I disturbi dello Spettro Autistico
Definizione
Con il termine Autismo si fa riferimento ad una sindrome comportamentale, manifestazione di un disordine dello sviluppo cerebrale e risultante di processi biologicamente e geneticamente determinati.
Si tratta di un disturbo neuroevolutivo, caratterizzato generalmente dalla comparsa dei primi sintomi in un arco di tempo precedente al compimento del terzo anno d’età.
Essendo una sindrome la cui diagnosi dipende da alcuni sintomi comportamentali che pertanto sono diversi da individuo ad individuo, è difficile dare una definizione di Autismo che sia univoca e uguale per tutti i soggetti colpiti: ad esempio ci sono bambini che non sviluppano il linguaggio vocale, che presentano stereotipie motorie e/o vocali, e bambini che possiedono il linguaggio vocale, comunicano e interagiscono con gli altri anche se in modo non appropriato.
Perché si parla di Disturbi dello “Spettro” Autistico?
Così come stabilito dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (APA , DSM-5, 2014), lo Spettro comprende il Disturbo Autistico, la Sindrome di Asperger, il Disturbo Disintegrativo dell’Infanzia e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (DPS NAS).
La caratteristica principale delle condizioni dello Spettro Autistico, è la compromissione di tre aree fondamentali dello sviluppo: l’area sociale e relazionale, l’area comunicativa e l’area degli interessi. Il livello di compromissione è variabile da individuo ad individuo e non è necessariamente uguale e costante nelle tre aree; possiamo trovare infatti forti, medie o lievi compromissioni, sino all’assenza totale o parziale di compromissioni nelle abilità, analizzate con test strutturati, e un livello intellettivo adeguato.
Tuttavia, è necessario considerare che, nelle diverse condizioni di compromissione possibili, il profilo delle abilità e le caratteristiche cognitive, attentive, percettive e sensoriali delle persone affette dal disturbo dello spettro autistico, risulta particolare e poco lineare.
Attualmente, l’autismo viene definito come disturbo pervasivo dello sviluppo, in quanto coinvolge lo sviluppo in maniera generalizzata, in particolare nei suoi aspetti percettivi e discriminativi, nelle aree dell’attenzione e della motricità, nelle funzioni cerebrali quali memoria, linguaggio e capacità imitativa, nel livello intellettivo e nella capacità di adattamento all’ambiente. In alcuni casi, è tuttavia possibile che all’interno di quadri di deficit generalizzato, siano presenti delle “isole” di abilità più o meno sviluppate o emergenti.
Il disturbo dello spettro autistico comporta dunque delle alterazioni che influenzano, in particolare, lo sviluppo del sistema comunicativo nelle sue componenti verbale e non verbale, e i meccanismi che interessano gli aspetti dell’interazione sociale e della vita di relazione; è inoltre possibile che a ciò siano associati disturbi del comportamento caratterizzati da limitazione degli interessi e presenza di stereotipie e attività ripetitive.
Ciò che consegue da queste alterazioni è comunque un quadro di disabilità permanente, in quanto accompagna il soggetto per l’intero corso della vita, anche se le caratteristiche del deficit sociale risultano essere variabili nel tempo e individuali.
Cenni Storici
Il termine autismo deriva dal greco αuτός, che significa “sé”, “stesso”. Nel 1911 uno psichiatra svizzero, E. Bleuler, nel corso di uno studio su pazienti adulti affetti da schizofrenia che mostravano una perdita di contatto con la realtà, coniò per la prima volta il termine ad indicare delle caratteristiche comportamentali tipiche della patologia.
Prima del Ventesimo Secolo non esisteva il concetto clinico di autismo: nell’accezione moderna fu per la prima volta usato da Hans Asperger nel 1938.
Nel 1943 L. Kanner utilizza per la prima volta la definizione di “autismo infantile precoce”, e più nello specifico di “Disturbi del Contatto Affettivo”, riferendosi ad una specifica sindrome; il suo lavoro si basò su uno studio condotto su 11 casi di psicosi infantile, accomunati da una sintomatologia caratteristica: isolamento, ecolalia e marcata difficoltà nell’adattamento ai cambiamenti ambientali; in alcuni di questi pazienti, inoltre, furono riconosciute buone abilità mnestiche.
Nel 1944, in maniera indipendente da Kanner, Asperger utilizzò un termine simile, “autistichen psychopathen”, per descrivere pazienti da lui studiati aventi una sintomatologia affine a quella dei soggetti osservati da Kanner precedentemente. Ciò che Asperger evidenziò furono delle differenze nelle caratteristiche cliniche dei suoi pazienti: questi presentavano un eloquio più fluido e complesso rispetto ai bambini studiati da Kanner, ma mostravano difficoltà nell’esecuzione di movimenti prevalentemente grossolani e una diversa strategia di apprendimento. Sulla base di quest’ultima Asperger definiva i suoi pazienti come “pensatori astratti”, mentre secondo l’osservazione di Kanner, i bambini apprendevano meglio in maniera meccanica. Pertanto si configurarono due quadri diagnostici differenti: l’Autismo di Kanner e la Sindrome di Asperger.
Come prima ipotesi rispetto ai dati ottenuti ed ai sintomi, entrambi gli studiosi affermarono che si trattava di una sindrome causata da condizioni organiche; soltanto in seguito, Kanner ipotizzò la possibilità di considerare delle cause psicodinamiche.
Lo studio descritto da Kanner poneva l’attenzione su alcune caratteristiche dei pazienti, quali la difficoltà dei bambini nel rapportarsi all’ambiente, la tendenza ad un comportamento di isolamento e la mancata ricezione dei segnali provenienti dall’esterno. Oltre all’osservazione diretta sui bambini, Kanner descrisse i genitori di questi ultimi come freddi ed eccessivamente intellettuali.
Nel corso degli anni gli studi e la ricerca hanno apportato delle modifiche alla definizione di autismo, tuttavia gli aspetti comportamentali sui quali da sempre ci si è focalizzati, rimangono fedeli al concetto descritto da Kanner precedentemente.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, l’autismo viene considerato una possibile manifestazione precoce della caratteristica sintomatologia della schizofrenia infantile; viene inoltre sostenuta la correlazione tra il rapporto genitore-figlio e lo svilupparsi del disturbo.
Nel corso degli anni Settanta vennero accantonati gli studi sulla teoria psicogenetica, fino a quel momento supportata, a favore della ricerca di una causa biologica come origine della sindrome.
Nel 1978, attraverso gli studi di Rutter, l’attenzione fu rivolta ad alcuni parametri che precedentemente non erano stati presi in considerazione: in primis, l’età dell’insorgenza del disturbo veniva collocata prima del compimento dei due anni e mezzo di età; era presente una modalità di evitamento in tutti i campi, corporeo, visivo e uditivo; inoltre il linguaggio risultava per lo più assente o con la presenza di ecolalie; erano evidenti differenti stereotipie motorie e una difficoltà ad affrontare i cambiamenti rispetto all’ambiente, che si mostrava con reazioni di rifiuto ossessivo, angosciato e violento.
Dunque, nel corso degli anni le ricerche riguardo le cause del disturbo autistico risultarono suddivise in due grandi filoni: da una parte si collocavano gli studi di coloro che consideravano i conflitti psicodinamici legati ad alterazioni precoci del rapporto madre - bambino alla base dell’autismo; dall’altra parte erano schierati coloro che, al contrario, individuavano cause biologiche all’origine della patologia.
È solo nel 1980 che viene posta la chiara distinzione tra schizofrenia e autismo, con la definizione di quest’ultimo da parte del DSM III come Disturbo Pervasivo dello Sviluppo che interessa tre domini: “Mancanza di responsività verso gli altri, grave deterioramento delle capacità comunicative e risposte bizzarre a diversi aspetti ambientali. Tutti sviluppatisi entro i 30 mesi d’età”.
Nel 1987 con la pubblicazione del nuovo DSM III-R la definizione di autismo subì delle modifiche: all’interno dei tre domini già presenti, interazione sociale, comunicazione e interessi ristretti, devono essere soddisfatti almeno 8 fra i 16 criteri. In questa edizione viene inoltre inserita una nuova categoria, il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato per bambini che soddisfano solo alcuni i criteri diagnostici per il disturbo autistico; altro parametro che viene considerato dal DSM III-R è l’epoca di insorgenza del disturbo, che deve collocarsi in età precoce.
