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La prevenzione in psicomotricità

Secondo la Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la salute viene definita come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia", pertanto nell’ambito della sanità viene considerato come prevenzione ciascun atto volto all’attivazione e al mantenimento della salute attraverso interventi individuali o collettivi sulla popolazione.

Le attività di prevenzione sono materia tipica di coloro che si occupano di professioni sanitarie, nei loro diversi ambiti applicativi (medico, infermieristico, ostetrico, psicologico...).

È possibile suddividere l’azione preventiva in tre livelli:

  1. Prevenzione primaria, che agisce su tutta la popolazione con l’obiettivo di evitare o ridurre l’insorgenza e lo sviluppo di una malattia (es. ridurre i fattori di rischio da cui potrebbe derivare un aumento dell'incidenza di quella patologia).
  2. Prevenzione secondaria, che permette di intervenire precocemente sulla malattia senza evitarne o ridurne la comparsa.
  3. Prevenzione terziaria, per intervenire in tempo sulle complicanze o le recidive della malattia.

Se ci avviciniamo maggiormente all’ambito socio- educativo, ci rendiamo conto però che ciò che ci serve è un modello multidisciplinare che oltre a tener conto della malattia del soggetto ne consideri la sua complessità, ritenendo che strumenti meccanici seppur di ultima generazione difficilmente siano in grado di riconoscere la vera natura della persona. 

È in quest’ottica che prende piede la cultura psicomotoria, arrivando ad approfondire un modello di prevenzione fondato esclusivamente sulla globalità del bambino e sulle sue modalità di espressione. L’attenzione sarà quindi volta alla difficoltà, al gioco che non evolve, all’emozione che non si controlla, al movimento eccessivo o all’inibizione, al non apparire delle capacità di simbolizzazione o alla difficoltà a rappresentare o a dirsi, o a distanziarsi. (Formenti, 2006).

 

Psicomotricità e prevenzione

Tra i diversi contesti in cui opera la psicomotricità (terapia, educazione, formazione), ritroviamo quello della prevenzione, in costante crescita a livello applicativo, infatti, per le sue caratteristiche intrinseche la psicomotricità risulta essere una disciplina eccezionalmente interessante nell’ambito preventivo.

In ambito preventivo opera un notevole numero di psicomotricisti che sono attivi nelle strutture scolastiche e socio educative per favorire e sostenere percorsi di prevenzione e educazione della prima infanzia. Secondo l’articolo a cura di Giovanni Vismara presente nella rivista Psicomotricità (2009), tra gli  882 professionisti a cui venne posta la domanda «Svolgi attività preventiva?» il 39 % degli intervistati rispose di sì.

L’approccio psicomotorio risulta uno dei metodi utili per progettare interventi volti al raggiungimento del benessere della persona.

  1. In primo luogo la psicomotricità guarda al bambino con una visione globale e non settoriale dei vari aspetti dell’evoluzione infantile. Questa caratteristica risulta sempre più un valore aggiunto per adulti che vorrebbero rispondere ai bisogni dei propri bambini ma che non riescono a “sintonizzarsi” con loro e ascoltarli veramente. Nell’intervento psicomotorio il ruolo dell’adulto si delinea nella funzione di far emergere le risorse autentiche del bambino, rendendo pienamente operativo il principio secondo cui può esistere una cultura dell’infanzia solo se questa non è estensione della cultura dell’adulto. (Formenti, 2006).
  2. Secondariamente la psicomotricista utilizza metodi e tecniche del tutto caratteristiche: il proprio corpo e il gioco sono infatti i suoi principali strumenti di lavoro. Il bambino così è libero di esprimere tutto sé stesso nel movimento e in tutte le sue azioni, ben prima di parlare difatti il bambino agisce (Wille, 1999). Il corpo, dunque, come strumento del lavoro della psicomotricista che grazie alla formazione non è solamente un corpo che risponde agli obblighi della mente ma è un corpo che sente apprende e ci aiuta a comprendere noi stessi e il bambino che abbiamo di fronte. Il corpo quasi sempre messo erroneamente in secondo piano rispetto alla mente è il primo alleato della terapista e deve essere perciò un corpo elastico e vivo.
  3. In ultima istanza il valore aggiunto della formazione di una TNPEE in un contesto preventivo, la sua competenza a ricevere il disagio mantenendo ben salda la consapevolezza di sé nella posizione d’aiuto. Ricordiamo inoltre che la formazione della neuropsicomotricista racchiude in sé conoscenze teoriche in ambito medico e psicologico, formazione pratica ottenuta grazie alle esperienze di tirocinio diretto e indiretto e formazione corporea, grazie all’analisi compiuta sul proprio corpo e sul proprio movimento.

