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I primi due mesi - Il pianto, primo dialogo; Il seno e la fame - Neurobiologia dell’onnipotenza infantile

L’illusione di essere onnipotente

I primi due mesi: abbozzo d’ordine dal caos e onnipotenza

Come ha definito Sander1, il compito primario di un datore di cure nei primi due mesi di vita è di regolare e stabilizzare i cicli sonno-veglia, fame-sazietà, giorno-notte (regolazione fisiologica o, come dice Greenspan, omeostasi). Generalmente i genitori, ai compiti primari di nutrire, addormentare, regolare i ritmi affiancano comportamenti quali cullare, calmare, parlare, cantare, fare rumori e smorfie. Tali comportamenti, definiti “sociali” da Stern, sono certamente a servizio di una regolazione fisiologica del bambino, ma implicano - spesso senza che i genitori se ne accorgano - lo stabilirsi di una relazione interpersonale. Si parla di relazione perché i comportamenti messi in atto da uno sono nello stesso tempo risposta e spunto per i comportamenti dell’altro. E’ vero, infatti, che anche piangere, strillare, sorridere, guardare, hanno nel bambino una natura prevalentemente sociale. Già dai mesi di gravidanza s’instaura tra madre e figlio uno scambio di informazioni, un dialogo che nel corso della crescita subisce necessari cambiamenti.

Le teorie cliniche dominanti presentano il bambino come un essere indifferenziato, che può giungere a differenziare il sé e l’altro solo dopo un lungo e lento processo della durata di due anni. In particolare si ricorda la teoria psicanalitica dello sviluppo di M. Mahler secondo cui ad una fase autistica iniziale (da 0 a 2 mesi) seguono un periodo di simbiosi normale con la madre (dai 2 ai 9 mesi) ed un processo di separazione – individuazione attraverso il quale il bambino acquisisce il senso del sé e dell’altro (da 9 mesi a 2 anni). Ciò che i risultati della ricerca più attuale sull’infanzia2  contestano a queste teorie, generalmente accettate, è la dilatazione così accentuata del processo d’acquisizione di un senso integrato di sé e dell’altro e l’ammissione di stati fusionali o simbiotici precedenti alla formazione del senso di sé.

Se infatti il bambino viene considerato capace di sviluppare un senso integrato di sé, e quindi dell’altro, già dai primi mesi di vita (da 2 a 7 mesi), le prospettive evolutive vengono rivoluzionate: prima ci sarà la formazione di un sé e di un altro cui solo dopo potrà seguire la creazione di un mondo interpersonale e l’accesso ad esperienze fusionali. Bisogna tuttavia fare un passo indietro perché non è scontata la formazione di un senso integrato di sé. Cosa succede, infatti, nei primi due mesi di vita? Cosa sperimenta un neonato in questo periodo?

Si provi ad immaginare di essere un neonato, mettersi nei suoi panni. Sembra che le esperienze da lui vissute non siano collegate tra loro e debbano via via essere integrate entro una prospettiva che le abbracci tutte. Gli stati di malessere fisico e psichico, il pianto col relativo accorrere materno, i sorrisi, gli sguardi, i vocalizzi cui la madre risponde quasi come eco, sono esperienze che probabilmente il bambino sperimenta come chiare e vivide, ma una distinta dall’altra, prive di quel collegamento che permetterebbe di ordinarle, associarle e congiungere. Ma è proprio l’emergere di un’organizzazione (senso di un sé emergente1 con le parole di Stern) che viene appresa dal bambino in questi primi mesi, cioè quali relazioni sussistano tra le varie esperienze sensoriali da lui provate.

Se si parla dall’ampia prospettiva di un adulto, si può facilmente immaginare cosa siano la non-organizzazione, il caos, la confusione, l’indifferenziazione, ma dal punto di vista di un bambino questo non è possibile poiché “i bambini non possono sapere ciò che non sanno, né sapere che non sanno” (Stern). E’ dunque sbagliato attribuire all’esperienza soggettiva del bambino lo stato d’indifferenziazione ma questo, a mio parere, non significa che esso non esista. Per chiarire meglio farò un esempio.

