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Le Funzioni Esecutive nei Disturbi del Neurosviluppo

Le Funzioni Esecutive

3.a. Descrizione delle Funzioni Esecutive

  1. Attenzione
  2. Inibizione o controllo inibitorio
  3. Memoria di lavoro
  4. Flessibilità cognitiva
  5. Pianificazione

3.b. Modelli teorici delle Funzioni Esecutive

3.c. Sviluppo e maturazione

3.d. Anatomia fisiologica delle Funzioni Esecutive

3.e Le Funzioni Esecutive nei Disturbi del Neurosviluppo: Disturbo da Autoregolazione

  1. Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD)
  2. Disabilità Intellettiva
  3. Disturbo dello Spettro dell’Autismo (ASD)
  4. Disturbo dello sviluppo della coordinazione motoria (DCD) o disturbo evolutivo specifico della funzione motoria
  5. Disturbo Specifico di Linguaggio (DSL)

Materiali e Metodi

4.a. Torre di Londra (“Tower fo London”, TOL)

4.c. FE-PS 2-6

4.b. Conners’ Rating Scale

4.c. SNAP IV (Parent rating scale)

4.d. Trattamento neuropsicomotorio

INDICE PRINCIPALE

INDICE

Le Funzioni Esecutive

3.a. Descrizione delle Funzioni Esecutive

Nel corso del XX secolo sono stati numerosi i contributi dati dagli studiosi in merito alla definizione del costrutto delle “funzioni esecutive”: questa espressione nasce nel 1983, quando per primo Muriel Lezak la utilizzò per definire quelle “capacità cognitive che rendono un individuo in grado di eseguire un comportamento indipendente, finalizzato e adattivo” [38].

In linea con la precedente definizione è quella proposta da Stuss nel 1992: “una serie di abilità che permettono alle persone di creare obiettivi, conservarli in memoria, controllare le azioni, prevedere gli ostacoli al raggiungimento degli obiettivi” [78].

O, ancora, vennero definite da Welsh e Pennington, nel 1988, come “abilità necessarie per programmare, mettere in atto e portare a termine con successo un comportamento finalizzato a uno scopo” [85].

Partendo dalle asserzioni di questi noti studiosi, possiamo affermare come le Funzioni Esecutive (FE) siano quindi necessarie alla concentrazione e alla generale organizzazione del comportamento, impedendo al soggetto di agire esclusivamente in maniera “automatica” o sulla base di meri istinti. Ecco perché la natura umana, nel corso dell’evoluzione, ha reso possibile nell’uomo l’analisi dell’ambiente e degli stimoli che lo compongono, e di conseguenza la presa di decisioni consapevoli, ponderate e finalizzate ad uno scopo, nonostante possano apparire agli occhi dei più come atti casuali o fortuiti. Le FE possono quindi essere considerate come un atto di valutazione superiore dell’ambiente [77].

Il dominio esecutivo chiama in causa meccanismi che hanno parte attiva nella regolazione delle emozioni, del comportamento e della motivazione, ragione che ha portato negli ultimi anni alla formulazione di una distinzione dicotomica che vede da una parte le Funzioni esecutive Hot e dall’altra le Funzioni Esecutive Cool [90]: le funzioni esecutive “Cool” si basano su un’elaborazione complessa, appurata e graduale, e vengono chiamate in causa quando l’individuo si trova di fronte a problemi astratti o decontestualizzati.

Le funzioni esecutive definite, invece, “Hot” si occupano dell’elaborazione automatica ed emozionale degli stimoli attraverso una programmazione rapida che riduce le situazioni di stress; queste funzioni sono coinvolte nella regolazione delle emozioni e dalla motivazione.

Fino a pochi decenni fa, si consideravano le FE come abilità funzionalmente immature fino alla tarda adolescenza, a causa dello sviluppo tardivo del sistema anatomo-funzionale che si ritiene correlato ad esse; ciò ha portato ad una generale disattenzione nel loro studio per quanto concerne l’età evolutiva, favorendo l’attenzione verso la popolazione adulta. Un ulteriore impedimento era dato dal fatto che i test standardizzati disponibili, con il fine di studiare le funzioni esecutive, non erano tarati sulla popolazione infantile, e di conseguenza troppo complessi e non significativi.

Fortunatamente oggigiorno la situazione è notevolmente cambiata, in primo luogo grazie al crescente interesse da parte della neuropsicologia cognitiva nei confronti dello sviluppo del bambino, ed in secondo luogo per l’evidente ruolo che le compromissioni nelle FE rivestono in numerosi disturbi dell’età evolutiva.

Seguendo la rapida crescita nel campo della ricerca clinica delle FE, si è sviluppato anche l’interesse per lo sviluppo tipico delle stesse durante tutto l’arco di vita, con la proposta di nuovi strumenti di misura adatti per le varie fasce di età.

Riassumendo, possiamo dunque identificare le seguenti Funzioni Esecutive: attenzione, inibizione o controllo inibitorio, memoria di lavoro, pianificazione e flessibilità cognitiva.

INDICE

Attenzione

Definire il concetto di attenzione è arduo, in quanto non si delinea come un costrutto unitario ma esso riguarda molteplici e differenti fenomeni psicologici. L’attenzione permea l’intera quotidianità dell’individuo, caratterizzando la maggior parte delle attività che svolge; nonostante le molteplici definizioni che possiede, c’è accordo comune nel

considerare l’attenzione come un processo cognitivo che permette di elaborare consapevolmente le informazioni, selezionandole dalla vasta quantità di stimoli a cui veniamo esposti attraverso i sensi; l’attenzione, inoltre, può essere anche rivolta internamente, riesumando ricordi o pensieri.

L’attenzione, oltre ad avere funzione di selezione ed elaborazione, funge anche da controllo ed integrazione tra le informazioni, permettendoci di agire nel contesto in modo coerente e adeguato.

Essa migliora l’elaborazione cognitiva di molti compiti, nonostante sia i bambini che gli adulti possano prestare attenzione solo ad un numero limitato di informazioni.

In particolare, definiamo cinque distinti costrutti dell’attenzione [66]:

  1. Attenzione selettiva (o focale): l’insieme di meccanismi che permettono di focalizzarsi e concentrare le proprie risorse mentali su di un oggetto o un particolare dell’esperienza valutato come rilevante, ignorandone altri irrisori;
  2. Attenzione divisa: permette all’individuo di concentrarsi su diversi stimoli contemporaneamente;
  3. Attenzione sostenuta: prevede la capacità di mantenere l’attenzione su un preciso stimolo per un tempo prolungato; viene anche comunemente chiamata attenzione focalizzata o vigilanza. Essa contrasta con lo stato di base in cui l’attenzione tende ad operare in modo “fluttuante”; ricordiamo inoltre che l’attenzione sostenuta è influenzata da processi motivazionali;
  4. Attenzione condivisa-joint attention: più individui indirizzano l’attenzione verso uno stimolo comune. È necessario che sussistano la capacità di identificare ed interpretare il comportamento altrui, una persona che diriga l’attenzione di un’altra e, non per ultima, un’interazione reciproca tra i soggetti in questione. Questa è la prima forma di attenzione che osserviamo nella diade madre-bambino, emergente tra i 7 e gli 8 mesi.
  5. Attenzione esecutiva: permette di pianificare, monitorare il progresso del compito e affrontare circostanze nuove o complesse.

Come scrisse Vygotskji, l’attenzione non ha semplicemente natura biologica, ma consiste in un fenomeno emergente nella dimensione sociale, un prodotto delle attività create dal bambino durante le sue relazioni con gli adulti e nell’organizzazione di una complessa rete di regolazione e selezione dell’attività mentale [83]. Infatti, l’attenzione può essere considerata come una funzione adattiva, ed il suo sviluppo comincia già nel primo anno di vita, quando è dominata da un processo di orientamento: il bambino è in grado di dirigere l’attenzione verso stimoli potenzialmente importanti, esaminando gli oggetti e le loro caratteristiche [59].

I primi contributi sul concetto di attenzione furono conferiti da James [35], il quale sottolineò la specificità dei processi attenzionali e le loro principali caratteristiche. Ma solo con la nascita della psicologia cognitiva, teorizzata nel 1967 dallo psicologo statunitense Ulric Neisser, che il costrutto dell’attenzione assunse piena importanza [49]. Il termine attenzione deriva dal latino attendere, il cui significato primario corrisponde a “stendere, tendere verso”. Larousse definì l’attenzione come “la concentrazione volontaria della mente su di un oggetto specifico” [72], mentre Henri Piéron dà una definizione più precisa dell’attenzione: “orientamento mentale elettivo che comporta un aumento dell’efficienza in una certa modalità di attività con inibizione delle attività concorrenti” [46]. Queste definizioni raccontano quanto l’attenzione sia un’operazione mentale attiva che consente l’adattamento dell’individuo all’ambiente circostante.

Nel tentativo di definire in modo più dettagliato la funzione dell’attenzione, sono state avanzate diverse teorie, tra cui le più importanti sono la teoria del filtro e la teoria delle risorse attenzionali.

La teoria del filtro spiega come l’attenzione assuma la forma di un vero e proprio filtro la cui funzione sarebbe quella di proteggere il sistema di elaborazione da informazioni in sovraccarico; il filtro svolge un’operazione di selezione attenta dei segnali e degli stimoli provenienti dall’ambiente, in base alle necessità dell’individuo e del contesto.

La teoria delle risorse attenzionali è stata ideata sui concetti di “duplice compito” e “attenzione condivisa”: secondo questa teoria l’attenzione è vista come una risorsa cognitiva disponibile in quantità limitata, che ognuno di noi arruola a sostegno di un compito per migliorarne l’efficienza e la qualità a livello della sua elaborazione cognitiva.

I disturbi dell’attenzione più frequentemente riportati in patologia sono i seguenti:

  • Disturbi dell’attenzione nei disturbi dell’umore: in modo particolare nella patologia depressiva, in cui questi deficit rientrano nel quadro del rallentamento psichico, con particolare diminuzione dell’attenzione sostenuta e divisa.
  • Disturbo  da  deficit  dell’attenzione  e  iperattività:  i  deficit  riguardano principalmente l’attenzione continua, che porta a generali difficoltà di apprendimento, e l’attenzione selettiva, che si traduce in una mancanza di filtraggio degli stimoli [19].

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Inibizione o controllo inibitorio

Per inibizione o controllo inibitorio si intende la capacità di interrompere o sopprimere risposte dominanti e inadeguate alle richieste dell’ambiente, in favore di altre più adattive. Il controllo inibitorio comprende l’essere in grado di fronteggiare l’ambiente, i pensieri e/o le emozioni che da essi derivano, a prescindere da altri fattori non appropriati. In mancanza del controllo inibitorio ognuno di noi sarebbe inevitabilmente legato al soddisfacimento di istinti.

Nell’ambito della neuroscienza, il termine “inibizione” fu utilizzato per la prima volta nel 1992 da R. Smith, in cui viene definito “repressione di un potere inferiore da parte di un potere superiore” e “cessazione competitiva di una forza da parte di un'altra forza qualitativamente comparabile” [74]. Questo termine ha infatti molteplici significati che toccano diversi distretti dell’essere umano: essa è considerata come un meccanismo che regola l’output comportamentale, i circuiti tra le regioni cerebrali, l’attivazione cellulare e gli enzimi.

Altri significati del concetto di inibizione si applicano a livelli di analisi più dettagliati: è noto come nel cervello siano presenti alcuni recettori definiti “inibitori” come, per esempio, i recettori GABA, una classe che rispondono al legame dell’acido γ- amminobutirrico, uno dei più importanti neurotrasmettitori inibitori nel Sistema Nervoso Centrale.

In generale, è possibile affermare come il concetto di inibizione abbia molteplici significati nell’ambito delle neuroscienze, in quanto il meccanismo inibitorio è osservabile neurofisiologicamente o direttamente in termini di comportamento individuale [6].

Nel campo della psicologia, invece, rinomate menti del XIX secolo (Sherrington, Freud, Pavlov, James e altri) hanno utilizzato questo costrutto nello sviluppo di innovative teorie cognitive. Nella moderna psicologia sperimentale l’inibizione è ampiamente utilizzata come spiegazione nella ricerca cognitiva, in quanto attrice fondamentale nel controllo di distrattori sensoriali, visivi e uditivi, emozioni, risposte motorie o vocali; mentre nel campo della neuropsichiatria un’alterazione dell’inibizione correla con sintomi quali impulsività, perseverazione, manierismi, ossessioni e deficit di attenzione individuale [6].

