Madre "sufficientemente buona”, nascita del desiderio, nuove acquisizioni motorie, i divieti, i capricci, il “no”
UNA PROGRESSIVA DISILLUSIONE
Le risposte non immediate che rientrano nell’essere “sufficientemente buona” da parte della madre
Se in un primo periodo l’onnipotenza del bambino (volere e ottenere tutto subito) è alimentata da quella che si potrebbe definire onnipotenza materna (poter dare tutto subito), in un secondo tempo (indicativamente tra le 6 e le 8 settimane) la situazione bisogno- appagamento immediato si placa e comincia ad insinuarsi l’elemento “tempo” o meglio “attesa” 1. D. W. Winnicott sostiene a tal proposito che la madre sviluppi, nell’arco della gravidanza, una preoccupazione materna primaria che le permette di adeguarsi al neonato precocemente, rispondendo in modo “sintonizzato” ai suoi bisogni, proprio come se fosse al suo posto. Questo stato precoce della relazione madre-bambino sarebbe per la madre una sorta di “malattia normale” destinata più tardi a scomparire lasciando spazio all’accettazione di essere “semplicemente” una madre sufficientemente buona, cioè non totalmente gratificante, con mancanze passeggere (sopportabili però dal suo bambino) 2.
Oltre ad essere inevitabile, questo processo di moderata frustrazione (risposta non immediata ai bisogni) è necessario per la crescita sana del piccolo. R. A. Spitz localizzerebbe questo momento nella seconda delle tre tappe che, a suo parere, portano il bambino ad accordarsi con il principio di realtà. Ciascuna di queste tappe sarebbe imposta dalla frustrazione:
- la nascita è una frustrazione fisica che, attraverso il parto, determina il passaggio dalla condizione di feto in simbiosi biologica con la madre a entità fisica distinta, con una respirazione, un’ingestione del nutrimento e un metabolismo autonomi;
- ulteriori frustrazioni fisiche, come il ritardo nella soddisfazione dei bisogni, accelerano lo sviluppo della percezione e dell’azione muscolare diretta e coordinata, abilitando il bambino a tendere volitivamente verso il raggiungimento di ciò che desidera e rendendolo un’entità psicologica;
- infine frustrazioni psicologiche permettono al piccolo di divenire un’entità sociale1.
Quello che Spitz intende per entità psicologica può forse essere paragonato a ciò che Stern definisce come sé nucleare che andrebbe integrandosi e formandosi dopo i primi due mesi di vita neonatale. I bambini tra i 2-3 mesi, infatti “sembrano affacciarsi alla relazione interpersonale con una prospettiva organizzante che ci fa pensare che abbiano un senso integrato di sé stessi, sotto forma di un corpo separato e compatto, una capacità di controllo sulle proprie azioni e la propria affettività; che siano dotati di un senso di continuità e di una percezione degli altri come interlocutori separati.” 2 La formazione di un senso integrato del sé nucleare implica, secondo Stern, la sperimentazione di quattro tipi d’esperienza: avere un sé agente, un sé dotato di coesione, un sé affettivo e un sé storico3. Brevemente esporrò le caratteristiche che Stern individua per ognuna di queste esperienze di sé:
- Sé agente: il bambino deve avere la sensazione di essere l’autore delle proprie azioni e di avere la volontà (volizione) e il controllo degli atti autogenerati, aspettandosi conseguenze per le proprie azioni. In particolare la volizione o volontà esiste come fenomeno mentale e può assumere la forma di programmi motori 4 che possono essere affidati, per l’esecuzione, a gruppi muscolari diversi.
- Sé dotato di coesione: sentire cioè di essere un’entità dotata di coesione e confini sperimentando unità di luogo, di movimento, di tempo e di forma.
- Sé affettivo: nelle innumerevoli esperienze affettive che il bambino fa, s’individuano tre feedback costanti che permettono di affermare che gli affetti appartengono al Sé e non alla persona che li suscita. Il primo sarebbe quello proveniente dalla faccia del bambino, il secondo il profilo d’attivazione che una serie d’eventi differenti crea in lui (ad esempio la sperimentazione di un “crescendo” in differenti azioni, percezioni, affetti), il terzo la qualità del sentimento soggettivo.
- Sé storico: basato sulla memoria. Non ci sarebbe sé nucleare coeso se mancasse la continuità dell’esperienza.
