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Basi emotive dell’apprendimento e risvolti in Terapia Neuropsicomotoria

“ Un ambiente facilitante deve avere qualità umane, non perfezione meccanica”.

(Winnicott - Dal luogo delle origini 1990; pag. 149)

“Sperimentare i limiti del proprio vissuto corporeo aiuta a capire le nostre possibilità, con chi ci è consentito usarle e quando è necessario tirarsi indietro”…

(Libera traduz. da: “La formazione in neuro e psicomotricità dell’età evolutiva alla Salpétrière”, relazione di Madame Françoise Giromini al Convegno: Motricità, pensiero e linguaggio dal concreto al simbolico. 8-10 Febb. 2007, Università di Milano Bicocca).

Mi sembra importante a questo punto poter ammettere che esiste un parallelismo significativo tra il comportamento materno primario e “l’abitus”, o “atteggiamento mentale” nella relazione d’aiuto, che il terapista dell’età evolutiva intrattiene con il paziente; ed è attraverso questa chiave di lettura che io intendo avvicinarmi al compimento del tema trattato.

Riprendo qui la teoria cui si rifanno i fondamenti della concezione psicoanalitica dell’apprendimento e dello sviluppo, secondo cui le capacità di apprendimento di ogni bambino, si sviluppano dal modo in cui egli vive il suo rapporto primigenio con la madre e in particolare con il corpo materno, con il seno materno in primo luogo, e da come vive l’esperienza alimentare…Il rapporto alimentare che unisce il bambino alla mamma non è solo un’interazione fisica ma uno spazio che, da un lato, coinvolge profondamente le strutture psichiche della mamma, dall’altro è il luogo in cui si forma la prima mente del bambino. In questo senso lo sviluppo cognitivo dipende innanzitutto dalla qualità dell’incontro fra le emozioni della madre e quelle del bambino, (fra le emozioni del terapista e quelle del piccolo paziente)...

Il primo abbozzo di un tema psichico è quindi concepibile nei termini di un sistema alimentare, connotato dalla situazione emotiva della madre e del bambino. Studi relativamente recenti sull’importanza dell’allattamento al seno nella relazione e nell’accrescimento, confermano (da varie fonti emergono ricerche), come neonati allattati al seno più a lungo si rivelino poi bambini più competenti, sicuri e felici.

La prima esperienza relazionale vissuta dall’individuo con la madre si configura quale prototipo del modo di conoscere che l’individuo userà successivamente. Da qui possiamo forse meglio comprendere il parallelismo con “il processo alimentare e digestivo” reso da Piaget in termini di conoscenza, secondo cui l’incorporazione e l’assimilazione di “oggetti nuovi” negli schemi della condotta, richieda necessariamente un accomodamento e una riequilibrazione maggiorativa adattata al bisogno di conoscere. Sappiamo come in tutto ciò le emozioni svolgano un ruolo significativo.

Klein ci ha ampliamente dimostrato come il neonato vive l’esperienza alimentare che lo lega alla madre attraverso fantasie inconsce che colorano emotivamente questa relazione primitiva e costituiscono una prima possibilità di dare un significato psichico all’interazione con la realtà esterna di cui la madre è il primo referente. La presenza di sentimenti distruttivi come l’invidia, l’aggressività e l’avidità connessi alla dipendenza dal seno come primo oggetto di rapporto non sempre presente (Klein 1935), porterebbe il bambino a reagire proiettando fuori di sé, sulla madre questi sentimenti e le fantasie ad essi connessi che diventerebbero così le prime rappresentazioni psichiche con cui egli significa e conosce, sia pure in modo distorto e terrifico la realtà. Ciò che viene incorporato, precisa Bion a questo proposito, non è solo il latte quale nutrimento; il bambino infatti, può sperimentare in una buona esperienza di allattamento, un benessere non solo fisico, ma psichico, a tal punto che può sentire il bisogno di possedere lui stesso il latte e le relative sensazioni buone. La relazione madre-bambino, inoltre è già di per sé una possibilità di conoscenza, poiché la madre non solo contiene i messaggi emotivi del bambino, ma li pensa, li elabora e li decodifica. La funzione materna diventa così, possibilità di aiutare il bambino a dare un significato alla propria esperienza, anche ai sentimenti più distruttivi. E’ dunque importante che la madre possa pensare e differenziare i sentimenti e le emozioni che connotano gli stati di disagio, fisico e psichico del neonato legati per esempio, all’assenza del seno, ancora ignorato ma necessario per la sua serenità. In questo senso, secondo Bion, la“tolleranza alla frustrazione”, presente in misura diversa nella personalità infantile, può essere incrementata o meno a seconda del contesto in cui vive il bambino. La “funzione genitoriale” può aiutare il bambino a trasformare e attenuare la sofferenza psichica dell’apprendere e relazionarsi con il mondo esterno, nella misura in cui la stessa madre può trattenere e trattare nella sua mente le proprie ansie e difficoltà e rimanere nel contempo, in contatto con il bambino quando questi evidenzia modalità e ritmi relazionali incomprensibili o, per lei negativi e difficili da accettare. Ciò è possibile se la mamma, a sua volta, può accogliere le proprie parti più piccole e insicure nell’apprendimento del ruolo materno.

