Storia e origini del termine "Sindrome di Down"
Oggigiorno è molto diffusa la conoscenza di quella condizione genetica che comporta la presenza di un terzo cromosoma 21 nel genoma umano, che chiamiamo col nome di Sindrome di Down o Trisomia 21. Attualmente questa sindrome è classificata all’interno dell’ICD-10 come parte delle “Anomalie cromosomiche non classificate altrove” (classi da Q90 a Q99), tra le quali si distinguono: Trisomia 21 da non disgiunzione meiotica, Trisomia 21 da non disgiunzione mitotica (o mosaicismo), Trisomia 21 da traslocazione, Sindrome di Down non specificata, Trisomia 21 S.A.I.
Il nome che oggi utilizziamo per identificare questa forma sindromica non è però sempre stato lo stesso e anche la sua identificazione come sindrome genetica con una propria personalità nosologica non si è subito affermata. Fino almeno agli anni ‘50 del XX secolo si parlava di questa condizione come di una forma di idiozia definita “mongolismo” o “idiozia mongoloide”, termini riferiti alla classificazione proposta dal dottor Down nel 1866.
John Langdon Down era un medico e fisiologo inglese, nato nel 1828 a Torpoint e morto nel 1896 a Londra. Figlio di una famiglia di ceto medio, Down si interessò inizialmente di chimica e farmacia, ma successivamente decise di intraprendere una carriera in medicina, entrando al Royal London Hospital nel 1853. In questo campo ebbe una brillante carriera che lo portò nel 1858 a diventare sovrintendente presso il Royal Earlswood Asylum, struttura completata tra il 1853 e il 1855 a sostituzione dell’istituto costruito presso Park House in Highgate, in cui venivano accolte persone con disabilità mentali, difficoltà di apprendimento o altre difficoltà delle autonomie nelle faccende domestiche (Surrey County Council, 2012). Durante il suo percorso da sovrintendente, Down si interessò molto al mondo di quelli che chiamava “feeble-minded”, studiandone le caratteristiche e le possibilità di educazione e trattamento. Il suo interesse lo spinse fino al tentativo di creare una classificazione che meglio permettesse di identificare le tante forme di malattia mentale osservabili, che fino a quei tempi venivano indistintamente chiamate col termine “idiozia”. Per fare ciò, Down si ispirò al lavoro di Johann Friedrich Blumenbach (pubblicato attraverso l’opera “De generis humani varietate nativa” del 1775), che attraverso studi craniometrici, divise gli esseri umani in cinque categorie razziali, utilizzando criteri di tipo estetico e anatomico (Ward, 1999). Sfruttando gli stessi criteri, Down divise la grande classe degli idioti in cinque famiglie: quella Caucasica, quella Malese, quella Africana, quella Americana e quella Mongola. Si interessò però maggiormente di quest’ultima perché nel suo lavoro di sovrintendente si accorse che era una classe molto numerosa e tutti i suoi membri avevano la particolarità di assomigliarsi tra loro, al punto che «…se messi uno a fianco all’altro, è difficile credere che gli esemplari confrontati non siano figli degli stessi genitori» (Down, 1866).
Nel suo articolo “Observation on an ethnic classification of idiots” del 1866, Down descrive chiaramente le caratteristiche fisiche e comportamentali dei “mongoloidi”. All’aspetto presentano capelli castani, lisci e radi, un viso largo e appiattito con guance rotonde, occhi posizionati obliquamente, con la fessura palpebrale stretta e gli angoli mediali distanti tra loro. Le labbra sono fini ma larghe e la lingua, piuttosto rugosa come la fronte, è lunga e sottile. Il naso è piccolo e la pelle, che ha un leggero colore giallastro, sembra mancare di elasticità, dando l’impressione che sia troppo grande per il corpo che ricopre. A livello comportamentale, i “mongoloidi” mostrano una grande capacità di imitazione e un vivace senso del ridicolo che tinge la loro mimica. Solitamente sono in grado di parlare, anche se il loro linguaggio risulta grossolano e indistinto, e presentano capacità di coordinazione motoria disfunzionali. Inoltre, si caratterizzano per una circolazione sanguigna debole e per la particolarità che gli abbassamenti di temperatura portano con sé dei peggioramenti nelle capacità mentali e fisiche. In generale, però, si tratta di soggetti per cui si possono ottenere molti successi grazie al trattamento, sfruttando anche le loro spiccate capacità imitative.
Fattore molto importante sottolineato da Down è il fatto che tutti i casi di questo tipo di idiozia sono forme congenite, spesso derivate da una degenerazione causata da forme di tubercolosi che colpiscono i genitori.
Dopo la pubblicazione di Down, non molto è più stato scritto rispetto alla sindrome. Solo nel 1876 Fraser e Mitchell ne fecero una loro descrizione clinica, riportando il caso di un paziente. Pur avendola identificata con il nome di “Kalmuc idiocy”, anche questi due studiosi descrivono una condizione congenita rappresentante uno stato di incompleto sviluppo. Mitchell in particolare si interessa di capirne la relazione con l’età materna e la posizione nell’ordine di nascita, notando che si tratta spesso di figli nati da madri non più tanto giovani e che sono gli ultimi ad essere nati tra i loro fratelli (Lilian Serief Zihni, 1989). Nel loro report, inoltre, descrivono i casi di Trisomia 21 affermando che: «…se li mettessimo tutti insieme, troveremmo che si assomigliano tra loro in modo impressionante. Ma l’aspetto più impressionante è la somiglianza tra di loro per quel che riguarda il carattere, le capacità, i gusti, le abitudini, i difetti, le tendenze…» (Veronica Fragnito, 2012).