Tuttavia, va sottolineato come il controllo inibitorio non sia da considerare come un’unica funzione esecutiva, in quanto essa comprende diverse componenti: una distinzione può essere effettuata tra inibizione motoria e inibizione dell’interferenza; quest’ultima comprende la capacità di risolvere un conflitto riguardo alla risposta a stimoli irrilevanti ed interferenti, che devono essere, appunto, inibiti [88]. L’inibizione motoria, invece, fa riferimento alla capacità di inibire una risposta motoria pianificata e viene solitamente misurata attraverso compiti di go/no-go (soppressione di un’azione potenziale) o Stop Signal (capacità di inibire un’attività già avviata precedentemente, dunque annullamento dell’azione). L’inibizione di un’azione implica il recupero delle esperienze passate a sostegno del processo decisionale, la valutazione del contesto e degli stati interni. L’inibizione motoria non è un costrutto unitario, ma è composto da due domini neuropsicologici, l’inibizione reattiva ovvero la capacità di interrompere una risposta immediatamente successiva ad ordine di arresto, e l’inibizione proattiva, ovvero l’abilità di adattare una strategia motoria basandosi sul contesto in cui viene chiesto di agire [47].

Esistono anche ulteriori tipologie di inibizione, come l’inibizione del recupero di memoria, valutabile attraverso compiti di pensare/non pensare, e l’inibizione verbale, testabile con il compito di Hayling, il quale consiste nel completamento di frasi in modo automatico ed alternativo [18].

La difficoltà che riscontrano alcuni pazienti nell’inibire risposte automatiche potrebbe risultare in un disadattamento ambientale. Questi, infatti, hanno difficoltà nell’ignorare gli stimoli superflui e possono apparire facilmente distratti o impulsivi.

Concludendo, l’inibizione intenzionale è una componente fondamentale dell’autoregolazione che dovrebbe essere esaminata da una prospettiva evolutiva.

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Memoria di lavoro

Il concetto di memoria di lavoro nasce intorno agli anni Sessanta del Novecento, quando si fece strada l’esigenza di introdurre un nuovo concetto di memoria che comprendesse anche il suo coinvolgimento nei compiti cognitivi complessi. In particolare, il termine venne coniato da Miller, Galanter e Pribram nel libro “Plans and the Structure of Behaviour”, nel 1960. Il costrutto della memoria di lavoro evolse da quello di memoria a breve termine, ovvero la capacità di memorizzare temporaneamente una ridotta quantità di informazioni.

Il nuovo modello fu introdotto da Baddeley e Hitch, i quali costruirono un nuovo paradigma per constatare se la memoria a breve termine avesse o meno un ruolo importante nei compiti cognitivi. Svolsero diversi esperimenti in cui i partecipanti venivano sottoposti, contemporaneamente, a compiti di ritenzione di cifre e ragionamento: dimostrarono una forte interazione tra il carico della memoria ed il tempo di ragionamento, da cui dedussero che l’effetto del carico cresce all’aumentare della complessità del compito. Proseguendo nel loro lavoro, gli autori affermarono come questa peculiare memoria fosse più di un “magazzino passivo”, ma come piuttosto essa lavorasse, e fosse attiva con diverse componenti; da qui l’idea che la memoria di lavoro non abbia il compito di essere un semplice “luogo” di conservazione di informazioni passivo, ma che coordini processi sia di mantenimento che di elaborazione [7].

Gli autori revisionarono più volte negli anni il modello fino ad arrivare a quello finale (1986, 2000, 2007): il modello implica dei  sistemi di mantenimento passivo delle informazioni, ovvero il loop fonologico per il materiale verbale ed il taccuino visuo- spaziale per il materiale visivo e spaziale. A questi “magazzini” si affianca un sistema esecutivo centrale, che coordina le risorse attentive disponibili per l’elaborazione delle informazioni trattenute dai sistemi di mantenimento passivo. Questo modello è risultato estremamente efficiente, ma è stato integrato da una quarta componente, ovvero il buffer episodico, l’aggiunta più recente al modello, che nasce dall’esigenza di specificare dove e come avvenga l’unione tra le nuove informazioni e quelle già presenti all’interno del sistema della memoria di lavoro. Esso è definito episodico in quanto capace di contenere informazioni frammentate e multidimensionali, le quali possono combinare stimoli visivi e uditivi possibilmente anche con gli altri sensi, gusto e olfatto. Il termine buffer, invece, è stato scelto poiché questa componente fornisce un archivio temporaneo in cui le varie componenti della memoria di lavoro possano interagire ed interfacciarsi con le informazioni provenienti dalla percezione e dalla memoria a lungo termine. Si ipotizza che il buffer episodico possegga una capacità limitata di circa quattro blocchi (o episodi) e che sia accessibile attraverso una consapevolezza cosciente [10].

Questo modello teorico della memoria di lavoro è stato largamente utilizzato nella psicologia di base, in quella applicata e nelle neuroscienze. Il concetto di memoria di lavoro multicomponente ha fornito un importante quadro teorico per indagare una vasta capacità cognitiva come quella appena descritta.

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Flessibilità cognitiva

Ogni organismo vivente necessita di adattarsi all’ambiente e alle sue dinamiche al fine della sopravvivenza: la capacità di creare, modificare ed intercambiare i modelli di pensiero e di risposta è ciò che definisce la flessibilità cognitiva.

Per flessibilità cognitiva, infatti, si intende la capacità di scegliere ed organizzare delle strategie volte a rispondere in modo adattivo a nuove situazioni, compiti e problemi. Essa ha un ruolo rilevante nell’apprendimento, nella capacità di risoluzione di problemi complessi, nella selezione delle strategie comportamentali e nell’adattamento alle diverse situazioni ambientali. La flessibilità cognitiva, inoltre, aiuta l’individuo a tollerare ed affrontare eventuali modifiche che possono verificarsi durante l’esecuzione di un compito. Un corretto sviluppo di questa abilità consente di passare da un’attività ad un'altra in modo adeguato, di poter giungere a compromessi ed essere empatici.

È considerata una tra le più importanti capacità metacognitive di base ed è strettamente legata all’intelligenza fluida. Quest’ultima fu introdotta da Raymond Cattell come una componente di quel costrutto da lui definito “intelligenza generale”, insieme all’intelligenza cristallizzata. Mentre quella cristallizzata è definita come la capacità di utilizzare competenze, conoscenze ed esperienze, con il fine di conformarsi a date situazioni, l’intelligenza fluida comprende il pensiero logico e l’abilità di problem solving in situazioni nuove, indipendentemente dalle informazioni precedentemente acquisite o dalle situazioni vissute; essa permette l’analisi di nuove circostanze, e comprende sia il ragionamento induttivo che quello deduttivo [23].

Negli ultimi decenni numerosi progressi sono stati effettuati nel comprendere le basi neuronali della flessibilità cognitiva e la neurofisiopatologia che accompagna i disturbi psichiatrici. Essa riflette la capacità di modificare l'attenzione e il comportamento in risposta a circostanze e richieste mutevoli, e si basa intrinsecamente anche sulla memoria di lavoro (al fine di tenere a mente gli obiettivi da raggiungere) e sull'inibizione della risposta (al fine di ignorare un obiettivo o un focus di attenzione precedentemente rilevante), illustrando l'interdipendenza di diverse componenti delle funzioni esecutive. I pazienti con deficit nel cambio di set possono riferire difficoltà con il multitasking e apparire rigidi nel loro modo di pensare; alla valutazione clinica, possono mostrare pensieri o comportamenti perseveranti [25].

La flessibilità cognitiva permette ai bambini di affrontare le difficoltà e sopperire ai problemi secondo prospettive diverse, in modo flessibile e adattivo; essa potrebbe risultare una preziosa abilità per controllare comportamenti dirompenti o pensieri negativi.

I deficit nella flessibilità cognitiva, caratterizzati da difficoltà nella codifica dei segnali rilevanti, possono contribuire ad una discontinuità nell’elaborazione dell’informazione sociale e difficoltà nell’adottare opzioni di risposta da negative a positive, aumentando considerevolmente il rischio di esternalizzare problematiche comportamentali [81]. Gli studi hanno anche riportato che una maggiore flessibilità cognitiva è associata a bassi livelli di esternalizzazione e interiorizzazione dei problemi comportamentali, contemporaneamente e longitudinalmente [51]. Infine, è possibile che bambini con una maggiore capacità di flessibilità cognitiva siano meno propensi a impegnarsi in comportamenti impulsivi e dirompenti, in quanto sono in grado di passare da comportamenti inefficaci a condotte più adattive [40, 57].

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Pianificazione

Si definisce “la pianificazione come un insieme di attività appartenenti al dominio cognitivo che anticipano e regolano il comportamento, consentendo di eseguire una sequenza di azioni al fine di raggiungere un dato obiettivo” [39].

Al fine della programmazione di un’azione è necessario che l’individuo presti una attenzione prolungata, in modo da cogliere e recepire gli stimoli in modo adeguato e per effettuarne una corretta elaborazione; da qui, il legame imprescindibile con un’altra funzione esecutiva, ovvero l’attenzione. Ma la pianificazione è strettamente correlata ad altre funzioni cognitive superiori come, per esempio, il problem solving, il quale può essere definito come un complesso di strategie messe in atto allo scopo di risolvere un problema.

Il processo di pianificazione implica quindi l’attivazione di diverse risorse mentali: rappresentazione del problema, individuazione dell’obiettivo, formulazione del piano d’azione, anticipazione delle conseguenze, memoria prospettica e monitoraggio continuo. Un funzionamento efficace di un processo di pianificazione è correlato alle capacità di verificare e controllare i piani d’azione e attivarsi ripetutamente nella loro implementazione, in modo da poter apportare adeguate modifiche e aggiustamenti eventuali.

Difficoltà nella pianificazione dell’azione e del movimento possono risultare in diversi disturbi minori del movimento, quali la Difficoltà della Coordinazione Motoria (DCD), in cui è presente un deficit qualitativo dell’esecuzione del movimento, e difficoltà della pianificazione motoria, definite disprassie, le quali si caratterizzano da un disturbo della capacità di pianificazione, controllo ed esecuzione di atti motori finalizzati.

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3.b. Modelli teorici delle Funzioni Esecutive

Si sono susseguiti numerosi modelli con il fine di descrivere al meglio le funzioni esecutive:

  • Modelli unitari: descrivono le funzioni esecutive come costrutto unitario;
  • Modelli frazionati: descrivono le funzioni esecutive come differenti componenti ma tra di loro correlate;
  • Modelli sequenziali: le funzioni esecutive solo descritte in funzione della modalità con cui contribuiscono al superamento di un compito particolarmente complesso;
  • Modello del continuum di Benso (2007): multi-componenziale [21, 43, 80].

Nei modelli unitari le funzioni esecutive sono concettualizzate come un costrutto unitario e generale, il quale può attivarsi in base alle richieste dell’ambiente. Alcuni esempi di modelli unitari sono i seguenti:

  1. Modello del Sistema Attenzionale Supervisore (SAS) rappresenta un’ipotesi esplicativa dei deficit esecutivi. Questo modello si basa sull’organizzazione gerarchica dei processi cognitivi, secondo la quale passando dai centri inferiori a quelli superiori le rappresentazioni cognitive diventano maggiormente generalizzabili e meno specifiche. Questo esecutivo centrale, secondo gli studiosi, avrebbe lo scopo di organizzare e controllare strategicamente i processi cognitivi, trasferendo l’attenzione su di un processo piuttosto che un altro. Secondo Shallice la corteccia prefrontale opererebbe come un sistema supervisore che partecipa all’assemblaggio dei processi cognitivi, la cui formazione potrebbe cambiare a seconda delle necessità richieste dal contesto. Infatti, il SAS ha accesso alle rappresentazioni dell’ambiente e alle capacità cognitive, nonostante non abbia un diretto controllo del comportamento: esso modula i livelli più bassi del sistema chiamato Contention-Scheduling (Sistema di Selezione Competitiva) attivando ed inibendo schemi routinari familiari. Al sistema  partecipano  anche  le  informazioni  provenienti  dall’interno dell’organismo, che contribuiscono all’attivazione delle diverse procedure. Le operazioni competono tra di loro in base ad un meccanismo di selezione competitiva, e l’informazione che raggiunge il massimo di attivazione prevale sulle altre, inibendole. L’operazione così selezionata verrà trasmessa alla memoria procedurale e verrà attivata la procedura specifica all’azione corrispondente all’operazione selezionata. Il SAS sarebbe quindi coinvolto nella produzione di azioni volontarie e nelle situazioni in cui la selezione della routine, a carico del Sistema di Selezione Competitiva, fosse insufficiente, per esempio nel caso di situazioni nuove, decisionali o di pericolo. Una compromissione del funzionamento di questo sistema farebbe sì che il comportamento del paziente cadesse sotto l’unico controllo del Sistema di Selezione Competitiva, il quale si occupa appunto solo di operazioni di routine [11, 71].
  2. Modello della Memoria di Lavoro: secondo gli autori la memoria di lavoro è un sistema formato da più componenti il cui compito è quello di integrare tra loro varie informazioni. Il modello prevede: un Esecutivo Centrale (Central Executive), ovvero un sistema attenzionale che supervisiona due sistemi ausiliari, il Ciclo Fonologico (Articulatory Loop), un servo-sistema che mantiene le informazioni uditive e verbale per una ridotta quantità di tempo ed il Taccuino Visuo-Spaziale (Visual-Spatial Sketch Pad), impiegato nella rappresentazione dello spazio. Successivamente Baddeley aggiunse un ulteriore sistema denominato Buffer Episodico (Episodic Buffer), il quale coordinerebbe la memoria e l’integrazione delle informazioni con quelle della memoria a lungo termine [7,8].