Quando si è alle prese con la stesura di una tesi, s’iniziano a leggere libri; spesso non si aspetta di finirne uno, ma se ne incomincia un altro o due o tre e si cercano informazioni utili. Si passa un momento in cui, nonostante la presenza di un pensiero iniziale, sembra regnare solo il caos: le informazioni sono tante e diverse e i collegamenti tra esse, soprattutto all’inizio, paiono assenti. Succede però che, improvvisamente, si capisca un collegamento tra teorie e pensieri diversi, ed è proprio questo ad essere notato e a segnare l’inizio di un’organizzazione dello scritto. Via via che si procede si sperimenta un sempre maggior ordine ma questo non significa che la confusione, il caos, l’assenza di collegamenti e l’indifferenziazione non ci siano stati. A differenza di quanto succede ad un neonato però, si può dire – e chi ne ha fatto esperienza lo può confermare – che uno studente alle prese con la visione del materiale di tesi faccia senza dubbio un’esperienza soggettiva del caos e questo accade per un semplice motivo: lo studente ha già sperimentato nel corso della vita cosa significhi ordine, differenziazione, collegamenti e quindi ha gli strumenti per riconoscerne l’assenza. Il neonato No.

Si può quindi concludere, secondo questo ragionamento, che durante i primi mesi di vita esista un’indifferenziazione di cui però il neonato non può rendersi conto. Ora, mi chiedo se esista un nesso tra questo stato indifferenziato e il senso di onnipotenza di cui spesso si è sentito parlare a proposito dell’iniziale relazione madre-bambino. Partiamo da una considerazione banale: essere onnipotente equivale a “potere tutto” e generalmente questo è attribuito a Dio. Può quindi sembrar strano che si usi quest’espressione riferendosi ad un essere umano, per di più un neonato totalmente dipendente dalle cure di qualcun altro per sopravvivere. Vedremo invece quanto questo senso d’onnipotenza sia presente all’inizio di una relazione tra madre e bambino, non solo in riferimento al bambino, ma anche alla madre, e quanto questa “illusione iniziale” – perché d’illusione si tratta – venga pian piano smentita a favore di un senso di realtà e quindi di sé e dell’altro.

Si diceva “potere tutto”; bene. Qual è il “tutto” di un neonato? Se esso si trova in uno stato indifferenziato, non esiste per lui una visione unitaria, per così dire “da lontano”, della realtà che sperimenta, però dal suo punto di vista ogni singola sensazione, ogni singola percezione… è esperita ogni volta come realtà globale. Un neonato non può rendersi conto di essere a 10 cm di distanza dal volto materno che interagisce con lui, in quel momento la sua realtà è il viso animato della mamma e non è per lui possibile - giacché troppo vicino e ancora indifferenziato - legare quel volto alle altre parti del corpo materno per creare una mamma intera. Così il tutto del neonato una volta sarà il viso materno che emette strani vocalizzi (a lui familiari…), sorride e lo guarda, un’altra volta sarà quella sensazione di malessere che lo fa piangere e che improvvisamente fa apparire la madre, un’altra ancora sarà il seno che lo nutre nel momento in cui si presenta la fame. Non essendoci ancora legami tra le varie esperienze, se il neonato, come succede nel primo periodo, sperimenterà una corrispondenza temporale tra bisogno (emotivo, comunicativo, fisiologico) e risposta materna (che tra l’altro spesso arriva prima che il bisogno sia chiaramente espresso), allora il piccolo sentirà d’essere onnipotente, vale a dire di potere tutto (la singola esperienza è ancora il suo tutto), perché il suo bisogno diverrà creatore1 della risposta che necessita.

 