Per Bion, come per Winnicott l’apprendimento autentico nasce solo nell’esperienza. L’esclusione della dimensione emotiva dalla propria realtà mentale, dovuta all’intolleranza del dolore psichico, può portare alla realizzazione di un apprendimento astratto, del tutto intellettualistico, in ultima analisi “fasullo”. Meltezer ritiene che la percezione del mondo esterno dipenda dall’organizzazione del mondo interno; in altre parole,”l’esperienza del mondo esterno è limitata dalla struttura dei rapporti con gli oggetti interni” (Meltezer 1964, p. 273), ciò dipende da come sono organizzati nella mente i rapporti tra oggetti e figure interiorizzate, (quando il bambino ha già compiuto questa operazione attraverso la capacità di rappresentazione simbolica), ma anche da cosa e come si conservano le esperienze con oggetti e figure significative della propria storia personale.

L’apprendimento quindi non va visto come fatto esclusivamente intellettuale, né esclusivamente dipendente dallo sviluppo delle strutture neurologiche, ma in quanto dipendente direttamente dallo sviluppo (presente o mancante o incompleto) delle emozioni, cioè dalle vicissitudini emotive che determinano la qualità e il tipo d’incontro con gli oggetti del mondo esterno.

Nello studio fatto da Didier Anzieu ne: “Il corpo e il codice nei racconti” di J. L. Borges, egli mostra in effetti, come secondo questo narratore argentino, il codice linguistico, principio e modello di tutti i codici, è lo sfruttamento simbolico del corpo della madre, da cui esso emerge e con il quale fa corpo esso stesso”. Borges, scrive Anzieu, è il narratore dell’alba del linguaggio... “Ci rende partecipi della gioiosa meraviglia del bambino che scopre che il suo corpo coincide con un codice e che egli può giocare con questo codice proprio come sua madre e lui hanno fin qui giocato con il corpo dell’altro”. In altre parole, il modo in cui la madre valorizzerà e soddisferà le domande del bambino e, di conseguenza, la propria (la soddisfazione del bambino soddisferà lei stessa), fisserà quel modo particolare di domanda nel copro infantile, lo iscriverà in quella zona erogena, in quel movimento o in quel segnale di richiamo. Insomma, in ogni percezione del nostro corpo, noi possiamo ritrovare la presenza singolare di nostra madre. E’ nostra madre che fonda la relazione libidinale con il nostro corpo, la nostra maniera di amarlo a seconda del modo in cui ella stessa lo ama, fonda anche la nostra percezione di questo corpo, la nostra maniera di percepirlo.

