LE FUNZIONI ESECUTIVE nel Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività: Substrato anatomico; Modelli in letteratura, Autoregolazione, Memoria di Lavoro, Flessibilità Cognitiva
Teresa Sferrazza
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LE FUNZIONI ESECUTIVE
- Introduzione
- Substrato anatomico
- Modelli in letteratura delle Funzioni Esecutive
- Neuropsicologia delle Funzioni Esecutive: il rapporto con altri processi cognitivi
- Le Funzioni Esecutive in psicopatologia e nei disturbi dello sviluppo
- Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività
LE FUNZIONI ESECUTIVE - Introduzione
Svolgere compiti quotidiani, ordinari e straordinari, di problem solving, multipli, inseriti in un contesto sociale e relazionale, contemporanei o interattivi, richiede funzioni intenzionali interagenti, per gestire l’organizzazione e l’esecuzione di comportamenti diretti a scopi complessi.
In queste tipologie di processi (Rabbit, 1997; Cantagallo et al., 2010) è necessario organizzare e categorizzare gli eventi o i passaggi verso la risoluzione basandosi su diverse abilità comprendenti:
- Il sequenziamento temporale
- Il monitoraggio dell’esecuzione attraverso: processi di modificazione e di adattamento continui (shifting); riaggiornamento dei dati e dell’informazioni (updating); feedbak sia di tipo intrapersonale, sia di tipo ambientale;
- La capacità di ristrutturare le interpretazioni passate e tentare un controllo attivo delle prospettive future.
Per svolgere questi compiti complessi è fondamentale attivare costantemente:
- Diverse modalità attentive (attenzione sostenuta, divisa, alternata);
- La capacità di inibire interferenze, risposte impulsive o inadatte alla situazione problematica in cui si è coinvolti, così come le risposte stabilite, ma non più utili.
Durante questo processo sono anche continuamente attivati:
- Meccanismi di memoria di lavoro (retrospettiva, prospettica, verbale, visuo-spaziale) che permettono di essere consapevole di quello che si sta facendo;
- Stati intenzionali e motivazionali
La psicologia cognitiva e la neuropsicologia si sono interessate da sempre a questo tipo di abilità, afferenti sostanzialmente al controllo esecutivo, ma negli ultimi quarant’anni abbiamo assistito al rinnovamento dell'interesse per questo tipo di studi che ha consentito di compiere numerosi passi avanti nella descrizione di casi di lesioni o di deficit dello sviluppo. Ciò nonostante, la natura multi-componenziale di queste funzioni, attualmente definite Executive Functions (Funzioni Esecutive, FE), continua a renderne difficile, sebbene cruciale, il loro studio e una definizione pienamente condivisa.
Le Funzioni Esecutive rappresentano quell’insieme di processi cognitivi che permettono all’individuo di adattarsi, dal punto di vista evolutivo, al suo contesto. Se consideriamo come si svolgono le nostre giornate, caratterizzate da novità e quotidianità, ci accorgiamo di quante variabili prendiamo in considerazione per pianificare ed eseguire diverse azioni: rievocare dalla memoria prospettica gli impegni della giornata, fare una sequenza o scaletta delle principali attività, tenendo conto di vari gradi di priorità, scadenze o urgenze, possibili imprevisti. Non solo, le Funzioni Esecutive diventano fondamentali anche nel momento in cui eseguiamo le azioni programmate o quelle inaspettate, perché cerchiamo di mantenere in memoria i nostri obiettivi allo scopo di valutare se le nostre azioni hanno raggiunto o meno l’obiettivo. E di fronte all’insuccesso le Funzioni Esecutive intervengono nell’analizzarne le cause per programmare un piano migliore all’occasione successiva, soffermandoci a rivalutare il percorso che abbiamo seguito in precedenza, implementandolo degli imprevisti che non erano stati considerati, operazione che possiamo svolgere in corso d’opera. Tutto questo si può riscontrare quando le nostre Funzioni Esecutive sono ben funzionanti e ci permettono un buon adattamento sociale, da cui la loro fondamentale importanza.
Secondo alcuni autori (Pennington e Ozonoff, 1996; Anderson, 2002; Diamond, 2006) esse possono essere distinte fondamentalmente in cinque componenti interrelate: pianificazione, flessibilità, fluenza, autoregolazione e capacità di iniziare un’azione, alla cui base sottostanno i seguenti processi cognitivi: memoria di lavoro, attenzione e inibizione.
Secondo McCloskey e colleghi (2009), nonostante le definizioni multiple, che afferiscono alla natura complessa e sfaccettata delle Funzioni Esecutive, sono fondamentalmente due le dimensioni chiave che unificano le diverse prospettive di studio su queste funzioni: “First, they all address, to some degree, mental capacities that direct or cue the use of other mental processes and/or motor responses. Second, they all address functions that have some link to activation of portion of the frontal lobe regions of the cerebral cortex” (McCloskey et. al, ib. p. 38).
Substrato anatomico
Negli studi per la definizione delle Funzioni Esecutive, negli ultimi anni hanno dato un grande apporto le neuroimmagini, indirizzando alla ricerca di aree cerebrali specifiche, nel lobo frontale e prefrontale, per ciascuna delle funzioni individuate. Tuttavia, come evidenzia bene lo studio di questi autori (Duncan, 2000), è sempre necessario tenere presente che queste ipotesi di frazionamento funzionale delle aree cerebrali sono derivate da modelli statistici, mentre il nostro cervello, è costituito da neuroni capaci di adattarsi a diverse aree in modo molto flessibile:
“...the brain is not a standard, mechanical system. It’s a highly complex network of components that interact reciprocally, multiply and recursively. Moreover, it’s a biological system, and that usually means that the interaction of the components changes their structure. The brain is also fundamentally a self-organizing system. It shifts from states of lower organization to states of higher organization by itself. This happens both in real time (e.g., 500 ms) and in development (e.g., from infancy to school age)” [Lewis & Todd, ib.].