In quest’ottica emerge l’osservazione psicomotoria che si discosta dal modello medico tradizionale. L’osservazione psicomotoria ci mette in contatto con l’adattamento globale del bambino. È il bambino stesso che attraverso il suo gioco spontaneo e cioè gli oggetti che sceglie, la sua capacità di variare attività e schemi, il suo modo di investire il movimento globale e settoriale, la sua capacità attentiva, il modo di relazionarsi con noi e con gli altri ci rivela se la sua evoluzione è armonica oppure se c’è un disequilibrio o degli intoppi che ostacolano tale armonia.

La terapista svolge il suo intervento entrando nell’attività e partecipando al gioco del bambino ma anche uscendo da questo e facendo da osservatore esterno.

L’attività preventiva psicomotoria rientra in quella che possiamo chiamare prevenzione secondaria. Come detto precedentemente la fascia d’età 0-3 è un periodo evolutivo ben complesso in cui facilmente si potrebbe cadere nell’errore di non riconoscere il disagio che andrà a strutturarsi in un disturbo specifico da quello che si risolverà una volta superata la normale crisi evolutiva.


Categorie di osservazione

  • La motricità, la quale regola i processi adattivi. Si andranno ad osservare l’esecuzione e la Qualità motoria (coordinazioni cinetiche e regolazioni toniche della motricità di posizione e della motricità di spostamento tipiche dell’età).
  • L’adattamento, inteso come funzione cognitiva di costruzione della nozione d’oggetto e come capacità del bambino di interagire con gli ambienti della sua quotidianità.
  • Il gioco, si andrà ad osservare la presenza/ assenza del gioco, il tipo di gioco e i suoi contenuti quando questo è spontaneo, il livello evolutivo e la variabilità/ ripetitività dei giochi proposti.
  • L’attaccamento, si osserva il rapporto che il bambino ha stabilito tra comportamento di attaccamento e comportamento esplorativo, l’intensità delle crisi di separazione del bambino dopo l’allontanamento della mamma, il loro prolungamento nel tempo (sempre considerando l’età del bambino). Osservazione della diade mamma- bambino sia da sola che nel gruppo.
  • Competenze sociali, capacità di individuare l’altro come proprio simile, interesse verso l’altro, capacità di “stare” con l’altro, capacità di differenziare le persone che lo circondano.
  • Competenze comunicative, intenzionalità comunicativa, attenzione e comprensione dei segnali dell’altro, differenziazione dei diversi canali di comunicazione in relazione al contesto, rapporto tra linguaggio verbale e non verbale durante le azioni. Per quanto riguarda la comunicazione verbale si andrà ad osservare inoltre, la quantità della produzione verbale, le caratteristiche fonologiche, la ricchezza del vocabolario e l’uso del linguaggio in rapporto all’azione in corso.
  • Espressività corporea, espressività mimica e corporea in situazioni emozionali diverse, ricchezza o povertà espressiva, mobilità/ fissità.
  • Caratteristiche emotivo- comportamentali, ansia, paura, ritiro, eccessiva timidezza, atteggiamento oppositivo, aggressività, depressione, durata dello stato emozionale, comportamenti inusuali, gelosia, egocentrismo eccessivo, incapacità a reggere le frustrazioni, eccitazioni, instabilità dell’umore.


Fattori di rischio

Oltre alle categorie d’osservazione qui riportate sono altri gli aspetti che una psicomotricista deve tener conto quando si appresta ad un intervento di psicomotricità preventiva. Infatti considerando la vita del bambino al di fuori della stanza di psicomotricità sono stati individuati diversi aspetti, chiamati fattori di rischio, i quali possono essere responsabili della comparsa di un disagio o del suo aggravamento.

Nella società in cui viviamo sono stati riconosciuti fattori psicosociali ricorrenti. Le famiglie sono sempre più isolate, non esistono più i nuclei familiari allargati composti da genitori, prole, nonni, zii, familiari alla lontana, dei quali spesso facevano parte anche la vicina di casa o gli altri abitanti del cortile. Le mamme di adesso devono fare i conti oltre che con il proprio piccolo anche con la propria situazione lavorativa, che magari con l’avvento della maternità non è più tanto al sicuro, oppure con la lontananza dai genitori, che la lasciano in una situazione di sconforto e senso di solitudine. In questo caso una rete sociale ridotta non fa che peggiorare la situazione e le neo- mamme non sapendo a chi rivolgersi per consigli o semplicemente per condividere la loro esperienza aggravano la situazione di isolamento e confusione in cui si trovano.