Nei modelli frazionati le funzioni esecutive sono considerate in componenti distinte ed i vari modelli si distinguono per il numero e la tipologia dei processi identificati e per la tipologia di relazione che intercorre fra essi.

Nel 1991 Levin e Welsh hanno offerto due modelli risultati sovrapponibili, i quali includono la rapidità di risposta, la generazione di ipotesi/controllo e la pianificazione [37, 84].

Pennington e Ozonoff, nel 1996, hanno ristretto il dominio delle funzioni esecutive a cinque componenti ricorrenti: inibizione, pianificazione, memoria di lavoro, flessibilità cognitiva e fluenza verbale [56].

Infine, nel 2000 Miyake e altri collaboratori offrirono un modello molto valido, ed ancora oggi largamente condiviso, che identificava tre processi esecutivi: flessibilità cognitiva, inibizione e memoria di lavoro [48].

I modelli sequenziali ipotizzano che più componenti esecutive vengano descritte in base alla modalità con cui contribuiscono al superamento di un compito o al soddisfacimento di determinate richieste imposte dall’ambiente. Un esempio è il modello di Zelazo (1997) ed il modello di Burgess (2000):

  • Zelazo e collaboratori affermano che i processi esecutivi agiscono in modo integrato con il preciso scopo di risolvere un problema. Questo modello prevede nello specifico quattro fasi distinte dal punto di vista temporale e funzionale: rappresentazione del problema, pianificazione, esecuzione e valutazione dell’operato [88].
  • Burgess descrive le funzioni esecutive come dei processi sequenziali che operano nello svolgimento di un preciso compito secondo le seguenti tappe: apprendimento delle regole del compito, pianificazione dei passaggi, esecuzione del compito, verifica della coerenza tra pianificazione ed esecuzione e rievocazione della performance [17].

Ispirandosi alla teoria di Shallice, Benso elabora il Modello del Continuum: questo viene definito modello “del continuum implicito” in quanto ipotizza un collegamento inconsapevole ma continuativo tra modulo e sistemi centrali.

Il modello di Benso spiega il collegamento nel tempo tra modulo e sistema centrale. Come introdotto da Shallice, il Sistema Attivo Esecutivo (SAS) è fondamentale nella

formazione e nello sviluppo di sistemi modulari, ovvero degli apprendimenti. Ricordiamo che in neuropsicologia un “modulo” è un qualsiasi sistema automatizzabile complesso che ha una sua relativa indipendenza computazionale. Infatti, i moduli, secondo Benso, non saranno mai completamente autonomi nonostante siano in grado di raggiungere una certa autonomia: talvolta i moduli sono indipendenti, ma in determinate situazioni sono automatizzati.

In nuove circostanze o in presenza di una forte emotività, il SAS interviene anche sui moduli già precedentemente appresi. Di conseguenza, l’integrità di un modulo dipenderà sia dall’integrità e dalla maturazione del modulo stesso che dalla completezza del SAS, oltre che dai collegamenti che intercorrono tra moduli e SAS. Un SAS poco debole non permette il pieno apprendimento di certi moduli e quindi di certi apprendimenti, così come non può supportare a pieno il modulo in situazioni inaspettate o cognitivamente complesse. D’altra parte, un modulo già degradato perifericamente può far risalire la debolezza ai sistemi centrali a lui dedicati. Di conseguenza, per un apprendimento adeguato saranno necessarie l’attenzione esecutiva e un apporto modulare integro [13].

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3.c. Sviluppo e maturazione

L’età critica per lo sviluppo delle FE, ovvero il periodo in cui esse cominciano ad emergere, è quella della prima infanzia; si sviluppano poi in modo consistente in età prescolare e maturano definitivamente solo nella prima età adulta.

Le FE sono strettamente collegate alla corteccia cerebrale, in particolar modo a quella prefrontale, e proprio per questo esse hanno traiettorie di sviluppo e tempi maturativi differenti: ricordiamo che nei primi anni di vita il cervello arriva quasi a quadruplicare le sue dimensioni, e principale attrice di questa crescita è la corteccia prefrontale. Quest’area cerebrale, infatti, subisce, fino ai 3 anni e mezzo, una “potatura” delle sinapsi ridondanti e superflue, una conservazione di quelle più funzionali e adattive, e la cosiddetta sinaptogenesi, ovvero l’intensa crescita di nuove cellule neuronali.

Ciò accadrebbe poiché, come affermato già da Epstein nel 1978, il cervello non si caratterizza per uno sviluppo lineare, ma questo avviene per fasi durante i primi 18 anni di vita con picchi, secondo lo studioso, tra i 3 e i 10 mesi, tra i 2 ed i 4 anni, tra i 6 e gli 8, tra i 10 e i 12/13 ed infine nella fascia 14-16/17 anni [29].

Studiosi come Brocki e Bohein, invece, suggeriscono tre stadi di maturazione: prima infanzia (6-8 anni), seconda infanzia (9-12 anni) e prima adolescenza [15].

Il lento sviluppo delle funzioni esecutive viene principalmente spiegato dal protrarsi nel tempo della maturazione delle varie parti della corteccia cerebrale prefrontale, supportando la natura frammentata delle FE [26].

Nello sviluppo neurobiologico gli ultimi studi sui livelli di mielinizzazione indicano la corteccia prefrontale come una delle ultime aree cerebrali a svilupparsi. Inoltre, all’interno dell’area stessa sussisterebbe una gerarchia ed una selettività nello sviluppo: infatti, la regione frontorbitale maturerebbe precedentemente a quella dorsolaterale.

Suddetta peculiare maturazione avrebbe come conseguenza una progressione ontogenetica delle funzioni esecutive, strettamente legate a diverse regioni della corteccia prefrontale. Per esempio, la maturazione dell’inibizione, correlata in particolare alla corteccia frontorbitale, sembrerebbe antecedente ad altre FE più complesse come la pianificazione, la quale risulta principalmente associata alla porzione dorsolaterale.

Queste diverse linee di maturazione delle FE ci fanno ipotizzare non solo uno sviluppo differenziato dal punto di vista temporale, ma anche un’evoluzione organizzata gerarchicamente. Infatti, nonostante la maggior parte delle FE siano studiabili e valutabili in bambini in età prescolare, l’inibizione e la memoria di lavoro si sviluppano precedentemente alle altre e si ritiene siano da substrato per l’adeguata maturazione di altre FE [43].

Il quadro di sviluppo di queste funzioni è quindi estremamente complesso: oltre ad essere imprescindibile dal funzionamento del sistema frontale, sottolineiamo quanto esso sia strettamente influenzato da stimoli ambientali e educativi a cui il bambino è esposto nelle precoci epoche dell’infanzia; queste sollecitazioni permetterebbero lo sviluppo di diverse FE in modo differenziato e peculiare dell’individualità del bambino, riferibile a influenze genetiche.

La vasta letteratura appena citata ed i numerosi contributi esistenti riguardo alla maturazione delle funzioni esecutive ci spiega come sia tutt’oggi materia di dibattito tra gli studiosi e di come non ci sia ancora una chiara delineazione delle traiettorie di sviluppo di ciascuna funzione.

Un grande contributo è stato fornito da uno studio del 2008 condotto da Schweiger e Marzocchi: essi hanno tracciato possibili linee di sviluppo per alcune abilità ritenute centrali all’interno della famiglia delle FE, utilizzando due test in particolare, il TPQ (Test di Pianificazione Quotidiana) ed il CAF (Test di Completamento Alternativo di Frasi).

Dallo studio sono emersi i seguenti risultati:

  • Pianificazione e organizzazione del compito: aumenta lungo tutto l’arco di età considerato, ma un forte incremento è soprattutto visibile tra la quarta e la quinta classe della scuola primaria; da questa età in poi le prestazioni dei soggetti tendono a stabilizzarsi. Sebbene venga sempre evidenziato un incremento della prestazione con lo sviluppo, alcuni compiti differenti possono richiedere capacità specifiche diverse (es. pianificazione prima dell’esecuzione, monitoraggio dell’azione) che maturano verosimilmente ad età diverse.
  • Inibizione e flessibilità cognitiva: una preliminare capacità di inibizione definibile come “primaria” è già posseduta dai bambini di 8 anni circa: essi sono infatti in grado di inibire la risposta scorretta automatica; inoltre, il controllo specifico degli impulsi (indissolubilmente legato alla flessibilità della risposta) si sviluppa più gradualmente: si riscontra un primo incremento tra la terza e la quarta classe della scuola primaria e un secondo fra la seconda e la terza media, momento in cui i bambini diventano di fatto capaci di controllare anche le parole semanticamente collegate.
  • Memoria di lavoro: nel corso dell’età prescolare si apprezza un progressivo aumento della capacità di trattenere in memoria rappresentazioni visuo-spaziali e uditivo-verbali, sia in quantità che in tempistiche di ritenzione delle informazioni. In particolare, tra i 3 ed i 7 anni si osserva un aumento dello span di memoria da due a cinque cifre. Per quanto concerne, invece, la manipolazione delle informazioni trattenute in memoria (memoria di lavoro attiva), questa sarebbe una capacità che verrebbe acquisita definitivamente in un momento successivo tra il quarto ed il quinto anno di età, secondariamente ad un maggior coordinamento dell’esecutivo centrale. Essa poi prosegue nello sviluppo graduale fino a stabilizzarsi intorno ai 15 anni.
  • Attenzione: la maturazione completa dell’attenzione selettiva e sostenuta si riscontra a partire dai 7 anni, età in cui termina lo sviluppo dei lobi frontali, sebbene le condotte di orientamento volontario si possano già osservare in epoche precedenti: durante il primo anno di vita avviene un aumento della densità sinaptica dei gangli della base e della corteccia parietale, sviluppandosi rapidamente le abilità di fissazione, il disancoraggio dagli stimoli e le condotte di anticipazione. Successivamente in età prescolare è possibile osservare i primi segni di controllo attentivo; nei bambini in età scolare, invece, le capacità attentive sono molto simili a quelle dell’adulto.

Il processo evolutivo che porta alla nascita dell’attenzione volontaria è caratterizzato dall’acquisizione di un’attenzione socialmente organizzata, stabile ed efficiente in età scolare [70].

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3.d. Anatomia fisiologica delle Funzioni Esecutive

Un tema ricorrente nella storia della neuroscienza è il tentativo di associare regioni specifiche dell’encefalo a determinate funzioni sensoriali, motorie e cognitive.

Il concetto di localizzazione cerebrale delle facoltà mentali ha visto il contributo di numerosi studiosi e scuole di pensiero, a partire dalle supposizioni dei frenologi di inizio 1800, alle concezioni olistiche e antilocalizzazioniste che segnarono alcuni decenni del XX secolo, per finire con l’ancora attuale popolarità aggiudicata dalle tecniche di neuroimaging funzionale del millennio corrente.

Oggigiorno il consenso della scienza è unanime nell’affermare che lesioni selettive della corteccia frontale si associano a quadri clinici con disturbi cognitivi e comportamentali altrettanto specifici.

I disturbi che noi oggi comunemente attribuiamo al quadro della “sindrome disesecutiva” furono tempo fa etichettati come “sindrome del lobo frontale”, con chiara localizzazione. Oggi, invece, si ritiene che le FE siano implementate in multipli circuiti neuronali, ciascuno dei quali comprende delle connessioni con diverse porzioni della corteccia prefrontale [45].

