NEURO e PSICOMOTRICITÀ come tecnica terapeutica
La PSICOMOTRICITÀ (Toni e Giovanardi, 2011) nasce dall’esigenza di trovare risposta ad alcuni disturbi dell’infanzia che non trovano una diagnosi esaustiva in ambito medico e psicologico. Si sviluppa inizialmente in Francia, dove nel 1966 viene fondata la Società Francese di Educazione e Rieducazione Psicomotoria (SFERPM); il movimento, che pone al centro della propria ricerca l’unità biopsichica della persona, riceve un’ulteriore spinta innovativa nel 1968, grazie alla quale psicomotricità si diffuse in Spagna, Italia, Germania, Belgio, Svizzera e Canada. I successivi Congressi Internazionali (Grenoble, 1972; Lussemburgo, 1973; Nizza, 1974, Ginevra e Bruxells, 1976; Liegi, 1978; Madrid, 1980; Firenze, 1982), fanno emergere l’esigenza di un inquadramento a livello istituzionale, che avviene, sempre in Francia, nel 1988.
Nonostante il primo articolo del decreto che formalizza la figura dello psicomotricista affermi che lo psicomotricista è abilitato a svolgere attività rieducativa a fronte di disturbi, debolezze o inibizioni riscontrate a seguito di un esame neuropsicologico e solo dopo una prescrizione medica che ne autorizza il trattamento (Toni e Giovanardi, 2011, p. 104), alcune associazioni di insegnanti, educatori e terapeuti si distinsero nella ricerca prendendo, sostanzialmente, tre direzioni diverse:
un indirizzo a carattere terapeutico, sostenuto da psichiatri e pedopsichiatri, un secondo, rieducativo, sostenuto da esperti di educazione fisica o figure paramediche ed infine un terzo indirizzo educativo, al quale hanno aderito principalmente gli insegnanti.
Chi contribuì all’evoluzione dell’approccio terapeutico fu innanzitutto Julien de Ajuriaguerra (1911-1993). Medico e psichiatra, diventò Professore di Psichiatria all’Università di Ginevra dove collaborò con Jean Piaget e, grazie anche agli apporti di Wallon, Husserl e Merlau-Ponty , giunse alla definizione di disturbo psicomotorio come un evento legato alla volontà del movimento.
Nel frattempo, nel 1961, l’Ospedale Henri Rousselle istituì il primo corso di rieducazione psicomotoria e nel 1963 nacque il primo certificato di competenza in rieducazione psicomotoria; ma fu nel 1967 che Gisèle Soubirain, collaboratrice di Ajuriaguerra, fondò l’Istituto Superiore di Rieducazione Psicomotoria (ISRP), riconosciuto successivamente dal Ministero della Salute francese ed in grado di rilasciare il Diploma di Stato di Psicomotricista.
L’Istituto francese ha fondato in seguito alcune delegazioni in Europa e all’estero, tra cui il Centro Italiano Studi e Ricerche in Psicologia e Psicomotricità (CISERPP), diretto da Boscaini. In Italia la formazione come psicomotricista avviene presso la sede della delegazione che è situata a Verona, e prevede un percorso triennale in psicomotricità in cui vengono alternate lezioni teoriche e pratiche. A questo va sommato un biennio per la specializzazione in tecniche di rilassamento (Metodo Jacobson, Schultz, Bérgés e Soubirain). Per ottenere l’equipollenza con il titolo francese, sono obbligatorie 100 ore di frequenza da effettuarsi presso l’Università Estiva che si svolge presso la sede dell’Istituto a Parigi, ove vi è anche la discussione della tesi finale. Sia l’istituto francese, che la delegazione italiana, il rilascio della certificazione di competenza in psicomotricità in Italia e del diploma di laurea in Francia avviene dopo un tirocinio complessivo di circa 800 ore, da svolgersi presso le Ulss ed i centri di riabilitazione convenzionati.
Il metodo Soubirain, al quale farò riferimento in questa tesi, segue il filone terapeutico di Ajuriaguerra e propone un approccio corporeo alla persona come sintesi unificante di aspetti biologici, cognitivi, affettivi e relazionali (Boscaini, 2008), da non limitare esclusivamente al periodo dello sviluppo, ma da estendere all’adolescenza, alla maturità, fino alla terza età.
La psicomotricità così intesa, si focalizza sulla conoscenza di sé, sulla consapevolezza, nel qui ed ora, del saper fare e del poter fare attraverso il corpo e trova la sua massima espressione nell’armonia tra schema corporeo ed immagine corporea nella relazione (Boscaini, 1992).
Trattandosi, però, di una disciplina che ha come oggetto le patologie legate alla motricità, intesa sia nel suo aspetto strumentale sia relazionale, agisce indirettamente sul modo di costruire la realtà attraverso l’attribuzione di significato agli eventi, che, come abbiamo visto nel primo capitolo, é condizionato dai rapporti interpersonali (Siegel, 2001).