Gli studiosi delle Funzioni Esecutive, dunque, rimangono prudenti sulla loro localizzazione specifica, preferendo ritenere che esse siano implementate in circuiti distribuiti multipli, ciascuno dei quali comprende delle connessioni con altre aree della corteccia prefrontale (Galati, Tosoni, ib. p. 36.).
Rimane, dunque, aperto lo studio sulle funzioni assolte dalla corteccia prefrontale. Negli ultimi anni gli scienziati si sono divisi tra posizioni più propense a sostenere l'ipotesi di un certo grado di specializzazione funzionale, ipotesi sostenuta dai quadri neuropsicologici differenziati a seguito di lesioni, e posizioni che sostengono la presenza di uno strato neurale condiviso dalle diverse funzioni cognitive.
Tuttavia generalmente si ritiene che il substrato anatomico delle Funzioni Esecutive, a seguito di evidenze sperimentali, sia individuabile nella corteccia frontale cerebrale (in particolari vie corticali-sottocorticali, che coinvolgono la corteccia prefrontale, il lobo temporale e alcuni nuclei dei gangli della base). Sebbene la maturazione di questa vasta area corticale inizi nei primi mesi di vita, la piena maturazione è raggiunta solo in età adolescenziale e oltre, ovvero più tardivamente rispetto alle aree in cui l’encefalo è organizzato. Lo sviluppo delle Funzioni Esecutive riflette, pertanto, la lenta maturazione della corteccia frontale e, sebbene alcune funzioni siano evidenti fin dal primo anno di vita, la piena acquisizione si realizza in adolescenza e in giovane età adulta. Durante lo sviluppo, la maggior parte dei bambini acquisisce le capacità di svolgere delle attività mentali senza distrarsi, di ricordarsi gli obiettivi da raggiungere, le modalità con cui farlo e di modulare le proprie emozioni (Barkley, 1997). Nei primi 6 anni di vita, le Funzioni Esecutive sono guidate verbalmente: capita frequentemente, ad esempio, di vedere bambini parlare ad alta voce tra sé e sé nello svolgere delle attività. Questa modalità permette loro di maturare gradualmente la propria Working Memory (WM), acquisendo sempre più un linguaggio interno quando, in età scolare, apprendono a svolgere queste attività in silenzio, interiorizzando il discorso autodiretto; portandoli anche a riflettere su sé stessi, auto-interrogarsi, a seguire regole e istruzioni. Solo in seguito apprendono come regolare l’attenzione e le emozioni o porsi e mantenere degli scopi da raggiungere. Tutto questo consentirà di controllare a un livello più complesso, per periodi sempre più lunghi, i propri comportamenti e di pianificare i diversi obiettivi prefissati (Barkley, 1997).
Il modello elaborato da queste analisi consente di distinguere due differenti livelli di processamento dell’informazione: quello di base e quello di ordine sopraelevato. Si delineano pertanto modelli multicomponenziali focalizzati su componenti specifiche, di micro-livello, come la WM, l’inibizione della risposta, la flessibilità attentiva (Roberts e Pennington 1996) e quelli basati su costrutti di macro-livello come il giudizio sociale, l’autoregolazione, la pianificazione, l’abilità di problem solving (Damasio e Anderson 1993).
Queste ultime ricerche, in particolare, hanno dimostrato come risulti difficile trovare deficit specifici nelle componenti di base rispetto a quelle di macro-livello, che però scopriamo compromesse anche in altre psicopatologie.
In breve, sono contrapposte diverse posizioni teoriche sulle Funzioni Esecutive, quelle che ne sostengono una concezione “unitaria” rispetto a una “frazionata, componenziale”, per arrivare, poi, allo sviluppo di modelli integrati, che prevedono un meccanismo comune di funzionamento, accanto ad altri distinti, isolati.
Modelli in letteratura delle Funzioni Esecutive
I primi modelli cognitivi delle Funzioni Esecutive a ipotesi unitaria risalgono agli anni Ottanta del secolo scorso, e prevedono la presenza di un sistema supervisore, cercando, così, di mantenere in equilibrio la sostanziale unitarietà esperienziale della realtà con i dati che evidenziano una differenziazione dei quadri cognitivi e comportamentali, riscontrati negli studi sperimentali sulle lesioni cerebrali. Nei modelli unitari, infatti, le Funzioni Esecutive vengono concettualizzate come dominio unitario e generale, che può manifestarsi con modalità peculiari in funzione delle richieste e delle domande del contesto. Tra questi modelli, i più conosciuti e ritenuti ancora validi per la loro valenza interpretativa sono il Central Executive Model (CEM) di Baddeley e il Supervisory Attentional System (SAM) di Norman e Shallice (entrambi successivamente aggiornati, verso inclinazioni maggiormente multi-componenziali) che vedremo più avanti parlando della Memoria di Lavoro (WM).
Gli autori Galati e Tosoni presentano alcuni altri modelli risalenti ai primi anni Duemila, che hanno tentato, analogamente ai precedenti, di fornire un modello unitario e integrato del funzionamento della corteccia laterale prefrontale, particolarmente coinvolta in compiti complessi di tipo esecutivo.
- Il Modello della Codifica Adattiva, Duncan (2001): ipotizza che le numerose interconnessioni della corteccia prefrontale possano essere attivate dalla varietà degli stimoli, riuscendo a sintonizzarsi su informazioni rilevanti in un compito specifico, per la caratteristica forma di adattabilità al contesto dei neuroni afferenti a quest’area, costituendo uno “spazio di lavoro globale”, attraverso processi di memoria di lavoro, attenzione selettiva e controllo.