Tra il 1994 e il 2000 attraverso la pubblicazione del DSM IV prima e successivamente del DSM IV – TR, furono perfezionati i complessi criteri diagnostici e i disturbi pervasivi dello sviluppo considerati divennero cinque: Disturbo Autistico, Disturbo di Asperger, Disturbo di Rett, Disturbo Disintegrativo dell’Infanzia, Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato.
A partire dal 2013, con la diffusione del DSM V, i Disturbi dello Spettro Autistico vengono definiti all’interno di due grandi categorie: “deterioramento persistente nelle comunicazioni sociali reciproche e nelle interazioni sociali” e “schemi comportamentali ripetitivi e ristretti”; persiste la condizione per cui questi criteri diagnostici debbano essere presenti sin dalla prima infanzia e sono presenti tre distinti livelli di gravità. All’interno del nuovo manuale diagnostico, inoltre, il Disturbo di Asperger e il Disturbo Pervasivo Non Altrimenti Specificato, così come altre sottocategorie quali l’autismo atipico, non vengono inclusi nella diagnosi di spettro.
La formulazione di una diagnosi certa richiede la specificazione di una eventuale presenza o assenza di disabilità intellettiva correlata, di alterazioni del linguaggio e di condizioni mediche o genetiche associate.
Ciò che possiamo affermare dalle recenti ricerche è che, sebbene non ci sia estrema chiarezza rispetto all’eziologia della sindrome, sicuramente ci sono delle prove consistenti sulla presenza di disfunzioni organiche alla base dell’autismo.
Gli studi di tipo psicodinamico invece, nel tempo, non hanno ricevuto sostegno né conferme a livello sperimentale, e ad oggi è improbabile che ne trovino, sia per i molti esempi di rifiuto affettivo nell’infanzia che non hanno prodotto casi di autismo, sia per la mancanza di differenze significative tra le modalità affettivo-educative dei genitori di bambini autistici rispetto a quelli dei bambini con altri handicap o normodotati.
Inoltre mancano sufficienti prove a sostegno dell’ipotesi che il bambino con autismo non arrivi a distinguere il sé dall’altro come sosteneva Winnicott o l’oggetto buono dal cattivo secondo la concezione della Klein; non ha ottenuto particolare sostegno neanche l’ipotesi di Bettelheim, il quale riteneva che il bambino fosse in grado di distaccarsi dalla realtà per racchiudersi in un mondo fantastico, a seguito di un’interpretazione negativa dei sentimenti della madre nei suoi confronti.
Epidemiologia
I Disturbi dello Spettro Autistico si manifestano entro il compimento dei primi tre anni d’età; il disturbo non sembra presentare prevalenze geografiche e/o etniche, in quanto è stato descritto in tutte le popolazioni del mondo, di ogni razza o ambiente sociale; presenta, tuttavia, una prevalenza di sesso, quanto colpisce i maschi in misura da 3 a 4 volte superiore rispetto alle femmine, differenza che aumenta in maniera maggiore se si esaminano i quadri di sindrome di Asperger.
Una prevalenza di 10-13 casi su 10.000 sembra la stima più attendibile per le forme classiche di autismo, mentre se si considerano tutti i disturbi dello spettro autistico, la prevalenza arriva a 40-50 casi su 10.000.
Sebbene non ci sia ancora una spiegazione comunemente condivisa rispetto al continuo aumento del tasso di incidenza, tra i fattori da considerare troviamo un migliore affinamento dei criteri diagnostici ed una maggiore attenzione alle patologie neuropsichiatriche dell’età evolutiva.
Alcuni studi condotti in popolazioni generali in diverse parti del mondo, non considerando i criteri di esclusione o di diagnosi differenziale, hanno rilevato prevalenze intorno all’1% in tutte le fasce d’età.
Un recente studio epidemiologico, pubblicato il 9 giugno 2015 da parte dell’associazione Autism Speaks all’interno della rivista Molecular Psychiatry, fa riferimento ad una possibile correlazione tra il rischio di autismo e l’età dei genitori.
Rispetto a tale ipotesi, dall’analisi di dati raccolti dall’International Collaboration for Autism Registry Epidemiology, su 5,7 milioni di bambini in cinque paesi, emerge che il rischio maggiore si registra nelle madri adolescenti e nei padri oltre i cinquant’anni. La percentuale della diagnosi di autismo è risultata del 66% superiore nei figli nati da padri “over 50” rispetto a quelli nati da padri ventenni e del 18% superiore nei figli con madri adolescenti rispetto a madri ventenni.
In base alle attuali conoscenze, l’autismo è una patologia psichiatrica con un elevato tasso di ereditabilità e con una significativa concordanza nei gemelli monozigoti; statisticamente il rischio di avere un altro bambino con autismo è 20 volte più elevato rispetto alla popolazione generale se si è già avuto un figlio affetto.
Teorie Eziopatogenetiche
Possiamo affermare che ad oggi non si conoscono ancora con certezza le cause che stanno alla base dell’Autismo. La natura del disturbo, coinvolgendo i complessi rapporti mente- cervello, non rende possibile il riferimento al modello sequenziale eziopatogenetico, adottato solitamente dalle discipline mediche (eziologia à anatomia patologica à patogenesi à sintomatologia). Non vi è, infatti, una teoria unificante in grado di spiegare la sindrome secondo un schema lineare di causa-effetto.
Nel corso degli anni, la presenza di una sintomatologia varia e complessa, ha comportato la diffusione di moltissime teorie tra loro differenti, al fine di cercare una spiegazione delle cause dell’insorgenza del disturbo autistico. Tra tutte le teorie proposte, alcune sono state da subito smentite e non approvate dalla comunità scientifica, altre sono state invece oggetto di studi e ricerche.
Ciò che emerge dai vari modelli eziopatogenetici è, nella maggior parte dei casi, uno studio sull’individuazione dei segni e dei sintomi più caratteristici del disturbo autistico, che tuttavia, non possono essere considerati come esclusivi responsabili della patologia.
A questo proposito, la nascita di diatribe scientifiche è causata dalla necessità di considerare nel campo della ricerca eziopatogenetica la differenza tra il concetto di causalità e quello di correlazione. Poiché, mentre la causalità comporta il riferimento a delle variabili la cui presenza è determinante per la comparsa della patologia, la correlazione invece, considera delle variabili che spesso si presentano insieme ma che non necessariamente sono dipendenti le une dalle altre. Dunque, possiamo affermare che in realtà ciò che emerge dagli studi e dai modelli teorici stilati a proposito dell’autismo, si fa più spesso riferimento a correlazioni di segni e sintomi, che pertanto difficilmente si prestano ad essere causa determinante della patologia.
Lo scopo delle ricerche attuali è quello di giungere ad una spiegazione organicistica che sia più unitaria possibile attraverso l’individuazione di fattori neurofisiologici e genetici.
Tuttavia, trattandosi della patologia autistica che viene comunemente definita dalla comunità scientifica come complessa e multifattoriale, sembra riduttivo affrontare lo studio dei Disturbi dello Spettro Autistico soffermandosi sulla sola dimensione organica. Il lavoro da ritenere maggiormente appropriato è invece quello di una ricerca che approfondisca le interazioni tra l’organismo umano e l’ambiente, quindi uno studio di tipo interazionista, con lo scopo di giungere ad una più completa e complessa lettura dei processi coinvolti all’origine della patologia autistica.
Rispetto a quanto affermato dunque, risulta più appropriato parlare di cause multiple ed effetti transazionali alla base dell’autismo, nel senso che uno stesso effetto, a seconda del contesto e dell’interazione tra l’organismo e l’ambiente, può potenziarsi o svanire. Non è quindi opportuno riferirsi alle cause e agli effetti della patologia autistica come a fattori meccanicamente determinati. Pertanto, l’ambiente non risulta essere semplicemente un’influenza positiva o negativa rispetto alle informazioni genetiche che vengono depositate sui cromosomi, ma piuttosto genera un rapporto di dipendenza e di interazione con l’organismo.
In tempi recenti, come detto precedentemente, ha trovato consenso la nozione di Autismo come “spettro”, ad indicare un insieme di condizioni che esprimono in modi diversi alcuni aspetti fondamentali comuni.
Molti preferiscono parlare di un insieme di sindromi diverse, di autismi, con differenti eziopatogenesi e simili tratti sintomatologici.
Allo scopo di individuare gli aspetti comuni tra le varie “forme” di autismo, sono stati elaborati alcuni modelli esplicativi, per identificare i disturbi principali, i loro fondamenti biologici e la natura della caratteristica disabilità che comporta.