Ora, se è vero che il ritardo nella soddisfazione dei bisogni da parte della madre (o del datore di cure) accelera lo sviluppo della percezione e dell’azione muscolare diretta e coordinata del bambino, permettendogli di tendere volitivamente verso il raggiungimento del desiderio (non più bisogno; si veda il paragrafo successivo), e se è vero che la volizione
- come dice Stern - è la “costante fondamentale dell’esperienza del sé nucleare”, allora le risposte non immediate di una madre sufficientemente buona non solo permettono al bambino di desiderare ma gli consentono anche di formare il senso di un sé nucleare, di essere cioè un’entità fisica e psicologica.
La nascita del desiderio
“Che cos’è un desiderio?” – si chiede Mafra Gagliardi.1
“Se l’etimologia, come ha detto qualcuno, è l’anima delle parole, l’anima del desiderio è legata alla luce delle stelle, o meglio alla sua privazione. Il termine viene, infatti, da sidus/sideris (costellazione, poi singola stella). In questo senso «desiderare» è in stretta analogia con «considerare» che significa «valutare le stelle per orientarsi», e quindi
«ponderare un problema nei suoi vari aspetti per prendere una decisione». (…) Nell’area semantica di sidera (stelle) si assomma dunque il significato d’orientamento, di rotta, di via da seguire (…). Il «de» privativo (o d’allontanamento) che crea de-siderare - antico termine del linguaggio augurale e/o marinaio2 - sta dunque ad indicare «cessare di vedere», «costatare l’assenza di» stelle: quindi dis/orientamento nel senso più ampio del termine, geografico e psichico”3.
Se la stella è dunque qualcosa di buono e necessario, la sua mancanza (de-sideris) porta a provare una tensione, un’attesa (ad-tendere, tendere verso) forse per certi versi nostalgica, ma sicuramente anche fiduciosa verso la sua ricomparsa.
Il desiderio pare dunque collegato alle idee di bisogno, piacere, tempo, spazio e pensiero. E questo può essere tanto vero per un marinaio quanto per un bambino alle prese con le prime “assenze” materne. Ma vediamo queste relazioni singolarmente:
- Desiderio-bisogno: un bambino che sta imparando la pazienza dell’attesa, non smette certo di aver bisogno ed è proprio grazie al bisogno e alla non soddisfazione immediata di questo che può sperimentare il desiderio.
- Desiderio-piacere: grazie a quelle piccole frustrazioni che il datore di cure gli impartisce, il bambino passa gradualmente da un piacere cosiddetto “consumatorio” ad un piacere “appetitivo”4 legato all’attesa di un futuro ma possibile appagamento del desiderio.
- Desiderio-tempo: il desiderio è tale se il tempo d’attesa è dilatato.
- Desiderio-spazio: creandosi un tempo per desiderare, si crea anche uno spazio entro cui il desiderio prende forma. Si pensi, al pianto, ai primi vocalizzi (verso i 3 mesi), alla lallazione (verso i 4 mesi), alle prime parole, al lancio di oggetti: sono esperienze che il bambino fa sia per sperimentare e sperimentarsi, ma anche per gettare un ponte comunicativo tra sé e il datore di cure 1.
E’ a questo punto che si potrebbe collocare il concetto Winnicottiano di “area transizionale2 ”, un’area intermedia che rimpiazza l’illusione onnipotente dei primi mesi e che serve al bambino per la progressiva acquisizione del senso di realtà, processo che non si completerà mai definitivamente secondo Winnicott3. Probabilmente è in quest’area transizionale che i primi desideri del bambino prendono forma, la forma di un oggetto, appunto l’oggetto transizionale che il bambino riconosce sia come appartenente al mondo della realtà che come oggetto creato da sé e quindi sottostante al suo controllo magico 4.
- Desiderio-pensiero: è durante il tempo dell’attesa che nasce il pensiero. Secondo W. Bion la tolleranza alla frustrazione sta alla base della nascita del pensiero5. In questo senso cominciare a dare risposte meno immediate al bambino gli permette di desiderare e quindi pensare.
In conclusione la scomparsa, seppur breve, della stella di riferimento del bambino (la madre), gli permette di “allucinare” la figura materna (con le sensazioni tattili che invia, i suoi odori, i colori, i sapori, i suoni), cioè di “pensare” a lei, di rievocarla mentalmente e forse anche di prevedere un suo ritorno 6.
