames: cornici di significato dell'esperienza intersoggettiva. Essi sono definiti dalla direzione dell'attenzione di ciascuno dei due partner, dal luogo in cui avviene l'interazione e dalla distanza vs. contatto fisico fra i partner, dall'orientamento posturale reciproco, e dal tema dell'attività congiunta (Fogel, 1993; Kendon, 1985).

A due mesi, la comparsa di un primo senso di sé come “sé relazionale” (Fogel, 1995) è favorita essenzialmente dal rispecchiamento delle emozioni del lattante da parte della madre, rispecchiamento che contribuisce in modo determinante a creare un senso di connessione affettiva tra i partner.

Daniel Stern;  Matrice intersoggettiva e sintonizzazione degli affetti

Stern concentra il suo pensiero sulle modalità di condivisione degli stati affettivi interni. Il bambino costruisce il suo mondo interiore introiettando nel proprio sé nucleare innato le afferenze senso percettive dotate di una determinata carica intenzionale e affettiva; rappresentanti la “matrice intersoggettiva” aderente a quel particolare contesto di nascita.

I sistemi di funzionamento alla base di quella che Stern definisce  come “psicologia di menti mutualmente sensibili” sono meccanismi di sintonizzazione attivi fin dalle prime epoche di vita. Vi è una componente neurobiologica riferita all’attivazione dei neuroni specchio, preposti alla decodifica immanente dello stimolo esterno; il quale è dotato di esistenza inscritta nel nostro patrimonio genetico. Vi è dunque un rispecchiarsi nell’altro regolato da “oscillatori adattivi” preposti all’armonizzazione delle due parti (all’attivazione del tasso neurale). Ovvero, alla sincronia degli scambi di interrelazione.

 Il bambino organizza la percezione delle intenzioni e note affettive già nei primi scambi tonico emozionali con le figure di riferimento. La reciprocità e gli schemi comportamentali di risposta dell’adulto sono percepiti come cambi di intensità nella routine di gioco che sottendono una precisa valenza intenzionale. Il bambino costruisce così un modello interattivo inscritto in una cornice temporale (forma temporale delle sensazioni); le rotture e gli aggiustamenti nelle prime interazioni sono fondamentali. Esse infatti favoriscono i processi di regolazione e di organizzazione delle percezioni provenienti  dal contesto di appartenenza; e sono fondamento della costruzione del senso di sé e della qualità del legame di attaccamento. A partire dai nove mesi, il bambino è in grado di creare intenzionalmente condivisioni intersoggettive. Stern sottolinea l’importanza che assume il meccanismo di risonanza dell’adulto nei confronti degli stati affettivi interni del bambino. Quando il bambino è riconosciuto e ricambiato nelle sue manifestazioni comportamentali e nei suoi bisogni complessivi dalla figura che lo accudisce; allora vi è nutrimento affettivo. La “sintonizzazione affettiva” diventa possibile solo grazie alla capacità dell’adulto di entrare in empatia con il bambino; e corrispondere ad esso modulando la propria risposta affettiva nell’intensità, nel ritmo e nella motivazione adeguati all’esigenza del piccolo. Ecco che l’intersoggettività non è solo una condivisione di azioni condivise ma soprattutto condivisione di stati affettivi.

Edward Tronick

Secondo Tronick, l'esperienza intersoggettiva infantile coincide essenzialmente con stati di connessione affettiva che il lattante è in grado di sperimentare durante la comunicazione faccia-a-faccia con la madre (o altro adulto significativo) fin dal terzo mese di vita, grazie alle elaborate competenze comunicative di cui dispone. Nello specifico, l'intersoggettività si sviluppa come mutua regolazione degli stati affettivi dei partner coinvolti in un processo di comunicazione; mutua regolazione che può generare o, al contrario, fallire nel generare quelli che l’autore definisce come “stati diadici di coscienza” (creati da un sistema di regolazione di mutuo scambio il quale genera significato sia sul piano individuale che interindividuale). Questi livelli di consapevolezza contribuiscono ad espandere a livelli di maggiore complessità l'organizzazione degli stati mentali del lattante. In tal senso, buona parte del lavoro di Tronick si concentra sull'importanza fondamentale dell'esperienza intersoggettiva e sugli effetti drammatici del fallimento dell'intersoggettività sullo sviluppo mentale del bambino. Il concetto di “mutua regolazione” espresso dall’autore considera lattante e caregiver come parte di un sistema di comunicazione affettiva in cui le reazioni emotive e l' esperienza affettiva del lattante sono determinate dall'espressione affettiva del caregiver e dalla comprensione implicita di tale espressione da parte del lattante; e viceversa, l'esperienza emotiva e il comportamento del caregiver sono determinati dalla comunicazione affettiva del bambino.

