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Perché il termine “NEUROPSICOMOTRICISTA” viene associato al "Terapista della NEURO e PSICOMOTRICITÀ dell’Età Evolutiva" ?

PSICOMOTRICITA’ INTERCULTURALE - Storia e principi della Psicomotricità

INDICE PRINCIPALE

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Storia e principi della Psicomotricità

Le prime formulazioni in campo psicomotorio e nello specifico all’interno dell’ambito clinico-riabilitativo, avvennero all’inizio del secolo scorso grazie agli studi e alle pubblicazioni a cura di autori quali Henry Wallon, Guilman, Julien De Ajuriaguerra, René Zazzo e Jean Piaget. Medico e filoso francese, Wallon mise in evidenza nel libro “L’origine del carattere nel bambino” il rapporto esistente tra carattere e movimento. De Ajuriaguerra, psichiatra, neurologo, anatomopatologo, e psicoanalista con il “Manuale di Psichiatria del bambino” pose le basi per la psicomotricità contemporanea. Le ricerche condotte insieme ai suoi colleghi all’interno del “Servizio di rieducazione dei disturbi del linguaggio e dei disturbi psicomotori del bambino” presso l’Ospedale Roussel di Parigi, da lui aperto, sulla relazione madre-bambino e sul cambiamento del tono muscolare in rapporto alle emozioni gli consentirono di considerare la totalità dell’individuo e di conseguenza di postularne l’unità psicosomatica. Jean Piaget invece, epistemologo ginevrino, studiò l’intelligenza come processo di adattamento dell’individuo all’ambiente il cui equilibrio poggia sui due poli dell’assimilazione e dell’accomodamento e che, nei primi due anni di vita, si sviluppa attraverso condotte senso-percettivo-motorie. Il movimento diviene così motore della costruzione dell’intelligenza.80 Tutti questi studi sottolinearono all’epoca l’esistenza di uno stretto legame fra intelligenza, componente motoria ed affettiva, più forte e meno scindibile quanto più precoce è l’età dell’individuo.

Verso la fine degli anni 60, in Francia, altri autori quali Jean Le Boulch, André Lapierre e Bernard Aucouturier estesero il campo della psicomotricità anche all’ambito pedagogico e all’educazione motoria. Proprio Jean Le Boulch, medico e professore di scienze motorie, sottolineò l’importanza dello schema corporeo e l’esigenza di superare la dualità mente-corpo. André Lapierre e Bernard Aucouturier, entrambi professori di educazione fisica, chinesiologo il primo e ri-educatore il secondo proposero invece metodi d’intervento indirizzati maggiormente all’area psicoterapica ed affettiva, evidenziarono infatti la presenza di attitudine cognitiva e psicologica al di sotto di quella fisica e morfologica del corpo. All’interno dei loro studi al fine di sostenere lo sviluppo del bambino sottolinearono l’importanza di integrare i processi affettivi, motori, emotivi, sensoriali e cognitivi. Inoltre analizzando le caratteristiche del setting psicomotorio evidenziarono il significato simbolico assunto dagli oggetti presenti, rimarcando l’idea che quest’ultimo potesse essere differente da cultura a cultura.

Considerando dunque l’evoluzione della pratica clinica e pedagogica, così come le molteplici concezioni sul corpo e sul movimento diffuse in Europa, ad oggi la psicomotricità è da intendersi come disciplina volta a supportare i processi di sviluppo dell’infanzia, valorizzando il bambino come essere globale, che si esprime e realizza attraverso la propria azione nel mondo, la quale investe l’uso dello spazio e degli oggetti, l’interazione con l’altro, la capacità di rappresentarsi attraverso il gioco, il movimento e la parola. 81

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La Psicomotricità in Italia

In Italia la psicomotricità comparve intorno la fine degli anni ’60 e coinvolse fin da subito, come in Francia, sia l’ambito educativo-pedagogico che quello sanitario- riabilitativo. In ambito educativo questa nuova modalità di osservare ed interagire con il bambino, venne accolta con grande interesse da parte d’insegnanti e pedagogisti ed applicata all’interno di alcune scuole speciali del Nord Italia, dedicate all’accoglienza di bambini con Ritardo mentale, definiti all’epoca “subnormali”. Con l’avvento degli anni ’70, si affermò sempre più il programma di chiudere le Scuole speciali che si concretizzò nel 1977 con la legge N°517, la quale a favore del diritto all’integrazione del disabile in classi composte da alunni normodotati e dalla presenza di un insegnante di sostegno, abolì le classi differenziali per alunni disadattati. Dagli anni Ottanta sino ad oggi, la Psicomotricità fornisce dunque agli insegnanti nuovi strumenti d’intervento e trova così una sua sistemazione sia per i bambini sani che per quelli in difficoltà.

