Il modello della Family Centered Care
I principi cardine
Teatro della progressiva definizione della Family Centered Care sono inizialmente stati gli Stati Uniti e il Canada i quali, a partire dagli anni ’60, ne hanno gradualmente delineato i principi, tali da poter essere applicati sia in ambito ospedaliero che nel mondo della riabilitazione. In particolare, la monografia “Family Centered Care for Children Needing Specialized Health and Developmental Services” (prima edizione 1987), pubblicata negli Stati Uniti da parte dall’ACCH (Association for the Care of Children’s Health), ad opera di Terry L. Shelton e Jennifer Smith Stepanek, ha raccolto fermenti e riflessioni già esistenti e si è posta come primo strumento agile, unitario ed efficace per promuovere i principi chiave della FCC e come essi dovrebbero riflettersi nella pratica.
L’ACCH è un’associazione internazionale e multidisciplinare che svolge da più di trent’anni un ruolo cardine nella definizione, promozione, implementazione della politica della FCC per bambini e giovani, attraverso l’azione del National Center for Family Centered Care (NCFCC) ed in collaborazione con altre associazioni.
I principi chiave definiti dall’ACCH sono attualmente largamente accettati dalle famiglie e dai professionisti, in quanto rappresentano adeguatamente la filosofia della FCC. Essi sono:
- Forza della famiglia la famiglia è riconosciuta come la costante della vita del bambino, mentre i servizi di supporto sono fluttuanti, entrando e uscendo in base all’età del bambino, alla situazione e alle complicazioni [2]. È importante esplorare i punti di forza della famiglia, rimandarli e sostenerli, per potenziarne le competenze.
- Rispetto ogni famiglia è differente ed è obbligo rispettarne i valori, le credenze, la religione, la cultura. Ci si pone e propone con atteggiamento non giudicante e non svalutante. Il rispetto aiuta a costruire collaborazione e reciproca fiducia tra famiglia ed operatori.
- Flessibilità è necessario porsi in modo adattato e flessibile per incontrare i bisogni della singola famiglia, riconoscendone la diversità e l’unicità. Non si può prescindere dalla conoscenza ed osservazione della famiglia specifica, evitando che i pregiudizi guidino la progettazione della proposta di cura. Non esiste un singolo approccio valido per ogni famiglia; l’approccio può cambiare per la stessa famiglia nel corso del percorso terapeutico.
- Condivisione di informazioni Le informazioni e i rimandi degli operatori sono funzionali a rendere possibile la partecipazione dei genitori ai processi decisionali, il raggiungimento di un consenso realmente informato e di una sincera alleanza terapeutica. Esse devono essere fornite con linguaggio adeguato, chiare e complete, ma con tatto e gradualità. Le informazioni e la possibilità di comprendere permettono ai genitori di recuperare controllo sulla situazione e potere decisionale, base per rinforzare la fiducia in sé. Non è solo l’operatore a fornire informazioni; si chiede il punto di vista dei componenti della famiglia, le loro impressioni, si prendono in considerazione i loro vissuti emotivi, ciò che dicono e ciò che non dicono.
- Scelta le decisioni relative alla cura e alla riabilitazione del bambino spettano alla famiglia. É opportuno fornire ad essa tutte le informazioni che necessitano per compiere scelte informate sulla cura/percorso terapeutico che il bambino andrà ad affrontare.
- Supporto le famiglie possono spesso sentirsi prive di aiuto, di sostegno; gli operatori sanitari, assieme ai servizi sociali se necessario, possono fornire supporto alla famiglia, promuovendo la creazione di una rete di riferimento. L’obiettivo è di aiutare la famiglia a maturare maggiore fiducia nelle proprie capacità ed abilità nel prendersi cura del proprio bambino e nell’affrontare le difficoltà che via via incontra.
- Collaborazione la collaborazione tra operatori e famiglia, base per un percorso terapeutico efficace, si costruisce se sussistono elementi quali il rispetto, la capacità di ascolto attivo e comprensione da parte degli operatori, la condivisione di informazioni, la possibilità di scelta informata da parte della famiglia.
