La rappresentazione mentale
Alice Friscione
Visite: 19701
- La rappresentazione mentale
- Gli ambiti della rappresentazione mentale
- Lo schema corporeo: Definizione, Aspetti evolutivi
- La spazialità: Definizione dei tre spazi: topologico, proiettivo, euclideo; Aspetti evolutivi; Le abilità visuo-spaziali
- La temporalità: Definizione e aree della temporalità; Aspetti evolutivi
- L’organizzazione prassica: Definizione e classificazioni; Aspetti evolutivi
- Il linguaggio: Definizione; Aspetti evolutivi; Il processo di categorizzazione; La competenza narrativa
- Metacognizione e teoria della mente: Definizione; Aspetti evolutivi
- Il gioco simbolico: Definizione; Aspetti evolutivi
Una definizione di rappresentazione mentale
“Rappresentazione” è una denominazione generale cui è difficile attribuire un significato univoco. Innumerevoli discipline e sistemi di pensiero trattano il tema della rappresentazione mentale e in ognuno di questi emergono inevitabilmente delle differenze nel modo di concepire una materia così complessa e astratta. Al di là delle discrepanze teoriche tra un approccio e l’altro, la rappresentazione può, tuttavia, essere definita attraverso una serie di assunti condivisi dalle diverse teorie. Nei prossimi paragrafi si cercherà di esprimere nella maniera più chiara possibile cosa sia effettivamente la rappresentazione mentale e perché questa assuma un ruolo così importante nella vita dell’individuo.
Secondo i modelli rappresentazionali, appartenenti ad alcune teorie sul funzionamento della mente, i processi e gli stati cognitivi consistono essenzialmente nella formazione, trasformazione e immagazzinamento nella mente di strutture portatrici di informazioni: le rappresentazioni mentali (AAVV, Stanford, 2004). Secondo tali teorie, la rappresentazione è “il tessuto stesso del pensiero” (Gil, 1982): nella mente l’informazione esiste sotto forma di rappresentazione. Attraverso la rappresentazione le informazioni percettive vengono trasformate in dati di conoscenza: gli input provenienti dall’ambiente esterno vengono codificati in codici rappresentazionali per poter essere manipolati dal sistema cognitivo. La modalità con cui avviene questo processo tuttavia è un tema ancora oggi oggetto di discussione e verrà in parte analizzato nel capitolo successivo.
In generale, si può definire la rappresentazione come qualcosa che si trova al posto di qualcos’altro, “rappresentare significa essere l’altro di un altro che viene insieme evocato e cancellato dalla rappresentazione” (Gil, 1982).
Con il termine “rappresentazione” si può indicare sia l’atto con cui la coscienza riproduce un oggetto esterno (una cosa) o interno (uno stato d’animo, una fantasia), sia il contenuto di tale operazione riproduttiva (Galimberti, 1992).
La rappresentazione è quindi una struttura, che presenta caratteristiche che in qualche modo corrispondono a quelle di un’altra struttura.
Rappresentare significa presentare di nuovo: nel termine è insito il concetto di ripetizione e di mimesi. Gil (1982) afferma che ogni rappresentazione è soggetta al principio generale di raddoppiamento: il raddoppiamento può essere attivo (proiezione), passivo (impressione) o attivo e passivo allo stesso tempo (riflessione) e può avvenire in assenza del rappresentato (simulazione) o in presenza del rappresentato (copia).
Il concetto di rappresentazione è legato a molteplici altri temi (percezione, ricordo, immaginazione, funzione semiotica). Essa non è un semplice prodotto del cervello che riproduce un oggetto, un’immagine o un’idea, ma è un processo attivo legato a fenomeni di anticipazione, che si struttura e si arricchisce nel corso dello sviluppo, parallelamente alla crescita delle funzioni cognitive (Gil, 1982).
Grazie allo sviluppo di una rappresentazione interna della realtà sempre più articolata e complessa, il soggetto sarà sempre più abile ad agire sulla realtà e a riconoscerne la natura ed il significato (Sabbadini, 1995).
Ipotesi sulla natura della rappresentazione mentale
Possiamo identificare due tipi principali di approccio al tema della rappresentazione mentale: l’approccio classico simbolico e l’approccio connessionista non simbolico.
Secondo l’approccio classico simbolico, la conoscenza del mondo avviene attraverso schemi simbolici, ovvero strutture mentali che raggruppano e categorizzano gli elementi della realtà (persone, oggetti, situazioni, azioni) attraverso le rappresentazioni. Lo schema è un costrutto del processo rappresentazionale simbolico e si articola in più forme specifiche: lo script, il frame e il concetto.
Lo script è uno schema che rappresenta ciò che usualmente capita in un certo contesto, specificando i ruoli tipici per quella situazione, le azioni che vengono compiute, la loro sequenza e i nessi causali che legano gli eventi (ad esempio lo script della festa di compleanno).
Il frame è uno schema che rappresenta l’ambiente circostante nella sua struttura fisica, mantenendo i rapporti, le proporzioni e le relazioni tra gli elementi dello spazio.
I concetti infine sono categorie astratte che rappresentano classi di elementi (oggetti, persone, eventi) legati da qualità e relazioni comuni.
Secondo l’approccio connessionista non simbolico, invece, l’attività cognitiva consiste in un flusso di attivazione di reti neurali: è l’attivazione neurale stessa che rappresenta la realtà esterna che viene percepita ed elaborata dall’individuo.
Ciascuna unità della rete neurale elabora solo un frammento dell’informazione, molto più piccolo del simbolo e che di per sé non assume un significato proprio. L’informazione elaborata da ciascuna unità non è quindi un simbolo, ma un sub-simbolo. Ogni sub-simbolo acquista un significato solo se combinato con i frammenti delle altre unità neurali.