- Il Modello della Integrazione Temporale, Fuster (2001): ipotizza che la corteccia prefrontale laterale sia deputata a integrare temporalmente le varie informazioni, anche linguistiche, provenienti dall'ambiente, al fine di raggiungere uno scopo. Le due componenti interessate in questo processo sarebbero, nello specifico, la memoria di lavoro, che consente un'attivazione sostenuta, e la pianificazione.
- Il Modello Rappresentazionale, Miller e Cohen (2001): ipotizzano che sia proprio la corteccia prefrontale a costituire un processo di modulazione o di guida dell'attività cerebrale nel suo complesso, intervenendo quindi anche rispetto all'area motoria, percettiva, emozionale, attraverso un'attivazione delle rappresentazioni mentali relative a scopi e processi nuovi o complessi, mentre non si attiverebbe laddove sia necessario operare un processo automatico. Il suo contributo lo ritroviamo in attività di livello superiore: interviene come modulatore dei sistemi sensoriali inferiori o specifici, in caso di soluzione di compiti ad alta conflittualità decisionale, anche a livello neuronale, che richiedono la direzione efficiente dell'informazione alla destinazione più appropriata, ovvero un insieme di percorsi possibili che connettono vari punti di partenza -stimoli- a diversi punti di arrivo -risposte- (in Galati, Tosoni, ib; 14). Il problema di integrare la differenza anatomica della corteccia prefrontale con la rilevazione di attivazioni simili in compiti differenti, ha portato a ipotizzare un frazionamento delle Funzioni Esecutive, ovvero in componenti distinte e interagenti, ipotesi ad oggi maggiormente considerata, soprattutto nel campo dello studio delle Funzioni Esecutive in età adulta. Su questa stessa linea, molti autori hanno proposto modelli articolati in diversi domini delle FE.
- Lezak (1995) propone un modello a quattro domini comportamentali distinti, che includono, ciascuno, componenti specifiche: a) decisione intenzionale verso un obiettivo futuro, attraverso la motivazione e l'autoconsapevolezza; b) pianificazione, mediante controllo degli impulsi, memoria e attenzione; c) intenzionalità di azione, mediante processi di flessibilità e attenzione sostenuta; d) azione e relativo monitoraggio, mediante processi di autoregolazione.
- Pennington e Ozonoff (1996), individuano cinque funzioni esecutive ricorrenti nei vari studi considerati in un’ampia revisione della letteratura: pianificazione, memoria di lavoro verbale e visuo-spaziale, flessibilità cognitiva, fluenza verbale fonemica e semantica, inibizione. Possiamo ritenere che, ancora oggi, questa individuazione sia quella a cui fanno riferimento molti lavori di ricerca, soprattutto in ambito clinico e neuropsicologico.
- Miyake e colleghi (2000), invece, identificano poche funzioni basiche che, seppure interrelate, poiché ad esse sottostanno processi condivisi, risultano chiaramente differenziate, riconducendole a tre componenti: a) inhibition, la capacità di sopprimere risposte automatiche e preponderanti, quando non più utili per il compito che si sta svolgendo; b) updating, la codifica delle informazioni rilevanti in entrata, l'aggiornamento e il monitoraggio, attraverso una manipolazione attiva e volontaria dei dati presenti in memoria; c) shifting, intesa come flessibilità cognitiva, capacità di spostarsi da un'operazione ad un'altra e tra assetti mentali multipli differenti;
- Anderson e i suoi collaboratori (2002), sempre attraverso un’analisi sistematica della letteratura scientifica, individuano componenti simili che riconducono a quattro domini distinti e indipendenti, quindi più vicino ai modelli “a frazionamento” delle Funzioni Esecutive, ma ad azione integrata, portandosi vicino anche alle posizioni gerarchiche, costituenti un unico sistema di controllo globale attentivo, potremmo dire gerarchico, rispetto al compito in atto: flessibilità cognitiva, considerata componente chiave, definizione degli obiettivi, processamento delle informazioni, controllo attenzionale (Marzocchi e Valagussa, ib). Altri modelli recenti, anche con il riscontro delle tecniche di neuroimaging, supportano l'ipotesi del frazionamento delle Funzioni Esecutive, sottolineando, tuttavia, l'ipotesi di una dimensione gerarchica interveniente.
- Daffner e Searl (2008) presentano un modello a livelli, ipotizzando la presenza di almeno due livelli gerarchici: un primo, localizzabile a livello neuroanatomico, che prevede l'attivazione della memoria di lavoro, l'inibizione, l'avvio iniziale e il monitoraggio; un secondo livello, non direttamente localizzabile, che, sulla base della combinazione di funzioni del primo livello, prevede l'attivazione di capacità più complesse quali pianificazione, autoregolazione comportamentale e affettiva, organizzazione, mantenimento e regolazione del setting di compito.
- Il Modello di Diamond (2013): questo modello rappresenta un tentativo importante di riunire i risultati delle ricerche degli ultimi anni. Parte infatti da quello che considera un generale accordo ormai consolidato, ovvero che il “core” delle Funzioni Esecutive possa essere individuato nelle tre componenti descritte dal lavoro di Miyake e collaboratori (2000), il quale isola all’interno di processi a capacità limitata, o di basso livello, le componenti che si attiverebbero come una sorta di “pilota automatico” (Diamond 2013): inibizione (controllo inibitorio, includente autocontrollo comportamentale e cognitivo), memoria di lavoro (verbale e visuo-spaziale) e flessibilità cognitiva. Queste, a loro volta, funzionerebbero come un unico sistema di controllo compito-dipendente, attivando un sistema di processi centrali, di ordine superiore, quali la pianificazione, il ragionamento e il problem solving, essenziali per lo sviluppo sociale e psicologico della persona. Al centro del modello, Diamond pone il controllo inibitorio e prevede che la memoria di lavoro permetta il mantenimento degli obiettivi e delle intenzionalità, incidendo sul controllo inibitorio; l'inibizione, d'altra parte, permetterebbe di gestire distrazioni interne ed esterne, fondamentale per il mantenimento in memoria degli eventi. Memoria di lavoro e controllo inibitorio, si pongono in interazione e, insieme, sostengono la flessibilità cognitiva, che permette di vedere le cose da diverse prospettive e di passare da un compito ad un altro.