Il pianto: primo dialogo

Alla nascita il pianto del bambino è un grido che dimostra che egli è vivo, è il necessario passaggio per iniziare a respirare; i polmoni si dilatano e l’ossigeno percorre le vie aeree. Cosa accade nelle ore, nei giorni e mesi successivi? Cosa comunica un neonato con il pianto? Bisogni vitali -fame, sonno.- malesseri, ma anche emozioni intense, a volte violente, che potrebbero far apparire il pianto come “immotivato”, ma che all’occhio esperto di una mamma risuonano come richiamo talora disperato o triste, talora rabbioso o sconsolato, cui prontamente dare risposta. Nutrire, vestire, pulire, ma anche consolare, calmare, cullare, coccolare; perché se un neonato piange c’è sempre un motivo. Come afferma Silvia Vegetti Finzi1, psicologa clinica all’Università di Pavia, la comparsa di una figura materna, in risposta al pianto, è necessaria al bambino per ricostituire la fiducia di base, per sentirsi capace di vivere. Inoltre si pensa che per un certo periodo il neonato sarà convinto che è stato proprio il suo pianto a far materializzare la madre e si sentirà onnipotente. E’ un’illusione certo, ma è necessaria, soprattutto all’inizio, quando ancora fa fatica a mettere ordine tra gli stimoli che percepisce e si trova a dover affrontare – con parole di Stern – “la costruzione di un senso emergente del sé e dell’altro”, a partire dal caos e dalla mancanza di relazione tra le esperienze.

Quali carte ha in mano un bambino di quest’età? Sicuramente il retroterra di contatto viscerale con la madre, con la stimolazione sensoriale quieta e appagante che esso provoca, e poi, dopo la nascita, tutti quegli stimoli interni ed esterni che, se non del tutto nuovi, probabilmente appaiono deformati, amplificati e provocano reazioni d’angoscia e smarrimento che attraverso il pianto cercano risposta. Una risposta ottenuta grazie ad una madre “sintonizzata” o “sufficientemente buona” (come direbbe Winnicott) che, nell’ottica di una relazione creatasi già nei nove mesi precedenti, percepisce il pianto come una domanda, non precisa e circostanziata2, a cui non può che rispondere adeguatamente. Ed è questo “adeguatamente” a fare la differenza,  a dare al neonato la percezione di aver il potere di ottenere quello di cui ha bisogno, nel momento in cui lo vuole (tutto subito, onnipotenza) attraverso il mezzo più diretto che ha per il momento, appunto il pianto. Probabilmente è inscritto nei nove mesi di vita intrauterina, ma resta in parte un mistero come la madre riesca a dare risposte adeguate, interpretando il bisogno del figlio ancora prima che egli lo abbia espresso in modo chiaro. Perché è proprio questo che succede: interpretazione di un bisogno (fisiologico, emotivo o entrambi) e relativa risposta ancor prima che il bisogno stesso sia emerso dal malessere generale. La Finzi dice a proposito: “La loro voce esprime qualcosa di confuso, un’inquietudine diffusa, che prende forma, almeno inizialmente, dalla risposta che ricevono”. Attraverso l’interpretazione la madre mette ordine e permette così al bisogno immaturo del figlio di assumere una forma, o meglio la forma, quella che esattamente corrisponde con ciò che dal bambino voleva essere espresso.

  • D. Siegel considera la capacità di sintonizzazione empatica una caratteristica propria delle menti umane, uniche in grado di riconoscere i segnali non verbali trasmessi da altri e rivelatori di aspetti dei loro stati della mente. Grazie a ciò i genitori possono percepire i bisogni dei loro figli e permettere loro di sentirsi compresi, di amplificare gli stati emozionali positivi, di controllare quelli negativi e di sviluppare via via capacità di autoregolazione.1

Vediamo cosa accade in particolare quando il pianto si riferisce al bisogno di essere nutrito.

 

Il seno e la fame

Un malessere interno e confuso porta il bambino a contorcersi piangendo, la madre accorre e dice “hai fame eh?” e gli porge il seno. Episodio abbastanza familiare nei primi mesi di vita: una madre che risponde subito (a volte “prima di subito”) e un bambino che ottiene tutto all’istante attraverso il tocco magico del pianto. E’ automatico per il piccolo: “Se sto male basta piangere che qualcosa di buono succede immediatamente”; ed è automatico per la madre: “Posso dargli tutto, subito”2 - onnipotenza materna.

Alcuni pensano che quest’esperienza del seno, come qualsiasi altra risposta immediata materna, porti il bambino a pensare come proprie quelle parti del corpo (seno, viso amorevole, braccia avvolgenti…) che la madre utilizza nel rispondergli e che a lui sembra di creare piangendo3. Ritengo tuttavia che non sia così importante chiarire se il bambino percepisca come sue quelle parti o se viceversa le esperisca come realmente sono, cioè esterne a sé. E’, infatti, l’assenza dell’attesa (cioè la risposta immediata) a fargli sperimentare il suo (omni)potere su chi gli sta attorno.