In definitiva, le rappresentazioni interne alla rete non risiedono in singole unità, ma sono immagazzinate sottoforma di configurazioni di connessioni tra unità (Cassia, Valenza, Simion, 2004).
Gli studi più attuali sulla natura della rappresentazione mentale si fondano su entrambi i modelli. Di seguito viene presentato uno schema che unisce i concetti teorizzati dai due approcci rappresentazionali appena descritti, proponendo una sintesi di quelle che in generale possono essere considerate le diverse forme della rappresentazione (Fig. 1).
Figura 1: Le forme della rappresentazione.
Innanzitutto vengono identificate due grandi classi di rappresentazioni: le rappresentazioni esterne e le rappresentazioni interne.
Le rappresentazioni esterne possono essere definite come la traduzione delle rappresentazioni mentali proprie dell’individuo in modelli esterni. Tali rappresentazioni si suddividono a loro volta in pittoriche e linguistiche.
Le rappresentazioni pittoriche sono di tipo analogico e mantengono quindi la struttura percettiva del mondo rappresentato (disegni, mappe, diagrammi, ecc.).
Le rappresentazioni linguistiche prevedono l’utilizzo di un sistema codificato di simboli (il linguaggio) e di regole per combinarli tra loro (grammatica). Non sono analogiche in quanto la relazione tra il segno e l’oggetto a cui si riferisce è arbitraria e frutto di una convenzione.
Le rappresentazioni interne sono le rappresentazioni mentali stesse e, a seconda degli approcci, si distinguono in simboliche e distribuite.
Le rappresentazioni simboliche sono quelle descritte dall’approccio classico e consistono in rappresentazioni della realtà esterna attraverso schemi simbolici. Come le rappresentazioni esterne, anche quelle interne simboliche si suddividono in maniera affine, distinguendosi in rappresentazioni di tipo analogico e rappresentazioni proposizionali.
Le rappresentazioni analogiche mantengono le informazioni sia figurali che spaziali dell’elemento rappresentato, e quindi le sue caratteristiche “fisiche”, producendo un’immagine mentale dello stimolo elaborato, simile a una fotografia. L’immagine mentale non è la copia esatta della realtà ma è personale e differisce da persona a persona. Esse possono essere ruotate ed esplorate mentalmente come se il soggetto percorresse una mappa con la mente (Eysenck, 1990).
Le rappresentazioni proposizionali invece sono più simili al linguaggio e permettono di esprimere concetti astratti. Sono rappresentazioni astratte che non contengono le caratteristiche fisiche di ciò che rappresentano (ad esempio un’idea che l’individuo si rappresenta mentalmente in forma linguistica).
La teoria connessionista invece parla di rappresentazioni interne riferendosi alle cosiddette rappresentazioni distribuite. In questo caso, la rappresentazione si realizza attraverso la compartecipazione di diverse reti neurali, ognuna delle quali codifica un singolo aspetto dello stimolo ambientale. I diversi sottogruppi di neuroni sono legati tramite aree associative multimodali; attraverso la creazione e l’attivazione di queste aree si ottiene la rappresentazione.
I prossimi capitoli saranno incentrati in particolar modo sullo sviluppo e sull’utilizzo da parte dell’individuo delle rappresentazioni interne, ovvero le rappresentazioni mentali.
Le funzioni alla base della rappresentazione mentale
Galimberti (Galimberti, 1994) definisce la rappresentazione come “il rinnovarsi dell’esperienza percettiva in assenza dello stimolo sensoriale”. A partire da tale assunto, è possibile riconoscere due funzioni fondamentali che risultano determinanti nella formazione della rappresentazione: la percezione e la memoria.
La percezione
La percezione appartiene alle funzioni corticali superiori, è il primo sistema di elaborazione degli stimoli sensoriali e dunque il processo attraverso cui le informazioni in entrata, che colpiscono gli organi di senso, vengono interpretate e trasformate in forme dotate di significato.
Grazie alla percezione, le informazioni ambientali grezze vengono acquisite e organizzate in strutture coerenti. Più informazioni vengono fatte convergere in un’unica rappresentazione. L’individuo si crea il proprio modello mentale dell’ambiente, un’immagine interna costantemente aggiornata della realtà esterna che gli permette di orientare il comportamento in base alle proprie assunzioni su come è assemblato e funziona il mondo.
In questo processo, le informazioni sensoriali grezze, acquisite tramite gli organi di senso, vengono immagazzinate in categorie astratte già presenti in memoria. Avviene quindi l’astrazione delle informazioni più importanti, ciò vuol dire che non viene mantenuta in memoria l’informazione completa, ma una sua versione astratta e semplificata (economia cognitiva).
Il sistema percettivo si basa sia sulle informazioni che riceve dall’ambiente, sia sui dati dell’esperienza e sulle conoscenze già acquisite. In particolare la percezione avviene attraverso l’attivazione di processi bottom-up e top-down integrati tra loro. Nei processi bottom-up l’elaborazione è guidata dai dati sensoriali e dipende dalle caratteristiche dell’oggetto: il target guida l’azione. Nei processi top-down, invece, l’elaborazione è guidata dai concetti, e quindi dalle rappresentazioni presenti in memoria, dipende dallo scopo dell’azione, dal contesto e dalle esperienze già vissute legate a quello stimolo.
Secondo la teoria percettiva di Neisser (1976), l’attività percettiva è guidata dai dati presenti in memoria, che generano credenze e aspettative (top-down); i nuovi dati derivati dall’esplorazione percettiva modificano a loro volta le aspettative e le credenze, dunque i dati della memoria (bottom-up).