Nello stesso periodo in cui Fraser e Mitchell diedero un contributo alla descrizione della sindrome di Down, un'altra figura si inserisce nel panorama della psichiatria infantile. A cavallo tra XIX e XX secolo, il dottor George E. Shuttleworth si interessò al tema del mongolismo offrendo un ulteriore punto di vista. Shuttleworth fu molto influenzato dalle idee di Down, per il quale lavorò come assistente medico presso il Royal Earlswood Asylum per poi prenderne il posto come sovrintendente nel 1870. Anche lui riteneva che i soggetti affetti da “mongolismo” appartenessero tutti alla stessa classe di funzionamento mentale e fisico e affermò che in molti casi si trattava di soggetti nati da madri che durante la gravidanza fossero state malate di una qualche patologia fisica o debilitate da un periodo depressivo o altro disturbo dell’equilibrio emotivo:
«In these cases there is no hereditary mental taint, no consanguinity of parents to be traced, but in almost all it is found that there has been some lowering of the maternal vigour, either through ill health, advancing years or, it may be some depressing emotion during gestation» (Lilian Serief Zihni, 1989).
In realtà, però, Shuttlerworth non trovò mai nessun riscontro evidente di quest’ultima ipotesi, così come non ne trovò per l’ipotesi già esposta da Down che una causa della sindrome fosse l’affezione tubercolotica dei genitori. Dalle sue osservazioni come sovrintendente, ne concluse che non esisteva una sola causa scatenante, ma che ce ne fossero molte che insieme concorrono a provocare la nascita di un bambino “mongolo”. In particolare, notò che molti dei bambini affetti erano nati da madri con un’età piuttosto avanzata e che erano gli ultimi nati di famiglie numerose (in accordo con il pensiero di Mitchell). L’idea che tra questi due fattori e la sindrome ci fosse un legame diventò più forte nel 1909 attraverso l’indagine che Shuttleworth svolse su 350 casi affetti. L’indagine non aiutò, però, a comprendere con precisione quale dei due fattori ne fosse la causa principale (AGPD Onlus, 2017).
Sempre a cavallo tra XIX e XX secolo stavano emergendo diversi studi genetici che da una parte si occupavano di scoprire il numero di cromosomi che componevano il genoma umano e dall’altra si preoccupavano di comprendere se nei cromosomi fossero contenuti i geni responsabili delle manifestazioni fenotipiche (come era stato già sostenuto da Mendel) e come questi geni potessero essere trasmessi tra le diverse generazioni. All’interno di questo ricco panorama, iniziò a farsi strada il sospetto secondo il quale nella sindrome di Down potessero essere implicate alterazioni cromosomiche. Nel 1932 Charles B. Davenport ipotizzò che le disabilità intellettive, compresa la condizione legata alla sindrome di Down, potessero essere causate da irregolarità cromosomiche. In contemporanea, Petrus J. Waardenburg propose la sua idea per cui una possibile spiegazione alla sindrome fosse la non-disgiunzione dei cromosomi a cui conseguiva una monosomia o una trisomia, ma la sua tesi non ebbe molto credito fino a che non fu affermata la scoperta che il numero esatto di cromosomi nel corredo genetico umano era di 46 (David Patterson, 2005).
L’ipotesi che l’idiozia mongoloide avesse origini genetiche fu confermata solo nel 1959, grazie allo studio di Lejeune Jérôme, Raymon Turpin e Marthe Gautier. Nato a Montrouge il 13 giugno 1926 e morto a Parigi il 3 aprile 1994, Lejeuene inizia i suoi studi in medicina nel 1945, a Parigi, e li termina nel 1951, presentando una tesi che ottiene i riconoscimenti del professor Raymond Turpin. Il professore all’epoca stava conducendo degli studi di genetica sul mongolismo e propone a Jérôme di diventare il suo assistente. Inizialmente Lejeune si dedica alla dermatoglifia, cioè lo studio delle linee della mano e delle impronte digitali. Le sue analisi, che compie al fianco di Turpin, lo portano a mettere in evidenza la correlazione tra le linee della mano e le caratteristiche fisiche e psichiche dell’individuo, sostenuta dal fatto che quei solchi nella pelle si vanno formando in un periodo molto precoce dello sviluppo dell’embrione, che risale approssimativamente al primo mese di gestazione. Dato questo presupposto, Lejeune e Turpin arrivano, nel 1953, ad affermare che sia possibile diagnosticare l’idiozia mongoloide attraverso lo studio delle impronte digitali, in particolare per la presenza di un solco palmare unico tipico di questi soggetti. I loro studi sulla sindrome di Down non si fermano qui e continuano prendendo come punto di riferimento l’ipotesi esposta da Turpin nel 1934 che il mongolismo abbia una base genetica. Per dimostrare questa tesi, creano, insieme alla collega Marthe Gautier, un laboratorio per la cultura tissutale sfruttando una nuova tecnica proveniente dagli Stati Uniti. Il lavoro dei tre raggiunge il massimo successo nel 1959, anno in cui pubblicano una serie di articoli che sottolineano la presenza di un terzo cromosoma 21 nel genoma di soggetti Down (Wikipedia, 2016).