Il primo nucleo delle Funzioni Esecutive: Autoregolazione
Il primo nucleo delle Funzioni Esecutive riguarda l’inibizione, l’autoregolazione (articolata in: inibizione di risposte; controllo dell'interferenza, distinguibile ulteriormente in inibizione cognitiva, quindi pensieri, memorie, rappresentazioni mentali, e attenzione selettiva/focalizzata), che si esplica nella capacità di: a) gestire le informazioni; b) controllare le interferenze di stimoli irrilevanti rispetto al compito che si sta svolgendo e diminuire tale interferenza per raggiungere in modo funzionale l’obiettivo preposto; c) evitare di agire impulsivamente a livello di inibizione di risposte predominanti, risposte conflittuali o frenare risposte in corso; d) riuscire a ritardare la gratificazione e tollerare la frustrazione per applicarsi ad un compito lungo e faticoso. Il processo inibitorio costituirebbe, dunque, un dominio autoregolativo più generale, inteso da Diamond (2013) come necessario per lo sviluppo del controllo consapevole del comportamento.
L’inibizione perciò ritorna ad essere, come in Barkley (1997), una componente centrale delle funzioni esecutive, ma funzionerebbe (inibizione comportamentale e cognitiva) non più come ruolo centrale, da cui dipenderebbe la corretta esecuzione delle altre Funzioni Esecutive, ma come raccordo tra funzioni “calde” e “fredde”. Inoltre, sappiamo che in età prescolare (Usai et al. 2014) queste due componenti non sono tra loro differenziate; per questo viene spesso proposto un modello delle Funzioni Esecutive a singolo fattore. In realtà, l’età dei soggetti è una variabile importante per identificare la presenza di compromissioni sul piano della patologia.
Uno studio recente di Poland, Monks e Tsermentseli (2016) esamina funzioni esecutive “calde” e “fredde” in bambini di 3-6 anni di età, con comportamenti aggressivi reattivi e proattivi. I risultati di questa indagine evidenziano come le Funzioni Esecutive “fredde” siano in relazione con qualsiasi tipo di aggressività, e soprattutto come lo scarso controllo inibitorio sia in relazione con la comparsa dell’aggressività infantile. Questo dato sarebbe in contrasto con precedenti contributi che, al contrario, avevano indicato nella componente “calda” delle Funzioni Esecutive l’incapacità di tollerare la frustrazione, la relazione con l’aggressività o i comportamenti dirompenti (Garner e Waajid 2012; Kim et al. 2014). In realtà, la mancanza di una relazione significativa tra Funzioni Esecutive “calde” e aggressività dipende dall’età dei ragazzi coinvolti nelle ricerche: nella fase dello sviluppo dell’infanzia c’è un legame tra comportamenti aggressivi e Funzioni Esecutive “fredde”, mentre durante l’adolescenza l’aggressività sarebbe legata a quelle “calde”. Si può quindi ritenere che il processo di modularizzazione delle Funzioni Esecutive cominci a formarsi in epoca scolare (Hughes e Ensor 2008; Karmiloff-Smith 1992).
Sonuga-Barke e collaboratori (2003) trovano, con bambini di età compresa tra i 3-5 anni, che le prove delle Funzioni Esecutive sono ancora tra loro significativamente correlate, mentre il legame tra Funzioni Esecutive e avversione dell’attesa sono associate in modo indipendente con i sintomi ADHD.
Il secondo nucleo delle Funzioni Esecutive: Memoria di Lavoro
Il secondo nucleo delle Funzioni Esecutive viene indicato nella memoria di lavoro, sistema a capacità limitata che consente il mantenimento di informazioni e la capacità di processare, lavorare e manipolare le stesse (Baddeley 1992; Baddeley a Hitch 1994). È un sistema multicomponenziale, che riveste un ruolo critico nel guidare comportamenti quotidiani e sottende la capacità di svolgere compiti complessi come l’apprendimento, la comprensione, il ragionamento e la pianificazione.
Questa componente di lavoro della memoria viene indicata come una funzione trasversale fondamentale coinvolta nello svolgimento di attività quotidiane: tradurre istruzioni in piani d’azione, aggiornare le informazioni, riordinare una lista delle cose da fare, ecc; è implicata in una vasta gamma di capacità intellettuali che vanno dalle capacità matematiche a quelle di lettura, comprensione, apprendimento complesso e ragionamento fluido, comprendendo processi mentali che hanno a che fare col mantenimento delle informazioni che guidano il comportamento ed è reificata nei modelli cognitivi come esecutivo centrale.
La Working Memory è fondamentale per dare un senso a tutto ciò che si svolge nel corso del tempo, permette di tenere a mente ciò che è successo prima e di stabilire una relazione con quello che sta accadendo ora.