L’utilizzo coordinato di questi due sistemi di elaborazione permette la cosiddetta “inferenza inconscia”, un processo che, fondandosi sull’esperienza precedente e sulle conoscenze acquisite (top-down), integra i dati incompleti e frammentari che provengono dagli organi di senso (bottom-up), favorendone l’interpretazione (von Helmholtz, 1886). L’inferenza inconscia sta alla base dei fenomeni di costanza percettiva (costanza del colore, della forma, della grandezza) che permettono al soggetto di fare una distinzione tra le caratteristiche fisiche proprie di un oggetto e le informazioni disponibili al sistema percettivo in un dato contesto. La percezione della realtà esterna è sempre influenzata dalle esperienze pregresse dell’individuo, e quindi dalla rappresentazione interna che egli ha del mondo.
La memoria
La memoria è una funzione cognitiva implicata nella conoscenza e può essere definita come la capacità dell’individuo di conservare traccia dell’esperienza passata e di rievocarla, in modo da poterla utilizzare per affrontare situazioni presenti e future. Il concetto di memoria è legato a quello di rappresentazione: attraverso i processi mnestici infatti l’individuo conserva e rievoca rappresentazioni della realtà esterna, acquisendo nuove conoscenze, schemi e quadri interpretativi della realtà.
Si possono distinguere due tipi di memoria: la memoria a breve termine e quella a lungo termine. La memoria a breve termine, a cui appartiene anche la memoria di lavoro, permette di immagazzinare le informazioni necessarie per brevi periodi di tempo, mantenendole attive nell’esecuzione di compiti cognitivi. La memoria a lungo termine invece è una sorta di archivio capace di conservare le informazioni raccolte (le esperienze, le conoscenze acquisite nel tempo) per lunghi periodi di tempo.
La memoria a lungo termine può essere definita dichiarativa o procedurale. La memoria dichiarativa è esplicita e comprende tutto ciò che l’individuo può esprimere e descrivere consapevolmente.
La memoria procedurale, invece, è implicita e si riferisce ad abilità motorie, percettive e cognitive che non richiedono un controllo consapevole da parte dell’individuo e vengono eseguite in maniera automatica.
Gli ambiti della rappresentazione mentale
Molteplici ambiti dell’attività cognitiva si basano sulle abilità di rappresentazione mentale. Nei prossimi paragrafi verranno analizzati i principali domini cognitivi che si fondano su processi rappresentazionali.
Lo schema corporeo
Definizione
Lo schema corporeo può essere definito “la rappresentazione mentale del corpo come entità spaziale, costituita sulle basi cognitive delle sensazioni che provengono dal corpo stesso” (Russo, 2002). Il termine fa riferimento agli aspetti cognitivi legati alla percezione e alla rappresentazione della struttura del corpo, ovvero all’insieme dinamico di informazioni posturali e cinestesiche che sono alla base di ogni movimento e azione, all’immagine visiva della struttura corporea e alla sua collocazione nello spazio.
Alcuni autori distinguono il concetto di schema corporeo da quello di immagine corporea o corporeità. A differenza del primo, l’immagine corporea è legata ad aspetti più personali ed emotivi fondati sui vissuti corporei cui l’individuo ha avuto esperienza. Russo (2002) definisce l’immagine corporea come “la rappresentazione che ognuno ha del proprio corpo permeata e modellata dall’emozionalità che ha arricchito la percezione del proprio corpo”.
Aspetti evolutivi
Il processo di organizzazione dello schema corporeo è graduale e dipende dalle esperienze senso-percettive e psicomotorie che il bambino vive nella relazione con l’ambiente. Si possono identificare quattro tappe principali nello sviluppo dello schema corporeo: il corpo vissuto, il corpo percepito, il corpo rappresentato statico e il corpo rappresentato dinamico (Massenz e Simonetta, 2004).
La fase del corpo vissuto (0-3 anni) si basa sulla prima esperienza motoria del bambino e sulla relazione che si instaura con il caregiver. Attraverso esperienze di aggiustamento all’ambiente, il bambino sviluppa una coerenza tra azione, cognizione ed emozione, che gli permette di crearsi un’immagine di sé.
Alcuni autori (Neisser, 1993; Butterworth, 1995) sostengono che il bambino passi da una consapevolezza primaria (primo anno di vita), derivante dalla percezione sensoriale immediata che lo identifica come unità oggettiva e indipendente a una consapevolezza secondaria (dopo il secondo anno di vita), legata alla capacità di autorappresentazione e autoriflessione, che gli permette di percepirsi come un’entità definita da specifiche qualità fisiche ed emotive. Il passaggio a questa autoconsapevolezza è testimoniato dall’uso che il bambino fa, intorno ai 2 anni, di termini verbali riferiti esplicitamente a sé stesso e dalla sua capacità di riconoscere visivamente la propria immagine allo specchio o nelle fotografie.
Nella fase del corpo percepito (3-6 anni), si stabilisce una connessione tra propriocezione (senso di posizione e movimento dei segmenti corporei) ed esterocezione (sensibilità agli stimoli dell’ambiente esterno). Avviene il passaggio da un livello prassico di consapevolezza corporea, caratteristico della fase precedente, al livello gnosico di questa fase. Il bambino prende coscienza delle diverse parti del corpo e le pone in relazione tra loro. In questo modo giunge alla scoperta degli assi corporei trasversale (sopra e sotto), sagittale (davanti e dietro) e longitudinale (i due lati e, verso i sei anni, destra e sinistra).
Nella fase del corpo rappresentato statico (6-8 anni) mettendo in relazione l’immagine visiva con le informazioni cinestesiche corrispondenti, il bambino sviluppa una rappresentazione mentale del corpo in postura statica. La rappresentazione del proprio corpo viene messa in relazione con lo spazio circostante e acquisisce un orientamento rispetto all’ambiente.
Infine, nella fase del corpo rappresentato dinamico (9-14 anni), le informazioni visive, uditive e cinestesiche si integrano con quelle propriocettive dando vita ad un’immagine dinamica del corpo. Il bambino diventa in grado di rappresentarsi mentalmente il corpo in movimento e le sequenze prassiche.