Il ruolo della genetica nell’autismo
L’importanza dei fattori genetici nel disturbo autistico è stata più volte evidenziata dalla ricerca scientifica, tuttavia non risulta ancora ben chiaro cosa precisamente venga ereditato.
Si ipotizza che si erediti una predisposizione generale ad alcune particolari difficoltà più che all’autismo in sé.
Dalla ricerca emerge che la probabilità di coinvolgimento genetico sia relativa ad un numero di geni che va da 4 fino a 20 o più, dunque per tale motivo il lavoro non risulta lineare e semplice.
Gli studi attuali stanno focalizzando l’attenzione su alcune regioni dei cromosomi 7 e 15; inoltre sono state individuate delle anomalie di struttura a livello cerebrale in particolare nel cervelletto, nell’amigdala, nell’ippocampo, nel setto e nei corpi mammillari e delle anomalie a livello delle molecole che hanno un ruolo nella trasmissione degli impulsi nervosi nel cervello, quali serotonina e beta-endorfine.
Le prove sull’influenza del patrimonio genetico rispetto all’origine dell’autismo sono state per lo più ottenute dagli studi su individui con gradi di parentela differenti: gemelli monozigoti e dizigoti, fratelli non gemelli e genitori.
In particolare, dalle ricerche condotte sui gemelli, si è giunti ad un’ipotesi rispetto al fatto che, se il patrimonio genetico influenza e comporta la comparsa di una determinata caratteristica a livello fenotipico, i casi di concordanza dovrebbero essere più frequenti nel le coppie di fratelli identici. Per quanto ciò sia un’ipotesi sostenuta a lungo dalla comunità scientifica, nei gemelli identici la concordanza non è mai risultata del 100% e ciò ha dimostrato che i geni forniscono un’alta predisposizione a sviluppare il disturbo autistico, ma che tuttavia tale predisposizione viene influenzata da altri fattori ancora poco chiari.
Nei fratelli non gemelli e nelle coppie di gemelli dizigoti, la concordanza diagnostica è del 2-6%.
La prima ipotesi formulata riguardo le cause dell’autismo risale al 1943 quando L. Kanner, pubblicò uno studio riguardo le famiglie di bambini autistici, in cui individuava molti genitori, nonni e parenti di alto livello culturale e sosteneva che il denominatore comune a queste famiglie fosse un comportamento ossessivo. Più tardi, L. Eisemberg, suo collaboratore, definì indispensabile la considerazione della configurazione affettiva del nucleo familiare, ipotizzando che il comportamento dei genitori non stimolasse a sufficienza il bambino al punto da permettergli di uscire dal suo guscio di “refrigerazione affettiva”.
Questa teoria recentemente ha trovato approvazione e considerazione all’interno del dibattito sull’eziopatogenesi del disturbo autistico in seguito alla scoperta dei neuroni specchio, che secondo alcuni studi potrebbero avere un ruolo nella genesi dell’autismo.
Successivamente al lavoro di Kanner ed Eisemberg, nel 1951 A. Freud e S. Dann, condussero uno studio su alcuni bambini sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale e dimostrarono che nemmeno quelle condizioni estreme di privazione di affetto potevano essere considerate come causa dell’insorgenza del disturbo autistico.
Dalle ricerche più recenti, condotte prevalentemente in ambito neurobiologico, emerge che all’origine dell’Autismo vi è un disordine nell’organizzazione del Sistema Nervoso con deficit a carico del sistema limbico, del cervelletto, dell’ippocampo, dell’amigdala e dei lobi frontali, che comporta delle conseguenze sullo sviluppo del soggetto e sulla costruzione del suo mondo interpersonale.
Teoria Psicogenetica
In letteratura, uno fra i primi ad elaborare ipotesi circa il perché dello sviluppo della patologia autistica, fu Bruno Bettelheim nel 1967, con la formulazione della metafora della fortezza vuota: egli infatti sosteneva che le cause dell’autismo andassero ricercate nell’atteggiamento delle madri, ritenute troppo fredde e insensibili ai bisogni del bambino e attribuiva dunque l’origine della sindrome a un disturbo dei rapporti primari con chi assume il ruolo di accudimento. L’immagine della madre frigorifero generava nel bambino l’idea che non avrebbe mai potuto influenzare il mondo circostante e dunque ciò lo costringeva a ritirarsi in una sorta di fortezza vuota.
Questa teoria ha dominato il mondo scientifico per lungo tempo, generando sensi di colpa e angosce nei genitori; inoltre poiché ci si concentrava sul rapporto madre-bambino e non sulle caratteristiche e sui bisogni del singolo, si sono evidenziate delle ripercussioni negative anche sulle ipotesi di intervento proposte.
Bettelheim, in seguito alla formulazione della sua ipotesi, giunse anche a proporre come metodica riabilitativa la cosiddetta “parentectomia”, che consisteva nell’allontanamento del bambino dalla propria famiglia.
La teoria psicogenetica portata avanti da Bettelheim ha subito una svalutazione progressiva intorno agli anni ’80, epoca in cui vennero formulate nuove ipotesi. L’osservazione dei dati epidemiologici, inoltre, che rileva spesso più di un caso di autismo tra membri della stessa famiglia e una forte sproporzione della prevalenza della patologia nei maschi, fornisce elementi a conferma del fatto che il disturbo autistico sia generato da altre cause, che prescindono dall’inadeguatezza dell’affetto materno.
Teoria della mente
Lo studio dei processi cognitivi e comunicativi nei bambini con disturbo dello spettro autistico nel tempo ha ottenuto notevoli successi, in parte dovuti ad una teoria. Nello specifico, le diverse ipotesi relativa al deficit della teoria della mente, sostengono che la causa dell’autismo sia da ricercare nell’incapacità di tali soggetti ad assumere la prospettiva dell’altro e a comprenderne emozioni e pensieri. Dunque è possibile affermare che l’autismo, a livello psicologico, è caratterizzato da una difficoltà ad attribuire stati mentali agli altri e a se stessi. Questa difficoltà deriva da un deficit nell’acquisizione di alcuni concetti, quali credere, pensare o far finta, dunque si parla di deficit nell’acquisizione della teoria della mente.
Possiamo definire gli stati mentali come un qualcosa di non tangibile, tuttavia esistente e con un ruolo fondamentale per la vita degli esseri umani. Si tratta di stati interni che permettono di prendere decisioni appropriate e il raggiungimento di mete ed obiettivi più o meno complessi. È fondamentale la capacità di attribuzione degli stati mentali, poiché consente una comprensione causale senza la quale risulterebbe difficile qualsiasi tentativo di interazione sociale.
I bambini a sviluppo tipico mostrano l’acquisizione della teoria della mente nei primi anni di vita: si tratta di un’acquisizione inconsapevole ed implicita, poiché parliamo di concetti che il bambino non controlla consciamente e volontariamente ma che tuttavia orientano i suoi processi di comprensione e di azione.
Gli studi sulla teoria della mente hanno avuto inizio da una ricerca di Premack e Woodruff del 1978, in cui si analizzava la capacità degli scimpanzé di attribuire stati mentali all’uomo e, sulla base di tali stati, di prevederne il comportamento.
In particolare, nel 1893 Wimmer e Perner hanno sviluppato un modello, denominato “compito della falsa credenza”, che è stato impiegato come sostegno a numerosi studi sperimentali.
La maggior parte dei bambini con disturbo dello spettro autistico, non riesce a risolvere il compito della falsa credenza, anche se possiede un’età mentale di sette anni o più (Baron- Cohen et al., 1985), in quanto si evidenzia una difficoltà ad inibire l’attribuzione del contenuto vero e sostituirlo con quello falso. Dunque, nel bambino a sviluppo tipico, la teoria della mente si concretizza intorno ai quattro anni, tuttavia si tratta di un’informazione non condivisa da tutti i ricercatori. Alcuni infatti, ritengono che tra i due e i tre anni, i bambini mostrano una conoscenza sufficiente degli stati mentali e sono in grado di manipolare rappresentazioni che si allontanano dalla realtà (ad esempio comprendere il gioco di finzione, creare nell’altro false credenze per ingannarlo, riconoscere la differenza tra oggetto reale e immagine mentale dell’oggetto, prevedere il comportamento dell’altro sulla base di ciò che desidera). Tuttavia, sebbene i bambini tra i due e i tre anni siano capaci di prevedere il comportamento degli altri, a questa età non sono ancora in grado di riconoscere l’esistenza delle false credenze e dunque di risolvere le situazioni di conflitto in cui le conoscenze proprie e degli altri risultano discrepanti.