Louis Sander, Beatrice Beebe

“Dalla cellula in su, gli organismi viventi hanno sistemi attivi di autoregolazione e, nel contempo, sono in continuo scambio intimo con fattori di supporto essenziali derivanti dal contesto. In questa concezione è implicita una polarità: non si può porre attenzione a un elemento a scapito dell'altro” (Sander, 1975);

In tal senso, in un sistema madre-lattante che sa essere “competente” “l'autoregolazione diventa un'abilità interpersonale attiva” (Sander,1987). 

Il pensiero dell’autore riflette l’importanza che assume un corretto impiego dell’alternanza del turno e dei tempi di attesa; all’interno di uno spazio aperto. Concetto ripreso e definito da Beebe come una “proprietà sistemica costruita reciprocamente dal bambino e da chi si prende cura di lui” (Beebe, Lachmann, 2002). L’autrice fonda la sua teoria sull’intersoggettività rifacendosi al modello sistemico derivato da Sander; al concetto di “mutua regolazione” di Tronick e di co-regolazione di Fogel. Ne deriva un sistema diadico bidirezionale di regolazione interattiva madre bambino all’interno del quale si attua la “co-costruzione di processi interni e relazionali” (Beebe, Jaffe, Lachmann, 1992). Attraverso la percezione della contigenza nella risposta dell’altro ecco che il comportamento del medesimo diventa prevedibile. Si genera quindi l’aspettativa che assume un ruolo importante nella creazione del legame di attaccamento.

Kenneth Kaye

Vi sono poi approcci come quello di Kaye, per i quali la creazione di una condivisione intersoggettiva diventa possibile solamente quando i due soggetti implicati nello scambio condividono la stessa rappresentazione mentale dell’oggetto condiviso. Questa teoria contrasta con le precedenti poiché non considera l’intersoggettività innata ma successiva non solo all’intenzionalità ma anche all’interiorizzazione del simbolo

“Caccia e fuga”, esempio di mancata sintonizzazione intersoggettiva [2] (l’importanza dello sguardo)

[…] mentre la madre “incombe” sul volto del bambino, il bambino ritrae la testa. La madre lo cerca, gli “dà la caccia” avvicinando la testa e il corpo, mentre il bambino ritrae la testa. In questa sequenza, le risposte si succedono in frazioni di secondo, cosicché, ancor prima che la madre abbia completato il movimento della testa verso il bambino, quest’ultimo ha già iniziato ad allontanarsi. Abbiamo a che fare con aggiustamenti reciproci semi-sincronizzati. Dopo che il bambino ha allontanato la testa, la madre si protende per prenderlo. Mentre cerca di prenderlo, il bambino, di riflesso, raddrizza la testa, senza guardarla. Appena la madre lo prende in braccio, il bambino allontana nuovamente la testa. Quindi, ogni sforzo della madre per stabilire un contatto visivo con il bambino è destinato a fallire, e prima che i suoi movimenti siano completati, il bambino le è già ‘sfuggito’ […]La non sintonizzazione nella diade primaria ricorda la non sintonizzazione nella relazione terapeutica. Anche quest’ultima è una relazione di accudimento. Possiamo anzi affermare che la sintonia è una parte molto importante del processo terapeutico.

“Cos’è il sistema diadico nella comunicazione? Il sistema diadico è tutto questo: come io influenzo te, come tu influenzi me, come io ti sorrido e tu mi sorridi a tua volta[…]” (Corpo Narrante, rivista on line dell’I.I.F.A.B., num.4, dic.2011).