Esiste di fatto da sempre un’attenzione peculiare delle madri alle malattie, così come ai segni d’angoscia. Nel neonato la sofferenza e i segni di malattia sono per la madre i segnali più forti, promuovendo questa sofferenza per sempre come sigillo della validità della domanda d’amore. Se come dimostrato, il bisogno di relazione è un bisogno fondamentale e primario come i bisogni biologici, il bambino nel suo processo di sviluppo necessita “…Sì di latte, ma più ancora di essere amato e di ricevere carezze”, (Leboyer, 1976) e di “una relazione con una persona che lo aiuti a contenere, a elaborare le sue ansie e la sofferenza mentale che accompagna l’apprendimento”…(Blandino, Granieri, 1996).

Il bambino, proprio perché bambino, non è in grado di separare, non è capace cioè di porsi a distanza dagli avvenimenti del passato in quanto il suo passato è ancora tutto nel suo presente. Infatti egli è strettamente unito a tutta la sua storia affettiva, anche la più profonda, ed è nell’agito, nell’azione, nel gioco simbolico e fantasmatico che egli si rivela.

Se nel setting si instaura una corretta relazione, per relazione intendo la capacità di accogliere e di rispondere nel modo più adeguato alle richieste più profonde del paziente, il mondo fantasmatico non solo trova spazio e riconoscimento, ma viene soprattutto separato da quello dei genitori. E’ in un tale contesto ed in virtù di tale separazione fantasmatica che il bambino può sperimentare un nuovo vissuto di sé e raccontarsi in modo diverso da come è stato raccontato. “Il bambino raccontato e il bambino immaginato, vanno dimenticati all’inizio della terapia per favorire l’incontro con il bambino reale”. (Rosanna Negretto, psicomotricista e formatrice A.S. ’87-’90, Corso di Terapia psicomotoria del Dott. R. C. Russo – Milano).

I legami tra una funzione complessa quale è quella dell’apprendimento e gli aspetti emotivo-affettivi che la sottendono e l’accompagnano trovano riscontro nell’apertura al gioco, nell’ascolto silente e privo di giudizio del terapista; anche nel lavorare con bambini con deficit cognitivo, (cosa che di sovente accade in terapia neuro-psicomotoria), va ricordato che apprendere è una funzione non solo dell’intelletto, ma direi in senso più lato e generale della “mente” in quanto luogo in cui avvengono i processi di elaborazione, simbolizzazione, rappresentazione, astrazione, quindi i processi che comportano la partecipazione di aspetti emotivo-affettivi e del mondo della relazione.

Se, com’è auspicabile, a questi ultimi viene offerto uno spazio d’ ascolto, di possibilità di espressione, lettura e di chiarimento, (attraverso il gioco “partecipato” tra bambino e terapista), è probabile che si verifichi in concomitanza anche un’evoluzione delle capacità mentali, ossia dei processi che sottendono l’apprendimento e che sono intimamente connessi alle emozioni.