Ciò che sta alla base della teoria della mente è la capacità di meta-rappresentazione; tale capacità consente al sistema cognitivo di descrivere eventi ipotetici che, piuttosto che riferirsi alla realtà esterna, si rifanno ad altre rappresentazioni. Dunque, la scoperta della mente propria e altrui, sarebbe una progressiva conquista evolutiva.
In uno studio del 1987, Leslie ritiene che possa esistere un modulo della teoria della mente che si attiverebbe su base maturativa e che sarebbe indipendente dall’esperienza; tuttavia di questa interpretazione non si hanno consistenti prove empirico-sperimentali (Camaioni, 1998).
Per delineare il processo di sviluppo della teoria della mente, occorre analizzare attentamente quei comportamenti considerati precursori fra cui, i più precoci, sembrano essere l’attenzione condivisa (Baron-Cohen, 1989) e la comunicazione intenzionale di tipo proto-dichiarativo (Camaioni, 1993).
L’attenzione condivisa consiste nel comportamento che i bambini cominciano a manifestare intorno ai nove mesi, quando mostrano interesse per le cose osservate dall’adulto, focalizzando lo sguardo in maniera alternata verso un oggetto fissato dall’adulto e verso l’adulto stesso.
La sequenza comunicativa di tipo proto-dichiarativo rappresenta un comportamento attivato dal bambino con finalità comunicative: si evidenzia quando il bambino indica un oggetto all’adulto alternando il proprio sguardo tra l’oggetto e il volto dell’adulto, finché quest’ultimo guarda nella stessa direzione.
In entrambe le modalità comunicative, l’intenzione del bambino non è semplicemente quella di influenzare il comportamento dell’interlocutore per ottenere un oggetto materiale, ma lo scopo è di influenzare lo stato interno dell’altro relativamente ad un aspetto della realtà esterna, in particolare il provare interesse per qualcosa o il condividere un’esperienza (Camaioni, 1998).
Un altro punto cardine dello strutturarsi della teoria della mente, è rappresentato dal gioco di finzione (pretend play). Fra i 18 e i 24 mesi, infatti, nel momento in cui il bambino mette in atto dei giochi simbolici, la sua capacità di meta-rappresentazione viene messa in evidenza. Il bambino assume la consapevolezza della differenza tra il mondo percettivo e quello della finzione, in quanto gioca appunto a rappresentare delle rappresentazioni.
Intorno ai due anni inoltre, il bambino, dopo aver acquisito la capacità di fare delle copie della realtà, può costruire delle rappresentazioni di ciò che la gente ha intenzione di comunicare: è questo approccio al mondo astratto che, in seguito, permetterà al bambino di rappresentarsi mentalmente gli stati mentali altrui. (Frith, 2010).
Ciò che emerge dagli studi è che nello sviluppo del bambino affetto da autismo, si evidenziano dei deficit nell’acquisizione delle caratteristiche considerate precursori della maturazione della teoria della mente.
In particolare, per quanto riguarda l’attenzione condivisa e la comunicazione protodichiarativa, i bambini con autismo tendono a non seguire lo sguardo dell’adulto e a non guardare alternativamente l’adulto ed un oggetto target (Loveland e Landry, 1986). È stato osservato inoltre come questi bambini si mostrino capaci di produrre e comprendere il gesto indicativo con funzione richiestiva, ma raramente lo utilizzino con funzione dichiarativa, dunque non coinvolgono l’altro (Mundy, et al., 1986; Baron-Cohen, 1989,1998). Dalle ricerche emerge che i pochi bambini che si dimostrano capaci di produrre indicatori dichiarativi, sono anche capaci di utilizzare in modo adeguato comportamenti di attenzione condivisa (Camaioni, 1989).
Rispetto ai comportamenti di finzione e gioco simbolico, gli studiosi sono concordi nel definire tali modalità comportamentali fortemente compromesse, a causa di carenze nella formazioni di meta-rappresentazioni, come precedentemente spiegato.
L’effettiva capacità di elaborare una teoria della mente è indagabile con il compito delle false credenze. Dennet (1978) infatti, sostiene che la comprensione e la previsione di un comportamento sulla base delle false credenze dei personaggi di una storia può mostrare la presenza di una teoria della mente: se questa non è presente, si può dare una spiegazione dello stato effettivo della situazione (convinzioni personali del soggetto) senza la necessità di postulare nessuno stato mentale.
Nonostante molteplici ricerche e sperimentazioni, le spiegazioni rispetto alle carenze nella costruzione di una teoria della mente, non sono ancora univoche; in partic olare, è possibile evidenziare due posizioni principali: una che fa riferimento a problematiche di tipo cognitivo a livello di un particolare modulo della teoria della mente, sostenuta da Baron-Cohen et al. 1985, Leslie 1987, Leslie 1989, Baron-Cohen et al., 1994, Baron-Cohen 1995; l’altra, sostenuta da Hobson (1989, 1990) considera dei fattori di tipo socio-affettivo.
L’ipotesi di base, sostenuta da Baron-Cohen et al. (1985), è che nei bambini con disturbo dello spettro autistico non si sviluppi in modo tipico la capacità di concepire che le altre persone possano conoscere, volere, sentire e credere qualcosa, e che questo deficit meta- rappresentativo dia luogo a vere e proprie anomalie comunicative e di comportamento sociale.
Happè e Frith nel 1995 formularono la teoria della “cecità” della mente autistica, sostenendo come tale teoria fosse in grado di spiegare non solo gli handicap manifesti, ma anche il fatto che alcune funzioni vengano preservate. In particolare il loro studio prevede che ogni abilità che coinvolge unicamente rappresentazioni primarie rimanga inalterata, condizione che giustifica in tal modo alcune isolette di abilità che si possono riscontrare nelle persone con autismo (ad esempio buona memoria meccanica, particolari capacità visuo-spaziali, ecc.). Tuttavia, secondo la ricerca condotta, Happè e Frith assumono l’esistenza di una minoranza di bambini con disturbo dello spettro autistico che supera le prove del compito delle false credenze ma che comunque presenta il caratteristico quadro clinico dell’autismo; le spiegazioni avanzate rispetto a questi riscontri sperimentali fanno riferimento alla possibile esistenza di ritardi nell’acquisizione e nello sviluppo di strategie compensatorie.
In conclusione, è possibile affermare che il disturbo dello spettro autistico è caratterizzato da un deficit delle rappresentazioni mentali. I bambini con autismo dunque, non sono programmati per “mentalizzare” o per ragionare sugli stati mentali, ma anzi trovano ciò bizzarro e non spontaneo; non sono consapevoli delle modalità di comportamento per evitare di irritare il prossimo, non si accorgono di stare facendo o dicendo la cosa sbagliata finché l’altra persona non lo manifesta espressamente; inoltre non sono in grado di riconoscere gli inganni o le bugie.
Chiaramente l’area che risente maggiormente della difficoltà a comprendere gli stati mentali altrui, è sicuramente quella sociale.
La prospettiva del deficit primario nella relazione interpersonale
Tra il 1990 e il 1993 Hobson avanzò l’ipotesi che il deficit sociale nell’autismo potesse essere dovuto alla difficoltà nella realizzazione di relazioni interpersonali da parte dei soggetti autistici. L’autore infatti, sostiene che sin dalla nascita, i bambini siano coinvolti in relazioni di reciprocità con gli altri, e che tali relazioni siano possibili grazie alla capacità dei bambini stessi di percepire le espressioni delle emozioni di chi si prende cura di loro. I vissuti emozionali sarebbero percepiti “direttamente” dai bambini e sarebbero alla base della loro capacità di utilizzare le espressioni facciali dell’adulto per comprendere la natura degli eventi nuovi. In particolare, Hobson ipotizza che la conoscenza e la comprensione delle persone si acquisiscano attraverso l’esperienza di relazione con gli altri e che dunque il bambino impari a riconoscere e a manifestare gli stati mentali ed emotivi osservando gli adulti e condividendo con loro tali pensieri ed emozioni. L’autore inoltre sostiene che sia la produzione di richieste gestuali, sia il riferimento sociale, sarebbero all’origine della capacità di interpretare la realtà dal punto di vista dell’altro e di mettere in atto giochi di finzione. La difficoltà del bambino con disturbo dello spettro autistico di comprendere gli stati mentali e di attuare giochi di finzione sarebbe la conseguenza dell’incapacità di comprendere e rispondere alle emozioni degli altri.