Alla luce dell’esempio sopra riportato è necessario riflettere sulla capacità di osservazione del TNPEE. Si è voluto evidenziare come lo sguardo sia una componente strettamente legata al processo di creazione del comportamento intersoggettivo. Dal momento che l’osservatore modifica l’osservato in un rapporto bidirezionale è sicuramente fondamentale per il terapista avere consapevolezza di questo assunto. All’interno del setting si deve dunque mantenere un  controllo sulla qualità del contatto visivo imprescindibile. Ma questo lo si può trasporre anche nella relazione tra TNPEE e caregiver; tra TNPEE e il contesto d’equipe. L’intersoggettività è a sua volta matrice sulla quale si struttura l’accoglimento empatico dell’altro. Certamente lo sguardo non è l’unico veicolo senso percettivo comunicativo non verbale, ma è fondamentale nel raccogliere dati importanti sull’altro che permettono un’analisi più accurata della richiesta o della risposta del medesimo. Per entrare in contatto con l’altro si deve dunque disporre la propria partecipazione anche sul piano visivo. L’allineamento di sguardi aiuta dunque la creazione nella relazione della componente intersoggettiva. Il terapista instaura con il caregiver e con l’equipe multidisciplinare un percorso condiviso; inoltre la stessa “relazione terapeutica” in quanto tale richiede la permanenza fino a fine percorso di condivisione intersoggettiva.

Empatia

Einfühlung “sentire dentro”, termine utilizzato da Robert Vischer (1873) per descrivere in filosofia estetica l’esperienza di immedesimazione nell’osservare un’opera d’arte con i sentimenti del creatore della stessa. Ben lontano dal concetto di condizione empatica che coinvolge meccanismi di risonanza che nel 1909 Tichner definisce come “la capacità di percepire al nostro interno quello che prova l’altro”. Sarebbe per E. Stein una situazione “paradossale” che permette un espansione del proprio stato di coscienza e un’espansione dell’esperienza stessa. L’empatia implica, infatti, sorprendenti modificazioni neuro-fisiologiche (Hutchison, Davis, Lozano, Tasker e Dostrovsky, 1999; Singer, Seymour, O’Doherty, Kaube, Dolan, e Frith, 2004) e può diventare oggetto di un’affascinante riflessione sulle basi neurali dell’azione sociale (Rizzolatti e Fadiga,1998). Il gruppo di Rizzolatti e Gallese ha poi formulato la teoria dei neuroni specchio, secondo cui l’empatia nasce da un processo di simulazione incarnata che precede l’elaborazione cognitiva. A livello neurobiologico, la comprensione della mente e dei vissuti dell’altro è sostenuta da questa particolare popolazione neuronale; per la quale, è possibile partecipare come testimoni ad azioni, sensazioni ed emozioni di altri individui. Questo proprio perché si attivano le stesse aree cerebrali di norma coinvolte nello svolgimento in prima persona delle stesse azioni, e nella percezione delle stesse sensazioni ed emozioni. Alla base dell’empatia ci sarebbe un processo di “simulazione incarnata”, vale a dire un meccanismo di natura essenzialmente motoria, molto antico dal punto di vista dell’evoluzione umana, anche perché i neuroni specchio agirebbero immediatamente prima di ogni elaborazione più propriamente cognitiva.

La descrizione dell’autore

“Percepire un’azione – e comprenderne il significato – equivale a simularla internamente. Ciò consente all’osservatore di utilizzare le proprie risorse per penetrare il mondo dell’altro mediante un processo di modellizzazione che ha i connotati di un meccanismo non conscio, automatico e prelinguistico di simulazione motoria. […] Quando vedo qualcuno esprimere col proprio volto una data emozione e questa percezione mi induce a comprendere il significato emotivo di quell’espressione, non conseguo questa comprensione necessariamente o esclusivamente grazie a un argomento per analogia. L’emozione dell’altro è costituita dall’osservatore e compresa grazie a un meccanismo di simulazione che produce nell’osservatore uno stato corporeo condiviso con l’attore di quella espressione. È per l’appunto la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire empatica” (Gallese, Migone e Eagle, 2006).