Gli studi riguardanti una possibile localizzazione anatomica delle funzioni esecutive ha avuto diversi riscontri da parte di numerosi studiosi nel corso dell’ultimo secolo e mezzo:

  • Hitzing nel 1874 osservò come la grande variabilità dello sviluppo delle zone cerebrali prefrontali in diverse specie animali sembrava correlarsi alle capacità intellettive di queste ultime; aveva, inoltre, ipotizzato che i lobi frontali anteriori fossero la sede delle abilità superiori più complesse [32];
  • Ferrier individua nei lobi frontali i centri dell’attenzione e dei movimenti della testa e degli occhi; in scimmie con lesioni frontali anteriori egli riportò, insieme all’assenza di alterazioni motorie e sensoriali, la presenza di alterazioni comportamentali e del temperamento [31];
  • Bianchi scrisse che “i lobi frontali sono la sede della coordinazione e dell’interazione dei prodotti in ingresso ed in uscita delle numerose aree sensoriali e motorie della corteccia”, opponendosi quindi all’idea stessa che i lobi frontali siano la sede dell’intelligenza [14].
  • È possibile invece attribuire a Lurija l’idea che la corteccia prefrontale possa fungere da sistema di controllo. La sua visione considerava le facoltà mentali superiori come frutto dell’operazioni di sistemi funzionali che coinvolgevano più aree corticali e sottocorticali interconnesse; in questa ottica la corteccia prefrontale fa parte, insieme al cervelletto e ad alcuni nuclei sottocorticali, di un sistema per la pianificazione, la regolazione ed il monitoraggio delle azioni. Le idee di Lurija, inoltre, influenzeranno profondamente e direttamente i successivi modelli cognitivi del funzionamento prefrontale [41].
  • Shallice individua nella corteccia prefrontale la possibile sede del Sistema Attenzionale Superiore (SAS) richiamando esplicitamente la teoria di Lurija sulle funzioni frontali e reinterpretandola. Secondo Shallice i sintomi disesecutivi marcherebbero il fallimento di un processo di controllo di ordine superiore, con l’emergere di schemi comportamentali automatici ma inadeguati in determinate situazioni. Tale interpretazione è in linea con l’idea che l’inibizione di questi comportamenti sia uno dei fondamentali processi con cui la corteccia prefrontale controlla il comportamento, e richiama l’ipotesi espressa inizialmente da Hughlings Jackson secondo cui la lesioni dei “centri superiori” del cervello porti ad una “liberazione” di centri inferiori posti normalmente sotto il loro controllo [34];
  • Baddeley e Wilson hanno proposto il termine “sindrome disesecutiva” al posto di quello di “sindrome del lobo frontale” per permettere di studiare la natura e le caratteristiche cognitivo-comportamentali dei pazienti con disturbi disesecutivi separatamente dal delicato problema della possibile localizzazione cerebrale delle FE [9].

Oggigiorno è più appropriato affermare, dopo i numerosi studi e contributi scientifici, che sia riduttivo e azzardato considerare la corteccia prefrontale come il “centro esecutivo” del cervello, nonostante l’indiscutibile associazione del lobo frontale con le FE.

È più plausibile che le FE siano il risultato del funzionamento di diversi circuiti interconnessi che comprendono diverse zone della corteccia frontale e le loro connessioni corticali e sottocorticali.

Ricordiamo che le funzioni che vengono attribuite alla corteccia prefrontale, sia quelle già accertate che quelle ancora in via di conferma e studio, sono innumerevoli e particolarmente difficili da caratterizzare o comprendere, per due principali ragioni: 1) i circuiti neurali prefrontali godono di una natura estremamente adattiva, e aggiusterebbero le loro proprietà di scarica a seconda del contesto; 2) si sottolinea un’apparente generalità delle operazioni implementate dai neuroni prefrontali, e ciò può essere il risultato dello scarso grado di definizione a livello cognitivo dei processi che implicherebbero le FE, della scarsa selettività delle prove che vengono somministrate per valutazione e della limitatezza dei dati neurofisiologici disponibili.

In conclusione, il funzionamento del controllo cognitivo sarebbe garantito dalla cooperazione funzionale di diverse strutture, anche anatomicamente distanti, piuttosto che localizzato in una sola regione cerebrale [21].

I correlati anatomici delle FE sono stati riscontrati tradizionalmente nella corteccia prefrontale o corteccia associativa frontale: proprio per questa ragione gli studi si sono inizialmente ristretti a pazienti appartenenti alla fascia adulta, in quanto queste aree cerebrali completano il loro sviluppo solamente in età tardive. È solo recentemente che la ricerca ha spostato il focus di indagine sull’età evolutiva, soprattutto in seguito all’evidenza che correlerebbe le compromissioni delle Funzioni Esecutive con quadri clinici di disturbi del neurosviluppo.

La corteccia prefrontale, chiamata anche con l’acronimo inglese PFC, comprende la porzione anteriore dei lobi frontali, e costituisce una vasta area che entra in ulteriore comunicazione con le regioni motorie, percettive e limbiche dell’encefalo. Ricordiamo che i lobi frontali sono i più grandi tra i lobi principali della corteccia cerebrale nel cervello dei mammiferi, oltre ad essere maggiormente sviluppati nell’uomo rispetto agli altri primati. Proprio queste caratteristiche strutturali particolarmente evolute rendono le regioni cerebrali presenti al loro interno particolarmente complesse, sia dal punto di vista funzionale che anatomico.

Per semplificare lo studio e la comprensione di questa vasta area cerebrale, è prassi suddividere la corteccia prefrontale in tre porzioni, dorsolaterale, frontorbitale e ventromediale, nonostante i confini tra di esse non siano così nettamente delineati.

Apprendiamo come la corteccia prefrontale sia una regione neuroanatomica estremamente eterogenea, e che, dunque, il concetto di funzioni esecutive non sia affatto da considerare un costrutto unitario [12].

Dai più recenti studi sembra plausibile affermare che differenti aree della corteccia prefrontale medino diversi aspetti delle funzioni esecutive: le porzioni dorsolaterale e ventro-mediale sono principalmente implicate nelle funzioni adibite alla memoria di lavoro (working memory): se la sezione ventro-mediale sembra controllare il corretto mantenimento delle informazioni, quella dorsolaterale è responsabile della discriminazione di tali informazioni [23]. D’altra parte, invece, la corteccia prefrontale frontorbitale sembra essere implicata nella selezione degli stimoli e nella flessibilità di un compito da svolgere.

Nonostante non sia facente parte della corteccia prefrontale, anche la corteccia cingolata anteriore possiede un ruolo importante nei processi cognitivi, in particolare nell’identificazione di eventuali errori in seguito all’attuazione di un comportamento [64]

Ma quanta porzione della corteccia prefrontale recluta le regioni corticali e sottocorticali posteriori durante il funzionamento esecutivo? Come è raggiunta la flessibilità necessaria al controllo esecutivo a livello neuronale?

I progressi del neuroimaging funzionale hanno fornito degli strumenti fondamentali e sensibili al fine della valutazione dettagliata di come la corteccia prefrontale medi le funzioni esecutive.

Un’ipotesi influente suppone che la corteccia prefrontale dorsolaterale e ventromediale sottenderebbero differenti funzioni. Secondo il modello a 2 stadi del contributo prefrontale alla working memory ideato da Owen et al. la corteccia prefrontale ventromediale (VLPFC) controlla il recupero delle rappresentazioni dalla corteccia posteriore ed il mantenimento delle rappresentazioni a cui è possibile accedere [53]. La corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC), invece, media il monitoraggio e la manipolazione delle informazioni mantenute nella VLPFC [52]. Un ulteriore studio di Rowe et al. è a supporto della teoria sopracitata: il mantenimento in memoria di rappresentazioni spaziali è associato a piccole attivazioni della DLPFC, mentre il processo di selezioni tra diverse rappresentazioni provoca una significativa attivazione dell’attività della DLPFC [63].

Altri studi, invece non supportano pienamente l’ipotesi di una netta separazione tra DLPFC e VLPFC, ma hanno riportato pattern sovrapponibili nelle due aree durante prove di mantenimento delle informazioni [60].

A prescindere dal ruolo delle DLPFC e VLPFC, differito o meno, nei processi associati alla working memory, è oggigiorno evidente come esse abbiano un ruolo di rilievo in altri aspetti della funzione esecutiva di cui sono artefici.

In un recente studio di Duncan e Owen si parla di “Raggruppamento di attivazioni frontali nelle FE”: gli studiosi hanno analizzato i pattern di attivazione del lobo frontale associati ad un’ampia gamma di diversi compiti cognitivi. I loro studi iniziali avevano come focus d’indagine la discriminazione uditiva, l’attenzione condivisa, l’iniziazione motoria, lo switching cognitivo e la pianificazione. Sebbene sia evidente la significativa diversità e complessità dei compiti appena citati, è stato osservato al neuroimaging funzionale un raggruppamento di attivazioni; in particolare, riscontrarono tre zone attivamente intense:

  • Corteccia cingolata anteriore;
  • Corteccia prefrontale ventromediale;
  • Corteccia prefrontale dorsolaterale.

Questa analisi preliminare fu subito seguita da ulteriori studi, i quali si prefiggevano di analizzare ulteriori prestazioni: risposta al conflitto, memoria di lavoro, percezione e analisi di un nuovo compito. Ancora una volta fu osservata l’attivazione delle medesime tre aree precedentemente citate.

Gli autori conclusero ipotizzando quindi l’esistenza di una rete neurale comune alle tre regioni cerebrali che viene reclutata in diversi compiti cognitivi di ordine esecutivo. Tuttavia, lo studio non escluse la possibilità che ci siano ulteriori e più dettagliate specializzazioni all’interno  della  rete  stessa.  È  possibile,  infatti,  che  ulteriori specializzazioni siano possibili all’interno delle diverse aree attraverso l’utilizzo del functional imaging; un’ulteriore ipotesi teorizzerebbe che la specializzazione di queste aree cerebrali sia organizzata a livelli, tale che sebbene una vasta rete sia attivata da diversi compiti/stimoli l’entità relativa alle attivazioni all’interno di ciascuna regione dipenda dall’attività stessa (ovvero sia task-dipendente).

In conclusione, è possibile affermare che queste tre regioni sottendano funzioni diverse, ma anche che queste ultime siano abbastanza astratte da essere coinvolte in compiti cognitivi diversi e complessi [27].

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3.e Le Funzioni Esecutive nei Disturbi del Neurosviluppo: Disturbo da Autoregolazione

La regolazione è un processo biologico definito come la capacità che un bambino possiede, fin dalla nascita, di regolare i propri stati emotivi e di organizzare l’esperienza e le proprie risposte comportamentali” (Ammaniti M., Manuale di psicopatologia dell'infanzia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001)

Nel 1994 Schore ha espresso l’importanza che rivestono le interazioni affettive tra madre e bambino nello sviluppo cerebrale del neonato durante i primi mesi di vita. Infatti, nel momento immediatamente successivo al parto sono proprio questi scambi a strutturare i processi biochimici e neurobiologici responsabili della maturazione delle strutture corticali e subcorticali del neonato. Queste poi sono rappresentano la base delle capacità di autoregolazione del Sé, indispensabile per lo sviluppo sociale, cognitivo ed affettivo [69].

Successivamente, nel 1982 Claire Kopp ha proposto un modello di sviluppo dell’autoregolazione in cinque fasi, secondo una prospettiva ontologica:

  1. Modulazione neurofisiologica: comprende il periodo dalla nascita fino al terzo mese di vita; in questa fase il bambino adotta delle strategie di autoregolazione in presenza di stimolazioni eccessive: per esempio, tra i meccanismi di modulazione neurofisiologica ci sono i riflessi (pianto o suzione), i quali hanno il preciso scopo di alleviare la consapevolezza (awerness) del sistema nervoso simpatico e allontanare la fonte originaria del disagio. Il termine “modulazione”, presente anche nella fase successiva, indica che il bambino non è consapevole ancora del significato della situazione che sta vivendo.
  2. Modulazione senso-motoria: periodo compreso tra i tre mesi ed il primo anno di vita. A questa età il bambino è caratterizzato da capacità sensoriali e motorie che gli permettono di adattarsi alle richieste dell’ambiente. A tre mesi la consolabilità del bambino non è più legata all’intervento contenitivo diretto del genitore, ma quest’ultimo calma il piccolo “distraendolo”, portando la sua attenzione su nuovi stimoli. Infatti, proprio in questa fase evolutiva nasce il ri-orientamento attentivo, che rimarrà nel tempo una buona strategia di regolazione emotiva.
  3. Controllo: tra i 12 ed i 18 mesi il bambino è in grado di determinare ciò che è proibito e ciò che invece è permesso dal contesto; questo processo implica intenzionalità e la capacità di inibire il comportamento prima che lo stesso sia compiuto. In questo delicato periodo il piccolo inizia a distinguere il Sé dal non- Sé.
  4. Autocontrollo: comprende il periodo tra i 2 ed i 3 anni; l’autocontrollo richiede sia consapevolezza di sé e delle proprie azioni e la capacità di modificare e modulare il proprio comportamento in base alle esigenze del contesto o ad una richiesta esterna. Una volta acquisito il bambino è in grado di ritardare un’azione su richiesta esterna o interna e di agire sulla base di aspettative ambientali. L’autocontrollo dipende direttamente dallo sviluppo dell’inibizione ed in parte dall’interiorizzazione che si è compiuta dei divieti sociali e genitoriali.
  5. Autoregolazione: riscontrabile nel bambino dai 3 anni in poi, è caratterizzata da strategie comprendenti l’introspezione e la consapevolezza. Il bambino a questa età è in grado di guidare il proprio comportamento e mantenerlo appropriato, comprendendo ciò che l’ambiente possa aspettarsi. Kopp sottolinea come il linguaggio sia fondamentale per raggiungere il pieno sviluppo dell’autoregolazione: infatti, il bambino a questa età fa uso del linguaggio per organizzare il pensiero e per autoregolare il proprio stato emotivo. L’utilizzo del linguaggio interno è una strategia autoregolatoria fondamentale e che permea tutti gli stadi evolutivi, anche in età adulta. Con la crescita, il linguaggio sarà poi la base con cui il bambino costruirà le proprie visioni di sé che a loro volta diventeranno delle narrative, delle credenze che serviranno per regolare il proprio comportamento [36].