Sottoponendo alcuni bambini con autismo a delle prove di valutazione al fine di verificare la loro capacità nel comprendere le emozioni, Hobson ha rilevato nelle loro prestazioni, una percentuale di fallimenti estremamente alta in confronto a quanto ci si sarebbe dovuti aspettare data la loro età ed educazione, e ha evidenziato nei risultati alcune difficoltà specifiche nel riconoscimento delle emozioni indipendentemente dalle abilità intellettive generali.
Il nucleo dell’ipotesi di Hobson è dunque rappresentato dalla convinzione secondo cui la conoscenza e la comprensione delle altre persone e dei loro stati mentali siano acquisite dall’individuo attraverso l’esperienza diretta di relazioni personali reciproche.
A tal proposito, possiamo assumere come evidente la connessione dell’ipotesi di Hobson con la teoria della simulazione mentale.
La capacità degli esseri umani di comprendere e intuire gli stati emozionali delle persone sembrerebbe quindi strettamente collegata a un meccanismo innato che permette e favorisce i contatti relazionali con le persone.
Nella patologia autistica si sarebbe perso un aspetto fondamentale di ciò che è biologicamente determinato per avere una relazione intersoggettiva con gli altri: i soggetti risulterebbero cioè deprivati di ciò che permette di acquisire il sapere sulle altre persone e di comprenderne gli stati mentali.
La differenza fondamentale risiede nel fatto che, mentre le persone a sviluppo tipico hanno la possibilità di imparare ad imitare modalità d’azione, di pensiero e stati d’animo grazie all’esempio degli altri, i soggetti affetti da disturbo dello spettro autistico mostrano un’estrema difficoltà nella capacità di imitazione e una povertà a livello delle strutture intra e interpersonali.
Hobson ha inoltre suggerito che le persone con autismo siano deficitarie nello sviluppare le più alte funzioni cognitive; tale difficoltà è correlata alla loro incapacità di coinvolgimento sia nei confronti degli altri che di se stessi. Alla base di queste carenze, ci sarebbe un’assoluta atipicità a carico dell’abilità di relazionarsi a livello interpersonale.
Negli ultimi tempi, l’ipotesi formulata da Hobson, ha ricevuto attenzioni, sostenuta sia dall’interesse suscitato dalla scoperta dei sistemi neurofisiologici dell’empatia e dell’intersoggettività originaria (sistema dei “neuroni specchio”, Rizzolatti et al. 1996, Gallese
2000,2001) sia dal ruolo sempre più importante riconosciuto in generale alle competenze e ai processi imitativi precoci nella costruzione/esplorazione del mondo interpersonale (Meltzoff et al., 1993, 2001; Gallese et al., 1998; Gallese 2003), processi imitativi tipicamente disfunzionanti nell’autismo (Rogers 1999; Williams et al. 2004).
Teoria delle Funzioni Esecutive
La teoria delle Funzioni Esecutive (Ozonoff, et al., 1991; Harris, 1993; Ozonoff, 1995,1998; Russell, 1997) ipotizza l’esistenza di un deficit a livello dei lobi frontali con una conseguente compromissione delle funzioni esecutive, in particolare nella difficoltà nella pianificazione, nella flessibilità cognitiva e nell’inibizione di risposte non appropriate.
Le funzioni esecutive consistono in una serie di operazioni mediate dai lobi frontali, che consentono il controllo volontario del comportamento cognitivo e motorio (Job, 1998). Sono stati ipotizzati due modi di controllo: uno automatico ed uno volontario (Norman et al., 1986; Shallice, 1988).
I processi di controllo automatico vengono attivati in situazioni abituali; generalmente le sequenze d’azione sono avviate da condizioni esterne e vengono eseguite in modo fluido e spontaneo, senza richiedere particolare attenzione. Il controllo automatico consente anche l’esecuzione di più azioni in contemporanea.
I processi di controllo volontario, invece, sono attivati in seguito a situazioni nuove o che richiedono azioni intenzionali, in cui dunque il comportamento viene organizzato in relazione alle esigenze personali e non alle condizioni esterne. Tali processi hanno lo scopo di assicurare il massimo di flessibilità al comportamento, che altrimenti sarebbe limitato ad attività stereotipate, e permettono di interrompere e correggere sequenze di azioni già avviate (Job, 1998).
Teoria della Coerenza Centrale (1989)
La teoria della Coerenza Centrale (U. Frith, 1989) ipotizza che i soggetti affetti da autismo non siano in grado di elaborare in modo coerente le molteplici informazioni che arrivano ai propri sensi e che abbiano dunque, difficoltà ad elaborare gli stimoli nella loro complessità.
Nel normale processo di elaborazione delle informazioni, una caratteristica fondamentale è la tendenza a riunire le diverse informazioni ottenute per costruire sempre più alti livelli di contesto del significato; tale caratteristica è disturbata nell’autismo e, una carenza a livello di coerenza centrale, potrebbe spiegare, almeno in parte, i deficit che si riscontrano. Secondo gli studiosi infatti, la debole spinta verso una coerenza interna sarebbe in grado di spiegare la triade dei sintomi del disturbo dello spettro autistico (a livello comunicativo, dell’interazione sociale e del comportamento).
Il normale processo di coerenza centrale presuppone la necessità di dare priorità alla comprensione del significato.
La capacità di mentalizzare è una caratteristica naturale del sistema cognitivo e si ipotizza che sia fortemente carente nelle persone con autismo. Secondo Frith e Happè (1994) tale deficit è in grado di spiegare sia le carenze che si rilevano, sia le isole di abilità, talvolta sorprendenti. Queste ultime sarebbero raggiunte dai soggetti attraverso processi relativamente atipici: infatti a causa delle difficoltà nell’organizzazione dei processi centrali di pensiero, i soggetti autistici esprimono le sensazioni come percezioni frammentarie ed in modo comunque frammentario pianificano ed eseguono le azioni.
Deficit e alterazione dei circuiti neurali di simulazione (“Neuroni Mirror”)
Recenti studi si sono concentrati sul ruolo dei neuroni specchio nel meccanismo eziopatogenetico alla base dell’autismo.
Un gruppo di ricerca dell’Università di Parma (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996) ha scoperto l’esistenza dei neuroni specchio nei macachi: si tratta di una particolare classe di neuroni audiovisuomotori che si attivano nel momento in cui l’individuo esegue un’azione oppure vede qualcun altro eseguire un’azione consentendone la comprensione, ovvero “la capacità di riconoscere che un individuo sta eseguendo un’azione, di differenziare quest’azione da un’altra analoga ad essa, e di usare questa informazione per agire in modo appropriato” (Gallese, 1996). L’agire altrui fa “risuonare” all’interno di chi osserva, i neuroni che si attiverebbero se lui stesso compisse l’azione.
Il gruppo di Parma ha successivamente indagato un’ulteriore potenzialità dei neuroni specchio, cioè la capacità di attribuire le intenzioni ad altri.
Metodi di visualizzazione dell’attività cerebrale hanno poi reso possibili analoghe indagini sull’uomo (Fogassi, Gallese e coll. dimostrarono in seguito la presenza di tali neuroni anche nell’uomo).
Il sistema specchio umano coinvolge molteplici regioni cerebrali, incluse le aree del linguaggio, e sembra intervenire, oltre che nella comprensione delle azioni e delle emozioni altrui, anche nella capacità di apprendimento per imitazione. L’apprendimento comporta l’osservazione, la codifica dei gesti con il sistema specchio e poi una complessa rielaborazione da parte del lobo frontale. Rispetto a ciò la questione che ci si è posti è come mai, dato che i neuroni specchio sono gli stessi neuroni che comandano una specifica azione, essi possano attivarsi in seguito all’osservazione di un gesto senza che questo determini la messa in atto di quello stesso gesto. La risposta arriva da Rizzolatti e coll., che richiamano l’esistenza di un sistema di blocco, una sorta di meccanismo frenante: questo blocco non agisce adeguatamente in alcuni soggetti che hanno avuto lesioni ai lobi frontali, i quali possono manifestare un comportamento di imitazione involontario.
Nei bambini con autismo, è stato messo in evidenza come il sistema dei neuroni specch io sia ipofunzionante. In uno studio di ricerca (Theoret et al., 2005) si è valutato come ci sia un differente funzionamento di questi neuroni a confronto tra un individuo normotipico e un individuo affetto da autismo. Lo studio suggerisce l’ipotesi che la mancanza di reazioni da parte del sistema dei neuroni specchio potrebbe rappresentare il deficit neurologico cui corrisponde il deficit nella capacità di relazione e di socializzazione e del mancato sviluppo del normale livello di empatia.