Nuove acquisizioni motorie: un nuovo potere
Dal punto di vista motorio, il primo anno di sviluppo del bambino, è costellato di numerose conquiste. Controllo del capo, primi rotolamenti, postura seduta autonoma, prensione sempre più precisa, spostamenti nello spazio strisciando, gattonando o camminando, sono alcuni dei più importanti passaggi evolutivi.
Le esperienze sensomotorie e propriocettive, che il bambino di ormai 7-8 mesi sperimenta, gli fanno provare un immenso piacere corporeo. Infatti “la scoperta di queste nuove capacità motorie e la possibilità di sperimentarle in uno spazio sempre più ampio è un’esperienza molto eccitante per il bambino, che vive una sorta di esaltazione nello scoprire cosa può fare, cosa può provare col proprio corpo. Prende coscienza del suo potere e ciò lo porta ad esprimere una forma di giubilazione1 la quale è testimonianza di un cambiamento profondo a livello psichico 2.”.
La conquista della deambulazione (12-18 mesi), più di tutti gli altri passaggi evolutivi, dà una forte spinta verso l’autonomia, pur senza escludere il bisogno di “tornare a contatto” con la madre in alcuni e intensi momenti, e alimenta la consapevolezza di essere autori delle proprie azioni (cioè la volizione come direbbe Stern). Grazie alla capacità di simbolizzazione ormai avviata (cioè rievocazione all’occorrenza dell’oggetto d’amore assente), il bambino riesce ad accettare più di prima momenti in cui è solo.
Vecchiato esprime bene ciò che qui si vuol sottolineare: “Il bambino appare più espressivo, più determinato nel chiedere le cose, appare più consapevole della propria identità. Parallelamente manifesta una vera e propria esplosione motoria di diffusione; si muove instancabilmente, cammina, cade e si rialza di contino, facendolo di proposito. (…) Aumenta pure la frequenza dei movimenti, che già padroneggia, quali rotolare, strisciare, girare su sé stesso, manipolare oggetti; vive completamente identificato con la sua nuova capacità di movimento. Prova molto piacere corporeo a realizzare queste esperienze motorie e ciò lo riavvicina alla realtà giubilatoria descritta nel periodo dei 7-8 mesi. Sono esperienze sensomotorie più articolate, che gratificano molto il bambino, che sviluppano ulteriormente in lui la consapevolezza del suo potere, della capacità di autodeterminare in autonomia il soddisfacimento di tutto ciò di cui ha bisogno. (…) Attraverso la deambulazione conquista a poco a poco lo spazio attorno a lui, (…) sperimenta ed esercita la propria potenza in quanto individuo a sé stante e i confini di questa individualità e delle sue potenzialità. Tutto ciò necessita di una prova particolare, di un confronto, qualcuno per verificare l’esatta consistenza. Ciò porterà il bambino ad un confronto-scontro con il genitore1”.
I divieti
“E’ inutile dire – afferma Spitz2 riguardo al bambino che ha acquisito la locomozione moltiplicando le sue possibilità d’azione- che troppe cose che egli desidera sono dannose per lui o considerate non desiderabili dal suo ambiente.”. L’adulto non è più mediatore del piccolo in tutto e, se da una parte è molto fiero delle nuove capacità del figlio e lo applaude per le sue conquiste, dall’altra è anche costretto a porgli dei limiti, a dire dei “no”, pena l’avere un figlio incapace di vivere assieme ad altri e di accettare di non essere l’unico a desiderare qualcosa.
Il Sé si modella sui resti atrofizzati dell’onnipotenza magica3 e questo sia nel bambino che nell’adulto. Ciò significa che la volizione del bambino, le fantasie e i suoi desideri, dopo essere stati incoraggiati, gonfiati, applauditi dai genitori, devono invece trovare dei limiti, dei confini. Se per un adulto è abbastanza facile (non sempre però!) capire la necessità dei divieti, per un bambino questo è un compito assai arduo, e direi impossibile se non viene sufficientemente supportato.
Si cerchi ora di immaginare cosa possa provare o immaginare o chiedersi un bambino quando gli viene detto un “No!” forte e chiaro (con tono, postura e sguardo tutti in consonanza tra loro) ad un’azione che poco prima o in circostanze diverse era invece stata lodata. Confusione? Probabile.