La spazialità
Definizione dei tre spazi: topologico, proiettivo, euclideo
Parallelamente allo sviluppo dello schema corporeo e delle competenze motorie, il bambino acquisisce una cognizione spaziale sempre più matura e a sua volta indispensabile per l’evoluzione di abilità motorie e cognitive.
Si identificano tre tipi di spazio: topologico, proiettivo ed euclideo. Lo spazio topologico è la prima forma di spazio che viene concepita dal bambino. È la visione più elementare, che comprende le nozioni di vicinanza-lontananza, apertura- chiusura, dentro-fuori e contiguità.
Lo spazio proiettivo comprende rapporti spaziali che variano in base al punto di vista e all’orientamento dell’individuo e degli oggetti nello spazio: davanti- dietro, di lato-di lato dall’altra parte, sinistra-destra, sopra-sotto, tra.
Infine, lo spazio euclideo è definito dai rapporti legati alla misura: alto-basso, grande-piccolo, lungo-corto.
Aspetti evolutivi
Lo sviluppo della competenza spaziale avviene in maniera progressiva e procede su due livelli: percettivo e rappresentativo. Già dai primi mesi di vita il bambino accede allo spazio percettivo, ovvero uno spazio senso-motorio costruito sulla base di esperienze percettive e motorie.
Successivamente, con la comparsa dell’attività rappresentativa mentale, il bambino ha accesso allo spazio rappresentativo: egli riorganizza i dati percettivi e motori e rielabora i rapporti spaziali già acquisiti sul piano senso-motorio portandoli a livello rappresentativo. Si creano modelli interni dello spazio e dei suoi contenuti in forma di vere e proprie mappe cognitive spaziali. Ogni costruzione rappresentativa dello spazio ha sempre inizio a partire da un’esperienza percettivo-motoria.
Sia sul piano percettivo-motorio che su quello rappresentativo, la cognizione spaziale del bambino evolve dal concetto di spazio topologico, a quello di spazio proiettivo, fino allo spazio euclideo.
Nei primi mesi di vita il bambino è già in grado di percepire i rapporti topologici. Lo spazio è vissuto, non rappresentato, e si fonda essenzialmente sulle percezioni tattili. Con l’evoluzione delle abilità visuo-percettive e visuo-motorie il bambino fa sempre più affidamento al sistema percettivo visivo e passa dal riconoscimento tattile dell’oggetto al riconoscimento visivo.
Attorno ai tre anni il bambino accede a una prima forma di spazio rappresentato e quindi all’elaborazione di mappe cognitive spaziali. Si organizzano progressivamente lo spazio proiettivo ed euclideo: il bambino inizia a sviluppare sistemi di riferimento spaziali e a riconoscere le relazioni reciproche tra oggetti e tra oggetto e individuo. Ora egli è in grado di discriminare visivamente le forme e acquisisce le nozioni legate alle dimensioni e alle traiettorie. Lo spazio tuttavia è ancora egocentrico, ovvero strutturato attorno al corpo, che funge da sistema di riferimento spaziale principale: le competenze spaziali si sviluppano grazie alle azioni che l’individuo riferisce al proprio corpo.
Attorno ai sette anni, il bambino assume una consapevolezza maggiore del proprio schema corporeo passando dal “corpo percepito” al “corpo rappresentato”. Parallelamente, sul piano della cognizione spaziale, avviene il passaggio dall’egocentrismo a quello che Piaget chiama decentramento (Massenz, Simonetta, 2004). Il bambino accede allora alla concezione di spazio allocentrico: in questo caso il sistema di riferimento non corrisponde più al corpo dell’individuo, ma è esterno ad esso. Operando sul piano cognitivo-rappresentativo il soggetto è in grado di effettuare un decentramento del suo punto di vista. Il bambino accede mentalmente alla realtà proiettiva: è in grado di comprendere l’esistenza di più punti di vista complementari rispetto a uno stesso oggetto e di rappresentarsi l’oggetto secondo prospettive diverse.
Le abilità visuo-spaziali
Al dominio spaziale appartiene la grande categoria delle abilità visuo- spaziali: funzioni non verbali che guidano l’individuo nel movimento e nell’interazione con la realtà circostante e permettono di operare sulle rappresentazioni mentali dello spazio in maniera funzionale all’azione.
Cornoldi e Vecchi (2003) propongono un’analisi delle diverse abilità visuo- spaziali evidenziandone la funzione:
- L’esplorazione visuo-spaziale permette il corretto orientamento del sistema percettivo visivo verso gli stimoli ambientali significativi che, una volta elaborati, vengono “compresi”, ovvero riconosciuti per le loro caratteristiche fisiche e la loro localizzazione nello spazio.
- La percezione spaziale permette il riconoscimento delle relazioni spaziali tra lo stimolo e l’individuo e tra gli stimoli tra loro.
- L’orientamento spaziale permette all’individuo di muoversi in uno spazio generico attraverso la percezione e la rievocazione di specifiche disposizioni spaziali.
- Il pensiero spaziale permette la creazione di immagini mentali degli stimoli percepiti visivamente e consente di agire su un piano puramente rappresentativo per effettuare operazioni spaziali su di esse (es. rotazioni, traslazioni, cambi di prospettiva).
- La memoria di lavoro visuo-spaziale permette l’elaborazione e il mantenimento delle informazioni visive e spaziali. È indispensabile nella creazione delle rappresentazioni spaziali, nell’orientamento e negli spostamenti finalizzati nello spazio.
- Le abilità visuo-costruttive sono alla base di tutti i compiti di riproduzione di modelli bi- e tri- dimensionali e delle abilità rappresentative in generale, grafiche o costruttive (Sabbadini, 2008). Esse richiedono innanzitutto un’analisi visiva accurata del modello e dei rapporti tra gli elementi che lo compongono e, in secondo luogo, l’elaborazione di un piano costruttivo efficace per la sua riproduzione.