La critica a questa teoria arrivò nel 2008 da Hickok, un ricercatore che in un articolo pubblicato sul Journal of Cognitive Neuroscience aveva spiegato quelli che lui definiva “gli otto problemi della Teoria dei Neuroni Specchio”. Nello specifico, questo ricercatore, sosteneva che non fosse chiaro cosa gli autori intendessero con il termine “comprensione dell’azione”, ma che soprattutto non fosse possibile generalizzare i risultati emersi dagli studi con le scimmie agli esseri umani, e che non ci fossero evidenze scientifiche forti al punto tale da consentire di applicare quanto trovato nelle scimmie ai processi cognitivi di ordine superiore degli esseri umani.
Il coinvolgimento dei neuroni specchio è stato ipotizzato come una delle possibili cause-caratteristiche dei soggetti con autismo, attribuendo a un deficit nel funzionamento di questi neuroni alcune caratteristiche del disturbo.
Una ricerca che mette in discussione tale relazione è quella condotta da un gruppo di ricercatori della New York University (2010) che hanno pubblicato un articolo su Neuron nel 2010 nel quale hanno confutato l’ipotesi di un legame autismo-neuroni specchio, dimostrando con un esperimento che le persone autistiche non mostrano differenze col gruppo di controllo.
La mente enattiva
Le teorie dello sviluppo socio-cognitivo fanno riferimento ai modelli computazionali della mente, che si focalizzano sull’individuazione delle competenze di problem solving necessarie per l’adattamento all’ambiente sociale. In particolare, l’interesse è concentrato sul possesso di alcune capacità che permettano di affrontare situazioni sociali nuove. In ricerca, le metodologie di studio normalmente impiegate si basano su compiti espliciti, spesso presentati verbalmente, volti a constatare se il soggetto possiede o meno tali competenze. Tuttavia, nella vita reale, le situazioni sociali si presentano in altro modo: il soggetto infatti deve affrontare un compito sociale orientando l’attenzione su alcuni aspetti rilevanti del contesto e tale focalizzazione dell’attenzione precede l’utilizzo di abilità cognitive e sociali di problem solving.
In uno studio, Klin e collaboratori (Klin et al., 2004), il cui scopo era quello di studiare la capacità di adattamento in situazioni naturali, sostengono il riferimento ad una prospettiva teorica alternativa che inquadra una serie di fenomeni socio-cognitivi come, ad esempio, le predisposizioni delle persone ad orientarsi verso gli stimoli sociali salienti, ad attribuire naturalmente un significato sociale a ciò che vedono e pensano, a discriminare le informazioni rilevanti. Tale prospettiva teorica è quella della mente enattiva, che sottolinea sia il ruolo centrale delle predisposizioni a essere motivati a rispondere a stimoli sociali, che il processo evolutivo attraverso cui la cognizione sociale si costruisce a partire dall’azione sociale.
Il termine enactive mind deriva da un lavoro di Varela del 1992, ed enfatizza il concetto di attivazione, nel senso che la mente, e dunque le abilità sociali personali, assume una certa conformazione sulla base di ciò che ripetutamente sperimenta. Tale approccio enattivo, dunque, implica due concetti: da un lato che la percezione consiste in un’azione a sua volta guidata dalla percezione e dall’altro che le strutture cognitive emergono dagli schemi sensomotori ricorrenti che consentono all’azione di essere guidata percettivamente.
In riferimento ai deficit dei soggetti con autismo, si può ipotizzare che siano dovuti ad una costruzione particolare della mente conseguente al modo in cui vengono acquisite le conoscenze sul mondo sociale.
Capire il mondo sociale e orientarsi in esso, infatti implica la necessità di considerare una moltitudine di elementi che diventano più o meno importanti in base alla situazione e alle percezioni, motivazioni, aspettative del soggetto e al modo in cui si modificano adattandosi nel tempo. Un adattamento adeguato ed efficace richiede che la persona abbia un senso della relativa importanza di ogni elemento in una data situazione, delle scelte preferenziali basate su priorità acquisite tramite l’esperienza e la capacità di aggiustamento alla situazione momento per momento.
Klin e collaboratori hanno effettuato una serie di sperimentazioni con la metodologia dell’eye tracking, che ha permesso di osservare e misurare in che modo i soggetti con autismo ad alto livello di funzionalità ricercano il significato di ciò che vedono (dove fissano lo sguardo), quando sono esposti a scene di situazioni sociali naturali.
La teoria della mente enattiva appare connessa ed integrabile con la prospettiva del deficit dei circuiti neurali di simulazione.
Klin e collaboratori hanno analizzato anche i sistemi di insegnamento per lo sviluppo delle abilità sociali, con particolare riferimento al training sulla teoria della mente (Howlin et al., 1998). Sostengono che uno dei limiti più consistenti di questo approccio risieda nel fatto di non riuscire a promuovere la generalizzazione delle acquisizioni; in altre parole non riescono a tradurre un’abilità di problem solving appresa in un ambiente a “campo chiuso” (basato su compiti di insegnamento attraverso schede ed esercizi controllati) in un’abilità che l’individuo ha a disposizione in un ambiente a campo aperto (come avviene in una situazione sociale naturale). Questa può essere la spiegazione del perché i soggetti con autismo hanno difficoltà nell’utilizzare le competenze di cognizione sociale che apprendono attraverso insegnamenti espliciti.
Criteri Diagnostici del Disturbo
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) attraverso l’ICD 10 definisce l’autismo infantile; l’American Psychiatric Association (APA) attraverso il DSM comprende la descrizione del disturbo autistico (1995-2000) e successivamente del disturbo dello spettro autistico (2013-2014).
Il DSM
Il DSM è il manuale diagnostico dei disturbi mentali redatto da una commissione di esperti nominata dall’APA, l’Associazione Americana degli Psichiatri. In questo testo vengono elencate le definizioni dei disturbi mentali che incontrano il consenso degli psichiatri e della comunità scientifica internazionale. Per ogni disturbo vengono descritti i sintomi e le linee guida per formulare una corretta diagnosi.
Con l’evoluzione dal DSM IV al DSM V, si è passati da un approccio categoriale, in cui l’autismo era considerato una categoria diagnostica con caratteristiche cliniche definite, ad un approccio dimensionale, in cui si parla di spettro autistico in continuum dimensionale. L’approccio dimensionale portato avanti dal DSM V (APA, 2014), comprende diversi livelli di gravità della sindrome autistica: autismo grave, autismo medio, autismo lieve, autismo sottosoglia, autismo come variante fisiologica della norma (fenotipi allargati).
Nel DSM IV TR le categorie diagnostiche comprendevano: i Disturbi Mentali, i Disturbi diagnosticati nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza, i Disturbi pervasivi dello sviluppo e il Disturbo autistico. La vecchia definizione di disturbo dello spettro autistico contenuta nel DSM IV TR considerava la cosiddetta triade sintomatologica, attualmente superata, costituita da: interazione sociale, comunicazione e repertorio di interessi. Per quanto riguarda i criteri diagnostici, nel DSM IV dovevano essere presenti almeno 6 criteri, di cui due per l’interazione sociale, uno per la comunicazione, e uno per il repertorio di interessi; l’esordio doveva avvenire prima del compimento dei tre anni e chiaramente doveva essere valutata la possibile presenza di una diagnosi differenziale.
Con l’introduzione del DSM V sono state eliminate le sottocategorie diagnostiche dei disturbi pervasivi dello sviluppo, unificate sotto la definizione di Spettro Autistico; lo spettro comprende il disturbo autistico, il DPS NAS, il disturbo di Asperger, individuati dal DSM IV TR.
Le motivazioni di tale scelta sono date dalla buona attendibilità e validità della differenziazione tra Disturbi di Spettro, sviluppo tipico e altri disturbi di sviluppo.
La suddivisione tra sottotipi dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (PDD) è risultata spesso inconsistente nel tempo, più legata a livelli di gravità espressiva in assetto evolutivo che non alla reale distinzione tra differenti disturbi.
Secondo il DSM V i criteri diagnostici sociale e comunicativo, sono stati unificati in quello socio comunicativo, dunque si considerano due domini: il dominio 1 comprende un deficit socio-comunicativo, a cui sono strettamente connessi i disturbi del linguaggio che influenzano la sintomatologia clinica (componente sociale dei DSA); il dominio 2 che considera gli interessi ristretti e i comportamenti ripetitivi, comprendendo le turbe sensoriali (componente non sociale dei DSA).