Negli stessi anni in cui Lejeune fece la sua scoperta, il mondo scientifico dibatteva sull’uso del termine “mongolismo” per identificare la sindrome. Le prime proposte per una diversa terminologia sono comparse negli anni ’60 del XX secolo, come spiega Norman Howard-Jones nel suo articolo del 1979. Un primo uso del termine “Down’s disease” (equivalente dell’italiano Sindrome di Down) fa capolino nell’Index medicus (indice delle principali riviste di medicina e di scienze biomediche) nel 1960 . L’anno successivo, il giornale Lancet pubblicò una lettera, patrocinata da diciannove firmatari, tra cui otto americani, cinque britannici, due francesi, un danese, un giapponese, uno svedese e uno svizzero, che sottolineavano l’urgenza di favorire l’uso dei termini “anomalia di Langdon-Down”, “sindrome di Down”, “acromicria congenita” o “anomalia da trisomia 21” per abbandonare il termine “mongolismo”, in quanto vi era una maggiore presenza di ricercatori cinesi e giapponesi attivi sull’argomento per i quali risultava imbarazzante l’uso di un simile termine. Anche Batchelor, nel 1969, sottolinea il fatto che il riferimento alla razza mongola, strettamente legato al termine proposto storicamente da Down proprio perché lui stesso faceva riferimento a criteri etnici, è superficiale, in quanto la fisiognomia mongola è tipica anche di chi non ha nessuna malattia mentale ma che semplicemente appartiene a quella razza.
Tutte queste discussioni, associate all’ingresso della Repubblica Popolare Mongola nell’OMS nel 1965, hanno quindi sempre più avvalorato l’uso del nuovo termine “Sindrome di Down”, che ha infine trovato un’ufficializzazione nel 1975 quando è stato inserito nel Medical subject healings. (Norman Howard-Jones, 1979).
I cambiamenti storici clinici e socio-culturali
La concezione delle cause e del trattamento della disabilità intellettiva ha seguito una particolare evoluzione, a partire già dalle epoche antiche. Come ci spiega Michele Gaverini, nel suo libro del 2008, fu a partire dal Rinascimento che si cercò di osservare questi fenomeni con un’ottica scientifica, anche se era da molto radicato il pensiero che la malattia fosse una punizione divina e che il malato mentale fosse in realtà una persona indemoniata o una strega, cioè figure che dovessero essere isolate dal resto della comunità. Quest’affermata concezione di origine cristiana fu un ostacolo alla ricerca scientifica clinica. Alcuni passi nel senso della ricerca della cura delle malattie mentali, vennero fatti agli inizi del XIX secolo grazie al medico Philippe Pinel che offrì una visione dei malati mentali rinchiusi nei manicomi come di esseri umani e non di esseri degni solo di emarginazione. Nella seconda metà dell’Ottocento si inizia quindi a legiferare in materia e a dare spazio alla ricerca medica, insieme alla quale si vanno sviluppando indagini sulla psiche umana che portano alla nascita della psicologia. Si conserva però molto fortemente l’idea che la vita del malato mentale sia meno importante della vita di altri esseri umani, idea che assume prospettive devastanti soprattutto durante il periodo dei totalitarismi (in Germania per esempio viene teorizzata l’estinzione dei malati mentali poi concretizzata con la legge sulla “morte di grazia” del 1939; tra il 1921 e il 1923 vengono varate leggi sulla sterilizzazione in Pennsylvania, Delaware e Montana (The Eugenics Archives, 2017); nell’Italia fascista i malati mentali erano accomunati ai criminali). Come afferma Michele Gaverini: «Nella seconda metà del XX secolo i manicomi erano ancora visti come un luogo di reclusione per chi assumeva comportamenti bizzarri, di disturbo o pericolosi, tuttavia, i grandi passi avanti fatti dalla psichiatria e dalla psicologia aggiunti ad una spinta etico-morale al cambiamento hanno portato a migliori condizioni di vita all’interno degli ospedali psichiatrici e a metodi di cura più umani ed efficaci». Per la cura delle malattie mentali vennero quindi proposte sia cure farmacologiche sia interventi psicologici, individuali e familiari, anche se in alcuni casi non vi erano basi scientifiche solide a supporto. Questo riguardava soprattutto il campo della psichiatria che si vide contrapposta negli anni Settanta dal movimento anti-psichiatrico, il cui maggior esponente italiano fu Franco Basaglia con la sua riforma psichiatrica del 1978. Essa si pone al centro di un periodo di affermazione del soggetto con disabilità come persona, in cui andavano diffondendosi idee di inclusione e integrazione. In Italia questi concetti hanno trovato riscontro nella promulgazione della legge n. 104 del 5 Febbraio 1992 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che nell’Articolo 1 afferma le sue finalità:
«La Repubblica: a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società; b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali; c) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica ed economica della persona handicappata; d) predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale della persona handicappata» (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2009). A livello internazionale l’accettazione dei diritti e dell’integrazione della persona con disabilità si è concretizzata con l’approvazione nel 2006 della “Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità” che al comma 1 dell’Articolo 1 afferma che: «Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro inerente dignità» (Saulle, 2007). Inoltre, si sono andate sviluppando una serie di strutture assistenziali, come i centri diurni, centri occupazionali e centri socio-riabilitativi, cooperative sociali e associazioni che hanno fornito un sostegno medico, sociale e finanziario ai soggetti con disabilità e alle loro famiglie.