Nel caso invece in cui i nonni fossero presenti è sempre più diffusa la pratica di affido a queste figure familiari per permettere così ai genitori di non “perdere” tempo e continuare con le attività che si svolgevano prima della nascita del piccolo perdendo quella continuità di cure così fondamentale nei primi mesi di vita del bambino.

In costante crescita poi, i nuclei familiari disgregati che impediscono al bambino di crescere in un ambiente unito e intimo rassicurati dalla presenza costante di una mamma e un papà capaci di seguire un progetto educativo comune accettato e messo in atto da entrambi.

La conseguenza di questa discontinuità nelle cure del bambino e la mancanza di coerenza nella modalità di approccio a lui possono essere motivo di una mancata sintonizzazione tra il piccolo e il suo caregiver, mi riferisco al concetto di “sintonizzazione” intendendolo con Stern come mezzo ideale per realizzare la partecipazione intersoggettiva degli affetti. (Stern D. , 1987).  Nei primi giorni e nelle prime settimane di vita il bambino ha bisogno di un contatto e di una vicinanza corporea molto stretta, di mangiare poco e spesso, di contatto corporeo, solo dopo i primi mesi acquisisce una sua capacità di autoregolazione. La tendenza della madre di imporre al bambino sin da subito i suoi ritmi per mangiare e dormire non facilita la capacità del bambino a regolarsi, i suoi ritmi devono sin da subito adattarsi a quelli del mondo esterno non in modo progressivo, e questo può favorire, insieme a cause di tipo biologico, l’insorgenza di lievi disturbi dello sviluppo (ad esempio il disturbo della regolazione). Questi disturbi spesso non vengono riconosciuti e lasciano tracce importanti nella formazione dell’individuo.

Oltre ai fattori di rischio già detti, sempre più frequenti nella nostra società, se ne possono aggiungere degli altri: la patologia di uno o di entrambi i genitori, lutti, frequenti ospedalizzazioni ed altri stressor sociali quali realtà di discriminazione, migrazione, trapianto sociale (Minotti & Tentoni, 1998).

Un ulteriore fattore di rischio a cui la psicomotricità preventiva vuole correre al riparo è la progressiva smaterializzazione dei corpi (Manuzzi, 2008) e la crescente mentalizzazione delle azioni del bambino.

L’esclusione di un pensiero che vede mente e corpo come due entità distinte in cui una (la mente) prevale sull’altra (il corpo) sta certamente alla base della cultura psicomotoria. Questo concetto dualistico, però, trova le sue radici più profonde nella nostra società in cui si da sempre più importanza alle conoscenze teoriche derivate da studi astratti, e in cui il corpo ha perso la sua valenza di oggetto fisico (ossia sottoposto alle leggi della fisica) per investire sempre più il ruolo di “immagine” priva di vita.

Così anche il mondo dell’infanzia vive questa trasformazione e al gioco senso- motorio e ai giochi all’aperto si preferisce una simbolizzazione precoce e apprendimenti scolastici sempre più in tenera età (lettura prima dei 5 anni, corsi di lingua inglese, utilizzo del computer), senza tener conto delle naturali tappe evolutive del bambino.

Secondo l’ottica psicomotoria, dunque, ciò che importa è il piacere del movimento, il poter esprimere la propria creatività con il proprio corpo, e non la performance. Nel contesto preventivo in psicomotricità quello che il bambino fa non viene giudicato in termini di risultati più o meno buoni ma si va a vedere quanto di quello da lui proposto rientra in una situazione di benessere psicofisico. Si cerca sempre di più di arrivare a menti incarnate in corpi sapienti. (Manuzzi, 2008).

Fare prevenzione secondaria significa dunque cogliere i fattori di rischio esterni alla stanza di psicomotricità e saper leggere i comportamenti del bambino essendo a conoscenza della sua situazione al di fuori del nostro contesto.

Solo così il nostro intervento potrà ritenersi completo e aiutare non solo il bambino ma anche la mamma o il familiare di riferimento ad un rapporto migliore con il piccolo che deve in ogni situazione potersi sentire protetto e libero di fare nuove scoperte.