Chi ha un deficit nella capacità di apprendere è una persona che non sa effettuare processi di “astrazione”. Si osserva spesso in terapia, anche nel gioco spontaneo, che un bambino può operare con oggetti “concreti”, o riferirsi a esperienze “concrete”, o riconoscere situazioni “concrete” ma che non sa estrapolare da questi oggetti, situazioni o esperienze, qualcosa di astratto e generale che le accomuni e le renda sempre riconoscibili e recuperabili nel proprio bagaglio di conoscenze, anche in assenza del dato concreto. Mi sembra qui importante poter riprendere ancora un punto della teoria piagetiana, secondo cui un passaggio ad un livello successivo di conoscenza può avvenire solo attraverso una negazione “dell’oggetto da apprendere”. Occorre che “l’oggetto” sia sufficientemente distante, sconosciuto, separato da noi, connotato da aspetti negativi di mancanza tali da poter suscitare in noi curiosità, desiderio di conoscerlo, tanto da spingere la nostra intelligenza a superare quella “lacuna cognitiva” (così la chiama Piaget), che ci separa dall’oggetto. Sul piano che riguarda le relazioni affettive possiamo vedere in parallelo, la crescita psicologica del bambino che deve ricevere da una madre solo “sufficientemente buona” le frustrazioni ottimali che gli permetteranno di riconoscersi e di riconoscerla come una persona separata, in grado di favorire un processo di sviluppo, sia psicologico che cognitivo (Winnicot). Le lacune cognitive” di Piaget e le “frustrazioni ottimali” di Winnicott, non devono essere troppo ampie e persecutorie per il bambino così da permettergli di sviluppare curiosità, interesse, desiderio, che stanno alla base di ogni conoscenza. Se ciò non accade vi è un ripiegamento su livelli precedenti di equilibrio, il disinvestimento, la depressione. Occorre a questo punto sottolineare che i processi descritti sono possibili e osservabili in tutti i bambini, indipendentemente dalla loro dotazione intellettiva. In questo percorso di conoscenza di sé e delle proprie potenzialità è fondamentale la figura del neuropsicomotricista come “accompagnatore”, e usando il termine adottato da Feuerstein, mi piace pensarlo anche in termini di “mediatore di senso”... Tale figura ha la funzione di allontanare, staccare il bambino dal dato percettivo (ciò che vede, che sente, che sperimenta), per aiutarlo a “generalizzare” quanto svelato, o appreso durante il gioco, ad incuriosirsi, a pensare, ad interrogarsi, a fare fantasie su quel dato, ad aiutarlo cioè ad uscire “ dalla ripetizione e dall’imitazione stereotipata”, per entrare “nell’immaginare, raccontare, personalizzare, trasferire”. Esempio: un percorso strutturato spontaneamente dal bambino, non solo per il piacere di muoversi, saltare, strisciare, entrare in gioco con l’altro, ma come una nuova modalità utilizzata dal bambino stesso (e fino a quel momento inconsapevolmente), per comunicare cose, pensieri, emozioni, fantasie…Difficoltà… Noi però vogliamo lavorare su ciò che c’è di positivo nel bambino; per far questo dobbiamo interessarci a ciò che egli sa fare e non a ciò che non sa fare… “Il migliore mezzo per aiutarlo a superare le sue difficoltà, è di fargliele dimenticare” (Lapierre, Aucouturier : La simbologia del movimento Edipsicologiche Cremona, pag. 17). La qualità della relazione e della comunicazione affettiva con il terapista può consentire al bambino di rassicurarsi sulle sue paure (sulla stessa attesa di successo nella terapia da parte nostra e degli adulti che lo hanno inviato), per ritrovare fiducia e sicurezza nelle sue qualità positive, che si possono scoprire e sviluppare a patto che non si sia “ottenebrati”da ciò che il bambino non riesce a fare...

Consideriamo per quanto riguarda il lavoro del neuropsicomotricista che il punto di partenza sia certamente quello di “cercare di far maturare” una relazione significativa e che per far questo sia necessario lavorare sugli aspetti emotivo-affettivi del bambino, al fine di creare le condizioni che lo indurranno gradualmente al “cambiamento” in termini evolutivi…

Gli aspetti psicomotori presenti in ogni singola seduta (e che imprimiamo nella memoria), nel gioco e nelle azioni che lo accompagnano e tenuti in grande considerazione anche nella psicoterapia infantile ad orientamento analitico: come lo sguardo, il timbro e il tono dell’emissione vocale, l’intensità e la forza muscolare impresse all’agire, le posture (nostre e del bambino)… Frammenti che ci rimandano il senso della continuità nel nostro procedere.

Ritengoo inoltre importante per i terapisti poter arricchire ulteriormente la propria “capacità di lettura” delle emozioni e dei vissuti che il bambino porta con sé, attraverso l’aggiornamento permanente e una formazione personale che aiuti a pensare ai vissuti (propri e altrui), anche in questi termini…Per comprender-si, e comprendere meglio insieme all’Altro: “La comprensione emerge dal lavoro/gioco di due o più persone insieme: Comprendere è un modo relazionale di essere e di conoscere”, (La comprensione emotiva, Casa ed. Astrolabio-Ubaldini ed., Roma, 2001), in cui il gioco, il giocare e la giocosità rappresentano certamente gli elementi più importanti legati al cambiamento, proprio perché la comunicazione che avviene sotto questa forma è intimamente legata al mondo delle emozioni. Per riuscirvi, veniamo meno al doppio divieto imposto alle terapie psicoanalitiche: “Non toccare, non essere toccati”…Sono forse questi alcuni degli aspetti più significativi e specifici del nostro lavorare insieme e per il bambino.