Chiarito il quadro storico e sociale che si aggira introno alla disabilità intellettiva, si cerca ora di esporre le principali teorie che hanno avuto un’influenza nel corso della storia oltre che sul concetto di Trisomia 21 anche sul concetto di disabilità mentale in generale 3 .
Uno dei pionieri della riabilitazione delle malattie mentali fu Édouard Séguin (1812- 1880). Egli ha esposto la sua teoria sulla categoria degli idioti nel libro “Traitement moral, hygène et éducation des idiots” (1846). Partendo dalle idee esposte da figure precedenti a lui come Esquirol e Belhomme, Séguin ha cercato di definire diverse categorie di malattie mentali, distinguendo per ognuna di queste le cause, l’epoca di insorgenza e le caratteristiche principali. Ha quindi identificato quattro classi di malati mentali: gli idioti, gli imbecilli, i cretini e i dementi.
Con idiozia, si intende un disturbo congenito o conseguente a degli incidenti che sopraggiungono nei primi momenti di vita e che si presenta come una forma di incapacità globale. I sintomi e i disturbi “nervosi” compaiono fin da subito per la gravità che li caratterizza o peggiorano e si stabilizzano entro il primo periodo di vita.
Con il termine imbecille si parla di un disturbo conseguente a cause accidentali che si presenta in periodi successivi al primo periodo di sviluppo. La gravità del disturbo è correlata all’azione della causa; per esempio se si trattasse di una forma febbrile, i sintomi si mostrerebbero subito per la gravità che li caratterizza, se invece la causa fosse di tipo cronico i sintomi andrebbero peggiorando fintanto che la causa agisce sul soggetto.
Il cretinismo è una forma endemica, che può presentarsi anche con cause accidentali o ereditarie, ma di difficile riconoscimento nei primi anni di vita. La conseguenza del cretinismo è uno stato di idiozia o di imbecillità con una gravità diversa dei sintomi a seconda delle modalità e dell’epoca di invasione della causa. Molto spesso però i sintomi peggiorano progressivamente.
La demenza è invece una condizione che più tipicamente si presenta in epoche molto successive alla nascita ed è sempre di tipo progressivo.
Oltre a identificare le categorie principali, Séguin descrive anche le principali caratteristiche delle diverse classi di malattia mentale, confrontandole tra loro. Come prima cosa, riconosce la possibilità di assenza di linguaggio o di una sua presenza ma in una forma “inintelligibile”. L’assenza di linguaggio, nel caso degli idioti e dei cretini, è imputata alla mancanza di intelligenza e alla difficoltà di movimento degli organi utili a produrre la parola. Nel caso, invece, di dementi e imbecilli, la difficoltà si pone a livello della volontà, come se fossero incapaci di coordinare la loro volontà alle loro possibilità di movimento.
Il grado di intelligenza non è strettamente legato alla classe nosografica ma solo alla gravità del disturbo, mentre il modo con cui le capacità intellettive vengono applicate nel mondo esterno ha un maggiore legame col tipo di patologia. Gli idioti possono anche essere più intelligenti degli imbecilli o dei cretini, ma non riescono a svincolare le loro acquisizioni dai loro bisogni e riescono a compiere solo lavori che richiedono movimenti semplici e ripetuti. Gli imbecilli possono compiere lavori più complessi, ma che possono essere automatizzati e che quindi non richiedano un’attenzione particolare. I due casi appena descritti sono assimilabili al caso del cretinismo, a seconda del profilo che presenta. Infine, per la demenza, sono la gravità del caso, la fase acuta o cronica della causa e le eventuali complicanze concomitanti a definire le sue possibilità di applicazione delle competenze cognitive.
La sensibilità tattile, termica, all’elettricità e agli agenti atmosferici è maggiormente compromessa nel caso di imbecilli, cretini e dementi, mentre nel caso degli idioti tende a estremizzarsi, anche quando sembra trattarsi di un caso di insensibilità. Nel caso, però, del gusto e dell’olfatto sono gli idioti e i cretini a mostrare una maggiore compromissione rispetto agli imbecilli e ai dementi.
Per quanto riguarda la motilità sono gli idioti a essere maggiormente compromessi, presentando tic nervosi o disequilibri.
Séguin, nella sua comparazione, definisce anche le abitudini e gli istinti dei soggetti con malattie mentali. Rispetto agli istinti, quelli dell’idiota sono dolci verso le persone e più aggressivi verso le cose, diversamente dall’imbecille che si interessa meno per gli oggetti e mostra le proprie simpatie e antipatie per le persone in modo estremo. Anche i dementi si interessano più alle persone che alle cose, ma con delle difficoltà nella gestione delle relazioni. Il cretino deve essere invece considerato a seconda che il suo caso si avvicini di più all’imbecillità o all’idiozia. Per quanto riguarda invece le abitudini, possiamo considerare come simili quelle dell’idiota, del cretino e del demente. In questi casi gli atti che caratterizzano le loro abitudini tendono alla ripetizione, più di quanto succeda nei casi di imbecillità. Anche la forma del cranio risulta essere una caratteristica importante da considerare. Nel caso dell’idiozia assume delle forme particolari, diverse dalla norma. Le forme sono diverse ma in tutti i casi, se non si presenta idrocefalia, la circonferenza cranica è sotto la media, a causa di uno sviluppo cerebrale non completo. Diversamente, l’imbecille ha uno sviluppo pressoché normale delle masse cerebrali e quindi la forma e le dimensioni del cranio non subiscono importanti alterazioni. Si evidenzia, piuttosto, una forte anomalia nel senso di un cranio più piccolo della norma quando la causa è molto precoce. Nel caso dei cretini, la caratteristica principale si osserva in un “rammollimento” delle strutture ossee del cranio, mentre le masse cerebrali subiscono dei danni sulla base della causa che ha scatenato il disturbo. Infine, nei casi di demenza non si osserveranno alterazioni visibili dall’esterno ma ci saranno solo alterazioni che coinvolgono le masse interne alla teca cranica.