 

L’atteggiamento del neuropsicomotricista in un contesto preventivo

L’atteggiamento del tnpee in un contesto preventivo deriva da un principio che viene applicato nelle relazioni con tutti ossia quello di credere nella persona e nella sua originalità.

Quando il bambino si trova in un ambiente di fiducia e si sente rispettato può esprimere le proprie emozioni senza il timore di essere giudicato. L’atteggiamento di apertura e accoglienza delle emozioni da parte del terapista predispone il bambino ad una situazione di dialogo e gli permette di capire quanto l’altro sia in grado di comprendere le sue produzioni non verbali e le sue emozioni. Rispetto, accoglienza, ascolto e comprensione rischierebbero di restare parole vuote se non fossero interiorizzate in un atteggiamento di accoglienza empatica tipica dello psicomotricista.

La TNPEE prova sempre un sentimento positivo nei confronti del bambino e cerca di fornirgli le condizioni più favorevoli di sicurezza affettiva e materiale perché possa vivere la sua espressività.

Le capacità della terapista di adattamento a livello tonico e posturale, la mimica, lo sguardo, il sorriso, l’espressione del suo piacere di essere là per lui, testimoniano la sua intenzione di rendere dinamica la comunicazione non verbale e verbale.

Lo psicomotricista parla con autenticità al bambino su “come è e cosa fa il bambino”, parla dei gesti, delle posture, delle emozioni facilitando, fin dalla più tenera età, la costruzione di un discorso gestuale e verbale.

I bambini devono poter vivere uno psicomotricista disponibile ma che esprime le proprie variazioni e modulazioni toniche senza uscire dal suo atteggiamento empatico.

Il suo intervento consiste più nella sensibilità tonico emozionale e nelle parole che contengono che nella sua partecipazione ai giochi dei bambini. (Aucouturier, 2005).

Il tnpee si pone come catalizzatore delle azioni. È fondamentale per lui lasciare al bambino la libera espressione del suo agire rispettando la sua creatività e spontaneità, pur orientando la sua azione e ponendosi come punto di riferimento stabile.

Lo sguardo dello psicomotricista rivolto al gruppo è inoltre indispensabile per la sicurezza di tutti i bambini.

Questo sguardo però può assumere diverse valenze ed è uno degli strumenti principali della psicomotricista.

Attraverso lo sguardo la terapista può oltre che tenere sotto controllo i piccoli nella stanza anche dare un rimando di forte valenza emotiva per chi quello sguardo lo incontra. Per un bambino che si sta avventurando in un gioco nuovo o che finalmente è riuscito a costruire una torre di tre cubotti capire di essere guardato e avere un feedback positivo di ciò che sta facendo negli occhi della terapista significa fare un passo avanti nella costruzione di un Sé positivo.

Tanto vale al contrario lo sguardo della terapista quando sorprende il bambino fare qualcosa che potrebbe essere per lui dannoso o che potrebbe fare del male agli altri bimbi. Incontrando lo sguardo della terapista che ora è diventato serio il bambino impara a conoscere i limiti che gli permettono di avere chiaro in mente i confini dell’ambito in cui si può muovere e sentirsi al sicuro.

Lo sguardo di una terapista si distingue inoltre per la sua capacità di lettura oltre l’apparenza, è profondo e deve saper leggere la motivazione che sta alla base del comportamento del bambino.

È invece sul dialogo tonico che la terapista fonda le sue comunicazioni ed instaura le sue relazioni. Il dialogo tonico è alla base della relazione primaria madre-bambino e della costruzione di ciò che Daniel D. Stern definisce l’"alfabeto primario emotivo” (1987).

La prima forma di comunicazione fra la madre e il bambino è una relazione corporea che si esprime con delle variazioni toniche e allo stesso tempo emozionali che costituiscono il legame corporeo con l’altro e su cui si organizzano l’Io corporeo e l’identità del bambino.

La profonda conoscenza della sua corporeità, data da esperienze di formazione corporea, permettono alla terapista di leggere l’atteggiamento tonico del bambino così come fa la mamma con il proprio piccolo e rispondergli di conseguenza. È attraverso la lettura delle posture e dell’intensità del tono muscolare dell’altro che la psicomotricista entra in contatto con il bambino e si rapporta a lui con un atteggiamento tonico-emotivo coerente.