Tra i criteri diagnostici nel DSM V sono state introdotte delle indicazioni specifiche per alcune caratteristiche che possono presentarsi in associazione al disturbo autistico tra cui: il funzionamento intellettivo, il funzionamento linguistico, eventuali condizioni mediche, genetiche o ambientali, catatonia e altre condizioni del neurosviluppo mentali o comportamentali. Inoltre, all’interno delle due grandi aree considerate, quella della comunicazione sociale e quella dei comportamenti ripetitivi, sono stati introdotti tre livelli di supporto e di gravità che si differenziano in lieve, moderato e forte bisogno di supporto e assistenza.
Per quanto riguarda la diagnosi differenziale, sono state introdotte nuove categorie, di seguito elencate: sindrome di Rett, mutismo selettivo, disturbo del linguaggio e della comunicazione sociale, disabilità intellettiva, disordine da movimenti stereotipati, disordine da deficit di attenzione/iperattività, schizofrenia.
Altre modifiche apportate dal DSM V sono: l’introduzione dell’aspetto sensoriale, in particolare di situazioni di iper o iporeattività agli input sensoriali o inusuale interesse agli aspetti sensoriali dell’ambiente; l’introduzione di variabili qualitative legate all’età di insorgenza, per cui i sintomi devono essere presenti nel primo periodo di sviluppo, anche se possono non essere pienamente evidenti fino a quando le richieste sociali non mettono in evidenza le capacità deficitarie del soggetto.
Nel DSM V il Disordine dello Spettro Autistico viene inquadrato all’interno dei Disordini del Neurosviluppo; per la diagnosi devono essere soddisfatti quattro criteri:
- Deficit persistenti nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti, non dovuti a generali ritardi dello sviluppo, ed evidenti in tre aspetti principali: deficit nella reciprocità sociale-emozionale, che vanno da una difficoltà nell’avere una normale reciprocità nella conversazione, ad una ridotta capacità di condivisione degli interessi fino all’assenza totale dell’avvio dell’interazione sociale; deficit nei comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l’interazione sociale, che vanno dalla scarsa integrazione tra comunicazione verbale e non verbale, ad anomalie nel contatto visivo e nel linguaggio corporeo, fino alla totale mancanza delle espressioni facciali e della gestualità; deficit nello sviluppo e nel mantenimento di relazioni appropriate al livello di sviluppo, che vanno dalla difficoltà ad adattare il comportamento ai differenti contesti sociali, alle difficoltà nella partecipazione al gioco immaginativo, fino a un apparente disinteresse per le persone.
- Modelli di comportamento ristretti e ripetitivi, o attività che si manifestano con almeno due delle seguenti caratteristiche: linguaggio ripetitivo, movimenti stereotipati o uso stereotipato o ripetitivo di oggetti; eccessiva aderenza a routine, modelli ritualizzati di comportamento verbale o non verbale, o eccessiva resistenza al cambiamento; interessi molto ristretti e fissi, anomali per intensità o focalizzazione; iper o ipo reattività nei confronti di input sensoriali o interesse inusuale per aspetti sensoriali dell’ambiente.
- I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia.
- I sintomi limitano e compromettono il funzionamento quotidiano.
Caratteristiche cliniche del disturbo
Nonostante l’esordio del disturbo autistico sia da collocare nell’infanzia, infatti i primi sintomi si osservano in un periodo precedente il compimento del terzo anno di età, l’autismo non è un disturbo infantile, bensì un disturbo di sviluppo. Essendo una condizione che interessa varie aree dello sviluppo, i sintomi saranno diversi nelle differenti età.
In letteratura, nel corso degli anni e degli studi, sono stati identificati diversi sintomi che possono rappresentare degli indicatori precoci di autismo. Tali sintomi variano spesso sulla base dell’età del bambino, in particolare si differenziano maggiormente nei primi due anni d i vita.
Indicatori precoci 0-24 mesi
Nei primi anni di vita del bambino, i segnali indicatori di autismo si manifestano spesso come assenza di comportamenti che rappresentano tappe evolutive fondamentali nel percorso di sviluppo.
In particolare:
- intorno ai 6 mesi, i bambini autistici solitamente non rispondono al sorriso sociale e non esternano manifestazioni di gioia;
- a 9 mesi non si orientano agli stimoli sonori e rispetto alle espressioni facciali;
- a 12 mesi non rispondono quando chiamati per nome, nella maggior parte dei casi è assente la lallazione e non sono presenti i gesti con valenza comunicativa quali salutare, indicare, mostrare;
- intorno ai 16 mesi, l’indicatore più evidente è l’assenza di singole parole pronunciate vocalmente;
- a 24 mesi sono assenti frasi a due parole, o se sono presenti si tratta per lo più di ripetizioni di frasi acquisite dal linguaggio degli adulti di riferimento.
Indicatori dai 24 mesi (2 due anni)
I possibili sintomi che si manifestano nei bambini dopo il compimento dei due anni di età, riguardano principalmente i deficit nelle abilità sociali, linguistiche e comunicative, oltre alla presenza di comportamenti ristretti e stereotipati.
Per quanto riguarda l’area delle abilità sociali, il bambino non prova interesse rispetto agli altri e a ciò che gli accade intorno, mostrando difficoltà ad entrare in relazione con i pari e in generale con le altre persone; talvolta può essere infastidito dal contatto fisico, risulta complicato per lui esternare i propri sentimenti; infine sono assenti l’imitazione, il gioco di finzione e di gruppo.
Dal punto di vista linguistico, il bambino mostra un ritardo nell’acquisizione delle tappe evolutive linguistiche, utilizza un tono di voce atipico per ritmo o per intensità; spesso ripete le stesse parole più volte, mostra difficoltà di comprensione anche di semplici istruzioni, richieste e domande ed interpreta ciò che gli viene detto in modo letterale, non cogliendo aspetti del linguaggio quali l’ironia e il sarcasmo.
Anche la comunicazione non verbale risente delle difficoltà del bambino che evita il contatto oculare, utilizza espressioni facciali non congrue ai contesti e non coglie il significato delle espressioni dell’altro. L’uso dei gesti è molto limitato, difficilmente è presente il gesto indicativo a scopo richiestivo. Inoltre talvolta i bambini affetti da autismo reagiscono in modo inusuale ad alcuni stimoli visivi, uditivi o a sapori e consistenze.
Infine per quanto riguarda l’area dei comportamenti ristretti e stereotipati, tendenzialmente i bambini seguono routine rigide, mostrano difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti ambientali, presentano un attaccamento inusuale per oggetti o giochi particolari, talvolta li allineano in modo ossessivo o li sistemano seguendo un ordine prestabilito. Una caratteristica frequente è anche la ripetizione di una stessa azione o di un movimento diverse volte in maniera consecutiva, nella maggior parte dei casi in seguito ad un forte coinvolgimento emotivo.
Compromissione dell’interazione sociale
L’interazione sociale si riferisce alla caratteristica propria del genere umano di condividere con l’altro emozioni, interessi, attività e stili di comportamento propri del gruppo di appartenenza. Tale caratteristica, che assume la connotazione di un bisogno primario, si esprime con una serie di comportamenti “osservabili”, che variano nel corso dello sviluppo.
Le diverse modalità con cui può esprimersi la compromissione dell’interazione sociale, hanno portato ad individuare principalmente tre profili (Wing, 1979):
- bambini inaccessibili, che si “tirano fuori” da qualsiasi rapporto sociale;
- bambini passivi, che tendono ad isolarsi, ma sono in grado di reagire se adeguatamente sollecitati;
- bambini attivi-ma-bizzarri, che sono capaci di prendere l’iniziativa nell’interazione sociale, ma lo fanno in maniera inopportuna, enfatica ed inappropriata.
Tali profili non variano solamente da bambino a bambino, ma in uno stesso bambino possono alternarsi nel corso dello sviluppo (Wing, 1988).
Compromissione della comunicazione
La comunicazione fa riferimento a due aree funzionali: la capacità di capire (linguaggio recettivo) e di utilizzare (linguaggio espressivo) quei codici comunicativi che permettono all’individuo di entrare in interscambio con l’altro e la capacità di accedere a giochi di finzione, dunque la capacità di riprodurre situazioni sociali vissute e mentalmente rielaborate.