Ci sono diversi Disturbi del Neurosviluppo che implicano nella loro rosa di sintomi clinici un disturbo dell’autoregolazione.

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Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD)

Il quadro clinico del Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività è caratterizzato da pattern di disattenzione e/o iperattività-impulsività che interferiscono con il funzionamento dell’individuo ed il suo sviluppo. La disattenzione si manifesta attraverso la mancanza di perseveranza, difficoltà di mantenere l’attenzione sul compito e disorganizzazione; l’iperattività è un’eccessiva attività motoria in situazioni non appropriate, manifestabile anche con eccessivo dimenarsi o loquacità; l’impulsività fa si che il soggetto affretti le proprie azioni senza premeditazione, creando gravi situazioni di danno per sé e gli altri, talvolta. Nei bambini, in particolare, l’impulsività si può manifestare attraverso un desiderio immediato di ricompensa o un’incapacità di ritardare una gratificazione.

Questo disturbo inizia a manifestarsi durante l’infanzia: secondo il DSM-5, uno dei criteri diagnostici riguarda la necessaria rilevazione del quadro clinico entro i 12 anni; non viene però specificata una possibile età di esordio, in quanto risulta estremamente difficile stabilire e datare un preciso momento in cui emerge il quadro clinico.

Studi sulla popolazione indicano come l’ADHD (DDAI in lingua italiana) si riscontri nella maggior parte delle culture in circa il 5% dei bambini e nel 2,5% degli adulti, con una notta prevalenza nel sesso maschile [4].

L’ADHD è il disturbo dell’autoregolazione più noto e diffuso in età evolutiva. Sebbene la diagnosi del disturbo possa essere effettuata solamente in età scolare, i sintomi clinici sono riscontrabili già dai 3 anni, in particolare con manifestazioni quali rigidità comportamentale, disregolazione emotiva e deficit di inibizione. Da studi effettuati su bambini con diagnosi di ADHD è emersa una corrispondenza tra i sintomi del disturbo e i deficit nel controllo inibitorio e nella capacità di posticipare il soddisfacimento di una gratificazione, abilità definita delay aversion [15, 75].

In un ulteriore studio di Campbell e von Stauffenberg venne affermato come la presenza di prestazioni scarse nell’attenzione, difficoltà nell’inibizione della risposta motorio e la presenza della cosiddetta delay aversion in bambini con età pari a 4 anni possano essere validi predittori dell’emergenza del quadro clinico dell’ADHD osservati nei bambini fino alla terza classe della scuola primaria [20].

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Disabilità Intellettiva

La disabilità intellettiva (o disturbo dello sviluppo intellettivo) è un disturbo con esordio in età evolutiva caratterizzato da deficit del funzionamento intellettivo e adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici.

I criteri diagnostici sono i seguenti:

  1. Deficit delle funzioni intellettive, come ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero astratto, capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dell’esperienza;
  2. Deficit del funzionamento adattivo che porta al mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e responsabilità sociale. Senza un supporto costante, i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività della vita quotidiana, come la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita autonoma, attraverso molteplici ambienti quali casa, ambiente lavorativo e comunità.
  3. Esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo di sviluppo [4].

Soggetti con diagnosi di disabilità intellettiva presentano una sintomatologia con caratteristiche simili a pazienti con gravi deficit delle FE. Essi presentano infatti disturbi dell’attenzione, che spaziano dall’iperattività all’estrema distraibilità, ai comportamenti stereotipati. Di fronte a specifiche richieste non sono in grado di organizzare e pianificare un comportamento rivolto al compito con lo scopo di portarlo a termine, mostrano un’abilità manipolativa  fine a sé stessa, utilizzano delle strategie esplorative e di comportamento inefficienti senza tenere conto delle esperienze passate. A partire da queste considerazioni si può quindi affermare che l’aspetto più compromesso in bambini con disabilità intellettiva sia il funzionamento dell’esecutivo centrale [48].

Dato questo deficit i bambini con disabilità intellettiva presentano una maggiore dipendenza da schemi innati ed automatici a causa di una mancata autoregolazione conscia e operante; inoltre, ne possiamo dedurre che l’automatismo e la rigidità dei comportamenti e delle condotte di adattamento all’ambiente porterà a difficoltà di apprendimento a causa dell’insufficiente interiorizzazione delle esperienze vissute [65, 82].

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Disturbo dello Spettro dell’Autismo (ASD)

Il profilo neuropsicologico di soggetti con diagnosi di Disturbo dello Spettro dell’Autismo o Autism Spectrum Disorder (ASD) è caratteristico nell’ambito delle funzioni esecutive. Ricordiamo che la maggior parte dei bambini con diagnosi di ASD possiede anche diagnosi di disabilità intellettiva, generalmente di grado lieve, al quale si aggiungono altre caratteristiche peculiari, come la mancanza di motivazione dal momento che l’esperienza di questi bambini è stata spesso segnata da insuccessi; di fronte alle novità il comportamento è spesso di rifiuto e poco funzionale al raggiungimento di uno scopo, e per quanto concerne gli aspetti attentivi, sono attratti da dettagli irrilevanti e faticano nell’effettuare un’analisi ed una sintesi generale dei vari input; possiedono una forte rigidità di pensiero che costringe loro ad associare gli apprendimenti al contesto e all’impossibilità della generalizzazione; manifestano comportamenti stereotipati e ritualistici [21].

Turner nel 1999 aveva studiato il collegamento dell’autismo con i deficit delle FE, in particolare le difficoltà di inibire la risposta, la rigidità di pensiero e l’incapacità di generalizzare [79]. Infatti, recentemente è stata proposta l’ipotesi di come i sintomi caratteristici dell’autismo possano essere correlati a deficit delle funzioni esecutive, ed in particolar modo il controllo inibitorio, che comprende l’inibizione della risposta motoria e l’inibizione dell’interferenza. Inoltre, è stato ipotizzato che questi deficit giustifichino la mancanza di flessibilità emotiva e motoria tipicamente osservata nei pazienti con diagnosi di ASD [67].

Come descritto nei capitoli precedenti, una delle regioni cerebrali principalmente implicata nel ruolo delle funzioni esecutive è senza dubbio la corteccia prefrontale e le connessioni con essa delle regioni parietali del cervello. In uno studio è stato confermato come negli adulti con diagnosi di ASD le vie frontostriatali siano anatomicamente e metabolicamente deficitarie rispetto al gruppo di controllo [22]. Nello studio di Schmitz et al., attraverso un’analisi del neuroimaging effettuata su pazienti con autismo durante l’esecuzione di compiti esecutivi, è stata osservata, rispetto al gruppo di controllo, una maggiore attivazione della corteccia prefrontale, insula e parietale durante compiti di go/no-go, stroop e switch. Inoltre, l’analisi delle differenze riguardo all’anatomia cerebrale in soggetti con autismo ha rilevato come questi ultimi possedessero una maggiore densità di materia grigia nella corteccia frontale inferiore, indicando che coesistono nelle regioni frontali del cervello di pazienti con autismo delle anomalie anatomiche e funzionali. La mancanza di flessibilità è il più importante precursore della presenza di comportamenti ripetitivi [40].

Negli ultimi anni di studio, la ricerca ha chiarito come all’origine del Disturbo dello Spettro dell’Autismo ci sia un disordine, di varia e non ancora del tutto studiata natura, dell’organizzazione del Sistema Nervoso. Con lo scopo di ipotizzare possibili spiegazioni eziopatologiche che giustifichino il quadro clinico, sono stati elaborati alcuni modelli esplicativi dell’autismo, tra cui uno dei quali risulta essere “Deficit delle Funzioni Esecutive programmatorie”, elaborato da Ozonoff [55].

Come affermò proprio la Ozonoff nel 1995, diversi aspetti del disturbo autistico rimandano ai deficit della funzione esecutiva dovuta ad un danno frontale [54]. Infatti, il comportamento di individui con diagnosi di Disturbo dello Spettro dell’Autismo è rigido e poco flessibile, caratterizzato dalla non-tolleranza alle modificazioni ambientali e da una ossessiva insistenza nel proseguire la propria routine; la loro attenzione viene attratta e assorbita da particolari il più delle volte insignificanti dando origine a stereotipie e comportamenti ripetitivi; sono spesso impulsivi nel rispondere all’ambiente ed emerge una difficoltà nell’inibizione del comportamento e nell’anticipazione di quello altrui.

Risulta particolarmente compromessa anche l’aspetto mnemonico, in quanto spesso la loro memoria, benché ampia, risulta meccanica e rigida [79].

Sembrano quindi esistere, per gli aspetti comportamentali, una serie di analogie tra deficit prefrontali a livello delle funzioni esecutive e l’autismo.

Degli studi sono stati portati avanti per avvalorare questa ipotesi, in modo particolare dei soggetti affetti da autismo sono stati sottoposti a test riguardanti prove classiche delle funzioni esecutive (Wisconsin Card Sorting Test e la Torre di Hanoi).

In sintesi, da diversi studi sembrerebbe emergere una possibile spiegazione dell'autismo facendo riferimento ad una disfunzione a livello prefrontale, in grado di intaccare in maniera consistente le funzioni esecutive.

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iv. Disturbo dello sviluppo della coordinazione motoria (DCD) o disturbo evolutivo specifico della funzione motoria

Secondo il la quinta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5), in questo disturbo l’acquisizione e l’esecuzione delle abilità motorie coordinate risultano notevolmente inferiori rispetto a quanto atteso per l’età cronologica dell’individuo; si riscontrano difficoltà che vengono manifestate con goffaggine, lentezza ed imprecisione nello svolgimento elle attività motorie.

Si riscontra un’interferenza significativa con le attività della vita quotidiana, nella produttività scolastica, durante il tempo libero ed il gioco.

L’esordio si colloca nei primi anni di vita e nell’individuo non sussistono disabilità intellettiva, deficit visivo o condizioni neurologiche che possano in qualche modo officiare il movimento (es. PCI, distrofie muscolari o disturbi degenerativi) [4].

Compromissioni delle funzioni esecutive a livello generale sono state riscontrate nei bambini con quadro clinico a rischio di sviluppo del disturbo a causa della correlazione esistente tra la maturazione del controllo motorio e delle funzioni esecutive: quest’ultime, infatti, sono strettamente convolte nella coordinazione e nell’esecuzione di un movimento finalizzato.

Nel 2013 è stato svolto uno studio meta-analitico da Wilson e suoi collaboratori, nel quale è stato analizzato il quadro clinico di deficit in soggetti con DCD proponendo una serie di compiti coinvolgenti il controllo motorio, l’apprendimento e abilità cognitive. Dallo studio emerse la possibilità che la ridotta capacità di apprendere abilità motorie in pazienti con diagnosi di DCD possa essere associata ad un ritardo o disfunzione della maturazione neuronale, riguardanti le reti corticali associate al controllo dell'azione. Riscontrarono, infatti, difficoltà nel ricreare modelli interni dell'azione (controllo predittivo), nella coordinazione ritmica e tempismo e nel controllo dinamico della postura e dell'andatura. Per quanto concerne l’aspetto esecutivo, i soggetti presentavano deficit marcati a carico della memoria di lavoro verbale e visuo-spaziale, inibizione e attenzione selettiva [87].