L’empatia non può prescindere dall’esistenza di un’intersoggettività innata primaria come descritto ampiamente da Trevarthen e d’altronde confermato nella prospettiva neuro scientifica. L’empatia può essere “reattiva” o “parallela” (Stephan e Finley, 1999); la prima sarebbe una risposta emozionale congruente con l’input emotivo proveniente dall’altro. Il secondo caso invece contempla la capacità di “vivere” quello che sta vivendo la persona con cui siamo in contatto. Il concetto di empatia come atteggiamento pro-sociale e relativo alla sfera dell’incontro con il bisogno inteso come spinta altruistica (nurturance) insita nell’essere umano porta quest’ultimo alla necessità di rispondere e apportare aiuto in condizioni di disagio. Questo tratto prevalentemente “umanitario” è stato misurato da Bateson  mediante una scala che quantifica i livelli di coinvolgimento emotivo dimostrati in situazioni a-specifiche di bisogno sociale. Altro aspetto che è invece maggiormente riscontrabile in ambito terapeutico sposta l’attenzione verso la condizione empatica insita nella relazione di cura. In tal caso la figura del terapeuta è strumento attivo di intervento e di cura; come tale non può avvalersi di una partecipazione prettamente “simpatica” ma essa deve essere connotata da una consapevolezza del proprio ruolo professionale. Carl Rogers include come atteggiamento fondante la relazione centrata sul paziente quello che viene definito come “coinvolgimento distaccato”; il quale richiede al terapista un’adeguata regolazione delle proprie emozioni a favore del bisogno  dell’altro. Le basi neuro anatomiche dell’empatia spiegano la differenza tra “il sentire dentro” legato maggiormente all’organizzazione percettiva e il “comprendere quello che sento” legato all’elaborazione cognitiva. Nel primo caso vi sarebbe un prevalente coinvolgimento di amigdala-ipotalamo-corteccia orbito frontale; nel secondo caso il meccanismo di elaborazione dell’informazione emotiva sarebbe sostenuto da una rete di connessione neurale che trasferisce l’impulso dalla zona pre frontale mediale al solco temporale superiore e posteriore. Ecco quindi che si può comprendere il legame tra emotività e organizzazione emotiva. Al terapista sono richieste competenze di organizzazione percettiva e autoregolazione. Il professionista sanitario e nello specifico il TNPEE; agisce come feedback regolatore e come contenitore emozionale. Nella psicopatologia dello sviluppo assume un ruolo fondamentale il lavoro sulle emozioni; poiché esse sono in via di definizione. A prescindere dal quadro nosografico specifico ma anche a prescindere dall’orientamento diagnostico supposto nelle varie casistiche; e assunto che per la psicologia dello sviluppo il bambino dopo i tre anni può decodificare sia le emozioni semplici che complesse. Nonostante il riconoscimento delle emozioni sia possibile; ciò non vuol dire che sia automatico. Difatti se si pensa al ruolo di “sostegno” che l’adulto rappresenta nel pensiero di Bruner; è forse banale ma decisamente fondamentale ricordare che nel bambino a sviluppo tipico così come nel bambino con sviluppo atipico, la responsabilità genitoriale è tale a 360°. La competenza narrativa va accolta e incoraggiata intorno ai quattro anni; perché a quest’epoca il bimbo inizia ad accorgersi che i suoi stati interni sono legati alle azioni dell’adulto di riferimento. Non è una consapevolezza conscia, ed è molto rischioso non avere conoscenza dell’importanza di de-responsabilizzare il bimbo nei confronti di comportamenti del medesimo che sono derivati da azioni subite da parte dell’adulto di riferimento. Così come fondamentale è la capacità di assegnare e descrivere emotivamente il vissuto del bimbo in relazione ad eventi più o meno significativi. Non è sbagliato provare un’emozione, quanto negarla o confondere il piano meramente transitorio di quest’ultima con il sentimento. Fondamentalmente, il bimbo deve essere sicuro che: se la mamma è arrabbiata-triste-nervosa-assente-stanca… lui è stabile, lui è un amore vero, non cambia. Non credo che la maggior parte dei genitori sia affetto da questi dubbi esistenziali, ma ritengo sia importante ricordare all’adulto che tale è a prescindere da come è.

Quindi: le emozioni vanno spiegate, affinché nel bimbo si crei una condizione di rispecchiamento empatico nel quale esso stesso si possa sentire accolto e compreso, riconosciuto e quindi esistente. Ma anche il genitore si deve percepire come tale. Il progetto terapeutico raccoglie la posizione genitoriale; è essenziale che quest’ultimo si senta attivamente coinvolto nel percorso di cura. Il sentirsi coinvolto genera due sentimenti importanti ovvero: responsabilità e facoltà di cambiamento. Per questo è necessario restituire importanza al genitore. Entrare in empatia con la situazione, con la sofferenza e con il caregiver vuol dire fornire una forma di rimando reattiva. Reattiva perché è l’unica modalità costruttiva per affrontare situazioni problema. Ecco che il terapista conduce il genitore verso un oggettivo punto di vista, il più congruente possibile al reale e avulso da proiezioni emotive; ma intriso di sentimento. E il sentimento è molto semplice, perché matrice creativa e non di sussistenza.