Facciamo qualche esempio:
1) Le situazioni potenzialmente pericolose
Il nostro piccolo esploratore ha imparato a muoversi davvero bene e viene incentivato a farlo; è motivo d’orgoglio per un genitore. Rotola, striscia, gattona, impara ad aprire i cassetti, manipola bene gli oggetti, li sa lanciare, saltella, corre: tutto questo sotto lo sguardo compiaciuto del genitore che lo incoraggia, lo sprona, gli dice “bravo!”. Ma basta una minima prodezza fuori posto (su una sedia, sul tavolo, sulla scala, sul ciglio della strada) che capita un fulmine a ciel sereno: la stella a cui tutto ciò era dedicato esplode in un poderoso e alquanto sconcertante “NO!”.
Confusione. “Ma se lo stesso saltello ha provocato un attimo prima il tuo sorriso complice, come può ora provocare questa reazione, tanto più che l’ho eseguito in modo ancora più difficile, cioè passando da una sedia all’altra?!” – sembra pensare il bambino.
2) Lo sporco 1
Prima di ottenere divieti su divieti rispetto a ciò che contrassegna la parola “sporco”, tutto quello che vi ha a che fare è innanzitutto un piacere. Fango, pozzanghere, terra, sabbia, polvere, escrementi sono novità tutte da esplorare. Sporcarsi di fango è di norma poco accettato se si è vestiti ma lo è di più se s’indossa solo un costume da bagno. “Ma che differenza fa?!” – pensa il bambino.
E poi la faccenda degli escrementi. Da un lato il bambino è esortato a produrli e viene lodato se si scarica, quasi quello fosse il più bel dono ricevuto, dall’altro gli viene imposto un deciso divieto se gli escrementi-dono sono toccati o esibiti nei momenti meno opportuni. Quello è sporco, è male, è cattivo, contamina, corrompe, non è più dono. E il bambino pensa “Perché??! Perché prima ti piace e poi diventa qualcosa che ti irrita così tanto?!”
3) Le parolacce 1
“Il linguaggio - dice Stern - spalanca al bambino nuovi orizzonti. La coscienza di poter scoprire e utilizzare le parole deve assomigliare al senso di trionfo che si prova nell’istante in cui si riesce ad andare in bicicletta da soli per la prima volta, o s’impara a camminare o a guidare la macchina o a nuotare. 2”
Il genitore stimola il piccolo ad apprendere parole nuove, lo loda per le sue acquisizioni linguistiche e il bambino, da parte sua, è ben fiero di riferire le nuove scoperte. Così avviene che un giorno, tornando dall’asilo, con l’aria esultante di chi porta a casa una sorpresa, esclama una parolaccia fresca fresca, appena imparata. E il divieto è immediato, la disapprovazione alle stelle. “Ma per quale assurda ragione??!” – pensa esterrefatto il nostro bambino.
Non è facile valicare il confine che separa il senso d’onnipotenza dal principio di realtà e spesso è un passaggio che viene poco accettato anche in età adulta. Si entra in una situazione di conflitto: con sé stessi e con i propri limiti, con le altre persone e i loro desideri e spazi, con la realtà esterna e le sue regole.
Il “no” serve, è necessario, è l’area di passaggio, lo spartiacque tra due individui con menti diverse in comunicazione tra loro. Si pensi ad esso come al freno di una macchina: se non ci fosse sarebbe un guaio.
Un ulteriore passaggio: i capricci, il “No” del bambino
Si peccherebbe d’ingenuità se si pensasse che dare dei divieti al proprio figlio o non esaudire un suo desiderio non scateni in lui, da una certa età in poi (si tengano come riferimento i 2 anni), una reazione di quelle plateali, di una forza sconvolgente. Il piccolo si butta per terra urla, si dimena, trattiene il respiro fino a diventare cianotico o impallidisce in una specie di collera bianca1, strilla, piange, batte i piedi o si aggrappa con tutta la sua forza al giocattolo dell’amico che glielo ha prestato ai giardinetti gridando “No! E’ mio!”. Sembra che la collera faccia scomparire quasi per magia la sua fragilità e la sua dipendenza, ancora così vive dentro di lui. Un proverbio dice, infatti: “La collera è la forza dei deboli”. Certo, ora può camminare, muoversi, andare e venire, può quindi tastare il terreno attorno a sé con l’attività motoria, ma questo non basta per affermare la sua identità, che già esiste ma che è ancora così dipendente da altri 2. I suoi “no” hanno un effetto dirompente, di rottura e non a caso Spitz individua in essi il terzo organizzatore psichico (dopo la risposta al sorriso e l’angoscia dell’estraneo), una sorta di dichiarazione d’indipendenza3 che sfocia in vera e propria crisi di rabbia se la parola non basta.