- Empowerment l’empowerment può essere definito come il “processo di aiutare la gente ad esercitare controllo sui fattori che influenzano la propria vita” [3]. In ambito pediatrico l’obiettivo centrale è di “restituire alla famiglia la capacità di prendersi cura del proprio bambino” [4], che costituisce un suo diritto ed autorità. Il processo di empowerment si basa primariamente su una riflessione individuale sulla propria realtà personale, sui propri punti di forza e le proprie capacità; esso, in situazioni di patologia, traumi e difficoltà, può e “deve” essere sostenuto dagli operatori, mediante una comunicazione, un’attività di counselling e una relazione adeguata con il bambino e la famiglia.
La famiglia
Con il termine famiglia si intendono due o più persone che presentino tra di loro un vincolo, di tipo biologico, legale od emozionale. Essa riveste un ruolo speciale per alcune specifiche categorie, quali bambini, anziani e malati cronici.
Tutte le culture riconoscono e sostengono l’importanza e la predominanza della famiglia nel proteggere, allevare e guidare i bambini all’interno della società. Ad essa spetta quindi la responsabilità primaria di accompagnare con successo il bambino verso l’età adulta all’interno della cornice dei propri valori ed ideali, promuovendone una significativa partecipazione nella vita della comunità, di cui la famiglia stessa costituisce l’unità base. Non vi è però un modo “naturale” e “giusto” di essere genitori, vi sono molteplici modi di essere genitori e diversi modi di essere una famiglia ed è necessario rispettare l’unicità di ogni nucleo familiare.
Le famiglie sono grandi, piccole, estese, nucleari, multi-generazionali, con un genitore, due genitori, e nonni. Si vive sotto uno stesso tetto o molti. Una famiglia può avere una breve durata, di poche settimane, o durare per sempre. Si diventa parte di una famiglia per nascita, adozione, matrimonio, o per un desiderio di mutuo sostegno…Una famiglia è una cultura in se stessa, con differenti valori e modi unici per realizzare i suoi sogni; insieme, le famiglie diventano una risorsa per la nostra ricca eredità culturale e diversità spirituale…Le nostre famiglie creano i vicinati, le comunità, gli stati, le nazioni. [5]
Comprendere ed accettare la diversità delle famiglie nella pratica comporta andare oltre le differenze etniche e percepire la “cultura” come una somma complessiva di costumi, abitudini, credenze e valori di uno specifico gruppo [6]. La cultura può essere influenzata da qualunque combinazione di fattori, come convinzioni spirituali, esperienze sociali ed educative, condizioni di vita economiche e geografiche; la famiglia dà forma alla propria cultura e viceversa. É la cultura che definisce se la famiglia sarà nucleare o estesa, nomade o fissa, piccola o grande, matriarcale o patriarcale, e se farà parte di una più ampia parentela o di un clan.
Sulla base di tali considerazioni, il primo e il più critico passo per fornire una cura family centered è quello di prestare ascolto e capire come ogni famiglia definisce se stessa, al fine di valutare da chi è costituita la famiglia per ogni specifico bambino. Se la si definisce basandosi su stereotipi o sulla propria limitata esperienza, o su studi demografici o ricerche, già sfuma la possibilità di offrire dei servizi realmente family centered.
Si devono quindi abbandonare schemi mentali precostituiti per porsi in modo sempre nuovo e adattato; ciò è ancora più vero quando ci si trova di fronte a famiglie straniere. Le differenze culturali hanno un grande impatto sulla definizione e sull’interazione delle famiglie, sugli stili comportamentali, sulle tradizioni e sulla lingua, ma anche su come malattia e disabilità vengono percepite dalla famiglia e su come vengono compiute decisioni riguardo la salute e la cura dei propri membri. L’immigrazione, inoltre, può comportare la perdita di punti di riferimento all’interno della comunità e la dissoluzione di un’importante rete di sostegno che poteva esistere nel paese d’origine.
Anche le famiglie monoparentali possono spesso aver bisogno della creazione di una rete di supporto solida in cui riporre fiducia. È necessario, infatti, riconoscere come molti genitori single debbano far fronte ad una lotta continua contro numerosi svantaggi (difficoltà finanziarie, giudizi da parte della società, solitudine), acuite dalla nascita di un bambino con bisogni speciali.