La temporalità
Definizione e aree della temporalità
A differenza dello spazio, il tempo non è direttamente percepibile attraverso i sensi; ciò che viene percepito è dato dai movimenti e dalle azioni con le loro velocità e i loro risultati. La relazione esistente tra il tempo e l'azione può essere paragonabile a quella presente tra lo spazio e gli oggetti (Piaget, 1973).
Wille e Ambrosini (2008) distinguono tre aree della temporalità: l’espressione, la percezione e la rappresentazione.
L’espressione del tempo include i sincronismi acustico-motori spontanei e intenzionali: tutti quei movimenti, automatici, spontanei o consapevoli e controllati associati a strutture ritmiche (battito cardiaco, cammino, battito delle mani, movimenti che seguono un ritmo musicale).
La percezione del tempo si riferisce al “tempo fisiologico”, ovvero il tempo vissuto attraverso esperienze corporee e percepito in maniera più o meno cosciente, grazie all’elaborazione di informazioni acustiche, motorie e verbali.
Infine, la rappresentazione del tempo rende possibile la misurazione delle durate, il riconoscimento delle relazioni temporali tra eventi, azioni e suoni e la rappresentazione di questi aspetti del tempo attraverso l’uso di simboli (es. linguaggio matematico e musicale).
Aspetti evolutivi
Friedman (1990) compie degli studi sullo sviluppo della cognizione temporale durante l’infanzia e in particolare tratta di come avviene nel bambino l’acquisizione dei concetti convenzionali di tempo (ore, giorni, mesi, anni, ecc.).
L’autore afferma che in età prescolare il bambino non è ancora consapevole del sistema di tempo convenzionale, ma inizia a riconoscere alcune regolarità temporali (es. nelle routine quotidiane). In questo periodo, i bambini sono in grado di imparare i nomi di alcuni elementi del sistema di tempo convenzionale (i giorni della settimana, i mesi, ecc.), ma l’aspetto linguistico è ancora slegato da quello puramente temporale e il bambino non è in grado di operare su questi elementi e porli in relazione tra loro. Sono possibili solo rappresentazioni temporali di tipo non convenzionale, come riconoscere un prima e un dopo nelle attività di routine giornaliere.
Tra i sei e gli otto anni il bambino assume una consapevolezza riguardo al concetto di tempo annuale e impara la successione delle ore, dei giorni, dei mesi e delle stagioni, associandoli coerentemente a eventi significativi. Tuttavia non è ancora possibile coordinare tra loro i diversi sottosistemi temporali convenzionali (giorni, mesi, stagioni, ecc.), che inizialmente vengono concepiti come strutture parallele.
Solo verso gli otto-nove anni i sottosistemi di tempo convenzionale si coordinano con il tempo logico e il bambino sarà in grado di utilizzare il sistema convenzionale per misurare gli intervalli temporali.
L’organizzazione prassica
Definizione e classificazioni
Il termine “prassia” deriva dal greco praxia (= fare) e descrive un movimento intenzionale non automatizzato finalizzato a raggiungere uno scopo (Piaget, 1968).
Non si tratta di semplici movimenti, ma di azioni, cioè movimenti programmati e finalizzati. L’attività prassica è direttamente correlata alla dimensione della rappresentazione mentale, in quanto implica l’attivazione di processi di pianificazione e programmazione. Questo legame è ben esplicitato nella definizione di Berti e colleghi, secondo cui “l’azione […] è già una rappresentazione in quanto sempre al di là di sé stessa, orientata al futuro: essa è la previsione, l’anticipazione, cioè la rappresentazione di uno stato futuro possibile” (Berti, Comunello e Savini, 2001).
Wille e Ambrosini (2008) evidenziano l’aspetto di inseparabilità tra azione e conoscenza, riferendosi a prattognosie. Secondo gli autori, l’attività prassica implica “l’uso della conoscenza degli oggetti”: gesto e movimento vengono adattati alle caratteristiche fisiche degli oggetti in base al progetto d’azione elaborato. Tra i compiti prassici rientrano l’esecuzione di un ordine verbale, la vista di un oggetto e l’azione su di esso, l’imitazione di un gesto, la simulazione di un gesto (fare finta) e la rappresentazione interna di un gesto.
L’attività prassica presuppone l’attivazione da parte del soggetto di processi di anticipazione, l’individuo esegue un “modellamento interno del futuro” (Lurja, 1976), operando sulle rappresentazioni mentali della realtà.
Possono essere distinte tre componenti principali dell’atto prassico: ideazione, programmazione ed esecuzione.
La componente ideativa prevede l’elaborazione del progetto: individuazione dello scopo e rappresentazione interna del movimento e del materiale necessario per raggiungerlo.
La componente di programmazione consiste nell’elaborazione del programma: previsione degli schemi d’azione da svolgere per raggiungere lo scopo, ordinati secondo rapporti di simultaneità o sequenzialità.
Infine, la componente strumentale si riferisce all’aspetto esecutivo della prassia: controllo delle componenti di velocità, forza e direzione del gesto che ne determinano la qualità (Ferretti, Rampoldi e Pietrosanti, 2012).
Le prassie possono essere suddivise in quattro categorie principali: le prassie ideative, ideomotorie, visuo-costruttive e oro-facciali.
Le prassie ideative consistono in azioni senza oggetto e implicano l’elaborazione del concetto di azione: l’individuo è in grado di rappresentarsi mentalmente l’azione e di metterla in atto.
Le prassie ideomotorie si riferiscono alle azioni con gli oggetti, come le prassie dell’abbigliamento (vestirsi, svestirsi) o quelle grafo-motorie (utilizzo dello strumento grafico).
Le prassie visuo-costruttive sono implicate nella copia di modelli, grafici o con oggetti, (es. copiare un disegno o una costruzione) e richiedono un’analisi visiva dettagliata delle relazioni spaziali tra gli elementi del modello.