Nello stesso periodo in diversi servizi quali, il reparto ospedaliero milanese dedicato a bambini sordi, gli Istituti Medico Pedagogici, i Centri Socio Sanitari di Zona (CSZ), i Servizi di Igiene Mentale dei Comuni (SIMEE) e successivamente in numerosi Centri di Riabilitazione privati e pubblici, si realizzarono le prime esperienze di trattamento psicomotorio in ambito abilitativo-terapeutico. L’interesse sempre maggiore nei confronti di questa nuova disciplina portò ad un’ampia richiesta di formazione nel campo che determinò l’istituzione di corsi di Psicomotricità biennali e triennali dapprima a Milano, poi anche a Torino, Padova, Verona, Genova, Bari, Napoli e Palermo.

Nel 1969 difatti, l’Istituto di Neuropsichiatria Infantile dell’Università di Milano promosse il primo corso per Rieducatori della Psicomotricità mentre nel 1973 la Regione Lombardia definì presso l’AIAS di Milano un corso biennale per educatori e tecnici della psicomotricità. Nello stesso anno, venne fondata la Scuola Superiore per Tecnici Riabilitatori della Neuro e Psicomotricità dell’età evolutiva presso l’Università La Sapienza di Roma. I corsi di studio delle scuole dirette a fini speciali divennero però corsi universitari ufficiali soltanto nel 1982 con il Decreto n.1624 del Presidente della Repubblica.

Nel corso degli anni Ottanta, diversi furono i Congressi Internazionali sulla Psicomotricità ai quali l’Italia partecipò. In particolare il primo Convegno Nazionale di Psicomotricità tenutosi il 26 e 27 giugno del 1981 a Salsomaggiore Terme e il Convegno Internazionale di Psicomotricità a Firenze nel 1982, portato avanti nel 1984 all’Aja consentirono l’esposizione delle basi per il futuro riconoscimento istituzionale della professione.

Tuttavia la possibilità di riconoscere e di assegnare una definizione chiara e coerente dell’intervento psicomotorio si concretizzò solo durante il Convegno Nazionale di Salsomaggiore Terme (Novembre 1985), in occasione del quale il professor Bollea espose l’esigenza di porre una base comune ai differenti percorsi formativi.

Tale necessità venne affrontata nel 1986 a Roma, presso l’Istituto di Neuropsichiatria Infantile nel corso della prima riunione che vide partecipi tutti i direttori delle Scuole di Psicomotricità. Un anno dopo, nel 1987, nacque l’ANUPI, ovvero l’Associazione Nazionale Unitaria Psicomotricisti Italiani che tutela, nel settore sanitario e sociale, il riconoscimento della figura della professione di Psicomotricista. Nel 1993, le Scuole a Fini Speciali per Terapisti della Riabilitazione della Neuro e Psicomotricità dell’età evolutiva vennero convertite in Corsi di Diploma Universitario.

Intorno la seconda metà degli anni Novanta, l’ANUPI insieme ad alcuni esponenti della neuropsichiatria infantile italiana, presentò l’esigenza di integrare i saperi teorico-pratici del Terapista della Neuro e Psicomotricità con quelli dello Psicomotricista, affinché fosse possibile individuare ed istituire un profilo professionale specifico per l’età evolutiva.

Di fatti con il Decreto n.56 del 1997, firmato dal Ministro della Sanità Rosy Bindi, venne istituita la figura professionale del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva che con la Legge n.251 del 10 agosto del 2000, entrò a far parte delle Professioni Sanitarie della Riabilitazione.

Successivamente con la Riforma Universitaria del 2001, il Diploma Universitario venne trasformato in Laurea di primo livello in Terapia della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva. Nel 2004, altra conquista, fu l’inserimento del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva all’interno della classe STN-2 delle professioni sanitarie della riabilitazione.

Infine, l’11 gennaio 2018 con l’approvazione della Legge n. 3, il TNPEE raggiunse un ulteriore riconoscimento e venne collocato tra i professionisti facenti parte dell’Ordine dei Tecnici Sanitari di Radiologia Medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche della Riabilitazione e della Prevenzione (TSRM PSTRP).