Stati tonici di richiamo, stati espressivi del bisogno di consolazione, di sollievo e di soddisfazione sono forme strutturanti del dialogo corporeo, non solo tra il bambino e sua madre ma anche tra psicomotricista e bambino. Le variazioni toniche del piccolo sono indissociabilmente legate al suo stato emotivo interno.

Attraverso la lettura tonica dell’altro, inoltre, il bambino impara a riconoscere la differenza tra sé e l’altro.

A tale proposito la psicomotricista si rifà a quanto teorizzato da Stern e Winnicott.

Stern usa termini come “rispecchiamento”, “rispondenza empatica”, “riecheggiamento”, “contagio”, per circoscrivere e definire l’interaffettività, l’essere in collegamento profondo con un altro essere umano.

Non si tratta di imitazione ma di processi complessi e averbali, di sequenze di comportamenti o di singoli atti e/o emissioni vocali che sono i mezzi ideali per realizzare la partecipazione intersoggettiva degli affetti.

Recentemente (1997), Fonagy e Mary Target hanno elaborato il concetto di “funzione riflessiva”, che si riferisce alla “ funzione mentale che organizza l’esperienza del nostro e altrui comportamento in termini di costrutti dello stato mentale”. Ciò significa saper rispondere e agire ad un comportamento tenendo conto dello stato mentale dell’altro.

Presupposto da cui parte Fonagy è che lo sviluppo della funzione riflessiva sia un processo intersoggettivo tra il bambino e chi si prende cura di lui. Alla madre, così come alla terapista, di norma viene spontaneo rispondere ad un affetto del bambino (che ad esempio ride) con un affetto corrispondente (ridiamo anche noi). Con questo “rispecchiamento” affettivo, la madre o l’educatrice mostrano di comprendere cosa sta provando il bambino e glielo comunicano. Il bimbo, in questo modo, esperirà fuori di sé l’affetto e potrà così interiorizzarlo. Se il bambino sta vivendo uno stato interno di disagio (paura, angoscia), ciò che risulta importante è che il caregiver rispecchi quella stessa emozione che sta provando il piccolo, ma in modo “contrassegnato”, cioè non comportandosi da specchi “perfetti”, ma rimandando al bambino qualcosa di leggermente diverso (ad es.: abbozza un sorriso contemporaneamente al rispecchiamento dell’espressione di paura), rendendo meno angoscioso l’affetto del bambino. L’interiorizzazione, da parte del piccolo, delle risposte di rispecchiamento materno del suo stato di disagio, va a costituire e ad organizzare il suo stato interno, creando rappresentazioni mentali delle sue emozioni.
Il rispecchiamento permette al bambino di trovare “all’esterno”, nel caregiver, ciò che sta provando “all’interno” e di conseguenza riesce a connettere realtà esterna e stato mentale interno. Se questo processo fallisce, il bambino non troverà all’esterno qualcuno capace di riflettergli le sue esperienze interne (la madre che non rispecchia l’emozione del figlio) o troverà qualcuno che gli rimanda le sue esperienze angosciose in modo esagerato (ad esempio all’espressione di paura del bambino si risponde con altrettanta paura). Sperimenterà così dentro di sé un vuoto e sarà incapace di differenziare tra interno ed esterno, tra pensieri e realtà.

E’ chiaro dunque come la sensibilità del terapista influenzi la capacità di comprendere gli stati mentali. Questa sensibilità è caratterizzata, oltre che dall’abilità di rispecchiare in modo “contrassegnato”, anche dal funzionamento riflessivo del terapista (o del caregiver), cioè dalla sua capacità di pensare al bambino come dotato di stati mentali.

La modalità espressiva usata per esempio dalla madre è prevalentemente trasmodale: movimento del corpo della madre in corrispondenza dei vocalizzi del bambino durante lo stesso tempo.

La sintonizzazione degli affetti consiste quindi nell’esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tuttavia imitarne l’esatta espressione comportamentale.

Winnicott sostiene che per l’evoluzione dell’Io corporeo la relazione del bambino alla madre è fondamentale, si esamina il dialogo tonico madre – bambino come preludio della comunicazione verbale. La loro relazione è espressa da movimenti, gesti, sorrisi; secondo Winnicott il portare in braccio, cullare, prendersi cura del neonato sono gli atti motori che condizioneranno le successive capacità di comunicazione e di interazione del bambino nonché le sue capacità di rappresentazione. (Nuovo & Sprini, 2008).