Il modello multicomponenziale di Baddeley e Hitch (1974) sulla Working Memory prevede l’esistenza di un sistema attenzionale superiore (Esecutivo Centrale) che controlla il flusso informativo, e di due sottocomponenti di magazzino (il loop fonologico e il taccuino visuo-spaziale) per trattenere, rispettivamente, l’informazione verbale e visuo-spaziale. Entrambe le due sottocomponenti sono caratterizzate da un magazzino, o buffer episodico, adibito alla conservazione temporanea e alla manipolazione della traccia in forma fonologico-acustica o visuo-spaziale, integrato a un sistema di reiterazione per la ripetizione della traccia, che permette di non lasciarla decadere e dimenticare entro i 2 secondi. Attraverso attività di recupero mnestico specifiche, dunque, questo magazzino permetterebbe una rappresentazione accessibile della realtà, consentendo un recupero cosciente dell'esperienza passata in direzione prospettica, quindi, non solo per gestire l'ambiente in cui ci si trova ad agire, attraverso rappresentazioni multidimensionali significative e coerenti, come scene ed episodi, ma anche per creare rappresentazioni cognitive di tipo problem solving.
La capacità di tenere in mente una rappresentazione per un certo periodo di tempo si sviluppa prima dei sei mesi di vita. Nel periodo prescolare, infatti, i bambini gradualmente possono trattenere in mente un numero sempre più elevato di elementi (Gathercole 1998). Tali capacità continuano ad aumentare sia durante, sia oltre l’età prescolare (Rasmussen e Bisanz, 2005). Alcuni aspetti legati alla WM, come l’aggiornamento o la manipolazione delle informazioni, sono processi più complessi e si svilupperebbero intorno al secondo anno di vita (Alloway et al. 2004; Gathercole 1998). Queste abilità sono ritenute fortemente associate al funzionamento del sistema attentivo centrale e il miglioramento delle prestazioni mnesiche dipende dalla coordinazione tra questi aspetti.
Secondo Baddeley (1990; 1996), l'Esecutivo Centrale va considerato più come un sistema attentivo, che come un magazzino di memoria; si può quindi ipotizzare che la componente esecutiva della Working Memory possa essere inserita nel modello di controllo attentivo del comportamento, proposto da Norman e Shallice. Il Sistema Attenzionale Supervisore (SAS) di Norman e Shallice (1986), attivandosi in situazioni complesse (controllo di interferenze, decisioni, nuovi apprendimenti, pianificazione, cambio di risposte ormai a carattere automatico) assumerebbe il ruolo di modulatore rispetto all'attivazione di sequenze di operazioni più semplici a carattere automatico, sostenendo processi di inibizione, di selezione o di attivazione diversificata delle stesse, grazie alla sua possibilità rappresentazionale completa del mondo esterno (sistema percettivo) e interno (intenzionalità, pattern specifici).
Risulta chiaro come l’inibizione e la memoria di lavoro siano strettamente connesse tra di loro: bisogna avere chiaro in mente l’obiettivo da perseguire per poter riconoscere ciò che è rilevante e cosa non lo è per raggiungerlo, così come è importante mantenere la concentrazione sul proprio obiettivo riducendo tutte le interferenze esterne e le distrazioni (Diamond 2013).
Il terzo nucleo delle Funzioni Esecutive: Flessibilità Cognitiva
Il terzo nucleo delle Funzioni Esecutive verrebbe identificato nella flessibilità cognitiva: questa componente maturerebbe molto più tardivamente nel corso dello sviluppo (Davidson et al. 2006; Garon, Bryson e Smith 2008) e coinvolgerebbe direttamente il controllo inibitorio e la WM. Aspetti della flessibilità cognitiva sono la capacità di cambiare prospettiva (spaziale o interpersonale), l’abilità di essere flessibile e adattarsi in base ai cambiamenti, esigenze, problemi, opportunità o priorità mutate che si verificano nell’ambiente circostante e che ci consente di cambiare schema comportamentale a seguito di un feedback esterno. Perché ciò sia possibile, abbiamo bisogno di inibire il nostro punto di vista, prospettive precedenti o preponderanti e prendere in considerazione un orientamento diverso conservato nella Working Memory e che viene attivato in caso di necessità. Sono quindi necessarie la presenza delle abilità di inibizione e del mantenimento in memoria delle informazioni. Alcuni autori (Monette et al. 2015; Im-Bolter et al. 2016) hanno proposto e studiato recentemente la possibilità che il core delle Funzioni Esecutive sia in realtà costituito da inibizione e WM, interpretando la flessibilità cognitiva come una successiva differenziazione delle stesse, consequenziale allo sviluppo neuronale e metabolico del cervello, che sosterrebbe i processi creativi e di Teoria della Mente.
Neuropsicologia delle Funzioni Esecutive: il rapporto con altri processi cognitivi
Abbiamo già affermato quanto le Funzioni Esecutive vengano abitualmente utilizzate nella quotidianità e quanto siano indispensabili all’individuo per adattarsi al proprio ambiente. Ognuno di noi è immerso in un contesto di interazioni sociali, in cui uno tra gli ambiti più studiati è quello che indaga la relazione tra Funzioni Esecutive e Teoria della Mente (ToM), ovvero la capacità che un individuo ha di comprendere gli stati mentali propri e altrui, i pensieri, le credenze, i ragionamenti, le inferenze, le emozioni, le intenzioni e i bisogni sulla base dell’osservazione del comportamento e del contesto e dell’inferenza di significato (Mouriguchi, 2014).
Nei bambini di età prescolare, durante i primi stadi dello sviluppo della ToM, le Funzioni Esecutive, in particolare l’inibizione e la flessibilità cognitiva, intervengono sostenendo e affiancando i processi di distinzione, coordinazione e ricerca dei differenti stati mentali altrui (Im-Bolter et al. 2016; Devin e Hughes 2014).