Le prassie oro-facciali infine comprendono le prassie oro-bucco-linguali, le prassie di sguardo e le prassie verbali implicate nell’articolazione della parola.
Aspetti evolutivi
Dal punto di vista evolutivo il bambino matura nel corso dello sviluppo nuove modalità di apprendimento e passa dalla sperimentazione per prove ed errori all’elaborazione di programmi e schemi rappresentativi che guidano l’azione.
Nei primi anni di vita il bambino è in grado di gestire un solo schema d’azione alla volta (ad esempio, inserire una formina nell’apposito spazio), collegando semplici movimenti secondo sequenze lineari. In questo periodo le prassie consistono in gesti semplici, in cui la componente rappresentativa è stimolata dalle caratteristiche percettive dell’oggetto.
Tra i due anni e mezzo e i quattro avviene un’importante evoluzione delle abilità di programmazione. Il bambino diventa in grado di coordinare tra loro più schemi d’azione, di manipolarli in maniera sempre più flessibile e di organizzarli secondo rapporti di sequenzialità o simultaneità, prevedendo mentalmente i risultati delle proprie azioni (ad esempio, chiudere uno zaino allacciando le fibbie).
Tuttavia, le componenti dell’atto prassico (ideazione, programmazione ed esecuzione) sono ancora spesso sovrapposte temporalmente.
Progressivamente, oltre agli aspetti di pianificazione, evolvono anche le abilità esecutive, per cui il bambino diventa sempre più preciso e fluido nel movimento. Verso i 5-6 anni, il bambino ha acquisito un repertorio motorio ampio e vario ed è in grado di affrontare compiti nuovi e insoliti, anticipandone mentalmente la risoluzione e organizzando programmi d’azione complessi. Ora le fasi di ideazione, programmazione ed esecuzione prassica possono essere differenziate sia sul piano concettuale che su quello temporale.
Il linguaggio
Definizione
Un altro ambito cognitivo legato alla rappresentazione mentale è il linguaggio verbale. Il linguaggio è la facoltà che permette all’uomo di esprimersi e comunicare usando un codice convenzionale, ovvero un sistema condiviso di simboli. Nel caso del linguaggio verbale, il codice utilizzato consiste in un insieme di suoni articolati, organizzati in parole.
Come è stato già accennato nel capitolo precedente, Piaget considera il linguaggio come una delle principali manifestazioni dell’attività rappresentativa, in quanto implica la capacità di utilizzare schemi verbali per riferirsi a realtà assenti (non percepite in quel dato momento), che egli si rappresenta mentalmente (Camaioni e Di Blasio, 2007).
Bickel (2007), a sua volta, sottolinea il legame tra linguaggio e rappresentazione e definisce il linguaggio come “la capacità tipicamente umana di costruire rapporti semantici fra il pensiero e un codice convenzionale che, mettendo in forma udibile o visibile i contenuti mentali, consente di renderli pubblici ed espliciti, di metterli in comune o, come si suol dire, di comunicarli”.
Aspetti evolutivi
Lo sviluppo linguistico dei primi anni di vita del bambino presenta caratteristiche individualmente molto variabili. In genere, la comprensione precede la produzione, infatti il bambino all’inizio comprende più parole di quante ne produce.
Il bambino passa dalla comprensione delle prime parole (intorno ai 10 mesi), alla comprensione di brevi frasi contestuali e di ordini semplici (18-24 mesi), fino ad arrivare a comprendere frasi riferite a contesti esterni familiari (attorno ai 3 anni) e, verso i 5 anni, frasi più complesse, sia in forma attiva che passiva, anche riferite a contesti esterni meno familiari.
Per quanto riguarda la produzione invece, la comparsa delle prime parole si colloca in genere tra gli 11 e i 13 mesi di età. In questo periodo la parola è usata dal bambino in maniera non referenziale, ciò vuol dire che è legata a contesti specifici e ritualizzati.
In una fase successiva, il cosiddetto periodo olofrastico (in genere tra i 16 e i 18 mesi), il bambino amplia notevolmente il suo vocabolario. A differenza del periodo precedente, ora la parola assume uno status propriamente simbolico e viene utilizzata in maniera referenziale. Il bambino comprende il carattere convenzionale della relazione tra parola e significato ed è in grado di usare una stessa parola in situazioni differenti, decontestualizzandola.
In genere, tra i 18 e i 24 mesi, il vocabolario si amplia molto (in media supera i 50 termini) e si arricchisce di un numero crescente di verbi, aggettivi e parole con funzioni grammaticali; contemporaneamente il bambino inizia combinare due o tre parole tra loro (strutture di-rematiche e tri-rematiche).
Tra i due e tre anni, le frasi diventano più complesse, il bambino utilizza correttamente i pronomi (io, tu, me e te) e le congiunzioni (e, ma, perché) ed è in grado di generalizzare le regole grammaticali.
Tra i tre e i cinque, il bambino è in grado di rispondere coerentemente a domande di specificazione utilizzando il sì e il no; pone lui stesso numerose domande, chiedendo all’adulto di ripetere un’espressione non compresa o di conoscere il significato di parole nuove e ripete il proprio messaggio quando non viene capito. Dal punto di vista grammaticale, ora il bambino introduce modifiche morfologiche alle parole, passando dal singolare al plurale e dal maschile al femminile.
Il processo di categorizzazione
Alla base del linguaggio vi è la capacità di categorizzare la realtà, cioè di raggruppare oggetti, eventi e persone in base a criteri di somiglianza. Il processo di categorizzazione è l’esempio che dimostra come l’attività cognitiva si avvalga di sistemi rappresentazionali.