Ciò che risulta centrale, per offrire una cura family centered, è quindi riconoscere l’unicità di ogni famiglia. Essa deve essere capita all’interno della propria storia, del proprio passato e di quello che immagina come proprio futuro. È all’interno di tale storia, nella misura in cui essa intende condividerla o in cui l’operatore è disposto ad ascoltarla realmente, che si può davvero avviare la costruzione di una collaborazione.
Ciò è possibile se il professionista si pone diversamente nell’interazione con l’altro, con rispetto, empatia, flessibilità, tolleranza dell’ambiguità, desiderio di apprendere e senza pregiudizi [7]. Sia operatori che famiglie utilizzano modelli di comunicazione, etichette e modi di affrontare i problemi predefiniti culturalmente. Entrambi possono presentare stereotipi o sentimenti di fondo nel lavorare con qualcuno che è “diverso” [8].
…Un operatore dovrebbe porsi all’interno della relazione terapeutica con umiltà, rispetto e desiderio di apprendere – caratteristiche che sono implicite nel concetto di Family Centered Care…[9]
La comunicazione rappresenta il filo conduttore che guida la collaborazione con la famiglia e la costruzione dell’alleanza terapeutica. La comunicazione operatori-famiglia risulta per sua natura asimmetrica: se si riconosce facilmente la natura di “esperto” dell’operatore, è opportuno, però, evidenziare come la famiglia rappresenti la massima “esperta” relativamente al proprio bambino. La comunicazione deve pertanto strutturarsi in modo bidirezionale, secondo un’idea di collaborazione in virtù di competenze ed informazioni diverse e integrabili. La famiglia si sente così parte attiva del processo. La condivisione bidirezionale di informazioni e punti di vista aiuta a costruire una relazione di fiducia fondamentale per l’evolvere del percorso di crescita del bambino.
Saper comunicare significa prima di tutto essere in grado di ascoltare empaticamente l’altro, cogliendo tanto i segnali verbali quanto il complesso insieme dei segnali non verbali. L’ascolto dell’operatore deve essere attivo, mantenendo un atteggiamento in ogni caso non giudicante, con rimando di quanto si è colto per offrire uno specchio alla famiglia che è così supportata nel guardare emozioni, difficoltà, punti di forza, modalità di porsi in relazione, ecc.. La famiglia può in tal modo percepire l’esistenza di uno spazio in cui è possibile portare problematiche, difficoltà, idee, punti di vista. Vi è spazio per il punto di vista e la percezione dell’operatore, base per un confronto con quanto percepisce la famiglia, non perché uno dei punti di vista sia il migliore, ma perché sia possibile guardare assieme, riflettere ed integrare.
L’evoluzione del concetto di FCC nel contesto ospedaliero
Prima degli anni ’50 del secolo scorso, l’assistenza ai bambini ricoverati era influenzata dalle conoscenze mediche sul controllo delle infezioni e dalle teorie rigorose sull’educazione dei bambini, di stampo comportamentista/behaviorista, che non riconoscevano l’importanza della presenza dei genitori e dell’interazione emotiva dell’infermiere con il piccolo paziente, con conseguente predilezione per un’assistenza meccanicistica, routinaria e disciplinata.
Una svolta importante si ebbe a partire dagli anni ’50, grazie al lavoro incisivo di Bowlby (1953) sulla deprivazione materna negli orfanotrofi e di Robertson (1958), il quale studiò gli effetti della separazione materna sui bambini ospedalizzati. Le prime descrizioni sulla presenza materna in ospedale risalgono al 1958; medici ed infermieri ponevano però molta resistenza, non convinti della positività della presenza genitoriale e più o meno consapevolmente timorosi di perdere controllo e potere. Inizialmente, pertanto, quella dei genitori era una presenza passiva, alla quale seguì un graduale coinvolgimento nel fornire assistenza ai propri figli. Veniva riconosciuto il ruolo assistenziale dei genitori, in un’ottica puramente funzionale, con possibilità di liberare gli infermieri “affinché potessero dedicare maggiori attenzioni ai bambini che necessitavano di assistenza infermieristica più complessa” [10].
Solo nel corso degli anni ’80 e ’90, in alcuni contesti ospedalieri, si è passati da un semplice coinvolgimento dei genitori ad una prospettiva secondo la quale è opportuno che tra operatore e genitore si stabilisca una partnership, una collaborazione, che consenta una negoziazione con la famiglia per stabilire assieme il percorso assistenziale e che sostenga l’empowerment della famiglia stessa.