Theory of mind (TOM); teoria della mente

Si intende l’insieme dei punti di vista che spiegano il meccanismo di identificazione, elaborazione e definizione dei propri ed altrui stati mentali. Processo cognitivo ma anche emozionale. Si può considerare alla base di una buona intelligenza emotiva dal momento che se si è in grado di riflettere con consapevolezza sulle proprie intenzioni il confine tra sé e l’altro diventa più definito. In questo modo permetto all’altro di esistere e di esprimere sé stesso; e di poter essere compreso nelle sue motivazioni e stati d’animo. Allo stesso tempo più si acquisisce consapevolezza delle dinamiche interne e più si ricostruiranno i giusti rapporti di interdipendenza legati alle diverse individualità e situazioni appartenenti ad un contesto specifico. Il saper comprendere il funzionamento della realtà sociale ne permette una gestione costruttiva e consente di attuare scelte produttive per il bene comune. Il saper assumere e differenziare più punti di vista (che rientra sempre nelle abilità di analisi delle credenze altrui) è fondamentale nell’attuare considerazioni e scelte oggettivamente corrette, sensate e vantaggiose; riconoscendo i giusti rapporti di causa ed effetto. La teoria della mente, permette di avere delle rappresentazioni mentali sociali (Astington, 2003), e di cogliere esattamente cosa una persona vuole comunicare (Baron-Cohen, 1995). 
 Nella sua accezione negativa può condurre ad una manipolazione di situazioni e/o persone a scopi personali. Mostrare una padronanza della teoria della mente risulta essere una funzione altamente adattiva per il bambino e offre una funzione protettiva per tutti coloro che mostrano delle difficoltà oggettive dovute a traumi subiti, consentendogli di mantenere una sorta di integrità cognitiva ed esperienziale (Fonagy e Target, 2001).

Basi teoriche 

Teoria della teoria (Gopnik, Wellman, Meltzoff 1997); il bambino crea ipotesi e organizza un proprio sistema di inferenze sociali e ambientali appartenenti alla personale rappresentazione della realtà e legate quindi all’apprendimento esperienziale ed ai contenuti emotivi ad esso correlati. Segue la legge desiderio vs credenza. “La credenza come l’atteggiamento di un agente sulla verità di una proposizione, cioè sul significato di una frase. L’atteggiamento proposizionale non va confuso con la <<valutazione semantica>> di una proposizione” (Leslie 2000). L’atteggiamento dunque è intuitivo, prevede il cogliere un significato a prescindere dalla conoscenza effettiva che si possiede del medesimo; ed è legato al vissuto personale ed è alla base di una successiva elaborazione cognitiva di tale credenza. L’interiorizzazione di queste inferenze è prevalentemente per “insight”. Teoria modulare (Leslie 1987) “la mente non è una complessa rete di capacità generali come la capacità osservativa, l’attenzione, la memoria, il giudizio, e così via, ma un insieme di capacità specifiche, ognuna delle quali è, in una certa misura, indipendente dalle altre e sviluppata indipendentemente. L’apprendimento è qualcosa di più dell’acquisizione della capacità di pensare; è l’acquisizione di molte abilità specializzate per pensare ad una varietà di cose diverse”.[3] La capacità biologicamente determinata di costruire delle meta rappresentazioni relative al vissuto esperienziale è una funzione, un modulo che presenta un dominio specifico (Fodor, 1983) innato e dipendente dalla maturazione delle strutture neuro cognitive. Similare a quello che per Chomsky rappresenta il dispositivo innato per l’acquisizione del linguaggio (LAD); l’accesso al simbolico è fondamentale sia per la strutturazione del linguaggio che per la meta rappresentazione delle credenze. Sistema di lettura della mente (mindreading, Cohen 1995); vi sarebbe una interrelazione tra processi di maturazione cognitiva e forme di condizionamento classico derivate dal contesto. Il soggetto sviluppa strutture di elaborazione sempre più complesse che permettono l’introiezione dei vari condizionamenti in moduli stabili. Teoria della simulazione incarnata (Goldman 1993, Gordon 1986, Gallese 1998); si collega al funzionamento dei neuroni specchio; rappresenta la capacità di “subire” il comportamento altrui tramite un’identificazione con l’altro. Segue il principio di “percezione immediata”. Per la psicologia dello sviluppo il concetto di percezione dell’altro dipende dalla progressiva differenziazione di sé stessi come un tutt’uno (ottavo mese), della propria unicità fisica e della possibilità di entrare in relazione con l’altro (nono mese), anch’esso dotato di una sua unicità. Nelle tappe evolutive si riconoscono dei passaggi importanti che segnano questo progressivo riconoscimento. Il bambino tramite l’interazione con la madre e con le persone che si prendono cura di lui percepisce i confini del proprio corpo, propriocezione e percezione dello spazio circostante in funzione delle azioni che egli stesso subisce o agisce in esso. Si può osservare questa evoluzione tramite indicatori dello sviluppo sociale quali il sorriso sociale (terzo mese); sguardo referenziale (sesto mese); dal nono mese con l’emergere dell’intenzionalità e raggiunta la costanza dell’oggetto il bambino può fare esperienza di condivisione con l’altro. Attraverso l’esercizio ludico, l’accesso al simbolico e lo sviluppo delle relazioni sociali, il bambino costruisce progressivamente immagini interne del suo vissuto; immagini che riportano significati emozionali e contengono la globalità dei dati raccolti e immagazzinati costituenti la memoria autobiografica individuale. Solo verso i quattro anni il bimbo comincia ad esprimere tramite la funzione narrativa le proprie esperienze; ed è in grado di compiere le prime riflessioni sulle motivazioni e credenze altrui che possono differire dalle proprie. Il bambino comprende gli effetti delle sue azioni sull’altro (le bugie sono espressione della naturale spinta endogena all’autoprotezione che deriva da questa comprensione). Può dunque risolvere le false credenze di primo ordine. Questo è dimostrato da un esperimento particolarmente conosciuto (test sulla falsa credenza “Sally e Anne”, Perner e Wimmer 1983).