In relazione all’apporto nello sviluppo della ToM, le Funzioni Esecutive sono state studiate anche nell’ambito del comportamento morale. Attraverso la comprensione degli stati mentali altrui e l’internalizzazione delle regole fornite dalle figure di riferimento, il bambino interiorizza alcuni comportamenti e pensieri, che caratterizzeranno successivamente la propria morale. Tuttavia, rimane ancora da approfondire se le Funzioni Esecutive favoriscano tali processi o se siano piuttosto le abilità di mentalizzazione e internalizzazione a guidare le Funzioni Esecutive nella messa in atto di determinati comportamenti sociali (Mouriguchi 2014).
Oltre al ruolo cruciale che rivestono nello sviluppo socio-emotivo del bambino, le Funzioni Esecutive risultano essenziali e predittive per l’acquisizione delle abilità accademiche e, più in generale, dell’intelligenza. In realtà, in letteratura troviamo risultati diversi e talvolta contraddittori: sebbene sia stata frequentemente riportata una correlazione tra quoziente intellettivo (QI) e le singole componenti del core delle Funzioni Esecutive, mancherebbe una chiara associazione tra lo sviluppo globale delle Funzioni Esecutive e l’intelligenza (Memisevic e Sinanovic 2014; Friedman e al. 2006). Inoltre, in alcuni lavori è riportata un’evidente correlazione positiva tra Working Memory e intelligenza, ma una bassa correlazione tra intelligenza e inibizione. Studi condotti in popolazioni speciali come persone con la Sindrome di Down mostrano risultati analoghi: il QI non sembrerebbe essere legato alle Funzioni Esecutive a livello globale, ma risulta correlato alle singole componenti delle stesse: WM, pianificazione/organizzazione e inibizione (Daunhauer et al. 2014).
Le Funzioni Esecutive in psicopatologia e nei disturbi dello sviluppo
Nonostante non esista un diagnosi specifica dei deficit delle Funzioni Esecutive, sono diversi i quadri clinici che mostrano una difficoltà di programmazione, organizzazione, controllo comportamentale o flessibilità nell’adattarsi a situazioni nuove. Eppure un coinvolgimento delle Funzioni Esecutive non sembra caratterizzare unicamente le persone con sindromi genetiche o disabilità intellettive, infatti un deficit a loro carico viene segnalato in molti disturbi del neurosviluppo. “È il caso del Disturbo da Deficit di Attenzione e di Iperattività (ADHD), che comporta difficoltà attentive, di WM, di controllo inibitorio e di flessibilità cognitiva, e del Disturbo dello Spettro Autistico (ASD), in cui sono evidenti difficoltà di organizzazione-pianificazione, attenzione sostenuta, inibizione e flessibilità cognitiva (Craig et al. 2016).
In entrambi i gruppi (ADHD e ASD) i deficit di Funzioni Esecutive sono stati messi in relazione con una significativa ed anomala attivazione delle regioni prefrontali proprio durante l’esecuzione di compiti che richiedono l’attivazione delle Funzioni Esecutive (Mouriguchi e Hiraki 2013) oltre a presentare elementi in comune, come dimostra una recente meta-analisi di Craig e collaboratori (2016) dedicata all’analisi di 26 lavori sulle Funzioni Esecutive in bambini con ASD, ADHD o con ASD e ADHD in comorbilità” (Vicari e Di Vara 2017).
Una compromissione delle Funzioni Esecutive è stata segnalata anche in presenza di disturbi psicopatologici nell’età evolutiva (Sonuga-Barke 2016), come anche nella popolazione con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) e, in particolare, con dislessia evolutiva (Reiter et al. 2005; Booth et al. 2010; Varvara et al. 2014).
Verrebbe quindi da ipotizzare un rapporto causale tra Funzioni Esecutive e disturbi neuropsichiatrici, potendo quindi supporre che un intervento riabilitativo mirato a un rafforzamento delle Funzioni Esecutive possa tradursi in un recupero del disturbo stesso. In realtà i dati presenti in letteratura non sembrano sostenere questa apparente logica deduzione e i percorsi riabilitativi specificatamente indirizzati all’allenamento delle Funzioni Esecutive non sempre si traducono in un miglioramento funzionale delle abilità o del comportamento oggetto del trattamento riabilitativo.
Disturbo da Deficit di Attenzione e di Iperattività
Questo lavoro si propone nello specifico di analizzare il ruolo delle Funzioni Esecutive in una delle condizioni del neurosviluppo maggiormente presenti nell’età evolutiva: il Disturbo da Deficit di Attenzione e di Iperattività (ADHD).
L’ADHD è un disordine dello sviluppo neuro-psichico del bambino e dell’adulto ad insorgenza precoce (prima dei 7 anni) i cui sintomi possono essere individuati anche nei bambini prescolari, riportato nel DSM-IV, di cui si stima una prevalenza del 5,3% a livello mondiale e che interessa più il sesso maschile di quello femminile.
È un disturbo caratterizzato da comportamenti inappropriati per l’età del soggetto per disfunzioni connesse all’area cognitiva (disattenzione), all’area comportamentale (impulsività) e all’area motoria (iperattività), le quali, a loro volta, si ripercuotono sulla sfera emotiva e relazionale del soggetto. Secondo i criteri diagnostici che descrivono oggettivamente l’ADHD (DSM-IV-TR 2002), queste caratteristiche vengono riunite sotto i due domini dell’iperattività-impulsività (scarsa inibizione) e inattenzione. Rispetto a questi domini, i soggetti sono caratterizzati da una tendenza a ricercare gratificazioni, stimolazioni immediate; riduzione dell’attenzione e dell’impegno in compiti complessi dal carico cognitivo maggiore; notevole difficoltà ad inibire risposte impulsive; specifiche difficoltà nel modulare i livelli di eccitazione. Poiché porta a compromissione funzionale in molteplici aree dello sviluppo adattivo del soggetto, l’ADHD è spesso associato ad altri disturbi del neurosviluppo e può avere conseguenze negative per tutta la vita del paziente, in quanto bambini e adolescenti con disordine da deficit di attenzione e iperattività mostrano un aumento del rischio di soffrire di disabilità accademiche, lavorative e sociali a lungo termine.