In uno studio recente italiano condotto da Alesi, Pecoraro e Pepi, in cui erano coinvolti 36 bambini di cui la metà a rischio di diagnosi di DCD, gli studiosi hanno riscontrato differenze nella prestazioni in compiti in cui era coinvolta la memoria di lavoro visuo- spaziale, flessibilità cognitiva e inibizione rispetto al gruppo di controllo; in particolare i soggetti a rischio di diagnosi riportarono prestazioni notevolmente peggiori rispetto al gruppo di controllo di pari età nei compiti esecutivi in cui erano richieste maggiori risorse attentive, mentre non si riportarono differenze significative nelle prove di delay aversion. In questi pazienti le problematicità a livello esecutivo sono spesso associate a difficoltà sul versante dell’apprendimento motorio, principalmente in attività di complessità maggiore e finalizzate, le quali implicano sia velocità, coordinazione occhio-mano e forza, sia l’utilizzo di importanti funzioni cognitive quali l’attenzione condivisa e sostenuta, flessibilità cognitiva, memoria di lavoro e decision making [3].

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v. Disturbo Specifico di Linguaggio (DSL)

Le caratteristiche diagnostiche principali del Disturbo di Linguaggio sono le difficoltà nell’acquisizione e nell’uso del linguaggio dovute a deficit della comprensione o della produzione del lessico, della struttura frasale e del discorso.

I deficit di linguaggio si manifestano nella comunicazione parlata, scritta o nel linguaggio gestuale; l’apprendimento e l’uso del linguaggio dipendono dalle abilità dette “ricettive” e da quelle “espressive”: queste ultime si riferiscono alla produzione dei segnali vocali,

gestuali o verbali, mentre le abilità ricettive fanno riferimento al processo di ricezione e comprensione dei segnali linguistici. (DSM-5). Il disturbo è diagnosticabile in assenza di comorbidità con altri disturbi e deficit dal punto di vista intellettivo (QI < 80), sensoriale, motorio o socio-ambientale in grado di spiegare la sintomatologia [4].

In uno studio del 1999, Bonnie Singer e Anthony Bashir spiegarono come le funzioni esecutive e l’autoregolazione abbiano una reciproca influenza sulla performance di bambini con disturbi di linguaggio [73].

Innanzitutto, Vygotsky stesso afferma come il linguaggio giochi un ruolo chiave nello sviluppo dell’autocontrollo, del problem solving e della task-performance; per Vygotsky il linguaggio viene appresso mediante le interazioni sociali e diventa il mezzo principale per imparare come regolare il comportamento di ciascuno di noi [83]. Come successivamente affermò Wertsch, i bambini si appropriano del linguaggio come strumento culturale per mediare le loro azioni: attraverso il linguaggio acquisito regolano il proprio pensiero e guidano la loro partecipazione sociale; pertanto, nuovi modi di comportarsi e parlare vengono sviluppati durante gli anni scolastici e forniscono le basi per la partecipazione sociale dei bambini. I bambini imparano a parlare tra loro, con i loro insegnanti e con sé stessi, fanno progetti, lavorano in gruppo, riflettono sul loro lavoro, cambiano idea, chiedono aiuto quando ne hanno bisogno e rispettano i turni in classe: tutte queste azioni, governate anche dalle funzioni esecutive, si basano sullo sviluppo e sull'uso del linguaggio. Così nei primi anni della scuola il ruolo della lingua si intreccia indissolubilmente con le funzioni esecutive e con i processi di autoregolazione [86].

Le linee di sviluppo del pensiero cognitivo e del linguaggio sono indissolubili l’uno dall’altra nel corso dello sviluppo, in quanto il legame tra questi due costrutti è riscontrabile lungo tutto l’arco della vita di ciascuno di noi. Di conseguenza è impossibile non affermare come delle buone capacità linguistiche siano precursori di altrettante capacità di analisi e sintesi del contesto di vita [42].

Dei pattern anomali nella maturazione delle Funzioni Esecutive sono stati largamente spiegati per i Disturbi Specifici di Linguaggio (DSL). Come chiaramente specificato nel DSM-5, i bambini con tale diagnosi possono presentare difficoltà in varie componenti linguistiche, non solo in quella della produzione verbale [4]. Tale disparità di sintomi e quadri clinici si riflette anche nella presenza di altri disturbi associati in ulteriori aree neuropsicologiche dello sviluppo del bambino, quali, per esempio, il complesso delle funzioni esecutive. Nei soggetti in età prescolare con DSL si riscontrano difficoltà nel controllo inibitorio, nella memoria di lavoro e nella flessibilità cognitiva e deficit a livello dell’inibizione e della pianificazione sono stati spiegati dalla difficoltà nella comunicazione dei bambini con DSL. Infatti, i deficit linguistici si ripercuotono sul linguaggio interno che, come sappiamo, sostiene l’autoregolazione del comportamento [1, 76].

Per quanto concerne la memoria di lavoro, numerosi studi hanno evidenziato deficit selettivi nella memoria di lavoro fonologica in bambini con DSL di cinque anni di età, mentre altri studi su bambini di minore età è stata riscontrata una difficoltà nell’integrazione delle informazioni verbali e visuo-spaziali [8, 58].

Nei bambini con DSL la flessibilità cognitiva è la funzione esecutiva significativamente più compromessa perché maggiormente influenzata dalla maturazione del linguaggio interno [2]: uno studio recente su bambini con DSL, alla prova del test FE-PS “Gioco del colore e della Forma”, ha sottolineato come lo sviluppo della flessibilità cognitiva sia distante nei bambini con disturbo di linguaggio rispetto allo sviluppo tipico del dominio [61]. La mancata stabilizzazione delle rappresentazioni fonologiche caratteristica di pazienti con diagnosi di DSL causerebbe una scarsa performance nei compiti di shifting e di problem solving, derivante dell’incapacità di mantenere traccia delle istruzioni del compito e dei ragionamenti precedentemente eseguiti.

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Materiali e Metodi

Questo progetto di tesi si pone l’obiettivo di verificare, successivamente al trattamento neuropsicomotorio, i cambiamenti comportamentali e delle condotte di adattamento del campione all’interno delle sedute e valutare i miglioramenti nella percezione da parte dei genitori del comportamento in ambiente domestico.

È stato quindi necessario valutare il campione in esame sia con prove strutturate che con valutazioni qualitative, in modo da ottenere il profilo adattivo e funzionale dei singoli pazienti all’inizio dell’intervento e al termine di quest’ultimo.

Nel progetto i pazienti sono stati inizialmente sottoposti, in T0, ad una valutazione neuropsicomotoria, nella quale è stata condotta un’osservazione del comportamento spontaneo e adattivo, comunicativo e relazionale all’interno del setting, insieme alla somministrazione di prove quantitative quali Protocollo APCM (Abilità Prassiche e della Coordinazione Motoria) ed il Developmental Test of Visual-Motor Integration (VMI). In T0, inoltre, al fine di avere un riscontro quantitativo iniziale rispetto alle componenti delle funzioni esecutive, che sappiamo essere fondamentali nei processi di autoregolazione, il campione è stato sottoposto a test strutturati quali Torre di Londra e FE-PS 2-6. Il primo test citato è stato poi utilizzato in seconda valutazione T1 per avere un resoconto quantitativo rispetto all’eventuale cambiamento osservato nei bambini.

Affiancati alle prove strutturate e alle osservazioni neuropsicomotorie in ambito clinico, sono stati consegnati ai genitori due questionari valutativi, Conners’ Parent Rating Scale e SNAP IV, sia in T0 che in T1, i quali hanno permesso di valutare un eventuale cambiamento del comportamento del bambino nel contesto di vita quotidiano secondo la percezione del genitore.

L’intervento riabilitativo si è concentrato sullo svolgimento di dieci sedute di neuropsicomotricità di gruppo affiancate a sedute individuali, all’interno delle quali si è effettuato un training neuropsicomotorio mirato sulle funzioni esecutive.

Di seguito vengono esplicitate le principali caratteristiche degli strumenti valutativi utilizzati.

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4.a. Torre di Londra (“Tower fo London”, TOL)

Il test Torre di Londra (TOL) è stato ideato da Shallice nel 1970 con i seguenti obiettivi:

  1. Costruire uno strumento che impiegasse le abilità di pianificazione e di previsione;
  2. Includere nel test la possibilità per il soggetto testato di rivedere alternative possibili nel processo di pianificazione, nell’ipotesi che la prima non fosse fruttuosa, delineando quindi diverse strategie di risoluzione del problema;
  3. Fare in modo che il test avesse diversi livelli di difficoltà.

Molto simile e di ispirazione è la Torre di Hanoi (TOH), test molto noto e largamente utilizzato che consente anch’essa di studiare funzioni esecutive come la memoria di lavoro, il controllo inibitorio e la flessibilità cognitiva, ma con dei limiti importanti che nella Torre di Londra vennero risolti da Shallice: la Torre di Hanoi è costituita da tre o quattro dischi di grandezze differenti che vanno posti in tre bastoncini della medesima lunghezza. Lo scopo è ottenere una configurazione richiesta spostando i dischi da un bastoncino all’altro e rispettando una serie di regole: il disco posizionato più in alto deve essere di un diametro inferiore a quello posto sotto e i dischi non possono essere posizionati in alcun posto diverso dai bastoncini; il problema deve essere risolto con il minimo numero di mosse possibili, e all’aumento del numero dei cerchi i movimenti richiesti per riprodurre la soluzione aumentano esponenzialmente. Questo test non permetteva di essere completato con una difficoltà graduale. Shallice, infatti, chiamò il suo test “Torre di Londra” proprio per sottolineare la sua affinità con la Torre di Hanoi, sebbene ci siano sostanziali differenze; nella TOL la configurazione da raggiungere è illustrata graficamente attraverso la riproduzione dei modelli su delle tavole, mentre nella TOH la configurazione richiesta è esplicitata solo verbalmente; nella TOL i problemi da risolvere sono qualitativamente differenti e possano essere possibili con un numero simile di mosse richieste, fino ad un valore abbastanza alto di mosse; nella TOL il soggetto conosce il numero di mosse che deve utilizzare per risolvere al configurazione; nel caso venisse commesso un errore si hanno due possibilità di  applicazione per risolvere correttamente lo schema. Tutte queste variabili non sono oggetto di valutazione nella TOH.

Il test Torre di Londra è un test neuropsicologico specifico per la valutazione delle funzioni esecutive, in particolare per le abilità di pianificazione e monitoraggio di un compito e per l’organizzazione del proprio comportamento nello spazio e nel tempo.

La prova richiede che il soggetto, prima di eseguire il compito, rifletta sulla sequenza di mosse e di azioni necessarie alla risoluzione del problema e, nell’eventualità di un errore, modifichi la sequenza. In questa prova, in conformità con le caratteristiche del SAS (Supervisory Attentional System), le azioni devono essere man mano progettate e previste prima di operare attivamente nella risoluzione del problema.

In ognuno dei 12 items del test, tre palline (rossa, verde e blu) sono disposte su tre bastoncini di altezza differente: l’obiettivo è, a partire da una configurazione fissa iniziale, spostare le palline sui bastoncini per riprodurre il modello dato con il numero di mosse indicato. L’esaminatore deve riportare i seguenti parametri nel protocollo di registrazione:

  • Punteggio totale delle risposte corrette (massimo 36);
  • Mosse eseguite dal soggetto per ciascun tentativo;
  • Violazioni delle regole:
    • Il soggetto muove più di una pallina alla volta;
    • Tiene in mano una pallina o la appoggia altrove;
    • Infila nel bastoncino un numero eccessivo di palline (nel bastoncino più alto possono starci tre palline; nel bastoncino di media lunghezza due palline; nel bastoncino più corto massimo una pallina).
  • Tempo di esecuzione: tempo intercorso dall’inizio del primo movimento di un tentativo sino al termine del movimento;
  • Tempo di decisione: tempo intercorso dalla presentazione del modello al momento in cui la prima pallina è completamente estratta dal bastoncino;
  • Tempo totale: somma dei due tempi precedenti [30].

(Fig. 1, esempio protocollo di registrazione – Torre di Londra)

(Fig. 1, esempio protocollo di registrazione – Torre di Londra)

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4.c. FE-PS 2-6

La batteria FE-PS 2-6 è costituita da prove che sono volte a misurare:

  • I processi inibitori, in particolare l’inibizione della risposta attraverso compiti in cui è presentata una sola caratteristica ed il conflitto è tra due opzioni di risposta, e la gestione dell’interferenza, nella quale si richiede di controllare il conflitto tra due informazioni che man mano vengono presentate, oppure tra informazioni già presenti, ma incongruenti con il compito;
  • La capacità di posticipare una gratificazione;
  • Abilità complesse quali inibizione, memoria di lavoro e flessibilità cognitiva.