Affinché oggetti diversi e unici vengano riuniti in una stessa categoria (ad esempio “cavallo” e “mucca” sotto la classe di “animali”), è necessario che il soggetto abbia elaborato una rappresentazione cognitiva più astratta di questi elementi: il concetto. Il concetto è una rappresentazione mentale che definisce la modalità secondo cui gli elementi di una stessa classe sono correlati tra loro: perché rientrano nella stessa categorizzazione, che cosa hanno in comune. Poiché ogni oggetto è definito da più caratteristiche, esiste un’ampia varietà di concetti con cui poterlo categorizzare in molteplici modi diversi (McShane, 1991).
Esistono teorie differenti sulla modalità con cui i bambini categorizzano gli elementi del reale. Secondo l’ipotesi di Nelson (1974), il bambino utilizza due modalità principali di categorizzazione: una modalità percettiva, basata su somiglianze percettive tra gli elementi (colore, forma, dimensione, materiale, ecc.), e una modalità funzionale, basata su somiglianze funzionali tra gli elementi, legate al loro uso e alle loro proprietà dinamiche. Secondo l’autrice, poiché inizialmente il bambino conosce gli oggetti “agendoli” e quindi compiendo azioni con o su di essi, anche nel processo di categorizzazione egli tende a passare da una modalità funzionale a una modalità percettiva (Benelli et al., 1980).
La costruzione del sistema semantico prevede un’evoluzione dei livelli di generalità delle categorizzazioni. Si passa da un livello-base di generalità nella nominazione-categorizzazione degli oggetti all’acquisizione di nomi-categorie più specifici e di nomi-categorie più generali e astratti (Rosch et al., 1976). Ad esempio, a 2-3 anni il bambino utilizza la parola “albero” (livello-base), ma non sa ancora distinguere una “quercia” da un “pino” (categorie specifiche), così come non usa la parola “pianta” (categoria generale) per identificare sia gli alberi che i fiori (Camaioni e Di Blasio, 2007).
Tra i 6 e gli 8 anni, il bambino è in grado di fornire semplici definizioni delle parole, utilizzando la categoria generale di appartenenza dell’elemento e descrivendone le caratteristiche specifiche (ad esempio, “il gatto è un animale a quattro zampe”). A 7-8 anni, il bambino definisce gli oggetti in maniera più articolata, tenendo conto dei suoi molteplici aspetti.
La competenza narrativa
La narrazione è un’abilità complessa, ma rappresenta un aspetto molto importante dell’attività cognitiva dell’individuo, in quanto permette l’organizzazione dell’esperienza.
L’abilità narrativa si fonda su una serie di competenze sia linguistiche sia cognitive. Oltre alla formulazione di enunciati verbali corretti, narrare implica la capacità di organizzare una serie di eventi in sequenza, in base alle relazioni logiche e temporali che intercorrono tra gli eventi.
Si possono distinguere diverse forme di narrazione in base alla forma e ai contenuti. La narrazione di azioni abituali consiste nella descrizione di sequenze di azioni, che definiscono una situazione abituale, ordinate cronologicamente e può essere considerata come la verbalizzazione degli script mentali del soggetto.
La narrazione di esperienze personali è il racconto basato sul ricordo di un episodio specifico vissuto personalmente; non è necessariamente descritto rispettando l’ordine cronologico degli eventi e in genere mette in luce il momento più significativo per il soggetto.
La narrazione di storie di fantasia, infine, consiste nell’utilizzo di un linguaggio altamente decontestualizzato per il racconto di personaggi, azioni e luoghi, inventati e inseriti in sequenze coerenti sul piano logico-temporale.
La competenza narrativa si sviluppa precocemente e dipende molto dalle esperienze e dagli stimoli cui viene esposto il bambino fin dai primi anni di vita (ad esempio, lettura di libretti). Già verso i 2 anni, il bambino può formulare semplici frasi di poche parole per ricostruire gli episodi accaduti durante il giorno, mentre tra i 2 e 3 anni egli racconta un episodio significativo avvenuto in un passato recente.
Verso i 4 anni, il bambino ha la possibilità di slegarsi dall’esperienza individuale e inizia a raccontare semplici storie di fantasia che ha già sentito raccontare. Il racconto non assume ancora la struttura tipica della storia di fantasia, gli episodi sono riportati in maniera incompleta e la narrazione consiste essenzialmente nella descrizione di una serie di azioni messe in sequenza secondo relazioni temporali (Peterson e Mc Cabe, 1983).
A partire dai 5 anni, le storie di fantasia assumono una forma più articolata. Il bambino è in grado di descrivere i personaggi e il contesto, di inserire nella storia una situazione problematica raccontando i tentativi svolti dai personaggi per risolverla e dare una conclusione alla storia.
Verso gli 8 anni, le storie diventano sempre più complesse e articolate e possono comprendere più episodi. Il bambino utilizza il linguaggio in maniera più elaborata facendo riferimento agli scopi, alle motivazioni ed alle emozi oni dei personaggi.
Metacognizione e teoria della mente
Definizione
Con il termine “metacognizione” si intende la riflessione che l’individuo è in grado di compiere sui propri processi cognitivi, sulla loro natura e sulle loro modalità di funzionamento. La metacognizione si colloca a un livello di attività psichica superiore in quanto rende il soggetto consapevole delle proprie funzioni psichiche, quali la conoscenza e la rappresentazione (Baldi, 2004).
Secondo Brown (1987), la metacognizione possiede un duplice significato: da una parte si riferisce alle conoscenze sulle caratteristiche della mente propria e altrui (metaconoscenza; Flavell, 1976); dall’altra al controllo consapevole sulle proprie funzioni cognitive (autoregolazione; Brown, 1974).
In questo capitolo verrà analizzato solo l’aspetto della metaconoscenza, di maggiore pertinenza rispetto al presente lavoro di tesi.