Difficile calmare un bambino che è in preda a quest’acuta collera; com’è noto, infatti, la quiete arriva dopo la tempesta e solo allora sarà possibile ripristinare la comunicazione genitore-figlio. Questo però non significa che il genitore non possa intervenire nei momenti di rabbia del figlio, anzi è opportuno - dice la Vegetti Finzi - che s’intervenga immediatamente e d’autorità quando la situazione è critica e potenzialmente pericolosa (ad esempio se il bambino si getta in mezzo alla strada o si rotola a terra su un marciapiede affollato o si stende tra i carrelli del supermercato…), contenendo fisicamente il bambino in modo da non lasciarlo in preda ad una reazione che lui stesso non riesce più a controllare e che rischia di travolgerlo. Non ci si deve però aspettare che il piccolo sia disposto, in quel momento, a comprendere il perché del divieto impostogli.
Ma vediamo come ancora una volta l’apporto neurobiologico riesca a spiegare il processo mentale che sta alla base dei divieti impartiti e ricevuti.
Neurobiologia del divieto
Nel capitolo precedente si è parlato del collegamento esistente tra sistema simpatico e consumo d’energia/eccitazione e tra sistema parasimpatico e risparmio d’energia/inibizione.
Dopo il periodo d’amplificazione degli stati positivi del bambino (dato dall’allineamento genitoriale), cioè di co-attivazione dei rispettivi sistemi simpatici di bambino e genitore, sembrerebbe che i divieti creino una spaccatura nella sintonizzazione degli stati mentali dei due (cioè un non allineamento). In parte è così nel senso che il bambino sta imparando che il genitore può non condividere la sua eccitazione nei confronti di ciò che sta facendo, ma questo apre anche la porta allo sviluppo delle capacità d’autoregolazione del bambino 1.
Siegel continua, riferendosi anche ad A.N.Schore, dicendo che l’emozione provata dal bambino quando un suo stato di arousal non corrisponde a una risposta analoga da parte del genitore, è la vergogna che, entro certi limiti, è essenziale al bambino per imparare a regolare i propri stati della mente e gli impulsi comportamentali. Si ritiene dunque che il “No!” del genitore vada ad influenzare nel bambino il quadro di arousal sostenuto dal sistema simpatico attivando, al contrario, il sistema parasimpatico, che provoca nel figlio la forma di vergogna di cui si è parlato.
“E’ come se - continua Siegel - dopo aver premuto il pedale dell’acceleratore (sistema simpatico), schiacciassimo improvvisamente anche quello del freno (sistema parasimpatico). Un sentimento di vergogna non è quindi semplicemente il prodotto di attività parasimpatiche, ma richiede una situazione dinamica in cui ad un elevato tono simpatico (uno stato “in crescendo”) fa seguito un’attivazione del sistema parasimpatico (e quindi uno stato “in decrescendo”). Secondo Schore la vergogna è legata ad una mancata “connessione emotiva”: il bambino tenta attivamente di raggiungere uno stato di sintonizzazione affettiva, ma questi tentativi vengono frustrati dal genitore. In questo senso specifico non costituisce di per sé un’emozione negativa; al contrario, contribuisce in maniera significativa allo sviluppo di capacità d’autocontrollo che permettono al bambino di modulare emozioni e comportamenti in funzione del contesto sociale.”.
Ma il divieto - e lo vedremo meglio nel prossimo capitolo - per non diventare umiliazione1 o mortificazione mortifera2, deve essere seguito da una riparazione nella comunicazione genitore-figlio e non deve distruggere nel bambino la certezza d’essere comunque amato, riconosciuto, capace.
- 1 Cfr: Silvia Vegetti Finzi, A piccoli passi, p. 80
- 2 Cfr: Daniel Marcelli, Psicopatologia del bambino, p. 34
- 1 Cfr: R. A. Spitz, Il no e il sì, saggio sulla genesi della comunicazione umana, p. 163
- 2 Cfr: D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, p.83
- 3 Cfr: D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, pp. 84-106.