Nel capitolo di un libro che ho letto recentemente il collega Francesco Pucci scrive:“Si comprende l’altro cercando una sintonia, che è possibile trovare solo attraverso il gioco. Un gioco molto serio, in cui i partecipanti sono immersi totalmente, e si esprimono con l’autenticità di cui sono capaci. Autenticità che attinge dalla storia dei giocatori, che ospita le radici profonde dell’essere di ciascuno, i vissuti”…(Il Ponte- tra psicomotricità e Psicoterapia, a cura di G. Palo, Tirrenia Stampatori pag. 62).

Pensiamo anche al valore che riveste la percezione di sé e dell’altro attraverso l’imitazione speculare di alcuni gesti, o atteggiamenti spontanei del bambino nella ricerca di una sintonia nella riabilitazione neuropsicomotoria.

Riconosciamo a “fortiori” che “la crescita e lo sviluppo della personalità sono possibili solo all’interno di una relazione”, ossia ammettiamo comunemente come valido uno degli assunti di base del ”Vertice psicoanalitico” postulato da Bion nel 1970, cosa che ci accomuna al modo di pensare e di operare con il bambino nelle terapie ad orientamento analitico.

Possiamo inoltre ripensare ad alcuni aspetti delle terapie riabilitative dei bambini con deficit cognitivo e al valore di “mediatore” che qui assume il neuropsicomotricista nel cogliere le immagini dei vissuti di “inadeguatezza e di “prevalente insuccesso scolastico” del bambino e le aspettative sociali (ambiente scolastico, figure genitoriali, gruppo di appartenenza), nel “comune pregiudizio su cosa sia: LA NORMALITAa scuola”. La considerazione che a questo punto propongo vuole essere una riflessione sul diverso stato di coscienza con cui un adulto ed un bambino giungono in terapia. L’adulto effettua una scelta, più o meno consapevole del lavoro personale che dovrà affrontare, si fa carico della sua terapia. Il bambino invece, non ha consapevolezza, altri scelgono e decidono per lui e alla terapia viene sempre portato. Mentre l’adulto è in grado di riconoscere e decide di affrontare i propri problemi, il bambino portato “è il problema”. E’ il “pezzo” dell’ingranaggio famigliare che funziona male, che fa difetto ed i genitori lo portano “dall’esperto”, (lo pagano), pur di avere in cambio una “buona riparazione”.

E’ allora possibile capire come sia facile far assumere al bambino il ruolo di “sintomo” e il rischio di chi fa terapia ai bambini è di confermarli in tale ruolo se non vengono prese in carico anche le figure parentali in modo che l’intervento terapeutico, seppure in maniera diversificata, diventi un cammino comune.

Il ritardo mentale che sappiamo bene essere presente in molti quadri malformativi e in sindromi con un’alterazione cromosomica o genetica, può essere esito di processi infiammatori (meningiti o encefaliti), su base batterica o virale, può essere associato ad altri disturbi del sistema nervoso centrale, come le paralisi cerebrali infantili, o certe forme di epilessia, o far parte di un quadro di disturbo relazionale. Nel ritardo mentale si fa riferimento normalmente alle valutazioni effettuate con i test intellettivi e si parla di ritardo mentale lieve (Q.I. 70-50), medio (50-35) e grave –gravissimo (sotto 35). Si tratta di limiti con una certa variabilità, che permettono però di prevedere acquisizioni possibili e problemi da affrontare.