Questo confronto, secondo Séguin è fondamentale per la scelta di quello che oggi chiameremmo progetto riabilitativo: «Ora, queste distinzioni sono ancora più importanti perché servono da punto di partenza per l’igiene, per l’educazione e per il trattamento morale di questi soggetti. Perché se si confonde un imbecille con un idiota, oppure un idiota primitivo con un soggetto idiotizzato dal cretinismo da dove si comincerà? […] è chiaro che qui la distinzione è il fatto capitale, il culmine, il fatto che dominerà tutta la teoria e chiarirà tutta la pratica; e se, conseguentemente, la scienza pratica si trovasse direttamente collegata alla distinzione di genere che ho stabilito, sarebbe logica e pertanto applicabile, sarebbe evidente che la distinzione precisa delle specie e dei generi permetterà di applicare con precisione, e nell’ordine dei bisogni, quelle formule che esporrò più avanti». Da questo estratto si evince un primo principio del trattamento che Séguin ha ipotizzato per le malattie mentali e cioè quello di una buona diagnosi: distinguere i casi permette di definire meglio le caratteristiche di ogni soggetto e, sulla base di ciò, commisurare gli interventi necessari. Dopo la diagnosi segue il trattamento vero e proprio, che Séguin struttura attraverso tre punti, cioè l’educazione, l’igiene e il trattamento morale. Mentre per quanto riguarda l’igiene si riferisce alle pratiche già conosciute dalla medicina dell’epoca che favoriscono la salute fisica del soggetto e il suo sviluppo, per l’educazione e il trattamento morale offre nuovi spunti, che potrebbero far riflettere anche sul sistema di educazione usato con bambini sani.
L’educazione ha come obiettivo principale quello di offrire all’idiota la possibilità di avere un legame con il mondo, di poter essere più attivo tanto nei rapporti sociali quanto nelle attività, anche di tipo lavorativo. Obiettivo finale, infatti, del trattamento è quello di rendere gli idioti parte della società o almeno parte utile per la famiglia, cioè renderli capaci al livello di soggetti normodotati della stessa età. Per arrivare a questo, si cercherà di «…regolarizzare l’uso dei sensi, di moltiplicare le nozioni, di fecondare le idee, i desideri, le passioni.» ed è necessario perseguire l’educazione tanto dei sensi quanto dell’intelletto e della socialità. In particolare, Séguin identifica tre caratteristiche dell’uomo che sono l’attività, l’intelligenza e la volontà. Principalmente, ci si occuperà dell’educazione all’attività perché negli idioti si manifesta sempre come qualcosa di irregolare e riguarda funzioni sia generali sia specifiche, sia di abitudini individuali che sociali del soggetto. Inoltre, si tratta di un aspetto primario, la cui regolarizzazione favorisce l’educazione degli altri due elementi. L’educazione dell’attività deve comprendere da una parte la motilità e dall’altra la sensibilità, lavorando quindi sia sulla possibilità di usare i sensi per percepire il mondo sia sulle possibilità del corpo di agire sul mondo. Successivamente all’educazione della motilità e della sensorialità si pone l’educazione dell’intelletto, che deve rendere funzionanti le facoltà del soggetto nell’ordine dell’astratto. Il percorso educativo deve infatti volgere dal concreto all’astratto e dal semplice al complesso.
Al fianco dell’educazione si pone il cardine del pensiero di Séguin e cioè il trattamento morale. Esso viene definito come un «impiego ragionato di tutti i mezzi adatti a sviluppare e regolarizzare l’attività, l’intelligenza e le passioni degli idioti». I mezzi a cui fa riferimento rientrano nel campo del rapporto interpersonale, che rappresenta il senso “morale” del trattamento. Séguin spiega infatti che non cerca di occuparsi della moralità in senso religioso (come fanno molti uomini di chiesa che si occupano di malati mentali) ma in senso civile e umano. Possiamo distinguerne tre tipi di mezzi all’interno del trattamento morale: alcuni personali del maestro, alcuni personali del soggetto e altri che sono degli intermediari tra il soggetto e il maestro. Principalmente sarà il maestro, attraverso i mezzi a sua disposizione, ad alternare momenti di maggiore flessibilità a momenti di maggiore autorità nei confronti del bambino o ragazzo, tenendo conto anche delle fasi che caratterizzano l’educazione. In questo modo, il maestro dovrà cercare di far prevalere le capacità intellettive sulle tendenze istintive e permetterà al bambino o al ragazzo di interrogarsi sulle proprie azioni per giudicarne da solo la moralità.
In sintesi, Séguin afferma che sia possibile educare i malati mentali e renderli parte della società. Ciò è possibile solo se si offre loro un’educazione che parta dallo sviluppo di funzioni sensoriali e motorie, legate al concreto, che forniscano una prima possibilità di approcciarsi al mondo, e arrivi alla sollecitazione di funzioni intellettive e sociali, più legate al mondo dell’astratto, non solo attraverso la somministrazione di esercizi specifici, ma anche attraverso la creazione di una relazione tra maestro e ragazzo che spinga sempre più nella direzione di una consapevolezza del Sé.