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La figura professionale del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva

Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva è il professionista sanitario laureato che svolge attività di abilitazione, di riabilitazione e di prevenzione nei confronti delle disabilità dell’età evolutiva (si considera la fascia di età compresa nell’intervallo 0-18 anni).

La cornice teorica all’interno della quale il terapista opera è quella del Modello bio- psico-sociale. Secondo tale modello l’esito della malattia così come della salute deriva dall’ interazione complessa di plurimi fattori. Inoltre adottato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nella Classificazione Internazionale del Funzionamento, delle Disabilità e della Salute – Versione Bambini e Adolescenti (ICF-CY) diviene per il TNPEE strumento di riferimento al fine di determinare gli obiettivi della sua azione.

Rispetto le attività di riabilitazione, il TNPEE sostiene i processi di riorganizzazione funzionale attuando interventi terapeutici-riabilitativi nelle menomazioni. Attraverso l’uso di tecniche specifiche per fasce d’età, per singoli stadi di sviluppo e interventi adattati alle caratteristiche dei pazienti con quadri clinici multiformi che, in relazione alle funzioni emergenti si modificano nel tempo, effettua anche attività terapeutica per le disabilità neuropsicomotorie, psicomotorie e neuropsicologiche.

Nelle attività di abilitazione invece, in accordo con l’età e il livello di sviluppo del bambino, promuove al fine di assicurare l’attività e la partecipazione, l’acquisizione di funzioni. Per soggetti a rischio biologico e sociale, pratica anche attività di prevenzione, anticipando l’attualizzazione di percorsi di sviluppo atipici e l’esclusione dagli abituali contesti di vita del soggetto diversamente abile, supportando la generalizzazione delle competenze apprese all’interno del setting terapeutico. In conclusione la figura professionale del TNPEE cerca dunque di favorire, attraverso la maturazione di strutture neurobiologiche e la graduale acquisizione di funzioni motorie, prassiche linguistiche e sociali un percorso di sviluppo globale che interessi la crescita completa della persona.82

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Il setting terapeutico

In neuro psicomotricità ogni seduta terapeutica ha un suo setting specifico, costruito in relazione alle caratteristiche dell’individuo. In linea generale, il setting terapeutico è lo spazio fisico privilegiato, predisposto ed adattato in funzione dell’incontro. Tale spazio che sia una stanza, un laboratorio o una palestra va oltre il luogo fisico, diviene infatti anche situazione, stato d’animo e disponibilità all’incontro. Tendenzialmente si consiglia uno spazio ampio e luminoso, dove il bambino possa esprimersi e muoversi liberamente. All’interno di questo spazio gli oggetti vengono poi divisi e disposti secondo gli stadi evolutivi caratteristici dello sviluppo psicomotorio. saranno dunque presenti lo spazio tonico emozionale, lo spazio senso motorio, lo spazio simbolico e quello reale.

Nello spazio tonico emozionale è presente un tappeto morbido, dei peluche e delle coperte affinché il bambino possa sperimentare sensazioni di abbandono e rilassamento che rinviino a situazioni di dialogo tonico con il caregiver. Nello spazio senso motorio invece, si trova materiale non strutturato, di medie e grandi dimensioni, visibile ed accessibile al bambino quale cerchi, bastoni, corde, costruzioni morbide e palloni di diverse dimensioni. Questi oggetti permettono ai piccoli di raccogliere informazioni dall’ambiente, sperimentare movimenti e sviluppare pensieri.

Lo spazio simbolico vedrà invece giochi come la casetta, i bambolotti, lo specchio ed i libri. Per finire nello spazio del reale verranno posti il tavolino e le sedie, qui il bambino potrà esprimersi a servizio del pensiero, mantenendo una motricità più controllata attraverso ad esempio attività grafo pittoriche e puzzle.

Considerata fino a qui la componente dello spazio nel setting, è ora fondamentale prendere in esame anche il tempo. Ciascuna seduta ha infatti un suo modo di essere, si compone di quattro fasi temporali che sono la fase d’ingresso, la fase centrale, quella di pre-congedo e quella di congedo per una durata totale di circa 45 minuti/ 1 ora. In base alle necessità del piccolo e della famiglia, alla tipologia d’intervento, alla disponibilità dei servizi e delle strutture ospedaliere verrà poi definita la frequenza delle sedute settimanale (generalmente si effettuano due incontri settimanali).