È composta dalle seguenti dieci prove:

Inibizione della risposta

  1. Traccia un cerchio (3-5 anni): questa prova consente di valutare il controllo inibitorio in una risposta motoria continua: viene richiesto di tracciare un cerchio con il dito, seguendo la traccia disegnata sul foglio, adattando la velocità di esecuzione alle richieste dell’esaminatore; infatti, dopo aver tracciato il cerchio assumendo una velocità arbitraria, al bambino verrà chiesto di rallentare e mantenere una velocità ridotta per tutto il tracciato. Nell’ottica dello sviluppo tipico spesso si osserva il bambino di 24 mesi intento ad impiegare le proprie risorse cognitive per rispettare il tracciato circolare sul foglio, ragion per cui non è ancora in grado a quella età di esercitare contemporaneamente un controllo volontario sulla velocità di esecuzione. Ad età più mature il bambino rispetta maggiormente il percorso e attua insieme un controllo consapevole dell’azione, adattandola alle richieste dell’ambiente. Si riscontra una certa variabilità, tuttavia in generale dopo i 4 anni i bambini eseguono il compito facilmente e ai 5 si osservano miglioramenti prestazionali.
  2. Stroop giorno e notte (3-5 anni): questa prova si prefigge di valutare il controllo inibitorio. In questo compito al soggetto viene richiesto di sopprimere la volontà di fornire una risposta dominante relativa ad un bersaglio. Viene presentata una carta alla volta con una sola caratteristica (sole o luna) ed il bambino deve rispondere in base alle richieste dell’esaminatore inibendo la risposta automatica per favorirne una non dominante (per esempio, quando viene presentata una carta con il sole il bambino deve dire “notte”, e non “giorno”). Nonostante nell’esecuzione del compito sia presente anche la componente della memoria di lavoro, essa non influisce in modo significativo sulle prestazioni e la prova di Stroop giorno e notte viene principalmente considerato come un compito di inibizione verbale. In questa prova vengono esaminati gli indicatori dell’accuratezza della risposta e del tempo impiegato a concludere l’attività.
  3. L’elefante e l’orso (3-4 anni): viene somministrata con lo scopo di valutare l’inibizione della risposta e attivare una risposta motoria seguendo una regola, simile al compito Go/No-Go. Questa prova è ispirata al gioco Simon says, nel quale il bambino deve eseguire dieci azioni dirette su di sé (es. tocca il tuo naso). Nel compito L’elefante e l’orso vengono utilizzati due pupazzi, un orso definito “cattivo” e un elefante “buono”: il bambino dovrà fare tutto ciò che viene detto dall’elefante e nulla di ciò che ordina l’orso, inibendo l’azione richiesta.
  4. Confronta le figure (3-6 anni): consente di valutare il controllo degli impulsi durante un compito di ricerca visiva. Nella prova viene richiesto al bambino di scegliere tra diverse figure presentate quella uguale alla figura bersaglio. Nella registrazione del punteggio vengono indicate le risposte date (sia quella corretta che quelle errate), il numero di errori commessi e si riporta il tempo intercorso tra la presentazione dell’immagine e il momento in cui il bambino fornisce la prima riposta indicando.

Gestione dell’interferenza

  1. Il gioco dei pesciolini (2-6 anni): è una prova utilizzata per valutare la capacità di sopprimere risposte inadeguate in un particolare contesto. È considerato uno dei compiti più complessi per quanto concerne l’inibizione perché comporta innanzitutto un maggior controllo da parte del bambino. In questa prova è richiesto di indicare la direzione in cui è orientato il pesciolino bersaglio toccando l’immagine del cibo per pesci posta a sinistra o a destra. Lo scopo è quello di valutare l’abilità del bambino nel filtrare le informazioni in entrata ed inibire quelle non rilevanti, gestendo anche l’interferenza visiva e attentiva (appaiono, infatti, dei distrattori). I compiti in cui è richiesta il controllo dell’interferenza richiedono un’attenta selezione di una parte delle informazioni da uno stimolo complesso, il quale contiene altri stimoli che devono essere inibiti. Ciò comporta un maggiore livello di controllo cognitivo da parte del soggetto così come un maggior coinvolgimento della memoria di lavoro.

Posticipazione della gratificazione

Entrambe le prove sono volte a valutare il controllo di un impulso caratterizzato da una forse spinta motivazionale:

  1. Incarto il pacchetto (3-5 anni): si tratta di un compito di attesa in cui viene testata la capacità del bambino di regolare il proprio comportamento in attesa di una ricompensa. Si chiede al bambino di voltarsi mentre l’esaminatore incarta un regalo per lui curandosi di fare particolare rumore: il bambino non deve sbirciare per tutta la durata della preparazione. Sul foglio di registrazione della prova vengono segante tutte le violazioni che vengono effettuate dal bambino ed il tempo che trascorre dalla consegna alla prima violazione.
  2. Il dono (3-6 anni): questa prova si prefigge di valutare la capacità di bambino di inibire una risposta prevalente nell’attendere una gratificazione. L’esaminatore pone un “regalo” di fronte al bambino ed il bambino dovrà attendere il più possibile di scartare il pacchetto; tuttavia, il bambino è libero di porre fine all’attesa in qualsiasi momento, battendo la mano sul tavolo. Viene valutato il tempo che il bambino attende prima di esprimere la volontà di aprire il regalo. Le due prove differiscono per un sostanziale particolare: nella prima prova è l’adulto a stabilire il tempo d’attesa, mentre nella seconda è il bambino stesso a decidere quanto aspettare.

Prove complesse

  1. Il gioco del colore e della forma (3-6 anni): questa prova permette di valutare diversi aspetti delle funzioni esecutive, come il controllo inibitorio, la flessibilità cognitiva e la memoria di lavoro. Il compito è diviso in tre fasi: vengono presentate delle carte raffiguranti un coniglio o una barca, di colore rosso o blu, e nella prima al bambino viene richiesto di classificare le carte in base al colore del disegno, inserendole nella scatola corrispondente corretta; nella seconda fase, le carte dovranno essere classificate in base alla forma, ovvero in base al disegno presente, indipendentemente dal colore; nella terza ed ultima parte il bambino dovrà dividere le carte per colore qualora la carta presenti un bordo nero, oppure per forma se la carta ne fosse sprovvista. Durante l’esecuzione della prova l’esaminatore registra sul foglio di notazione il numero delle carte inserite correttamente nelle scatole in base alla consegna. Le abilità che il bambino deve mettere il gioco in questo compito sono estremamente semplici, sia dal punto di vista cognitivo (classificazione per colore e forma) che motorio (inserire una carta in una scatola), e ciò permette una più attenta valutazione delle funzioni esecutive coinvolte.
  2. Tieni a mente (4-6 anni): è una prova complessa di memoria di lavoro. Al bambino vengono mostrate alcuni oggetti appartenenti ad una specifica categoria: animali (cane, gatto, pesce, topo), frutta (mela, pera, banana, fragola), mezzi di trasporto (auto, bicicletta, moto, treno), abbigliamento (maglietta, scarpe, calze, gonna) e cielo (sole, luna, stella, nuvola). Al bambino viene di volta in volta presentata una serie di sei oggetti tra quelli appena elencati che dovrà nominare: alla fine di ognuna al bambino sarà chiesto di ricordare l’ultimo elemento di ogni categoria richiesta dall’esaminatore. Il numero delle categorie da ricordare passa da una a due nel corso delle serie. Questa prova implica, quindi, che il bambino aggiorni in modo continuo le informazioni che vengono presentate stimolando la memoria di lavoro e gestendo l’interferenza generata dalla presenza di altre immagini distraenti.
  3. Il gioco del fiore e della stella (4-6 anni): questa prova complessa permette di indagare le capacità di inibizione e di memoria di lavoro. Al bambino sono presentati stimoli diversi a cui deve rispondere seguendo regole differenti, inibendo o attivando una specifica risposta a seconda dello stimolo che viene proposto: nella versione software utilizzata in questo progetto, sullo schermo del computer appariranno di volta in volta un fiore o una stella, posti a sinistra o a destra dello schermo, alternativamente. Ogni volta che sullo schermo appare il fiore il bambino dovrà premere il pulsante sulla tastiera posto dallo stesso lato in cui è posizionato il fiore; qualora, invece, appaia la stella, il bambino dovrà schiacciare il pulsante sulla tastiera dal lato opposto rispetto a dove è posizionata la stella.

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4.b. Conners’ Rating Scale

Le Conners’ Rating Scale consistono in uno strumento largamente utilizzato nella pratica clinica per la valutazione dei bambini con ADHD. La versione che è stata proposta in questo progetto è la versione con 87 items, nonostante ne esista un ulteriore più ridotta con soli 27 items. Di questa scala esistono tre versioni: una rivolta ai genitori (utilizzata primariamente per questo progetto), una per gli insegnanti ed un’ulteriore auto-valutativa rivolta principalmente agli adolescenti per il riconoscimento di comportamenti problema. Le scale di valutazione per genitori e insegnanti possono essere somministrate ai soggetti di età compresa fra i 3 e i 17 anni e sono composte dalle seguenti sottoscale: Oppositiva, Cognitiva-Problemi/Inattenzione, Iperattività, Ansia-Timidezza, Perfezionismo, Problemi Sociali, Disturbi Psicosomatici (solo nella versione per Genitori), Conners’ Global Index (comprende Irrequieto-Impulsivo e Responsabilità̀ Emotiva), indice dell’ADHD e sintomi del DSM-IV (inclusi Inattentivi, Iperattivi-Impulsivi). Nel compilare i questionari, genitori ed insegnanti devono valutare, su una scala Likert a 3 punti (0=Niente affatto vero (mai, raramente); 1= Appena in parte vero (ogni tanto); 2= Abbastanza Vero (spesso, di frequente); 3= Molto vero (molto spesso, molto frequente), la frequenza con la quale si attuano i comportamenti descritti in ogni item.

(Fig. 2, Conners’ Parent Rating Scale)

(Fig. 2, Conners’ Parent Rating Scale)

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4.c. SNAP IV (Parent rating scale)

La versione MTA del questionario di Swanson, Nolan e Pelham (SNAP-IV) è formata da 26 items ed indaga il comportamento del bambino secondo la percezione ed il punto di vista dei genitori in ambiente domestico e non, indicandone la frequenza (no; poco; abbastanza; molto).

(Fig. 3, SNAP IV)

(Fig. 3, SNAP IV)

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4.d. Trattamento neuropsicomotorio

Sebbene l’autoregolazione nei bambini abbia conquistato una crescente attenzione nella letteratura scientifica, vi è ancora un’indefinita chiarezza concettuale e un approccio frammentario nella riabilitazione. Numerosi fattori coesistono nel sostenere lo sviluppo dell'autoregolazione, tra cui il temperamento individuale, gli aspetti genetici, e l’ambiente familiare in cui il bambino è cresciuto. Diversi studi poi hanno suggerito che interventi precoci possono essere efficaci nel migliorare le capacità di autoregolamentazione dei bambini, in particolare in età prescolare.

In generale, un approccio riabilitativo valido per migliorare le abilità di autoregolazione può essere un training delle funzioni esecutive, le quali, come esposto nei capitoli precedenti, concorrono nel modulare il comportamento del singolo, organizzando le risposte alle richieste dell’ambiente.

I training sulle funzioni esecutive riguardano principalmente le componenti di problem solving, di pianificazione e di controllo inibitorio attraverso l’uso di compiti anche complessi, ma molti dei quali caratterizzati da un’alta validità ecologica con la possibilità di generalizzazione ai diversi contesti di vita.

Per questo progetto di tesi è stato scelto di effettuare l’intervento sia in seduta individuale che all’interno di un piccolo gruppo, coinvolgendo tre dei casi clinici: laddove possibile, il contesto di gruppo rivela importanti potenzialità al fine riabilitativo: il gruppo rappresenta il contesto ecologico più simile agli ambienti di vita che quotidianamente i bambini frequentano e vivono attivamente; il confronto con il pari può far emergere differenze individuali, emozioni condivisibili ed esperienze comuni. Infatti, un altro vantaggio del lavoro in gruppo è la possibilità di potenziamento delle competenze sociali del bambino, dal momento che in questo particolare contesto emergono una serie di situazioni sociali complesse che favoriscono anche lo sviluppo di capacità di empatia. All’interno del gruppo si permette al bambino di fare esperienza della reciprocità dell’interazione e delle regole sociali, di lavorare su una serie di aspetti comportamentali (per esempio il rispetto del turno), ed emotivo-relazionali (collaborare per il raggiungimento di un obiettivo comune).