John Langdon Down (1828-1896), nella sua opera del 1887, si ispira al lavoro di Séguin per descrivere una sua metodologia di intervento nel campo delle malattie mentali. Down inizia proprio affermando che le malattie mentali non sono mai state considerate oggetto di interesse terapeutico e tanto meno di interesse educativo, fino a che non se ne interessò Séguin presso l’ospedale di Bicêtre. Inoltre, la nomenclatura usata per indicare i diversi casi usava termini come “idioti” e “imbecilli” che ritiene non essere adeguati e poco distinguibili se usati come categoria nosografica. Propone quindi l’uso del termine “feeble-minded”, cioè “deboli di mente”, per definire condizioni di instabilità del sistema nervoso che si instaurano nel periodo gestazionale e nel primo periodo di sviluppo, e l’uso del termine “imbecile” per definire situazioni più simili alla demenza, in cui l’instaurarsi della malattia è successivo al periodo di sviluppo e si caratterizza per una progressività nel deterioramento fisico e mentale. Soprattutto nel caso dei “deboli di mente”, Down riconosce che si possono distinguere molti casi diversi e cerca quindi di farne una categorizzazione. Giunge così alla conclusione che esistano tre classi principali: quella dei “congenital”, quella degli “accidental”e quella dei “developmental”.
La prima categoria riguarda quelle condizioni in cui la malattia si è instaurata prima della nascita e cioè per cause congenite ed ereditarie. Nell’anamnesi di questi soggetti difficilmente si trova una causa precisa a cui far risalire la colpa del danno neurologico. Sono, inoltre, casi facilmente riconoscibili perché nel loro aspetto si notato caratteristiche tipiche di alcuni classi etniche, come Down aveva già sottolineato nell’articolo scritto nel 1866.
La seconda categoria si riferisce invece a soggetti la cui patologia ha evidenti origini accidentali post-natali. Tra le principali cause si annoverano stati infiammatori del sistema nervoso di varia origine, lesioni traumatiche e danni farmacologici. Questi soggetti sono di facile individuazione in quanto mancano degli aspetti fisici dei deboli di mente per cause congenite e inoltre l’anamnesi chiarisce facilmente le cause sottostanti.
L’ultima categoria, cioè quella dei “developmental”, racchiude soggetti che non presentano fin da subito segni chiari di malattia mentale ma che non presentano nemmeno nella loro storia un evento accidentale che possa essere definito come una causa. Diversamente, questi bambini mostrano segni di sofferenza, più o meno marcati, alla prima o alla seconda dentizione, come se ci fosse un crollo delle funzionalità del sistema nervoso. All’aspetto fisico, non presentano nessun segno riconducibile a una delle categorie etniche delle malattie mentali, ma presentano in buona percentuale una prominenza al centro dell’osso frontale. Down ipotizza che alla base di questa forma di disturbo vi siano delle cause che sono incorse negli ultimi mesi di gestazione provocando un arresto dello sviluppo dei centri cerebrali e dell’ossificazione del cranio. Questo provoca la formazione di un sistema nervoso che regge con difficoltà i cambiamenti tipici dello sviluppo e che quindi, alle prime sollecitazioni, collassa. Questi bambini presentano spesso disordini di tipo comportamentale oltre che ritardi intellettivi e di linguaggio. Sono anche soggetti a forti mal di testa, soprattutto dopo uno sforzo intellettuale.
Oltre alle differenze nella presentazione clinica dei soggetti, Down riflette sulla presenza di alcuni possibili fattori di rischio che aumentano la probabilità che nasca un bambino con una patologia mentale, come l’alcolismo, la consanguineità dei genitori, condizioni come la sordità e la cecità che privano il soggetto di alcuni sensi, ma in particolare sottolinea l’importanza della salute mentale e fisica dei genitori. Fattori come l‘alcolismo, infezioni, eventi febbrili, soprattutto a carico della madre, a cui possiamo aggiungere difficoltà durante il parto, hanno un’influenza sui sistemi organici del feto. Down nota che molto spesso ci sono anche dei fattori di familiarità, come la presenza di un fratello o di un altro parente che già manifesta una malattia, che possono aumentare il rischio. Inoltre, osserva che alcuni dei parenti del bambino non hanno una patologia conclamata ma il loro aspetto fisico ricorda per alcuni versi quello dei disordini di tipo congenito, come se ci fosse un fattore genetico predisponente che, per degenerazione nei diversi discendenti, porta alla manifestazione della patologia. Down porta l’attenzione dei fattori di rischio anche sulle condizioni emotive dei genitori. La presenza di disturbi emotivi o l’avvenimento di momenti emotivamente carichi può provocare delle interferenze nella gametogenesi maschile ma soprattutto nella crescita del feto.
Al termine di tutte queste riflessioni, Down propone una sua idea di trattamento dei “feeble-minded”, nella quale si notato molte similitudini con la teoria esposta da Séguin. Innanzitutto, Down afferma che il trattamento deve essere precoce, in modo da evitare l’instaurarsi di cattive abitudini, e che l’obiettivo principale sia quello di rendere il soggetto un membro utile e collaborativo della società e della famiglia.