Il corpo in psicomotricità è il veicolo attraverso cui il soggetto, con tutto il suo complesso bagaglio di esperienze, si relaziona all’esterno. La qualità dei rapporti interpersonali dà un feed back emozionale che, alla luce di quanto precedentemente affermato in merito alla plasticità cerebrale, è fortemente determinante anche in riabilitazione neuropsicologica, soprattutto in traumi complessi come il tumore cerebrale, di cui parleremo nel prossimo capitolo.
Affinché si possa parlare di psicomotricità in ambito terapeutico, è necessario definire quale è il corpo al quale la disciplina fa riferimento, in quanto assume un significato diverso a seconda del modello di riferimento professionale (Boscaini, 1992):
- il corpo inteso come corpo strumentale o funzionale, visto nella sua capacità di adattamento alla realtà esterna è di competenza della medicina;
- il corpo cognitivo, inteso come capacità di assimilazione e rielaborazione della realtà esterna, è di competenza della pedagogia;
- il corpo tonico, inteso come base delle relazioni affettive, delle prime conoscenze importanti nella vita di un individuo, non in senso quantitativo ma qualitativo, è di competenza dello psicomotricista;
- il corpo fantasmatico, che fa riferimento agli aspetti pulsionali dell’individuo, è di competenza della psicoterapia di formazione dinamica.
E’ quindi il corpo tonico ad essere di competenza dello psicomotricista, che esegue la sua analisi attraverso alcuni mediatori corporei: tono, motricità, parola, qualità del dialogo tonico, del linguaggio, della comunicazione gestuale, dell’organizzazione posturale intesa come attivazione all’azione e organizzazione posturo-cinetica, che sono i mezzi elettivi per esprimere tutto ciò che è vissuto, percepito, rappresentato; altro mediatore non meno importante è l’ equilibrio, che permette al bambino il passaggio dalla dipendenza all’autonomia, attraverso la conquista della stazione eretta e del cammino (Vecchiato, 2007) che gli permetterà di esplorare lo spazio ed allontanarsi dal care-giver.
Il corpo tonico-emozionale è quel complesso meccanismo che trae la sua origine dal dialogo tonico, ma questa affermazione, da un punto di vista operativo, fa emergere la difficoltà di collocare la psicomotricità in un proprio ambito originale.
Dalla sua evoluzione storica, Boscaini (cit. in Pisaturo, 1996) propone due spazi di competenza dello psicomotricista: quello educativo/rieducativo e quello riabilitativo/terapeutico. Il primo si estende all’area pedagogica e risponde a bisogni normativi e sociali, mentre il secondo interessa l’area clinica e soddisfa bisogni personali legati al disagio. Il comune denominatore di questi due aspetti è l’oggetto di riferimento, ovvero i disturbi psicomotori, in quanto difficoltà della realizzazione dell’atto, a livello strumentale, cognitivo ed emozionale nel momento della relazione con l’altro e dunque in quanto difficoltà della comunicazione (Pisaturo, 1996 p.8). Con questa definizione Pisaturo (1996) fa rientrare la psicomotricità nell’ambito clinico, e definisce il sintomo psicomotorio come un deficit che non è necessariamente di origine organica ma si presenta piuttosto come un disordine dell’espressività motoria, inteso come difficoltà nella motivazione, progettazione e piacere dell’atto motorio nella relazione con l’altro, quindi nell’azione intenzionale.
Si può quindi definire la psicomotricità come una tecnica a mediazione corporea, in quanto si riferisce al corpo nella sua completezza e globalità, tenendo in considerazione contemporaneamente aspetti fisiologici, cognitivi ed affettivi nella relazione con l’altro; come tale, si può estendere a soggetti di tutte le età ed a patologie che annoverano tra i loro sintomi quelli caratteristici dei disordini psicomotori, come nel caso della malattia oncologica e la dismorfofobia.
La psicomotricità, può trovare giustificazione in quest’ambito, portando il suo apporto per colmare il profondo gap esistente tra la rappresentazione del corpo, carico del dolore e delle esperienze traumatiche vissute, e l’immagine di sé, aiutando la nascita di un nuovo progetto di vita lì dove è ancora possibile (Caron et al., 2007).
L'obiettivo principale dello psicomotricista è entrare in empatia con il paziente, usando il corpo come mediatore della comunicazione (Boscaini, 1992); in questo difficile e complesso percorso egli deve adeguarsi a quanto il paziente può fare, creando uno spazio in cui possa sentirsi contenuto ma abbia la possibilità di esplorare modalità espressive diverse, che possano aiutarlo ad elaborare creativamente nuove strategie di coping.
Affinché ciò possa avvenire, è necessario che lo psicomotricista si muova all’interno di uno spazio definito, sia spazialmente che terapeuticamente, ed è per questo che è necessario un setting che assume delle caratteristiche particolari.
Indice |
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Capitolo 1 |
La plasticità Cerebrale |
1.6 Lateralità |
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Capitolo 2 |
L'Approccio Psicomotorio |
2.3.2 Il setting |
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2.3.3 Le attività |
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Capitolo 3 |
L'approccio psicomotorio in un caso di medulloblastoma |
3.2 Il caso di K. |
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Tesi di Laurea di: Giovanna BONAVOLONTA |