Infatti, indipendentemente dai meccanismi eziopatogenetici dell’ADHD (Castellanos 1997; Konrad et al. 2006; Wu, Anderson e Castiello 2002), nei bambini affetti da questo disordine risultano compromesse, in modo variabile, le capacità di retrospezione, previsione, pianificazione di comportamenti complessi, ed in generale si riscontrano ritardi nella maturazione di molte funzioni esecutive, mostrando una compromissione dell’interiorizzazione del discorso autodiretto, dell’autoregolazione del livello d’attenzione e della motivazione, della capacità di scomporre i comportamenti osservati e della ricomposizione in nuovi comportamenti finalizzati (Cornoldi et al. 2001; Martinussen et al. 2005; Piek et al. 2007)). Questi bambini, non raggiungendo una capacità d’interiorizzazione adeguata all’età, eccedono nelle verbalizzazioni e l’incapacità di frenare le proprie reazioni immediate li porta a essere meno accettati nei contesti sociali cui appartengono, sia dagli adulti che dai coetanei. Tutto ciò comporta per questi bambini, sebbene siano in grado di apprendere comportamenti adeguati in risposta agli stimoli esterni, significative difficoltà a generalizzare tali condotte nei diversi contesti di vita (Barkley 1997; Quay 1997; Scheres, Oosterlaan e Sergeant 2001; Tannock 1998).
In questo contesto si fa strada l’idea che sia presente un correlato neuronale alla base del disturbo, per cui le sue caratteristiche rifletterebbero una compromissione anatomico-strutturale e funzionale delle aree prefrontali e frontali dell’encefalo, da cui una disfunzione delle connessioni fronto-sottocorticali, implicate nella regolazione del comportamento e nell’ADHD, come anche nel processamento delle Funzioni Esecutive: parliamo di vie quali il circuito fronto-striatiale, fronto-cerebellare e fronto-limbico. Alcune ricerche, infatti, portano ad ipotizzare una forte correlazione tra ADHD e deficit delle Funzioni Esecutive, identificando, in campioni clinici di persone con ADHD, risultati significativamente più bassi per diverse misure delle Funzioni Esecutive (Inagaki 2011; Barkeley 1997).
A sostegno di quest’ipotesi vi sono anche il funzionamento comportamentale, spesso riconducibile a quello osservabile in pazienti con lesione del lobo frontale (Pontius 1973), e quello cognitivo, per cui è possibile pensare a difficoltà nei meccanismi bottom-up (risposte automatiche rispetto a controllate), ma anche a inefficienze top-down (monitoraggio, controllo dell’azione, regolazione quelle emotiva). La meta-analisi di Willcutt e collaboratori (2005), condotta su 83 studi, evidenzia un ruolo importante di alcune Funzioni Esecutive in bambini e adolescenti con ADHD, tra queste l’inibizione della risposta, il funzionamento della Working Memory e la pianificazione.
Uno dei più autorevoli ricercatori che ha indagato maggiormente il ruolo dell’inibizione è Russel Barkley (1997), il quale elabora il cosiddetto modello ibrido: il problema centrale dei bambini con ADHD è un deficit iniziale di inibizione della risposta e solo successivamente, a cascata, delle FE. In altre parole, il deficit principale sarebbe costituito dall’incapacità di acquisire una sorta di autocontrollo (self-control) o “autoregolazione”, ovvero un deficit dell’inibizione comportamentale o cognitiva che, a sua volta, determinerebbe difficoltà a livello di WM, di autoregolazione di emozioni, di sistema motivazionale, nell’interiorizzazione del linguaggio e nell’analisi/sintesi degli eventi.
L’inibizione sarebbe inoltre costituita da due processi correlati: la capacità di inibire risposte prepotenti, automatiche o precedentemente attivate (inibizione della risposta) e il controllo dell’interferenza (non prendere in considerazione stimoli non pertinenti alla situazione). Le risposte prepotenti sono definite come quelle che ottengono un rinforzo immediato, subito disponibile, una volta eseguita la prestazione.
Il modello originale delle Funzioni Esecutive di Barkley (1997) posiziona l’inibizione comportamentale e quella cognitiva in un punto centrale nel rapporto con le altre Funzioni Esecutive, perché da essa dipenderebbero la loro corretta esecuzione. In dettaglio, le Funzioni Esecutive in grado di spiegare i sintomi dell’ADHD sarebbero quattro:
- WM
- linguaggio interiore
- alterata percezione del tempo
- comportamento diretto all’obiettivo
Dal punto di vista evolutivo, la capacità di inibizione comportamentale comparirebbe prima nel corso dello sviluppo del bambino e solo successivamente si manifesterebbero le altre rispettive componenti delle FE. Il deficit di inibizione comportamentale sarebbe il risultato di una predisposizione genetica e di un deficit dello sviluppo neurologico, piuttosto che di interventi educativo-sociali, sebbene la sua espressione possa esserne influenzata.
L’ipotesi che ci possa essere un unico sistema a capacità limitata, deficitario, presente in tutte le persone con ADHD ha condizionato la ricerca per molti anni, nei tentativi di comprendere il funzionamento psicologico e comportamentale di questi pazienti (Sonuga-Barke e Coghill 2014). Le prove fin qui raccolte mettono in evidenza il fatto che l’ADHD sia in realtà un disturbo complesso, eterogeneo, caratterizzato da profili cognitivi ed emotivo-motivazionali profondamente diversi da persona a persona.