 

La formazione corporea del terapista

Il proprio corpo per una terapista della neuropsicomotricità è considerato come lo strumento fondamentale del suo lavoro. La sua fisicità entra nella stanza di terapia ed interagisce con il piccolo esattamente come tutti gli oggetti usati nell’intervento.

È di primaria importanza dunque che la terapista abbia alle sue spalle un’ adeguata formazione corporea, tant’è che la pedagogia del corpo rientra tra le materie di studio nell’ambito della formazione universitaria.

Il corpo della terapista grazie alla formazione non è solamente un corpo che risponde agli obblighi della mente ma è un corpo che sente, apprende e ci aiuta a comprendere noi stessi e i bambini che abbiamo di fronte.

La pedagogia del corpo permette la conoscenza di un corpo attivo, ricettivo, in movimento, che segue la musica, che tocca l’altro, che vive la sua unicità, che sente le parti che lo costituiscono, che si sente un unico insieme di parti, che sta fermo, che segue i comandi dell’udito, della vista, del tatto.

Anne Marie Wille spiega che lo scopo della formazione corporea della terapista è quello di sensibilizzare e sviluppare determinate abitudini comunicative e motorie che si integrano nel Corpo Psicomotorio. Esso è a sua volta composto da un Corpo Agile, un Corpo Non Verbale, un Corpo Ritmico - musicale, uno Schema Corporeo, un Corpo Bussola, un Corpo Attoriale, un Corpo che Si Ricorda e uno che se li gioca tutti, il Corpo Ludico. A seconda di ciò che gli serve ottenere in un determinato momento, il terapista privilegerà in modo consapevole e intenzionale alcuni degli aspetti del suo “Corpo Psicomotorio” nell’interazione con i soggetti. (A.M.Wille, 2001)

Il corpo della terapista deve innanzitutto essere ricettivo, deve saper cogliere i segnali che gli vengono forniti dall’esterno e deve rispondere a questi in modo coerente. Fondamentale per questo dunque la conoscenza degli aspetti comunicativi legati al corpo. L’uso consapevole dei canali della comunicazione non verbale è di conseguenza uno degli obiettivi dell’attività formativa dello psicomotricista.

Per potersi riappropriare di tutte le valenze del proprio corpo è d’obbligo che questo sia allenato, abituato ad uno stato in grado di creare la vigilanza necessaria ad accogliere “incondizionatamente” le informazioni che arrivano dall’esterno.

È per questo che la terapista sa che il suo corpo entra in gioco nella terapia in ogni momento: quando il bambino ha bisogno di sentirsi accolto e protetto, quando ha bisogno di un qualcosa di solido contro cui scontrarsi, quando ha bisogno di un appoggio per superare un ostacolo, quando deve essere spronato per svolgere un’azione, quando ha semplicemente bisogno di muoversi.

Il movimento poi, campo privilegiato dell’indagine e dell’agire psicomotorio, risiede nel corpo e lo anima. (Arcelloni & Magnifico, 2000)

Fondamentale quindi per la terapista un corpo elastico e flessibile.

La consapevolezza del ruolo di grande importanza che riveste il proprio corpo nel suo lavoro rende unico l’approccio della TNPEE, tanto più in un contesto di prevenzione psicomotoria nella fascia 0-3 anni in cui l’aspetto senso-motorio ha ancora così tanta importanza.

L’uso del proprio corpo in movimento infatti sta alla base degli apprendimenti e della formazione della mente del bambino.

 «… prendo coscienza a poco a poco del mio corpo, da ciò che lo distingue radicalmente dal corpo dell’altro, quando ho cominciato a vivere le mie intenzioni nelle espressioni fisionomiche dell’altro e, reciprocamente, a vivere le intenzioni dell’altro nei miei gesti. » .(Merleau-Ponty, 1965, p. 449)

 

Il gioco

Quando si parla di gioco nel linguaggio comune si tende sempre a sminuire il significato di questa parola associandola a qualsiasi attività di svago o divertimento che non ha nulla a che vedere con qualsiasi cosa che riguardi il lavoro e la vita reale.

Concretamente invece, il gioco è un fenomeno profondamente esistenziale, presente in ogni latitudine del mondo e che ha alle spalle una storia lunga tanto quella degli esseri umani.

Il piacere del gioco di per sé è un privilegio del mondo dell’infanzia e la psicomotricista, che proprio di bambini si occupa, non può che utilizzarlo come cornice esclusiva del suo intervento.