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L’esigenza di definire il legame tra Psicomotricità e cultura

Negli ultimi anni sempre più sono le città Europee “multiculturalizzate”, che accolgono difatti un numero importante di persone immigrate. Ciò comporta, oltre che la diffusione ed il consumo di beni, la presenza di culture, idee di sviluppo e di benessere del corpo e della mente differenti. Ma non solo, in Italia, come nel resto del mondo la necessità di rispondere alle specifiche esigenze di salute e di cura dei nuovi cittadini sta determinando la riorganizzazione delle infrastrutture, tra le quali anche quelle riguardanti i servizi socio-sanitari. Diverse difatti sono le strutture ospedaliere ed ambulatoriali che stanno investendo nella ricostituzione in termini trans-culturali di servizi relativi il campo della Psichiatria, della Psicologia e della Medicina generale.

Allo stesso modo anche la Psicomotricità, quale pratica sanitaria, ha il dovere deontologico e scientifico di aggiornarsi rispetto le conoscenze interculturali.

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Il contributo delle neuroscienze nella comprensione delle problematiche interculturali: la scoperta dei neuroni specchio

La necessità d’apertura delle pratiche psicomotorie in senso interculturale iniziò in passato per merito di studi condotti da autori quali Georges Devereux, Tobie Nathan, Marie Rose Moro, Bruner e Gardner.

Ad oggi sicuramente le nuove consapevolezze nel campo delle neuroscienze svolgono un ruolo cruciale nella ricerca interculturale. In particolare la scoperta dei neuroni specchio, avvenuta nel 2006 da parte di Rizzolatti e Sinigaglia conferma l’ipotesi secondo la quale la differenza culturale può talvolta comportare problematiche nella comunicazione e comprensione reciproca. I neuroni-specchio “mostrano come il riconoscimento degli altri, delle loro azioni e perfino delle loro intenzioni dipenda in prima istanza dal nostro patrimonio motorio”.83 Di conseguenza, permettono al nostro cervello di collegare i movimenti che osserviamo alle nostre competenze motorie, consentendoci di riconoscere, senza alcun ragionamento le azioni compiute da altre persone. Tuttavia il riconoscimento del significato del gesto avviene soltanto se questo è incluso nel nostro patrimonio motorio, per cui non verrà identificato un gesto di cui non è stata fatta esperienza. D’altra parte, il nostro corpo nasce già all’interno di una data cultura e le esperienze, specialmente quelle legate alle relazioni interpersonali, orientano lo sviluppo delle funzioni e delle strutture cerebrali influenzando i programmi di maturazione geneticamente determinati del nostro sistema nervoso.84

Concludendo l’incontro tra due individui appartenenti a differenti culture può creare quindi incomprensioni che possono essere superate per mezzo di una specifica capacità psicologica definita da Giovanni Pampanini come Intercultural Intelligence. 85

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Evoluzione del concetto di etnopsicomotricità: psicomotricità interculturale

In Europa il prefisso -etno venne associato per la prima volta, nel 1944, grazie agli scritti pubblicati da Placide Tempels, missionario belga in Congo, alla filosofia. Tale prefisso, applicato negli stessi anni anche ad alcune scienze umane, quali l’etno-psicologia, l’etno-pedagogia, l’etno-psichiatria, l’etno-psicoanalisi e l’etnopsicomotricità si configurava come visione esterna rispetto il modo di pensare appartenente ad altre culture piuttosto che vero e proprio dialogo democratico fra culture differenti. Per questo motivo il confronto epistemologico fra culture e civiltà venne successivamente definito da autori come Berry, Ancora e Inghilleri, attraverso aggettivi quali transculturale o interculturale.86 L’impiego di tali aggettivi favorì di conseguenza l’integrazione di nuove visioni, nuove teorie e interpretazioni del mondo da parte delle scienze umani e sociali.

Analizzando tali considerazioni Melita Cristaldi87 preferì la denominazione di “Psicomotricità interculturale” a quella di etnopsicomotricità, nonostante quest’ ultima identifichi ancora oggi per l’OIPR di Parigi, ovvero l’Organisation International de Psychomotricité et Relaxation la pratica psicomotoria destinata agli individui appartenenti ad una cultura diversa da quella del terapista. Il rifiuto del prefisso proposto dall’OIPR dipese dall’idea che non si riferisse ad un’effettiva psicomotricità, ma difatti ad imprecise metodologie attuate in situazioni non occidentali. Parlando di Psicomotricità interculturale al contrario, prevarrebbe secondo l’autrice il sostantivo disciplinare. Per cui la Psicomotricità, in relazione alla trasformazione della società, in termini multi ed interculturali, dovrebbe modificarsi. Come riportato dall’autrice: “esiste un bisogno di ripensare le pratiche, e forse anche le basi teoriche, della Psicomotricità in quanto scienza umana che si focalizza sul corpo e sul vissuto a partire dalla constatazione, largamente condivisibile, che la stessa percezione di base, normale, che ormai tutti i cittadini delle società multi- ed interculturale abbiamo del corpo risente in maniera importante del clima interculturale della società in cui viviamo”. 88