Bisogna anche considerare che l’approfondimento dello studio di deficit delle Funzioni Esecutive (per cui si presuppone una base comune, un meccanismo di fondo unificante) in soggetti con ADHD viene compromesso dal problema dell’impurità del compito. Miyake e collaboratori (2000) parlano del problema dell’ ”impurità” delle prove, indicando come sia difficile, nel valutare sistemi cognitivi centrali, non coinvolgere diversi aspetti del processo di elaborazione dell’informazione.
Fig. 1.6 Modello rivisto delle funzioni esecutive (Diamond, 2013)
Poiché le Funzioni Esecutive necessariamente si manifestano operando su altri processi cognitivi, qualsiasi compito esecutivo implica in diversa misura altri processi cognitivi non direttamente rilevanti per la Funzioni Esecutive target. Per questo un punteggio basso in un test esecutivo, non implica necessariamente un inefficiente funzionamento esecutivo e non consente di ritenere che questi deficit siano una condizione necessaria e sufficiente per spiegare l’ADHD. Le Funzioni Esecutive andrebbero dunque considerate come una componente cognitiva importante, ma non l’unica.
La figura 1.6 riporta le principali componenti delle Funzioni Esecutive, sia cognitive che emotive: si tratta di un modello fondato sui dati fin qui descritti in grado di spiegare molte problematiche delle persone con ADHD.
Il modello prevede due grandi distinzioni: Funzioni Esecutive esecutive di base e quelle di livello sovraordinato, quest’ultime definite come compiti multifunzionali e complessi. Il livello base raccoglie i processi a capacità limitata, come la WM, la flessibilità cognitiva e il controllo inibitorio: sono i processi che si sviluppano per primi e risultano come abilità trasversali fondamentali per i processi più complessi.
Al modello originale di Diamond (2013), nel livello base, Vicari e Di Vara (2017) hanno introdotto una modifica all’interno del costrutto dell’inibizione (si veda Sonuga-Barke, 2003): un controllo inibitorio comportamentale, come componente hot/motivazionale necessaria per la regolazione emotiva, e un controllo più cognitivo, cool, legato alla prestazione, che richiede anche componenti di attenzione sostenuta. Entrambi contribuiscono al mantenimento di un buon controllo autoregolativo.
Si tratta quindi, per comprendere l’eterogeneità fenotipica del disturbo e del ruolo svolto dalle Funzioni Esecutive, di approfondire le diverse componenti dell’inibizione cognitiva, di quella comportamentale, intesa come inibizione della risposta, del controllo di interferenza, inteso come attenzione selettiva (autocontrollo), della Working Memory e della flessibilità cognitiva, intese come il pensare “fuori dagli schemi”, vedere qualsiasi cosa da diversi punti di vista e, in modo rapido e flessibile, adattarsi alle cambiate circostanze, il set-shifting di Miyake (2000) come parti di un sistema di controllo generale.
Infatti, è assodato che il deficit di inibizione non è al centro delle compromissioni che caratterizzano l’ADHD e che le altre componenti delle Funzioni Esecutive siano indipendenti dall’inibizione (Rapport et al. 2009; Sonuga-Barke 2003), così che entrano in gioco considerazioni sulle componenti emotivo-motivazionali, oltre quelle cognitive, prendendo in considerazione le cosiddette Funzioni Esecutive “calde”.
All’interno delle attività di controllo comportamentale, Zelazo e colleghi (2004), propongono un quadro dicotomico delle Funzioni Esecutive per comprendere i processi che permetto l’autocontrollo, distinguendo tra Funzioni Esecutive “hot” e Funzioni Esecutive “cool”.
Vengono definite “funzioni esecutive fredde” quelle Funzioni Esecutive coinvolte in compiti e attività più cognitive e neutre della componente emotiva, come attività di manipolazione delle informazione mediante la Working Memory o problemi astratti e non contestualizzati. Viceversa, tra le cosiddette “funzioni esecutive calde” sono comprese quelle Funzioni Esecutive che sono coinvolte in compiti che prevedono una regolazione affettiva o emotiva, come quei task comportamentali basati su meccanismi di ricompensa e gratificazione (Zelazo e Muller 2002; Traversa et al. 2015). Le Funzioni Esecutive “calde” seguono una traiettoria di sviluppo simile a quella delle Funzioni Esecutive “fredde” raggiungendo la loro piena maturazione nella tarda adolescenza (Nelson et al. 2016). Le Funzioni Esecutive “calde” hanno un ruolo cruciale nell’integrare il comportamento sociale ed emotivo con l’attività delle Funzioni Esecutive “fredde” e il loro substrato anatomico è rappresentato dalla porzione ventro-mediale della corteccia prefrontale, come dimostrano numerose osservazioni (Mouriguchi 2014). Entrambe contribuirebbero in maniera sinergica al mantenimento di un buon controllo autoregolativo, che invece troviamo compromesso in pazienti con ADHD.
Una “disregolazione” delle funzioni emotive sembra essere comune in persone con ADHD, in cui si rileva una maggiore distraibilità agli stimoli a valenza emotiva (Sonuga-Barke e collaboratori 2015), con un problema di autoregolazione dei processi motivazionali (avversione all’attesa e regolazione emotiva) oltre che dei processi cognitivi.
È quindi possibile concettualizzare l’ADHD non solo come un disturbo con deficit cognitivi nei processi top-down, ma anche con difficoltà della regolazione emotiva, di controllo bottom-up, che possono presentare deficit nel riconoscere emozioni o nell’affrontare emozioni negative.
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Tesi di Laurea di: Teresa SFERRAZZA |