Il trattamento proposto da Down si sviluppa da una parte in un intervento medico e fisico e dall’altra in una riabilitazione morale e intellettuale. La base di tutto il trattamento è rappresentata dall’intervento medico, nel senso di mantenere il soggetto nel migliore stato di salute possibile. Questo si ottiene prendendosi cura del soggetto con una dieta variegata, mantenendo una buona igiene personale e creando stanze ampie e areate in cui può soggiornare. Subito dopo, segue la terapia fisica che, coprendo buona parte del trattamento, rivolge i suoi sforzi allo scopo di rendere volontari i movimenti automatici, che caratterizzano l’attività motoria dei soggetti con infermità mentale. Il lavoro fisico deve partire da movimenti semplici per arrivare a quelli più complessi, favorendo la coordinazione consapevole dei muscoli, a supporto della produzione di movimenti volontari che possono diventare parte della vita di tutti i giorni. È un lavoro che necessita di molte attenzioni e deve essere eseguito con precisione; non deve limitarsi ai gruppi muscolari maggiori ma va esteso anche ai gruppi muscolari bucco-facciali per favorire anche il miglioramento delle capacità di produzione linguistica. Down afferma, però, che questo lavoro non può avere successo se non è accompagnato dalla possibilità di mettere il soggetto in contatto con il mondo, aspetto che favorisce la qualità di tutti i centri nervosi.
I miglioramenti fisici e mentali, possibili grazie a processi di sviluppo fisiologico, devono essere quindi accompagnati da un educazione morale e dalla riabilitazione intellettuale.
Per quanto riguarda l’educazione morale, essa richiede che si insegni al soggetto a subordinare la propria volontà a quella di qualcun altro per apprendere quali sono i comportamenti più adeguati al contesto sociale. A questo scopo, il maestro sfrutterà un metodo educativo basato sul rifornimento e la privazione del suo affetto, cioè usando rinforzi positivi e negativi in conseguenza del comportamento del soggetto. Così facendo, il ragazzo creerà delle associazioni tra il proprio comportamento e quello del maestro, comprendendo la moralità dei propri atteggiamenti. Non dovranno mai essere usate punizioni corporali o deprivazioni delle condizioni di igiene e nutrizione adeguate.
Per quanto riguarda, invece, la riabilitazione intellettuale, essa deve iniziare dallo sviluppo dei sensi, per aiutare il ragazzo ad apprezzare tutte le caratteristiche che fanno parte di uno stimolo, sia esso visivo, tattile, sonoro, odoroso o gustativo. Come per la terapia fisica, anche in questo caso gli stimoli dovranno essere presentati prima nel modo più semplice possibile e poi nel modo più complesso, per ampliarne la conoscenza. È, inoltre, necessario che l’educazione dei sensi rimanga sempre nel mondo del concreto.
Associando così l’educazione dei sensi e quella del movimento, si possono sviluppare le capacità razionali e riflessive del soggetto. L’insieme di questi trattamenti si completa nel momento in cui il ragazzo impara a compiere azioni del quotidiano in autonomia, come mangiare, vestirsi e camminare, e ad apprendere azioni legate a situazioni tipiche della vita di un adulto, ad esempio quando si fanno spese in negozio, o a lavori, come quello del muratore o del falegname.
Come Séguin, Down afferma che la pura conoscenza mnemonica ha poco valore presso questi soggetti, mentre è molto più utile offrire loro delle possibilità di azione nel mondo, perché questo li renderà felici.
Down pone anche un piccolo accento sulle condizioni emotive del soggetto. Ritiene, infatti, fondamentale che l’educazione possa avvenire in un ambiente egualitario, in cui tutti i bambini abbiano lo stesso livello mentale e gli stessi interessi. All’opposto, inserire un bambino “feeble-minded” in una classe fatta di bambini normodotati porterebbe inevitabilmente al suo isolamento da parte dei compagni, situazione fortemente da evitare se si voglio vedere dei miglioramenti. Down ritiene che l’isolamento comporti solo un peggioramento delle condizioni del soggetto. È perciò necessario che il bambino possa vivere in un contesto dove tutto è pensato a suo beneficio e dove possano crearsi delle buone relazioni con i compagni, allo scopo di offrirgli un ambiente che lo renda sereno e gioioso e così anche più attivo e più facilmente suscettibile a miglioramenti.
Le ipotesi di intervento appena esposte, erano chiaramente applicabili anche alla sindrome di Down, che, già a partire dalle affermazioni del dottor Down nel 1866 e poi durante la fine del XIX secolo, era di interesse per il fatto che si proponesse come una peculiare categoria di idiozia. Nelle figure successive a Down, però, l’interesse per il loro trattamento in senso educativo diminuì.
George Edward Shuttelworth (1842-1928), assistente medico presso il Royal Earlswood Asylum nel periodo in cui fu sovrintendente il dottor Down per poi diventare lui stesso sovrintendente, si interessò ancora dell’educabilità degli idioti. Rispetto all’idiozia mongoloide in particolare, le sue supposizioni e il suo interesse per la sindrome furono molto influenzati dalle idee di Down. Nel periodo in cui fu sovrintendente, come scrive L. S. Zihni nella sua opera del 1989, si può notare che tra i documenti compilati per l’ingresso presso la struttura, molti dei casi di soggetti Down venivano registrati come nati da madri con disordini mentali o che avessero avuto disturbi emotivi durante la gravidanza. Shuttleworth si interessò di indagare anche se i genitori di questi soggetti fossero ptisici o alcolisti e se vi fossero mai stai altri casi di idiozia in famiglia. Secondo lui, nessuno di tutti questi fattori era la causa univoca della sindrome, supponendo invece che fosse una mistura di fattori a concorrere alla nascita di un bambino con “idiozia” (non per forza del tipo mongoloide). Durante le sue osservazioni, arrivò a rigettare l’idea che l’alcolismo fosse una causa importante e soprattutto diede sempre meno importanza alle cause per tubercolosi, diversamente da come fece Down, notando che erano diverse le tipologie di idioti che ne morivano, a favore perciò del fatto che potesse non essere una caratteristica peculiare del mongolismo ma più in generale delle malattie mentali. Avanzò invece l’ipotesi che alla base delle nascite di bambini mongoloidi vi fosse un’influenza dovuta all’età avanzata della madre.