Ulteriore importanza poi, riveste il gioco nella fascia 0-3, periodo, lo ricordiamo, di profondi cambiamenti e conquiste dello sviluppo. Il gioco, infatti, è un fenomeno appartenente al processo evolutivo dei bambini, è il mondo adulto che ne attribuisce spazi, tempi, significati, oggetti.

Bateson (1976) parla di gioco come cornice in cui si svolge l’azione. Si riconosce di stare giocando non per l’azione in sé ma per la comunicazione non verbale, il gesto, lo sguardo che precede l’inizio del gioco e che decreta l’inizio di questo.

Il bambino che gioca abita secondo Winnicott un’area che resta fuori dal’individuo, ma non è ancora il mondo esterno, un luogo dove egli può raccogliere oggetti e fenomeni della realtà esterna e porli a servizio della propria realtà interna, conferendo loro identità e anima (oggetti e fenomeni transazionali).

Secondo la prospettiva costruttivista del russo Vygotskij, il pensiero e l’intelligenza sono un fatto sociale; i bambini, cioè, crescono nella vita intellettuale dell’ambiente che li circonda.

La teoria del gioco da lui proposta, parte dall’osservazione che il grado di sviluppo mentale di un bambino non è dato da quello che può fare da solo ma da ciò che può fare con l’aiuto di altri. La performance del bambino da solo indica il livello mentale già giunto a maturazione, l’altra situazione indica la sua potenzialità.

Il gioco diventa quindi un momento di apertura al futuro dove il bambino esprime il suo potenziale e il suo desiderio di crescita.

Il gioco è un’esperienza sincretica che pur rimanendo sostanzialmente fine a sé stessa (si gioca per giocare):

  • Consente di esercitare abilità, di sviluppare interessi e conoscenze.
  • Permette la scoperta e il controllo del proprio corpo e delle sue proprietà come l’esplorazione progressiva dell’ambiente circostante.
  • Affrontando e superando livelli crescenti di complessità il gioco favorisce lo sviluppo della conoscenza. Per questo va considerato prioritariamente un’attività cognitiva.
  • Il gioco è la modalità più gradevole per conoscere ed apprendere, quella che consente maggiori emozioni e soddisfazioni, che conduce sempre al successo e risulta perciò di per sé motivante.
  • Il gioco permette di comprendere le regole delle relazioni sociali e di renderle formalmente proprie.
  • Il gioco consente una liberazione, un’elaborazione, una correzione, una sublimazione delle pulsioni, in particolare dell’aggressività, che trovano in esso una legittimazione di luogo, spazio, misura.
  • Il gioco consente l’esercitazione del rischio e l’esplorazione del caso.
  • Il gioco è occasione di espressione e comunicazione.

Riporterò ora alcune definizioni delle diverse tipologie di gioco.

  • GIOCO SENSO-MOTORIO: interessa particolarmente la sensibilità propriocettiva e labirintica e riguarda le esperienze di equilibrio, disequilibrio, rotolamento, dondolio, scivolamento, caduta, che evocano nel bambino, in modo emozionale, il dialogo tonico originario e le prime esperienze di sostegno e manipolazione ricevute. Questa esperienza è fatta di un costante gioco di contrasti; si giocano sul filo del piacere e della paura, sui temi legati al bisogno di rassicurazione e di affermazione, di partecipazione e di ricerca dell’identità corporea. Il gioco senso motorio può avere due estensioni in senso più emozionale e più corporeo:
    • Il gioco tonico - emozionale è un’esperienza senso motoria vissuta in stretta dipendenza fisica con il corpo dell’adulto o con il suo sostituto materiale (uno scivolo, una montagna di cuscini, il pavimento). Ha una forma più primitiva e tendenzialmente passiva e ricettiva. Ricorda il gioco del bambino in braccio al papà o alla mamma, quando viene manipolato, lanciato, fatto girare e, in una mescolanza eccitante di piacere e paura, accompagnato verso l’iniziativa motoria autonoma.
    • Il gioco motorio è rappresentato invece da una finalizzazione del movimento verso specifiche competenze ed abilità individuali o di squadra, prevede la ricerca di una compiuta capacità di rappresentazione del proprio corpo e di una fine coordinazione, uno sforzo d’attenzione ai segmenti corporei, l’attenzione al piacere vicino alla possibilità di procrastinarlo.