L’evoluzione del concetto di FCC nel contesto della riabilitazione pediatrica
In ambito riabilitativo la spinta verso una cura centrata sulla famiglia è scaturita gradualmente dalla riflessione teorica e pratica sul significato della riabilitazione stessa e sugli obiettivi che essa deve porsi, anche in relazione alle più aggiornate conoscenze sui processi biologici di recupero del sistema nervoso centrale (SNC) e sullo sviluppo del bambino.
Negli anni ’60-‘70 l’obiettivo dei primi metodi riabilitativi neuromotori era quello di “forzare il SNC del soggetto a riprendere il percorso teorico dello sviluppo motorio riproponendogli secondo un ordine ideale le diverse prestazioni che egli avrebbe dovuto progressivamente acquisire se non fosse stato ostacolato dalla lesione subita.” [11] I genitori erano passivi osservatori di rigide sequenze di esercizi e, giudicati bisognosi dell’aiuto dei professionisti, ricevevano specifiche consegne per consolidare le conquiste del trattamento riabilitativo del loro bambino. Maggiore consapevolezza della funzione e dell’importanza della famiglia e della comunità vi era in un’ottica assistenziale ed educativa, riconoscendo il bisogno genitoriale di ampliare le proprie competenze pratiche per far fronte alle esigenze assistenziali giornaliere di un bambino con bisogni speciali e di essere sostenuti nel suo percorso educativo.
Negli ultimi trent’anni si è però gradualmente riconosciuta l’importanza di considerare l’individuo nella sua globalità e unicità, tenendo conto, da un lato, della trasversalità delle funzioni adattive, in relazione alla quale non è possibile scindere lo sviluppo motorio da quello cognitivo e psichico del soggetto (approccio globale), e dall’altro rivalutando la variabilità delle soluzioni adattive che possono essere attuate di fronte ad un medesimo problema posto dallo sviluppo (unicità dell’individuo).Davanti ad un bisogno, il giudizio di vera competenza di una funzione si ha quando il bambino esprime nei suoi comportamenti “il massimo di autonomia possibile per il momento considerato” [12], anche se essi appaiono insoliti, bizzarri, non rispettosi della gerarchia delle tappe evolutive. Le funzioni si costruiscono nell’interazione del bambino con l’ambiente, come strategie per far fronte a specifiche esigenze di adattamento; lo sviluppo del bambino è pertanto strettamente influenzato da due fattori, le proprie risorse da un lato e le opportunità offerte dall’ambiente dall’altro.
La famiglia costituisce l’ambiente primario per il bambino. Il pensiero di una cura centrata sulla famiglia scaturisce dal riconoscimento del suo ruolo nello sviluppo del bambino, ma anche dal riconoscimento che essa, solitamente, integra i bisogni del bambino all’interno delle proprie preoccupazioni e priorità. In un modello family centered “…i bisogni e i desideri della famiglia determinano tutti gli aspetti dell’erogazione dei servizi e della distribuzione delle risorse. I professionisti si pongono per le famiglie come strumenti e intervengono con strategie che ne promuovano massimamente la capacità di compiere decisioni, le potenzialità e le competenze” [13].
Da tali premesse deriva l’importanza di un intervento riabilitativo con un’impostazione globale ed ecologica, focalizzata a modificare le interazioni spontanee in atto in ciascuno specifico ecosistema familiare fisico-sociale, favorendo l’emergenza di percorsi evolutivi di adattamento positivo attraverso l’incremento di autonome capacità di elaborare soluzioni adattive originali.
La qualità globale ed ecologica dell’intervento riabilitativo comporta il coinvolgimento di più figure professionali e il conseguente costituirsi di un’equipe terapeutica. Ciò è alla base di un intervento integrato, in cui ogni operatore è chiamato a rivedere costantemente con spirito critico ed elasticità il proprio intervento per ricalibrarlo alla luce delle esigenze del bambino e del sistema-famiglia, in un confronto costante con gli altri componenti dell’equipe. L’intervento integrato permette di mantenere lo sguardo sulla globalità del bambino, evitando la scomposizione del piccolo paziente in un insieme di segmenti da trattare separatamente; consente, inoltre, la continuità tra i vari ambienti di vita del bambino attraverso la collaborazione con la famiglia e gli altri enti coinvolti nel suo percorso di crescita (enti assistenziali, educativi,…).