Si sono descritti in linea generale il processo evolutivo tipico dell’empatia e le componenti di questa qualità umana che permette all’individuo di raggiungere una corretta cognizione sociale e conseguente capacità di sintonizzazione emotiva. Tuttavia un differente livello di sensibilità e di vissuto individuale possono alterare e reprimere questa naturale predisposizione sociale. Uno studio pubblicato sulla rivista M.D. Medicine Doctor nel marzo 2017 riporta dati relativi all’importanza della componente empatica in ambito medico; di come essa sia in relazione stretta con la compassione e di come un eccessivo distacco emotivo possa incidere sulla vocazione professionale. In tal senso un’assistenza primaria centrata sul paziente ed in grado di cogliere le sue necessità specifiche porterebbe una riduzione fino al 30 % dei costi della sanità. Si riportano nella tabella sottostante le principali Tecniche di misurazione dell’ empatia che ne permettono una valutazione sia settoriale (area cognitiva /affettivo-relazionale) che globale.

 

Tabella 4; scala valutazione empatia

Tabella 4; scala valutazione empatia [4]

Strategie didattiche:

La tipologia di scala maggiormente utilizzata sia in ambito didattico che per la valutazione della responsività empatica in ambito professionale è l’ Interpersonal Reactivity Index (IRI). Davis pone come input nella creazione dell’identificazione empatica un “episodio proto tipico” composto da tre vertici: Il soggetto che osserva; il soggetto osservato mentre sperimenta una situazione emotiva; la risposta dell’osservatore. Secondo l’autore, l’ “episodio proto tipico” è specificato da quattro costrutti: 1-le caratteristiche dell’osservatore, dell’osservato e della situazione; 2-i processi cognitivi dell’osservatore che permettono la conoscenza dello stato d’animo dell’osservato; 3-la risposta che ha luogo nell’osservatore di fronte alla situazione emotiva dell’osservato e che può essere affettiva (partecipazione vicaria) oppure cognitiva (accuratezza nell’etichettare pensieri e sentimenti altrui); come risultante si avranno i comportamenti interpersonali che derivano dall’esposizione agli stati d’animo dell’osservato. L’approccio di Davis è integrato e multidimensionale poiché la scala di misurazione contempla la qualità di tutte le componenti dell’atto empatico. Vi sono poi 28 item articolati in 4 sottoscale: considerazione empatica; disagio personale; perspective taking; fantasia. Il soggetto è tenuto ad esprimere il suo grado di accordo o disaccordo su una scale likert a 5 punti[5].

Una meta analisi del 2010 dell’università dello Utah ha rilevato l’efficacia relativa a training sull’empatia indipendentemente dalla strategia didattica adottata. Tuttavia le proposte formative sono rappresentate principalmente da: laboratori di communication skills; seminari sui concetti sottostanti le abilità relazionali; approccio ai pazienti guidato sotto supervisione nell’ambito di un tutoraggio clinico; ascolto e analisi di storie di malattia (medicina narrativa); Laboratori sull’interpretazione del linguaggio non verbale; role playing.