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L’approccio riabilitativo in ottica transculturale

Nel primo capitolo il paragrafo relativo al maternage interculturale ha permesso di comprendere, seppur sinteticamente, l’importanza assunta dal corpo per alcune culture piuttosto che altre. Il diverso investimento del corpo potrebbe però divenire problematica nella creazione di una buona e serena relazione terapeutica.

Si pensi ad esempio a famiglie originarie dell’India, della Cina, del Giappone o dell’Africa, che in Europa e più nello specifico in Italia, si debbano rivolgere ad un Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva per il malessere adattivo o la patologia del figlio. Nonostante le modificazioni apportate dal fenomeno migratorio all’interno della cultura occidentale, il bambino sarà portatore di una cultura d’origine notevolmente differente da quella del paese accogliente. All’interno del setting terapeutico il terapista cercherà di cogliere strategie opportune ed individualizzate, che gli consentano di valorizzare ed affrontare rispettivamente i punti di forza e quelli di debolezza del bambino. Contemporaneamente tenterà di trovare modalità che gli permettano di oltrepassare quel senso d’inadeguatezza, emerso nell’incontro con il piccolo, rispetto la sua stessa preparazione personale. In questi casi l’operatore entra in relazione con il paziente attraverso l’uso di competenze personali che esulano dalla sola formazione professionale e teorica. Seguendo il punto di vista proposto da Melita Cristaldi diviene essenziale considerare quali siano i riferimenti culturali del paziente, gli oggetti di culto, i sistemi di cura ed i riti. Tale attenzione sarà necessaria per capire quali oggetti scegliere ed utilizzare in terapia.

Indipendentemente dalla cultura di origine del paziente, il terapista dovrà quindi essere in grado di creare un setting accogliente ed efficace, nel quale il bambino e la famiglia si possano sentire rispettati. Il setting terapeutico diverrà in questo modo spazio intermedio tra cultura e psiche, in cui offrire a culture differenti la possibilità d’entrare in contatto e vivere esperienze condivise scoprendo punti d’incontro fra lingua madre e lingua appresa, cultura d’origine e cultura ospitante, processi psichici intrapersonali ed interpersonali.

Tuttavia le ricerche condotte nell’ambito della Psicomotricità interculturale, riportano la persistenza di questo senso di inadeguatezza nell’operatore, nonostante quest’ ultimo riesca a definire ed attuare un progetto d’intervento riabilitativo efficace.


  • 80 Wille A.M. e Ambrosini C. (2010), Manuale di terapia psicomotoria dell’età evolutiva, Napoli, Cuzzolin.
  • 81 Giuseppe Mele, Valdo Flori, and Giuseppe Mele, ‘Il M Edico P Ediatra’.
  • 82 ‘Il Terapista Della Neuro e Psicomotricità Dell’età Evolutiva, in Italia in Europa e Nel Mondo: Nascita, Evoluzione e Diffusione Della Figura Professionale’, Maggio, 2020, pp. 52–70 .
  • 83 Rizzolatti G., Sinigaglia C., “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni Specchio”. Milano, Raffaello Cortina, 2006.
  • 84 Siegel D.J. (2014). “Mappe per la mente. Guida alla neurobiologia interpersonale”. Milano, Raffaello Cortina, 2014.
  • 85 Pampanini G., “Intercultural Intelligence”. Catania, Cuecm, 2011.
  • 86 Ancora L., “La dimensione transculturale della psicopatologia. Uno sguardo da vicino”. Roma, Edizioni Universitarie Romane, 1997. Inghilleri P. et. al., “Medicina, salute e malattia”, in Mazzara B.M., a cura di, prospettive di psicologia culturale.Modelli teorici e contesti d’azione, Roma, Carocci, 2007.
  • 87 Melita Cristaldi, nata a Catania nel 1969, psicomotricista, neuro psicomotricista ed esperta nei processi formativi è attualmente insegnante di scuola primaria e coordinatrice del Polo Catanese di Educazione Interculturale-Global Teacher Centre.
  • 88Cristaldi M., “La Ricerca in Psicomotricità Interculturale”, Catania, Cuecm, 2008.

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