Il termine “metaconoscenza” fa riferimento sia alle conoscenze generali sul funzionamento della mente, sia alla consapevolezza che l’individuo possiede su quanto sta accadendo nella sua mente (processi e strategie attivati) durante un’attività cognitiva.
Alcuni autori parlano di “teoria della mente” per intendere la capacità del soggetto di riconoscere e attribuire stati mentali a sé e agli altri (Premack e Woodruff, 1978). La teoria della mente permette all’individuo di sviluppare relazioni sociali basate sulla comprensione reciproca, dando significatività ai rapporti umani.
La teoria parte dal presupposto secondo cui le emozioni e gli stati fisiologici generano i desideri, mentre le percezioni e le sensazioni generano le credenze. Desideri e credenze sono gli stati mentali chiave della teoria della mente in quanto da questi dipendono sia le azioni che le reazioni emotive del soggetto (Camaioni e Di Blasio, 2004).
Aspetti evolutivi
Secondo Wellman (1991), lo stato mentale di desiderio è più semplice di quello di credenza. Il primo implica l’attribuzione all’altro di uno stato mentale diretto verso un elemento esterno (“lei vuole un gelato”), la seconda invece prevede l’attribuzione alla persona di una metarappresentazione (“lei pensa che questo sia un gelato”).
La teoria della mente inizia a svilupparsi precocemente. A 2 anni il bambino ragiona secondo la cosiddetta “psicologia del desiderio”: egli interpreta le azioni e le reazioni emotive (proprie e altrui) sulla base dei desideri e del loro eventuale soddisfacimento.
Verso i 3 anni la teoria della mente del bambino diventa più evoluta e assume i caratteri della cosiddetta “psicologia della credenza-desiderio”: il bambino comprende che le azioni di una persona possono essere guidate sia dai suoi desideri che dalle sue credenze (“apro una scatola perché credo che ci sia dentro qualcosa”). A quest’età il bambino fa coincidere il reale con la propria percezione e rappresentazione del reale e non riconosce la possibilità che il proprio punto di vista differisca da quello dell’altro.
Solo verso i 4 anni il bambino inizia a comprendere il concetto di falsa credenza, secondo cui le azioni possono anche essere guidate da credenze sbagliate (“apro una scatola perché credo che ci sia dentro qualcosa, anche se dentro non c’è nulla”). Il raggiungimento di tale consapevolezza permette al bambino di distinguere la realtà dalla credenza e quindi lo stato di cose dalla rappresentazione mentale.
Negli anni successivi, la teoria della mente evolve ulteriormente rendendo possibile al soggetto di comprendere le false credenze di secondo ordine (a partire dai 7-8 anni, “lui crede che lei crede che…”) e di ordini superiori e altre forme di comunicazione più ambigue quali l’ironia (Camaioni e Di Blasio, 2004).
Il gioco simbolico
Definizione
Con la comparsa dell’attività rappresentativa, verso i 2 anni di vita, il bambino necessita sempre meno di oggetti realistici per giocare e compare il piacere della trasformazione e della finzione, caratteristiche del gioco simbolico.
Nel gioco simbolico “gli oggetti sono considerati non solo per ciò che sono, ma anche come simboli di oggetti non presenti” (Galimberti, 1994). Qualsiasi cosa può assumere molteplici funzioni ed essere usata in più modi diversi, per cui una scatola può diventare una tana e una macchinina si può trasformare in un telefono. Attraverso il gioco simbolico vengono rappresentate realtà non attuali, cariche degli aspetti emotivi del bambino; possono essere rievocate esperienze passate, immaginate situazioni nuove che fanno emergere i desideri dell’individuo o evocate realtà alternative caratterizzate da elementi di fantasia.
Aspetti evolutivi
Il gioco simbolico appare attorno al secondo anno di vita. Tuttavia è possibile osservare una progressiva evoluzione, a partire già dai 12 mesi di vita, con il gioco cosiddetto di imitazione, definito da alcuni autori “protosimbolico”, che conduce poi allo sviluppo del gioco simbolico propriamente detto.
Attorno ai 12 mesi alcuni bambini iniziano a svolgere una singola azione simbolica che riprende attività di vita quotidiana, come bere da una tazzina vuota. L’azione può essere autodiretta (il bambino beve) o rivolta verso l’altro (il bambino dà da bere a un’altra persona o a un pupazzo). Successivamente sarà possibile la combinazione di più azioni simboliche, come girare il cucchiaino nella tazzina, bere e dare da bere al pupazzo.
Con la comparsa dell’oggetto neutro, a partire dai 2 anni circa, si può definire il gioco simbolico vero e proprio: l’oggetto viene utilizzato “come se” fosse qualcos’altro.
Dalla semplice combinazione di più azioni il gioco evolve, verso i 3 anni, a gioco narrativo, in cui si struttura un vero e proprio copione con sequenze narrative legate a un tema di gioco. Attraverso il linguaggio il soggetto descrive e anticipa gli eventi della trama ludica.
Dai 5 anni il gioco simbolico si slega sempre di più dagli eventi di vita vissuti e diventa gioco di fantasia. Il bambino inventa storie di fantasia, di cui diventa il protagonista. Aumenta l’utilizzo del linguaggio per descrivere azioni proprie e altrui ed esprimere i desideri e gli stati d’animo dei personaggi.
Con il tempo il bambino sarà in grado di strutturare trame sempre più complesse e variabili, di assumere ruoli differenti nella storia, di rispettare la sequenzialità logico-temporale e di immettere attraverso il linguaggio elementi non presenti.
Indice |
INTRODUZIONE |
Prima parte - Riferimenti Teorici
Seconda parte – Contributo Clinico |
COMPARAZIONE E DISCUSSIONE DEI RISULTATI DELLA VALUTAZIONE |
CONCLUSIONI |
BIBLIOGRAFIA |
Scheda di osservazione delle abilità rappresentative |
Tesi di Laurea di: Alice FRISCIONE |