Per quanto riguarda la prima area, i codici della comunicazione si riferiscono non solo al linguaggio verbale, ma anche alla componente posturo-cinetica (posture, sguardo, mimica, gesti) e alla componente non verbale del linguaggio (intonazione, prosodia, pause); tali codici normalmente assumono un’elevata valenza comunicativa, maggiore del significato veicolato dalla giustapposizione delle parole in frasi. Dunque, il deficit del padroneggiamento dei codici della comunicazione, investe sia il versante recettivo che quello espressivo: il bambino autistico infatti non riesce a “capire” quello che gli altri vogliono comunicargli e, nello stesso tempo, non riesce a “farsi capire” (Prizant et al., 1987).
Sul piano del linguaggio recettivo, in particolare, si osservano difficoltà nell’accesso all’area pragmatica del linguaggio, area relativa alla capacità di definire le relazioni fra il linguaggio propriamente detto e chi lo usa, in rapporto agli scopi, ai bisogni, alle intenzioni e ai ruoli di chi partecipa alla conversazione; ne deriva dunque la cosiddetta “comprensione letterale”.
Rispetto alla seconda area comunicativa, il gioco di finzione, inteso come la capacità del bambino di riproporre in chiave ludica situazioni sociali vissute e rielaborate, rappresenta una tappa obbligata nello sviluppo del bambino.
In alcuni bambini autistici, si rileva un’intensa attività immaginativa, espressa dalla riproposizione di scene vissute o viste in TV, che vengono mimate in tutti i dettagli. Tuttavia tali attività, non possono essere interpretate come “giochi di simulazione” o di “imitazione sociale”, in quanto sono caratterizzate da ripetitività, perseverazione e “dedizione assorbente”.
Comportamenti ripetitivi e interessi ristretti
In tale definizione vengono inclusi tutti quei movimenti, gesti e azioni che per la loro frequenza e la scarsa aderenza al contesto assumono la caratteristica di comportamenti atipici e bizzarri.
Il bambino autistico presenta un interesse assorbente e perseverante che può riguardare diversi aspetti della realtà tra cui: stimoli provenienti dal proprio corpo (guardarsi le mani, assumere posture bizzarre), osservazione di particolari oggetti ed eventi (oggetti che rotolano, configurazioni percettive), esecuzione di attività più o meno elaborate e mentalizzate (mimare una scena di un film o “sapere” tutto dei dinosauri). Pertanto viene a configurarsi una situazione in cui gli interessi variano ma sono poco elaborati, tuttavia l’interesse come stato partecipativo e dedizione assorbente non cambia.
Altra caratteristica dei bambini con autismo è la ritualizzazione di alcune abituali routine quotidiane, che devono svolgersi secondo sequenze rigide ed immutabili. Tale bisogno di immutabilità si verifica anche nel gioco, nella disposizione degli oggetti, nei percorsi da seguire o nell’attaccamento ad oggetti insoliti. In generale, sono due gli aspetti principali che caratterizzano questo tipo di comportamenti: l’abilità del bambino di cogliere anche minime variazioni del set percettivo e le reazioni di profondo disagio quando ciò avviene. È proprio questo profondo disagio che, traducendosi in reazioni comportamentali di rabbia ed aggressività auto o eterodiretta, conferisce a queste abitudini il carattere di un rituale ossessivo-compulsivo.
In conclusione, è necessario considerare che, considerati nel loro complesso, i comportamenti ripetitivi e gli interessi ristretti sembrano configurare un particolare funzionamento mentale, i cui elementi caratterizzanti sono rappresentati da una povertà di contenuti ideativi, dalla ripetitività di quelli presenti e da una scarsa flessibilità degli schemi mentali che risultano pertanto rigidi, perseveranti e poco modificabili dall’esterno.
Altri sintomi associati
Spesso il quadro clinico mette in evidenza comportamenti molto caratteristici, che tuttavia non vengono inclusi tra i criteri diagnostici in quanto sono ritenuti non patognomonici.
- Abnorme risposta agli stimoli sensoriali: molti bambini autistici, mostrano una particolare sensibilità nei confronti di alcuni stimoli uditivi; tali suoni scatenano nel bambino violente reazioni di panico, con tentativi di autoprotezione (ad es. coprire le orecchie con le mani). Risposte simili possono essere osservate anche nei confronti di particolari stimoli visivi o tattili. L’elemento caratterizzante di questi comportamenti è rappresentato sostanzialmente dalla tonalità emotiva di fondo che li accompagna, cioè la crisi di panico; questa viene scatenata da stimoli di diversa natura che per un disturbo percettivo assumono connotazioni emozionali aberranti.
- Condotte autolesive: diversi bambini autistici presentano condotte auto-aggressive, quali battere il capo contro la parete o colpirsi il capo con il pugno. Tali comportamenti richiedono spesso misure terapeutiche attive ed eticamente accettabili, perché possono portare a traumi o automutilazioni.
- Presenza di particolari abilità: le cosiddette “isole di speciali competenze” possono riguardare la capacità di discriminare e riconoscere particolari stimoli visivi, un’eccezionale memoria per numeri o date o un’inaspettata capacità di leggere e recitare interi brani.
- Ritardo Mentale: circa il 75% dei pazienti con autismo presenta ritardo mentale (Rapin, 1998). Recentemente, l’estendersi del concetto di disturbo dello spettro autistico ha determinato stime sensibilmente differenti: in particolare, la percentuale di ritardo mentale in bambini con tale patologia si sarebbe ridotta al 50% (Volkmar et al., 2004).
- Epilessia: l’epilessia si verifica in circa il 30-40% dei casi. In un terzo di questi, insorge nei primi anni di vita, senza assumere caratteristiche particolari (Cohen et al., 2004). Nella maggioranza dei casi, le crisi insorgono in epoca adolescenziale ed assumono le caratteristiche delle crisi parziali complesse e tonico-cloniche generalizzate. Le forme di epilessia ad insorgenza nei primi anni di vita sollevano una serie di interrogativi circa la natura dei rapporti autismo-epilessia (Rapin, 1998). Per lo più, l’autismo e l’epilessia vengono considerati epifenomeni di un comune danno encefalico.
Prognosi
L’autismo è una condizione clinica cronica che tuttavia può essere soggetta a dei cambiamenti positivi, quali lo sviluppo delle autonomie personali e sociali, del linguaggio e di alcune funzioni cognitive, ma può anche modificarsi in senso peggiorativo, ad esempio con la comparsa di disturbi del comportamento.
Il grado di compromissione del funzionamento cognitivo, lo sviluppo del linguaggio e l’eventuale presenza di problematiche comportamentali, influenzano la prognosi rispetto alla qualità della vita del soggetto e al grado di autonomia personale e sociale.
Possiamo affermare che il miglioramento della prognosi è principalmente legato agli strumenti di diagnosi precoce che consente gli interventi abilitativi e riabilitativi precoci.
Ad oggi, non esiste ancora una cura nota per l’autismo. Tuttavia, studi su campioni selezionati di bambini con diagnosi di autismo, hanno riportato una remissione del disturbo in una percentuale che va dal 3% al 25% dei casi.
La maggior parte dei bambini affetti da disturbo dello spettro autistico, mostra un ritardo nell’acquisizione del linguaggio, che può verificarsi intorno ai 4-5 anni di età; in altri casi la capacità di comunicazione verbale non viene acquisita.
Anche se le difficoltà di base tendono a persistere, i sintomi spesso diventano meno gravi con l'età.
Rispetto alla prognosi a lungo termine, vi sono pochi studi, infatti nessuna ricerca si è particolarmente concentrata sull’autismo dopo la mezza età.
Ciò che è possibile affermare è che probabilmente l’acquisizione di capacità linguistiche prima del compimento del sesto anno d’età e un QI superiore a 50, rendono la prognosi più favorevole.
Ogni intervento deve avere come obiettivo quello di favorire il massimo sviluppo possibile delle diverse competenze compromesse nel disturbo.
La particolare pervasività della triade sintomatologica e l’andamento cronico del quadro patologico, determinano condizioni di disabilità, con gravi limitazioni nelle autonomie e nella vita sociale che persistono anche nell’età adulta.
L’attenzione per questi disturbi è notevolmente cresciuta a partire dagli anni Novanta e probabilmente nei prossimi anni sarà possibile capire se la capacità di giungere alla diagnosi più precocemente rispetto al passato e gli interventi abilitativi che si sono conseguentemente sperimentati in varie parti del mondo, saranno stati in grado di modificare in maniera significativa e oggettivamente dimostrabile, il grave outcome invalidante.