Disturbi della plasticità e riabilitazione

Oggi è noto come tra i disturbi della plasticità disfunzionale vi sia non solo  un’attività svolta con modalità disfunzionale o semplicemente ripetuta all’eccesso, che causa riarrangiamenti corticali indesiderati per poi  trasformarsi in difficoltà di controllo motorio, come la sindrome da eccesso d’uso o le distonie date dall’effetto dell’esercizio ripetuto di attività specifiche, come la scrittura o l’uso di uno strumento musicale. Tra i disturbi della plasticità disfunzionale troviamo anche  l’arto fantasma doloroso e la distonia focale alla mano, il crampo dello scrivano o dei musicisti.

La distonia focale alla mano si presenta in soggetti che fanno uso continuo e forzato delle dita e comporta disturbi di coordinazione dei movimenti della mano, incapacità di contrarre i muscoli della dita e di utilizzare queste ultime in maniera differente, cosicché i movimenti di certe dita diventano involontariamente associati ai movimenti di altre dita. Spesso questa tipologia di pazienti è trattata semplicemente con iniezioni di botulino o con stimolazione elettrica. Tuttavia, Candia, Rosset-Llobet, Elbert  e Pascual Leone, (2005, citato in Moro, 2010) hanno elaborato dei piani diversi di riabilitazione per la distonia focale della mano, ritenendo che tale disturbo non sia esclusivamente un problema motorio, ma anche un problema di rielaborazione sensoriale, poiché i sintomi si manifestano anche in seguito a stimolazione tattile passiva. È stato perciò proposto l’utilizzo di un supporto da infilare nella mano in grado di tenere le dita separate mentre il soggetto suona uno strumento. La registrazione MEG svolta prima e dopo il trattamento denota che la rappresentazione corticale delle dita della mano distonica nella corteccia somatosensoriale era diventata più simile a quella dell’altra mano, più ordinata e differenziata .
Si ritiene quindi che, in ambito riabilitativo,  si possano indurre  modificazioni funzionali nella corteccia motoria e sensoriale come pure nell’associato disturbo neurologico attraverso l’utilizzo di un trattamento specifico che tenga conto di questa possibilità.

Nel caso di un ictus, le possibilità di recupero dipendono da vari fattori, tra cui le dimensioni e la natura della lesione, l’area danneggiata e l’età del paziente, ma in ogni caso non è ancora certa l’efficacia delle diverse tecniche poiché molte possono essere le cause che migliorano o peggiorano l’intervento riabilitativo. La tecnica riabilitativa più documentata e derivata da ricerche scientifiche  (Moro, 2010, p. 94) nasce dai risultati di esperimenti effettuati sulle scimmie da  Merzenich (1984).
La tecnica denominata “Constraint Induced” (CI) o “Constraint Induced Movement” (CIMT) è stata studiata sulle scimmie attraverso la denervazione delle dita ed ha dimostrato come, dopo la lesione la corteccia cerebrale sia in grado di riorganizzarsi così come avviene negli esseri umani, aspetto rilevato da Ramachandran (2000) negli studi fatti sull’arto fantasma.

Subito dopo la lesione, la corteccia si organizza innanzitutto per diminuire l’eccitabilità dell’area  motoria (Moro, 2010, p.94) per poi  ridurre progressivamente l’area dei muscoli deafferentati.

Un aspetto importante della terapia è rappresentato dal fatto del “non-uso” della parte paretica, Sembra, infatti, che il soggetto colpito dal trauma impari a svolgere le attività quotidiane utilizzando altre parti del corpo funzionanti.
Il protocollo di riabilitazione prevede il blocco dell’arto sano, affinché il soggetto possa dedicarsi completamente  a muovere l’arto paretico a partire da piccolissimi movimenti.

Dalla ricerca di Shaw, et al.  (2005) si evince che il percorso per questi pazienti è molto complesso: si deve prestare molta attenzione alla selezione dei compiti in modo da poter scegliere accuratamente le attività da stimolare, ma soprattutto è importante la figura del riabilitatore  il cui compito sarà anche quello di incoraggiare il paziente aiutandolo ad insistere nel movimento richiesto e fornendogli feedback e gratificazioni. Impedire l’uso delle parti sane a fronte di un arto paretico è estremamente frustrante, fonte di difficoltà psicologiche e depressione (Moro, 2010,  p.95).