La capacità di risonanza empatica è strettamente collegata alla capacità di comunicazione non verbale. Attraverso la sintonizzazione emotiva e una relativa sincronia si attua un rimando importante non solo nel contesto proprio del setting ma anche in relazione al genitore. Questa dinamica prevede un “contagio emozionale” che richiede al terapista un’elevata disponibilità interiore. Creare spazio per questa “disponibilità” prevede un reale interesse nei confronti dell’interlocutore; perché questo spazio non è vuoto ma è delimitato da personali coordinate e impegno interiori. La volontà di “mettersi a disposizione”non può prescindere da una corrispondente disposizione d’animo. Per il TNPEE è importante assumere informazioni rilevanti il contesto di vita del bambino, sulle relative modalità di educazione e cura genitoriali e sull’immagine interiore del bimbo che il caregiver si è costruito nel tempo. Questo non può chiaramente essere confinato a dati ricavati solo dall’implementazione di questionari specifici ma dalla capacità di trarre informazioni tramite l’ascolto empatico. L’atteggiamento empatico prevede anche che vi sia una capacità di decentramento, intesa come spostamento cognitivo ed emotivo del terapista da sé all’altro.

“L’elemento comune sottostante è rappresentato dal processo di de-centramento. L’empatia, in questo senso, sarebbe una «forma di decentramento che produce una risposta affettiva consonante con lo stato affettivo di un’altra persona». Un’esperienza che richiede competenze relazionali e comunicative, e che concorre alla costruzione di relazioni sociali positive” (Redmond, 1989).

Capacità che si sviluppa nel bambino attraverso il gioco simbolico e che è indice del progressivo distanziamento del punto di vista egocentrico. Nell’adulto si configura un’inibizione di questa capacità legata alla  presenza di un io ipertrofico. “Il decentramento è un costrutto cognitivo con cui ci si riferisce all'abilità di osservare i propri pensieri ed emozioni come degli eventi più che come verità su di sé, che coinvolge la nostra capacità di osservare la nostra esperienza interna in maniera non giudicante” (Safran & Segal, 1990). Il terapista ancora una volta deve essere in grado di essere presente e disponibile. Questo è necessario perché vi sia una corretta e funzionale presa in carico e alleanza terapeutica.