Proviamo ora a capire cosa accade tra madre e figlio durante l’allattamento al seno e perché esso sia così importante. Non si vuole con questo sminuire l’allattamento artificiale, a volte necessario, ma solamente dar credito alla forma più naturale e auspicabile di nutrizione per un neonato. Se si ha avuto la fortuna di osservare una madre che allatta suo figlio (o di aver fatto esperienza personalmente per chi già è madre) non sarà difficile essere d’accordo con chi afferma1  che nell’allattamento “esista un legame così intenso e impenetrabile tra i due che chiunque possa sentirsene escluso”. Si crea una perfetta simmetria: alla voracità del piccolo, al suo bisogno di colmare il vuoto della fame, corrisponde il desiderio materno di svuotare il proprio seno per nutrire il bambino. Tra i due si crea un dialogo silenzioso fatto di linguaggio corporeo e sguardo: il bambino è avvinto agli occhi della madre e la guarda senza sosta, quasi fosse legato a lei da un incantesimo e d’altra parte la mamma rimane con lo sguardo assorto nel figlio e nelle emozioni che egli suscita in lei per tutto il tempo della poppata. Così gli occhi materni divengono lo specchio2  in cui il neonato intravede un primo riflesso di sé stesso e l’ammirazione incondizionata che da essi proviene collabora alla formazione di importanti certezze: essere amato, accettato, valorizzato e quindi poter a sua volta amare, accettare e valorizzare, in primo luogo sé stesso e poi anche gli altri. La madre riconosce il figlio e in questo modo gli permette di esistere. La Finzi esprime molto bene il concetto con queste parole:   “Mentre  si  nutre  di  latte,  s’imbeve  anche  di  questo  primo,  essenziale riconoscimento materno: sei mio figlio, sei tutto ciò che di buono e di bello può esistere al mondo. Ti amo per quello che sei, perché esisti. Il bambino assorbe questo messaggio, giorno dopo giorno, poppata dopo poppata. Nasce quella fiducia di base nel proprio essere che, man mano che cresce, gli infonderà sicurezza in sé stesso e nella propria capacità di fare”. La madre – continua la Finzi – “trasmette al bambino il valore che attribuisce al suo stesso «essere al mondo», come persona, senza chiedergli ancora alcuna dimostrazione, alcuna prova delle sue doti e delle sue capacità ”.

Come si può notare questo è uno degli infiniti casi in cui, partendo da una comunicazione sensoriale (in questo caso lo sguardo), si lancia/riceve un messaggio affettivo.

 

Neurobiologia dell’onnipotenza infantile 1

Dal punto di vista neurobiologico avviene qualcosa d’analogo non solo al senso di onnipotenza dei primi mesi, ma anche al passaggio da questo all’acquisizione di limiti.

Nel corso del primo anno di vita lo sviluppo del sistema simpatico è dominante, mentre il sistema parasimpatico diventa più attivo a partire dal secondo anno. Lo studio delle funzioni del Sistema Nervoso Autonomo insegna che il sistema simpatico può indurre stati d’eccitazione e d’ipervigilanza associati ad un alto dispendio energetico, con risposte che possono includere per esempio un aumento della frequenza cardiaca, dei ritmi respiratori e della sudorazione (fig. 1.1), e che il sistema parasimpatico ha invece un’azione inibitoria che favorisce il risparmio d’energia (fig. 1.2). Si può quindi paragonare il primo ad un acceleratore e il secondo ad un freno.

Figura 1.1 (da www1.popolis.it).

Figura 1.1 (da www1.popolis.it)

 

Figura 1.1 (da www1.popolis.it).

Figura 1.2 (da www1.popolis.it)

 

Durante i primi mesi di vita del bambino la condivisione e l’amplificazione degli stati positivi, che possono essere considerate come un sistema di risonanza delle attività dei sistemi simpatici di genitore e figlio, costituisce una parte essenziale e dominante delle loro comunicazioni emotive.1   E’ quest’amplificazione da parte del genitore degli stati positivi del bambino a corrispondere probabilmente al senso di onnipotenza di cui si è parlato. Il genitore, infatti, non solo risponde empaticamente ai bisogni del figlio (come si è detto, spesso prima che il bisogno sia chiaramente manifesto anche al bambino stesso), ma gli crea l’illusione di essere un re se non un imperatore, di essere il più bello del mondo, il più intelligente…

Il genitore attua, in altre parole, quello che Siegel definisce un allineamento2, cioè una modifica dei suoi stati emozionali per accordarli a quelli del bambino.