Il gioco senso motorio è fondamentale per l’acquisizione di una positiva immagine di sé e per la costruzione di un sé corporeo.

  • GIOCO SIMBOLICO: pur esprimendosi con tutte le forme di gioco attraverso l’azione, attinge al mondo interiore del bambino e corrisponde al gioco di finzione, dove spazi, personaggi, relazioni, vicende immaginarie vengono attualizzate, tramite l’azione motoria, la mimica, la parola. I suoi contenuti vanno dalla realtà quotidiana (mangiare, dormire, vivere in casa) alla realtà fantastica (mostri, sogni, avventure) ed emozionale (paure, angosce, piacere, idillio). Ecco le sue estensioni in senso emozionale e cognitivo:
    • Il gioco protosimbolico attinge ad un mondo immaginario più arcaico, alle prime immagini non ancora simbolizzate, ma dalla forte valenza percettiva. Privilegia la percezione visiva (presenza-assenza), le percezioni interne (pieno e vuoto), e le immagini di sé che si fondano sulle impressioni arcaiche (ordine e disordine, costruzione e distruzione, sano e rotto, aperto e chiuso).

Con l’uso diretto del corpo, degli oggetti, dell’ambiente nelle sue forme variegate e nelle sue varietà percettive, queste polarità vengono reiterate dal bambino. Si attivano giochi circolari, dalla struttura semplice, come quelli del nascondino, del rubare e accumulare, del costruire e distruggere, dell’inseguire ed essere inseguiti e molti altri.

  • Il gioco narrativo invece è un evoluzione del gioco simbolico in senso più lineare e storico, dove dominano l’uso del linguaggio e lo sforzo ideativo rispetto all’azione.

È intuibile l’importanza di tali giochi per l’iniziazione di genere (maschile e femminile) e sociale del bambino nel mondo.

  • GIOCO DI RAPPRESENTAZIONE: le potenzialità motorie e prassiche si coordinano e sia alleano con le facoltà ideative del pensiero, sia di tipo logico che analogico. Le forme di rappresentazione vanno dall’astratto al concreto, dalla predominanza mentale a quella corporea.
    • Il gioco grafico pittorico prevede l’uso di tecniche strutturate e di materiali diversi (parola, segno, colore, …) finalizzati all’espressione e alla trasformazione creativa dei contenuti del proprio mondo interno.
    • Il gioco di costruzione e manipolazione mette più a frutto le capacità di tipo manuale e spaziale e coinvolge più da vicino la corporeità.

Ritenendo condivisibile che l’espressività complessiva del bambino possa essere denominata psicomotoria, ciò che distingue un intervento psicomotorio dal naturale gioco dei bambini è la sua specifica progettualità, che va ad accogliere e indirizzare l’azione spontanea, attraverso un percorso intenzionalmente pensato.

L’attenzione agli aspetti spaziali, temporali e della dimensione corporea comunicativa introduce una sensibilità psicomotoria trasversale nel contesto educativo (Minotti).

La peculiarità di un adulto che gioca e non solo osserva quello che fa il bambino è indice inoltre di quanto per il tnpee il gioco non sia solamente un mezzo per arrivare più facilmente ad uno scopo ma di come questo possa esserne il fine.

 

Indice

 
 
RIASSUNTO; PREMESSA; SCOPO.
 
  1. Lo sviluppo del bambino da 0 a 3 anni nella letteratura scientifica in relazione a diversi autori: Lo sviluppo psicomotorio del bambino tratto da P. Vayer e J. Le Boulch; Lo sviluppo cognitivo secondo J. Piaget; Un autore fondamentale Donald W. Winnicott; La teoria dell'attaccamento; I pattern di attaccamento e stile materno; I modelli operativi interni; Daniel Stern, l'organizzazione interna del Sé; Cenni di neurobiologia dell'esperienza interpersonale.
  2. La prevenzione in psicomotricità: Psicomotricità e prevenzione; Categorie di osservazione; Fattori di rischio; L'atteggiamento del neuropsicomotricista in un contesto preventivo; La formazione corporea del terapista; Il gioco.
  3. Ricerca - azione, gruppo preventivo 0 - 3 anni: Conduzione del gruppo: metodologia e setting; La relazione con le madri; Il caso del piccolo X.
 
CONCLUSIONI
 
BIBLIOGRAFIA - APPENDICE
 
 
Tesi di Laurea di: Laura PIZZI 
 

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