Accanto all’integrazione degli interventi, altro fattore significativo ai fini di un percorso potenzialmente positivo è la precocità dell’intervento terapeutico. Si tratta di un concetto attualmente riconosciuto, non solo rispetto alla nota rapida maturazione del SNC del bambino, con massima plasticità nei primi tre anni di vita, ma anche rispetto “all’inarrestabile processo dell’epigenesi reciproca (la reciproca specificazione/selettivazione dei comportamenti tra il bambino e i suoi caregivers) all’interno dell’ecosistema, con progressiva definizione delle regole interattive e della formazione di ruoli reciproci e complementari” [14]. Un intervento precoce, inoltre, permette di promuovere fin da subito le capacità di coping e di incentivare la resilienza del nucleo familiare, per sostenerlo nell’affrontare le conseguenze della patologia.
Da queste riflessioni teoriche e pratiche, avallate da molteplici gruppi di ricerca e da studi, è scaturito nel tempo il graduale riconoscimento del valore di un approccio riabilitativo secondo i principi della FCC.
I principi delineati negli anni ’70 dall’ACCH hanno ispirato e stanno ispirando la realizzazione di programmi per la cura del bambino che ricercano una modalità efficace per attuare un progetto effettivamente family centered.
Tra i principali promotori dell’approccio riabilitativo centrato sulla famiglia è da citare il CanChildCentre for Childhood Disability Research dell'Università di McMaster in Ontario (Canada), centro di ricerca e di formazione fondato nel 1989. Negli anni, esso ha guadagnato un ruolo internazionale nell’ambito della disabilità infantile tramite ricerche innovative ed importanti opere di divulgazione, grazie al lavoro di un team di esperti ricercatori, afferenti a svariate discipline (pediatria, terapia occupazionale, fisioterapia, fisiatria, logopedia, psicologia, sociologia, epidemiologia e biostatistica). Per garantire attività di ricerca, formative e divulgative che siano effettivamente significative nell’ambito della disabilità in età evolutiva, il team opera in stretta collaborazione con bambini e adolescenti con disabiità e con le loro famiglie, con i professionisti che forniscono servizi per l’infanzia, con organizzazioni e ricercatori di tutto il Canada e di altri paesi e con il mondo della politica.
Nell’ambito della neonatologia anglosassone è nato l’IDC (IndividualizedDevelopmental Care), programma attuato da operatori della riabilitazione in ambito ospedaliero con scopi abilitativi/riabilitativi. Esso è definito come “…un approccio olistico, che inizia alla nascita del bambino, continua fino alla dimissione, comprende la promozione dello sviluppo del neonato, il coinvolgimento e il sostegno alla famiglia, l’incoraggiamento del lavoro di gruppo e della crescita professionale degli operatori che lavorano in reparto” [15]. Attraverso sistematiche osservazioni comportamentali del bambino, condivise con i genitori, ci si pone l’obiettivo di definire un programma personalizzato di supporto per il suo sviluppo e di sostenere la riappropriazione tempestiva del bambino da parte dei genitori, riconosciuti come i caregiverprimari e i principali facilitatori del suo benessere. Per i neonati con patologia neurologica, l’ICD durante il ricovero rappresenta la prima fase del progetto riabilitativo e di presa in carico tempestiva. La letteratura internazionale riporta ormai molteplici studi sull’efficacia della IDC in T.I.N. [16].
Anche in ambito territoriale sono sorti molteplici progetti che cercano di integrare i principi riabilitativi in un approccio family centered. Tra questi si può ad esempio citare il COPCA (Coping with and caring for infants with neurological dysfunction: a family centered program – Gestione e presa in carico dei bambini con disfunzioni neurologiche: un programma centrato sulla famiglia), un programma di intervento, ancora in fase di studio, elaborato nei Paesi Bassi, dedicato ai bambini ad alto rischio di disordini motori. Il programma COPCA si basa su due cardini: lo sviluppo neurologico fondato sui principi della Teoria della Selezione dei Gruppi Neuronali [17] e il ruolo di rilievo attribuito all’autonomia della famiglia. Gli obiettivi principali sono il miglioramento a lungo termine degli esiti cognitivi e motori del bambino e la promozione delle competenze familiari, nel rispetto della sua cultura, delle sue tradizioni ed abitudini [18]. Il programma COPCA si pone l’obiettivo di sostenere la famiglia in tutti i settori, avvalendosi di operatori professionali che operano in ambito domestico.