Comunicazione non verbale; mediazione

<<Vi è una reale dicotomia tra comunicazione verbale e non verbale?>> Mill (1843) distingue due parametri di valutazione del messaggio interpersonale: denotativo e connotativo. Il linguaggio verbale darebbe informazioni all’interlocutore sull’argomento che si vorrebbe condividere; le coordinate, i riferimenti. Diversamente il “come” si rimandano questi riferimenti appartiene all’espressione intenzionale emozionale veicolata dall’atteggiamento corporeo. La rappresentazione interna del fonema (tratto diacritico distintivo e oppositivo) è stabile, e di conseguenza considerata come “arbitraria” e “digitale”; la modulazione dell’intenzionalità espressiva è variabile e “analogica”, poiché aderente e proporzionale all’intensità dell’intenzione stessa. Le distinzioni nette servono a ricordare le variabili interdipendenti e relative interdipendenze. Per la psicologia dello sviluppo, il bambino dopo il nono mese è in grado di riferirsi intenzionalmente all’altro e in grado di strutturare una relazione. L’aspetto di volontà di condivisione in contrapposizione alla mera trasmissione di informazioni è legata biologicamente a questa capacità innata. La presenza consapevole del soggetto (io ci sono) differisce dall’assenza di quest’ultima. Ne deriva che determinate volte “si comunica” altre “si informa”.  La comunicazione (in quanto atto comunicativo) come uno scambio interattivo osservabile fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento (Anolli, 2002). Il “comunicare comunicando” descritto dallo stesso autore nel livello che lui stesso identifica come: “comunicazione focalizzata”; ecco che in questa accezione interessa il neuro psicomotricista in quanto nella relazione con il caregiver, ma anche con l’equipe multidisciplinare si deve necessariamente possedere una certa presenza nell’atto comunicativo agito. La “forza dell’intenzione” è direttamente proporzionale sia all’importanza dei contenuti oggetto dello scambio comunicativo, sia alla rilevanza dell’interlocutore; che alla natura del contesto. Se si esclude l’elaborazione prettamente cognitiva del linguaggio come simbolo e dipendente dal contesto di appartenenza, e specifico per ogni idioma; la componente veicolante il messaggio è sicuramente legata alla gestualità codificata della relativa realtà sociale, ma nell’intenzionalità come espressione di universalità bio psico sociale. Ecco che Il TNPEE deve riconoscere in se stesso le radici aderenti al proprio contesto di vita; semmai relazionarle al proprio contesto operativo (che può differire per norme e convenzioni sociali). L’intelligenza comunicativa dipende dalla comprensione e capacità adattiva del soggetto che si relaziona con personalità e contesti differenti e variabili nel tempo. Il TNPEE è veicolo di trasmissione di componenti tecnico-professionali (limiti, obiettivi, sviluppi, ostacoli: inquadramento funzionale e progetto terapeutico); le quali però sono intersoggettive rispetto all’unicità del bimbo preso in carico. Di conseguenza, la comunicazione con il caregiver non può prescindere dalla creazione di una relazione basata su una condivisione di intenti, scambio, confronto e collaborazione. Componenti che appartengono all’unione della dimensione tecnico-professionale con l’analisi partecipata di contesto. Le componenti paralinguistiche della comunicazione (gestualità e prossemica; mimica; intonazione/timbrica; estensione, durata e frequenza vocale) devono dunque essere direzionate attentamente dal professionista. Inoltre l’interpretazione del feedback dovrebbe essere oggettiva e libera da inferenze personali. Questo si può praticare con l’auto-osservazione e auto analisi costante. La funzione di mediazione è strettamente legata alla comunicazione non verbale; in quanto nella relazione terapeutica il corpo del terapista è strumento attivo e flessibile. Il TNPEE deve avere consapevolezza e gestione della propria fisicità. Questo non implica un controllo motorio costante (il quale renderebbe il movimento non spontaneo) ma una più profonda analisi della modalità personale di esternazione espressiva dell’interiorità. Considerando il forte legame tra  organizzazione del pensiero e linguaggio; si assume come una mente strutturalmente ordinata e limpida si rifletta anche in una funzionale e corrispondente trasmissione comunicativa. Nella gestione delle interazioni all’interno dell’equipe multidisciplinare e nell’interscambio assiduo con il caregiver; adottare una chiara intenzionalità comunicativa, permette all’ altro comprensione e condivisione oggettive del messaggio che si vuole veicolare. La funzione di mediazione intesa nella sua accezione etimologica é anch’essa relativamente importante. Il TNPEE deve difatti gestire più personalità e stili interattivi nei legami di interdipendenza intercontestuali. L’estensione del progetto terapeutico copre tutti i setting abituali del bambino. Il professionista deve dunque necessariamente promuovere l’impegno da parte di tutta la rete di sostegno; affinché gli obiettivi di trattamento siano impegno continuo e longitudinale per tutti gli attori coinvolti nella presa in carico.

SITOGRAFIA E BIBLIOGRAFIA

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  • Anolli L., “Significato modale e comunicazione non verbale”, Giornale italiano di psicologia (ISSN 0390-5349) Fascicolo 3, settembre 2003, (doi: 10.1421/10093), il mulino rivisteweb
  • Serino C., “Empatia: temi e prospettive in psicologia sociale, psicologia sociale (ISSN 1827-2517) Fascicolo, 3 settembre-dicembre 2009 (doi: 10.1482/30688), il mulino riviste web
  • Lavelli M., “intersoggettività, origine e primi sviluppi”, Milano 2007, ed. cortina
  • A cura di D’amario B., Saladino V., Santilli M., Verrastro V. “le competenze trasversali- teorie e ambiti applicativi”, QUALE psicologia, Nuova serie, anno 3, numero 5, supp. N.2, ottobre 2015
  • “Misurare e apprendere l’empatia” M.D. Medicinae Doctor - Anno XXIV numero 2 - marzo 2017
  • Surian L, “perché la teoria della mente è modulare, Sistemi intelligenti (ISSN 1120-9550) Fascicolo 1, aprile 2001 (doi: 10.1422/3558), il mulino riviste web

TABELLE

Tabella 4; scala valutazione empatia


[1] 5°piano nazionale infanzia e adolescenza

[2] Corpo Narrante, rivista on line dell’I.I.F.A.B., num.4, dic.2011

[3] (Vygotskij 1978, trad.it. 1980, 83) L.Surian, Perché la Teoria della Mente è modulare, sistemi intelligenti (ISSN 1120-9550), il Mulino, fasc. 1, apr.2001, (doi: 10.1422/3558)

[4] Tabella studio empatia

[5]https://www.researchgate.net/publication/285905694_Contributo_all'adattamento_italiano_dell'Interpersonal_Reactivity_Index 


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