I divieti e le proibizioni, necessari quando le capacità motorie del bambino aumentano, sono tesi ad inibire gli stati emotivi “attivanti” di cui si è parlato, che in determinate situazioni possono mettere a repentaglio la sicurezza del bambino. Ma di questo si parlerà nel prossimo capitolo.

 

 


1 Stern, Il mondo interpersonale del bambino, p. 40

2 Per approfondimenti consultare “Il mondo interpersonale del bambino” di Daniel Stern , capitolo 3.


  • 1 Stern espone tre modalità implicate nella formazione di un senso emergente del Sé e dell’altro:
    • La percezione  amodale:  capacità  generale  innata  che  permette  al  neonato  di  ricevere un’informazione in una certa modalità sensoriale e di tradurla in qualche modo (sconosciuto) in un’altra modalità sensoriale. In quest’ottica non esiste un “seno succhiato” e un “seno visto (come sosterrebbe Piaget) ma esiste il “seno” come esperienza già integrata (di visione e tatto) di una parte dell’altro.
    • La percezione fisiognomica: ipotizzata da Heinz Werner, è un tipo di percezione amodale che considera gli affetti come moneta sopramodale di scambio degli stimoli in qualsiasi modalità.
    • Gli affetti vitali: il termine è nuovo ed indica le caratteristiche del modo di agire, del modo di provare sentimenti, secondo un preciso profilo di attivazione. Il modo in cui un genitore agisce esprime un affetto vitale, indipendentemente che l’atto stesso sia dettato da un affetto tradizionale; il bambino così stabilisce corrispondenze intermodali tra profili di attivazione (e quindi affetti vitali) simili, espressi in diverse manifestazioni comportamentali o in diverse esperienze sensoriali e si crea un’organizzazione. Per esempio dire ad un bambino “buono, buono, buono…” ha lo stesso effetto tranquillizzante del dare alcuni colpetti sulla schiena se c’è perfetta corrispondenza, in termini di pause e durata, tra le due modalità.

  • 1 “Quando l’adattamento della madre ai bisogni del bambino è sufficientemente buono, esso dà al bambino l’illusione che vi sia una realtà esterna che corrisponde alla capacità propria del bambino di creare. In altre parole v’è un sovrapporsi tra ciò che la madre fornisce e ciò che di esso il bambino può concepire.” D. W. Winnicott ,Gioco e Realtà, pag. 39.

  • 1 Silvia Vegetti Finzi, A piccoli passi, cap.VI.
  • 2 E’ Silvia Vegetti Finzi a parlare di “domanda mai precisa e circostanziata”. Si rimanda a “A Piccoli passi” p. 75: “Quando i bambini piangono, la loro domanda non è mai precisa e circostanziata. Sentono un disagio vago, oscuro, una tensione senza immagini che proviene dall’interno del corpo e perciò si contorcono, lanciando una serie di strilli privi di contenuto”.

  • 1 Cfr: Daniel J. Siegel, La mente relazionale, pp. 147,148.
  • 2 Cfr: Silvia Vegetti Finzi, A piccoli passi, cap. 6, pag. 80.
  • 3 La Mahler ad esempio parla di “fase autistica normale” per descrivere questo stato di illusoria onnipotenza del bambino. Per approfondimenti si consulti “Psicopatologia del bambino” di Daniel Marcelli, p. 33.

  • 1 Silvia Vegetti Finzi.
  • 2 Questo concetto è stato introdotto da Winnicott il quale dice: “Ciò che il lattante vede quando guarda il viso della madre (durante la poppata) è sé stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge”. Da  Gioco e realtà, p. 91.

  • 1 Cfr: Daniel J. Siegel, La mente relazionale, pag. 271.
  • 1 Cfr: Daniel J. Siegel, La mente relazionale, pag. 271.
  • 2 Cfr: Daniel J. Siegel, La mente relazionale, pag. 273.

 

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