Nella teoria di Vygotskij dello sviluppo prossimale, viene esposto come un pari competente può spesso rappresentare un modello molto efficace nel favorire lo sviluppo potenziale, perché egli è più simile alle caratteristiche del bambino [83].

L’intervento condotto nel progetto è stato condotto nell’arco di dieci sedute neuropsicomotorie di gruppo ed individuali a cadenza settimanale dalla durata di un’ora. Osservando il campione all’interno delle sedute si sono osservate le seguenti caratteristiche comportamentali nei casi clinici:

  • Difficoltà nel mantenere l’attenzione sostenuta durante l’esecuzione di un compito;
  • Marcata distraibilità, in particolare durante attività che prevedevano un coinvolgimento corporeo;
  • Disorganizzazione dell’azione e del movimento;
  • Difficoltà nella regolazione degli stati emotivi e poca tolleranza alla frustrazione;
  • Scarsa consapevolezza e rispetto delle regole sociali, dei giochi e del rispetto del turno;
  • Difficoltà nell’inibire le risposte automatiche.

Il progetto si presenta come una proposta di percorso riabilitativo in piccolo gruppo ed in individuale, coinvolgendo bambini con deficit dell’autoregolazione, volto al rafforzamento delle diverse componenti delle funzioni esecutive, proponendo sia attività strutturate che altre meno strutturate in cui vengono attivate più funzioni esecutive contemporaneamente.

Nelle sedute di trattamento neuropsicomotorio i bambini inclusi in questo progetto hanno svolto attività che hanno permesso loro di sperimentare, sollecitare e consolidare le diverse componenti core delle funzioni esecutive, oltre alle capacità di ordine superiore come la pianificazione, l’autocontrollo, la regolazione delle emozioni.

Per quanto concerne le attività svolte all’interno del gruppo, in apertura delle sedute si è scelto di creare un momento di conoscenza e allo stesso tempo di contenimento al centro della stanza; sedendoci in cerchio si è cercata la cooperazione fra tutti i componenti del gruppo. Dedicare una parte della seduta a questo momento ci ha permesso di far conoscere reciprocamente i bambini e di aprire la comunicazione condivisa.

Con l’utilizzo della palla, l’attività proposta in cerchio consisteva nel passarsela dicendo il nome del compagno a cui la si dava, il più velocemente possibile. Al segnale dell’adulto, però, si dava la consegna di cambiare la direzione del passaggio, invertendo il senso, oppure di rallentare, favorendo la regolazione del movimento. Durante questa attività la quasi totalità dei bambini ha faticato a rimanere seduto e contenuto all’interno del cerchio.

È stata proposta un’altra attività con l’utilizzo di un cerchio, abbastanza grande affinché i bambini ci potessero passare dentro. I bambini si trovavano mano nella mano in circolo, e l’obiettivo del gioco era far passare il cerchio attraverso tutti i bambini facendolo scorrere ripetutamente; in questo modo i bambini dovevano tenersi per mano e questo forniva un buon elemento di contengo; essi dovevano poi destreggiarsi nel passare all’interno del cerchio e farlo scorrere al compagno, regolando e pianificando l’azione in modo da non restare incastrati e da non far scappare il cerchio. Come nel gioco precedente, al segnale dell’adulto si invertiva il senso di marcia, in senso orario o antiorario, inibendo l’azione precedente e pianificandone un’altra a seconda della consegna.

Successivamente, si sono svolte numerose attività a tavolino per favorire il contenimento motorio e l’attenzione sostenuta. Ai bambini è risultato difficoltoso mantenere il focus sull’attività senza distrazioni, spesso si alzavano ed evitavano la consegna, correndo per la stanza.

Le attività svolte a tavolino sono state le seguenti:

  • Bata-waf: il gioco comprende un mazzo di carte raffiguranti cani di altezze differenti, segnalate anche attraverso una scala di numeri. I bambini iniziano il gioco con una quantità pari di carte ciascuno, esse vengono disposte davanti a sé a faccia in giù. Al via dell’esaminatore, ogni giocatore rivolta allo stesso tempo la prima carta del proprio mazzo: il giocatore che ha la carta con il cane più̀ alto vince il turno; qualche volta può̀ succedere che due carte rivoltate dai giocatori raffigurino un cane della stessa grandezza: in questo caso, i giocatori che possiedono le carte con i cani della stessa altezza devono dire la parola «Bata- waf!». Il giocatore che per primo dice la parola, si aggiudica la mano e tutte le carte sul tavolo poste precedentemente dagli altri. Bata-waf è un gioco di carte in cui sono coinvolte abilità come l’inibizione, l’attenzione sostenuta e la flessibilità cognitiva. Giocabile a tavolino in gruppo, questo gioco crea competitività tra i bambini, per questo è un ottimo strumento di valutazione e di misura del livello di tolleranza alla frustrazione e di regolazione emotiva.
  • Fantablitz o fantascatti: in questo gioco da tavolo, un fantasma infesta un castello. Per dispetto vuole far sparire alcuni oggetti, ma prima di procedere, li immortala con una macchina fotografica. Questa modifica tutti i colori degli oggetti, confondendo un po' il fantasma. La scatola del gioco si compone di un mazzo di carte colorate con le “foto” degli oggetti e di cinque oggetti: una poltrona rossa, un fantasma bianco, una bottiglia verde, un libro blu ed un topo grigio. Nelle sedute di gruppo sono state proposte diverse versioni del gioco: dopo aver posizionato gli oggetti al centro del tavolo e pescato la prima carta, la consegna iniziale è stata quella di prendere, il più velocemente possibile, i due oggetti raffigurati nella carta; successivamente è stato chiesto di prendere, oltre agli oggetti raffigurati, anche gli altri oggetti sul tavolo che fossero dei colori presenti nella carta (per esempio, qualora la carta raffigurasse una poltrona blu ed il fantasma bianco, tra gli oggetti sul tavolo dovevano essere presi il fantasma bianco, la poltrona rossa, ed il libro blu); un ultimo adattamento del gioco è stato il seguente: scoperta la carta dal mazzo, i bambini dovevano scegliere, tra gli oggetti presenti sul tavolo, solo quelli che non erano raffigurati sulla carta, né per forma né per colore, inibendo la risposta automatica di prendere quelli disegnati. Si tratta di un gioco adatto per la stimolazione dell’inibizione della risposta e controllo dell’interferenza, in quanto i colori e le forme delle pedine hanno grande capacità di distrarre e far sbagliare. È un gioco che stimola quindi il controllo dell'inibizione, memoria, attenzione, velocità e flessibilità cognitiva.
  • Acchiappa la talpa: allena la coordinazione occhio-mano, l’attenzione sostenuta e quindi la concentrazione, la discriminazione uditiva e l’inibizione della risposta. Al bambino viene assegnata una talpa ed un suono preciso: lo scopo del gioco è quello di battere il martello sulla talpa quando il giocatore sente il proprio suono venire riprodotto tra altri suoni distrattori.
  • “Mouse catcher”: con questo gioco si è lavorato sull’attenzione, il controllo inibitorio e l’autoregolazione emotiva. Il gioco dispone di topini di legno di diversi colori, aventi una lunga coda; di questi ne viene assegnato uno a ciascun bambino e disposti al centro del tavolo, in modo che abbiano le code rivolte verso i concorrenti per essere afferrati rapidamente. Lo scopo del gioco è salvare il proprio topino dal cacciatore: quest’ultimo tira il dado, e cercherà di acchiappare il topino del colore uscito prendendolo con una scatola di legno. Una volta tirato il dado starà al bambino del topino interessato tirare velocemente la coda per farlo sfuggire dalla presa del cacciatore.
  • Per lavorare sul controllo inibitorio e la pianificazione abbiamo svolto un’attività a tavolino servendoci di due mazzi di carte disegnate e caratterizzate da due colori diversi, rosa e blu. Su tutte le carte sono raffigurati oggetti di vario tipo, animali o mezzi di trasporto, e ciascuna caratterizzata da uno dei due colori. Una volta posto il mazzo al centro del tavolo, i bambini a turno pescano una carta, senza mostrarla agli altri giocatori. Qualora la carta fosse blu, l’obiettivo del giocatore sarà far indovinare ai compagni l’oggetto raffigurato senza l’utilizzo di parole o dei suoni, ma usando solo la gestualità; se invece la carta pescata fosse di colore rosa, allora il giocatore dovrà “descrivere” l’oggetto raffigurato con il solo utilizzo di suoni, senza parole o gesti.
  • C’era un pirata”: gioco in scatola capace di sviluppare la memoria di lavoro, l’attenzione e la pianificazione. È utile per sollecitare una o più funzioni esecutive, contribuendo all’autoregolazione emotiva. Il gioco contiene diverse carte, tra cui carte «oggetti» raffiguranti vari oggetti come alimenti e figure di pirati, e carte «totem», raffiguranti una sequenza verticale di oggetti e pirati. Un giocatore dà il via alla partita pescando una carta «totem» senza mostrarla agli avversari, descrivendo e narrando il “totem” in essa raffigurato. La descrizione del “totem” inizia con il pirata e prosegue elencando nell'ordine gli oggetti sopra la sua testa (dal basso verso l'alto) e quelli sotto (dall'alto verso il basso). Ogni giocatore dovrà̀ raccogliere le carte necessarie dal tavolo, il più velocemente possibile, per ricostruire il totem appena narrato. A seconda dell’età̀ dei giocatori e della loro abilità è possibile scegliere con quale livello giocare. I livelli si differenziano per numero di elementi che compongono il totem e per la presenza di suggerimenti per descriverlo, con difficoltà crescente dal livello 1 al livello 3.
  • Per esercitare la memoria di lavoro e l’esecuzione di un doppio compito abbiamo svolto un’attività utilizzando i cerchi, la palla ed uno strumento musicale: vengono disposti i cerchi per terra a formare una “strada”, e il bambino dovrà posizionarsi nel primo cerchio con una palla in mano. Prima di muoversi nei cerchi dovrà ascoltare attentamente i suoni prodotti dall’esaminatore: quest’ultimo produrrà una sequenza di suoni sia con le mani che con uno strumento musicale (pianoforte, tamburo). Il bambino dovrà palleggiare con la palla per il numero di volte che l’esaminatore batte le mani, e saltare nei cerchi per il numero di suoni che verranno prodotti dallo strumento.

In seduta individuale sono state svolte altre attività meno strutturate che hanno coinvolto i bambini a livello motorio; si è lavorato principalmente sul controllo inibitorio, sulla memoria di lavoro e l’attenzione, con prove di doppi compiti e di gestione dell’interferenza. Per esempio, servendoci di una palla e due cerchi di colori differenti, abbiamo posizionato questi ultimi distanziati, in modo che fosse chiara la “destra” e la “sinistra”; il bambino, posizionato ad una certa distanza, doveva calciare con il piede destro o sinistro a seconda della consegna della terapista: allo stimolo della parola “destra”, al bimbo era richiesto di calciare con il piede destro nel cerchio medesimo, e viceversa; successivamente l’attività è stata complicata, il bambino avrebbe dovuto fare l’opposto di quanto impartito dalla terapista, ovvero calciare con il piede opposto ed in direzione opposto rispetto a alla consegna; è stato poi inserito un comando “nullo”, alla parola “davanti”, il bambino doveva inibire il movimento non calciando la palla in alcuna direzione.

Un’ulteriore attività svolta in seduta individuale, utilizzando sempre la palla, è stata la seguente: al bambino è stata presentata una breve sequenza di gettoni di diversi colori associati ad un numero, e ad ogni colore del gettone è stato associato un esercizio da fare con la palla, per esempio palleggiare per terra, sul muro o calciare la palla. Seguendo la striscia di istruzioni dei gettoni, il bambino doveva effettuare, nell’ordine proposto, la sequenza degli esercizi corrispondenti ai colori, per il numero di volte indicato. nella prima fase del gioco la consegna è stata lasciata di fronte al bambino in modo che potesse consultarla durante l’attività, successivamente, invece, la sequenza veniva mostrarla per qualche secondo e poi nascosta, in modo che il bambino dovesse ricordarla. L’attività è stata proposta si più livelli, aumentando il numero di gettoni con associati gli esercizi.

Al termine di ogni seduta è stato riservato un momento per la lettura collettiva di libri inbook. Questa attività, oltre a stimolare la comprensione, la memoria e la velocità di processamento, concorre nel favorire l’attenzione sostenuta per la durata della lettura, le capacità di ascolto e la regolazione comportamentale.

 

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