Queste ricerche (Shaw e coll., 2005)  hanno evidenziato un sostanziale miglioramento nell’uso dell’arto deafferentato con passaggio da una totale assenza del movimento per arrivare ad esecuzioni di buona qualità, anche se non totalmente su standard di normalità. Non è però sufficiente bloccare l’arto sano per indurre l’attività di quello paretico: ciò che sostiene  Taub (Taub. et al., 2002) è che bisogna indurre nel paziente l’incremento dell’uso dell’arto paretico per molte ore al giorno, perché è l’utilizzo prolungato e continuo dell’arto paretico a permettere una riorganizzazione corticale dovuta all’attività attraverso una terapia  nella quale si obbliga  ad effettuare il movimento. Così come evidenziato negli studi effettuati sugli animali, il tentativo di utilizzare l’arto colpito non sempre porta ad esiti positivi, perché oltre ad essere frustrante provoca dolore ed impaccio che possono portare il paziente a comportamenti compensatori.  La tendenza è di  evitare l’uso dell’arto paretico trascurandone le potenzialità di recupero  presenti dopo la lesione. Taub (2004) ha perciò elaborato una terapia intensiva per le prime settimane, in cui è lo stesso paziente ad acconsentire  per alcune ore al giorno a procedere con l’ utilizzo dell’arto paretico il più a lungo possibile.

Sembra quindi che l’intenzionalità del soggetto affetto da paresi giochi un ruolo indiretto ma importante nel recupero funzionale, lì dove nella riabilitazione  si intersecano strettamente aspetti fisiologici e psicologici .

Altri dati provengono dallo studio della dislessia evolutiva, una difficoltà specifica dell’apprendimento delle abilità di lettura, che si manifesta nei primi anni della scuola ma che permane anche durante l’età adulta e può risultare invalidante. Numerose ricerche hanno evidenziato nella dislessia l’emergere di un deficit di tipo fonologico, ossia l’incapacità di associare un suono al singolo fonema, anche se bisogna porre l’accento  che esistono delle differenze fra lingue opache, come l’inglese e trasparenti, come l’italiano. Ciò che si è cercato di indagare sono le attivazioni corticali dei bambini dislessici, in considerazione del fatto che esistono due tipi di bambini dislessici: lettori veloci ma scorretti e lettori esageratamente lenti. In una serie di ricerche (Vellutino, et al., 2004; White et al.,2006; Bishop, 2006;  Simos. et al., 2002, Sarkari, et al., 2002; Tallal, et al. 2000), si è potuto costatare che nei dislessici c’è una minore attivazione delle aree temporo-parietali sinistre e una notevole attivazione compensatoria nelle aree temporo-parietali dell’emisfero destro. Si è quindi cercato di comprendere se esiste un intervento rieducativo per modificare tali attivazioni.

Esistono due ipotesi relative all'attivazione corticale nella dislessia (Moro, 2010, p.80): quella linguistica, che trova la causa in un deficit specifico dell’elaborazione e codifica degli stimoli linguistici, quella senso-motoria, nella quale si enfatizzano deficit percettivi di basso livello, cerebellare o magno cellulare, che possono generare difficoltà a livello uditivo, visivo e motorio (Bishop, 2006,  p.256). Basandosi sulla prospettiva linguistica, Sarkari, et al., (2002) hanno effettuato uno studio attraverso l’immagine funzionale, utilizzando la magnetoencefalografia (MEG) analizzando i pattern di attivazione cerebrale di bambini impegnati nella lettura di parole senza senso. La conclusione di tale studio fu che nei bambini dislessici vi è uno scarsa attivazione della regione temporo-parietale sinistra con incremento dell’area omologa e speculare destra.

Un altro studio che segue il filone senso-motorio e svolto da Temple et al. (2003), giunse ad analoghe conclusioni utilizzando l’indagine tramite Risonanza Magnetica (fMRI) durante l’elaborazione fonologica di non parole. Nonostante entrambe gli indirizzi condividano l’origine delle cause,  sono stati elaborati  interventi rieducativi diversi, basati sull’addestramento alla lettura e sulla rielaborazione cognitiva, o sulla riabilitazione delle funzioni percettive.

Più che alla possibilità di creare una nuova via neurale per la lettura, si ipotizza (Moro, 2010, p.85) che la rieducazione porti a delle variazioni nell’attivazione corticale e, quindi, a dei cambiamenti plastici verso la normalizzazione delle vie neurali che devono svolgere tale compito.

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