Anche in Italia vi sono molteplici fermenti in proposito, che si articolano variamente nelle differenti realtà, senza delle linee guida specificatamente definite, benché se ne riconosca l’importanza e si sottolinei la necessità di un approccio globale, integrato ed ecologico in molteplici quadri patologici.
Si sono strutturati alcuni gruppi di studio tra i quali, relativamente al bambino con danno neurologico, si può ricordare il contributo offerto dal Gruppo Italiano Paralisi Cerebrali Infantili (GIPCI), il quale ha organizzato convegni in merito e sta coordinando un progetto volto a confrontare e discutere modalità di intervento basate su un approccio integrato e centrato sulla famiglia. All’interno del progetto partecipano equipe multidisciplinari di neuropsichiatria infantile provenienti dal territorio italiano.
L’elaborazione di un modello pratico che rispetti i principi della FCC non costituisce però un processo lineare e non è privo di ostacoli, interrogativi e resistenze. Esistono alcuni studi [19] che tentano di porre in evidenza quali modalità si stanno attuando in riferimento ai principi della FCC, esplorando benefici e dilemmi percepiti dagli operatori e dalle famiglie.
Si incontrano spesso difficoltà nel processo di negoziazione con la famiglia; passare il potere decisionale alla famiglia richiede agli operatori tempo, con la sensazione talvolta che ne rimanga troppo poco da dedicare alla terapia con il paziente, nonché disponibilità a mettere in discussione la propria funzione. Il processo della negoziazione richiede inoltre competenze comunicative e relazionali specifiche che non sempre gli operatori sentono di possedere. Lawlor e Mattingly (1997) sottolineano come in un modello centrato sulla famiglia il focus passi dal riguardare solamente il “problema” riabilitativo al coprire molteplici aspetti della vita della famiglia; i terapisti possono percepire una perdita di definizione del proprio ruolo usuale con difficoltà a ristrutturarlo. La formazione degli operatori risulta per questi aspetti un anello ineliminabile della catena.
Si evidenziano, quindi, sia difficoltà organizzative, sia difficoltà pratiche da parte degli operatori; si rendono necessarie ulteriori ricerche al fine di un’organizzazione del sistema che faccia fronte alle esigenze sia delle famiglie che degli operatori, investendo sul processo di formazione di quest’ultimi. Nonostante in ambito riabilitativo molti affermino che gli studi randomizzati abbiano un potere limitato nel validare specifici interventi e valutarne gli esiti [20], è fondamentale che si strutturino ulteriori studi quantitativi che offrano un’evidenza scientifica alla pratica terapeutica secondo il modello della Family Centered Care.
- [2] Freedman, 1986
- [3] Gibson CH., 1991
- [4] Cincinnati Children’s Hospital, 1999-2007
- [5] House Memorial 5 Task Force on Young Children and Families,1990
- [6] Leninger, 1970; Wilson, 1978
- [7] Lynch E.W. e Hanson M.J., 1992
- [8] Cross T., 1988
- [9] Jones D., 1991
- [10] Sainsbury C.P.Q. et al., 1986
- [11] Bertozzi L., Montanari L., Mora I., 2002: 38
- [12] Milani-Comparetti, 1985
- [13] Dunst et al., 1991
- [14] Pierro M., La riabilitazione precoce “ecologica”, PCI – storia naturale e orientamenti riabilitativi, Pisa: Edizioni del Cerro, a cura di Ferrari A. e Cioni G., 1993:237
- [15] Warren, 2001
- [16] Als et al., 2004; Larroque et al., 2008
- [17] Edelman, 1989
- [18] Fiese, 1997
- [19] Litchfield e MacDougall, 2002
- [20] Andrews K., 1991
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BIBLIOGRAFIA - SITOGRAFIA |
Tesi di Laurea di: Irene DE MARIA |