- 4 Ciò che Stern riferisce a proposito di volizione e programmi motori fa pensare a quanto Ermellina Fedrizzi sostiene riguardo all’esecuzione di atti motori, in accordo con Bruner e Berstein. Ciò che discrimina l’azione dal movimento è lo scopo che per essere raggiunto necessita di 3 passaggi successivi: la formulazione, nei centri corticali superiori, di un piano d’azione cioè di un engramma astratto che in termini spaziali rappresenta un’immagine motoria dello spazio e che può essere modificato in relazione al livello di esperienza dell’attore; un programma motorio che viene inteso come la traduzione dei parametri astratti di quella azione in programmi di movimento specifici con rappresentazioni temporali e cinematiche del movimento in rapporto alle specifiche esigenze ambientali; l’esecuzione del movimento che viene modificata in base ad un feedback nel corso della sequenza motoria o ad azione conclusa. Cfr: Ermellina Fedrizzi, I disordini dello sviluppo motorio, pp. 60 e 61.
- 1 Mafra Gagliardi, Le stelle nascoste, pp. 22-23
- 2 Cfr: Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Lexicon Totius Latinitatis, t.II, Padova 1940, p.85, cit. da Le stelle nascoste, pp. 22-23
- 3 Mafra Gagliardi, Le stelle nascoste, pp. 22-23
- 4 Secondo quanto affermano E.Berti, F.Comunello e P. Savini il piacere consumatorio è strettamente legato al “tutto subito” e quindi all’onnipotenza, mentre il piacere appetitivo è legato al desiderio, all’attesa, al pensiero. (cfr: relazioni del V congresso nazionale ANUPI)
- 1 Cfr: Mauro Vecchiato, La terapia psicomotoria, p. 25- 32 (I mediatori della comunicazione).
- 2 Cfr: Daniel Marcelli, Psicopatologia del bombino, p.35 e 36.
- 3 Cfr:D.W. Winnicott, Gioco e realtà, p. 41 e 42.
- 4 Tratto da appunti di Psicologia dello sviluppo, professor Salis Maurizio.
- 5 Cfr: Daniel Marcelli, Psicopatologia del bambino, p.37.
- 6 Questo - dice Stern - grazie alla memoria evocativa o di richiamo (Rappresentazioni di Interazioni Generalizzate), presente già prima dei 9 mesi (periodo in cui compare l’angoscia di separazione), alla capacità di generare rappresentazione di futuri possibili eventi e alla capacità di produrre risposte di comunicazione o strumentali per affrontare l’insicurezza e l’angoscia causate dall’incongruenza fra gli eventi presenti e le rappresentazioni degli eventi futuri (Il mondo interpersonale del bambino, p. 128).
- 1 J. Lacan usa il termine per descrivere il particolare stato d’animo che il bambino prova nello scoprire che l’immagine riflessa allo specchio corrisponde a sé stesso. Vecchiato applica invece il termine all’esperienza motoria e corporea.
- 2 Vecchiato M., La terapia psicomotoria, p.33.
- 1 Vecchiato M., La terapia psicomotoria, pp.47-49.
- 2 Spitz R. A., Il no e il sì, pp. 164 e 165.
- 3 Spitz R. A., Il no e il sì, p. 166
- 1 Cfr. Vegetti Finzi, A piccoli passi, cap. XIV.
- 1 Cfr. Vegetti Finzi, A piccoli passi, p.171-174.
- 2 Stern D., Diario di un bambino, p.125.
- 1 Sono due forme, quella blu e quella pallida, di spasmo affettivo, un disturbo psicosomatico della prima infanzia (di solito scompare entro i 3 anni) con frequenza pari al 4-5% della popolazione generale, caratterizzato da perdita di coscienza breve dovuta ad anossia cerebrale e possibili contrazioni in opistotono, movimenti clonici degli arti e reversione dei globi oculari. Nella forma blu la perdita di coscienza compare in un contesto di pianti dovuti a un rimprovero, a una frustrazione o a un dolore: il bambino singhiozza, il suo respiro accelera fino a un blocco di inspirazione forzata, compare la cianosi e il bambino perde conoscenza per alcuni secondi. Nella forma pallida compare una sincope in occasione di avvenimenti di solito sgradevoli: improvviso dolore, paura, emozioni intense. Il bambino lancia un breve grido, impallidisce e cade. (Marcelli, Psicopatologia del bambino, pp. 382-383).
- 2 Cfr. Vegetti Finzi, A piccoli passi, cap.XV.
- 3 Cfr. Spitz, Il no e il sì, p. 167.
- 1 Cfr. Siegel, La mente relazionale, pp. 271 e 272.
- 1 Cfr. Siegel, La mente relazionale, p.272.
- 2 Cfr. Senese Tommaso, appunti delle lezioni tenute da Comunello F.