E’ attualmente condivisa la definizione della “mente” come prodotto delle interazioni fra le esperienze interpersonali e le strutture e le funzioni del cervello. Sono molte le discipline che si occupano di questo campo; così mentre da una parte gli enormi progressi nella ricerca neurobiologica favoriscono talvolta un atteggiamento di “determinismo biologico”, come se i disturbi mentali e/o psicologici fossero determinati da meccanismi biochimici, geneticamente determinati e scarsamente influenzati dalle esperienze dell’individuo (autismo, disturbi dell’attenzione, disturbi bipolari), al contrario le ricerche più recenti, dimostrano che lo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali, dipende dall’interazione con l’ambiente, ed in particolare dai rapporti sociali, dalle relazioni umane (rapporti interpersonali), favorendo quindi un approccio che sappia integrare le conoscenze provenienti dalle differenti discipline. La mente (psiche), esprime il funzionamento globale della persona, riguarda lo sviluppo del sé, dell’identità personale, considera gli aspetti emotivi strettamente connessi, alle funzioni intellettive, al pensare e al capire. La conoscenza si basa sul rapporto tra il pensiero e la realtà, sulla possibilità di stabilire rapporti di continuità tra cose e persone (oggetti fisici) e le loro rappresentazioni mentali: le esperienze elaborate in immagini promuovono l’attività di pensiero, il ricordo.

Ecco perché in terapia neuropsicomotoria diviene fondante per il bambino “il fare” e “il poter fare insieme”, quando necessario e in certa buona misura “il lasciar fare”... A questo proposito mi viene in mente la famosa massima pedagogica di Giuseppina Pizzigoni, ancora oggi esposta all’ingresso della Scuola Rinnovata di Milano e rivolta ai bambini e agli adulti in generale, (come a chiunque insaturi una relazione autentica con l’altro e si ponga come meta l’evoluzione dell’altro), che dice: “Fare, saper fare, fare per saper fare, far sapere”. E’ altresì vero che queste considerazioni ci impongono un richiamo altrettanto importante e promettente ma di valenza opposta, specie di fronte alla resistenza dei bambini, alla loro inibizione, che ci parla della difficoltà ad incontrare il piacere a lasciarsi andare, a sperimentare il piacere del movimento, il piacere della relazione…In casi del genere, resistere alla tentazione di agire è forse la cosa più difficile! Il desiderio di provocare un qualsiasi movimento che venga a spezzare l’immobilità può diventare molto forte ed una non buona gestione della propria ansia, può spingere ad agire in modo privo di senso e pericoloso.

Attraverso lo sguardo attento del terapista sul bambino, la storia del bambino si snoda a partire dalle sue scelte, (anche dai suoi silenzi e dalla sua immobilità), dal materiale che ci porta” (i contenuti psico-emotivi dei giochi che compie), dagli oggetti che sceglie di investire (o di non investire), dai ruoli che ci attribuisce e dal loro significato nella dinamica spazio – tempo e fin dai primi incontri. “Il gioco in quanto spazio condiviso di senso e’” non solo a mio parere, “lo strumento della relazione utile per il passaggio dall’azione al pensiero, (Dott.ssa Cristina Redaelli, pag. 126 in Il Ponte tra psicoterapia e psicomotricità, op. citata), ma anche “il luogo” in cui esso ci si svela.  

Il lavoro dal concreto al simbolico, dalla spontaneità e istintività dell’atto motorio, alla creatività come ricerca intenzionale di nuovi e condivisi interessi, mi sembra rappresenti forse il fulcro della relazione d’aiuto e del cambiamento possibile, in un percorso di crescita comune che consenta al bambino di sorprendere sé stesso e noi…In tutto ciò l’intelligenza rappresenta così solo un aspetto, una funzione parziale che riguarda l’aspetto biologico del cervello, riguarda il conoscere e il capire aspetti della realtà concreta o astratta, integrati con altri aspetti della persona. …Tenuto conto che comunicare veramente vuole dire anche avere pazienza, in uno sforzo di comprensione e avvicinamento reciproco e che la buona comunicazione é data dalla capacità di approssimarsi poco per volta al pensiero altrui, si rivela prezioso il silenzio… “Non si dovrebbe dimenticare che il silenzio non è assenza di comunicazione, ma una modalità comunicativa molto pregnante; non necessariamente un vuoto, ma spesso un valore, uno spazio per pensare che aiuta a far nascere delle idee: il silenzio è la gestante dei pensieri innovativi”. (Giorgio Blandino, Bartolomea Granieri, La disponibilità ad apprendere- Raffaello Cortina ed. p. 190).

 

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