Sempre sulla scia di Down, Shuttleworth si pose come obiettivo di trattamento quello di sviluppare le capacità intellettive latenti e di infondere una certa disciplina per portare i ragazzi a essere in grado di compiere dei lavori.
Altri autori, seguirono strade differenti nell’individuazione delle cause e del tipo di trattamento che potessero essere connesse al mongolismo ma anche alla macrocategoria delle malattie mentali. George Alexander Sutherland (1861-1939) ebbe una forte influenza in questo ipotizzando che una delle cause della sindrome fosse la sifilide. Credeva che questa patologia potesse creare disordini delle cellule germinali parentali causando la nascita di un bambino con idiozia. Non solo, Sutherland ipotizzò anche che alla base della sindrome di Down vi fosse un disordine endocrino, nello specifico legato agli ormoni tiroidei, per la forte somiglianza che notò con il cretinismo. Seguendo queste ipotesi, Sutherland cercò di trattare questi soggetti con trattamenti anti-sifilide e ormoni. Ovviamente non ottenne grandi risultati se non in quei soggetti che presentavano effettivamente disordini di quel tipo, ma l’idea, in particolare quella relativa ai disordini ormonali, ebbe molta influenza e molti cercarono di avvalorarne la veridicità.
Francis Graham Crookshank (1873-1933) fu uno di questi. Similmente a come accennò Down nel 1887 al fatto che le persone con idiozia avessero le caratteristiche di una razza primitiva, Crookshank crede che i mongoloidi non abbiano terminato il processo di sviluppo filogenetico che caratterizza l’epoca gestazionale, fermandosi a uno stadio pari a quello dei primati nostri antenati (tra cui gli orangotango). Nella sua idea evoluzionistica, Crookshank credeva che vi fossero diverse popolazioni includibili sotto l’etichetta di “mongoli”, tra cui i celtici, gli iberici e i mediterranei, accomunate da caratteristiche fisiche e mentali che ipotizza possano essere dovute a fattori endocrini. Oltre a questo, ipotizza che alla base della sindrome vi siano dei fattori antropologici, legati alla possibilità che le famiglie di questi soggetti siano stati parte di mescolanze con sangue della razza mongola in epoche precedenti. Sulla base del pensiero che la sindrome di Down fosse causata da disfunzioni ormonali, Crookshank ha ipotizzato che i sintomi caratteristici della sindrome siano dovuti a questo fattore, insieme all’azione di fattori ambientali. Per questo motivo, il trattamento era volto sia al cambiamento della persona sia a quello dell’ambiente, con l’obiettivo di procurare armonia al soggetto che si trovava per sua sfortuna in un ambiente sfavorevole. Per fare ciò, Crookshank affidò parte del trattamento a cure ormonali e parte alla modificazione dell’ambiente, passando per la creazione di un’atmosfera simile a quella delle foreste per la cura dei disturbi respiratori e arrivando fino alla scelta di una dieta ricca di grassi e carne, aspetti che si avvicinavano alla vita degli orangotango.
Al pensiero di Crookshank si contrappose quello di Penrose e Bleyer. Lionel Penrose (1898-1972) si interessò alla sindrome di Down e alla malattia mentale in generale durante un’indagine svolta a Colchester, per conto della Royal Eastern Counties Institution, a seguito di un sondaggio svolto da E. O. Lewis nel 1929 che mostrava un aumento dell’incidenza delle malattie mentali nelle zone rurali. Attraverso questo studio, Penrose iniziò a interessarsi alla sindrome credendo che fosse un mezzo per comprendere anche le altre tipologie di malattie mentali. Iniziò quindi a fare delle osservazioni che in principio si basarono sulle caratteristiche che si sono sempre pensate come tipiche della sindrome (come ad esempio la piega epicantica e la linea palmare unica), valutando la differenza nella distribuzione statistica del numero di caratteristiche presenti in ogni soggetto tra un gruppo di bambini normali e uno di soggetti mongoloidi. Da queste prime osservazioni notò che alcune caratteristiche sono più specificatamente diagnostiche di altre e che sulla base delle distribuzioni statistiche si può pensare al mongolismo come a un’entità nosografica a sé stante. Penrose era inoltre convinto che la causa della sindrome derivasse da una combinazione tra fattori ambientali e genetici, non accettando l’idea di Crookshank per cui tra i fattori genetici potesse esserci un fattore antropologico per il quale vi fosse stata una mescolanza con sangue di razza mongola. Per screditare oggettivamente quest’ipotesi, Penrose studiò la frequenza dei diversi tipi di gruppo sanguigno in un campione di soggetti Down, per capire se fosse più vicina a quella inglese, a quella di popolazioni orientali o a quella degli orangotango. Dalla sua analisi ne conseguì che la frequenza dei gruppi sanguigni era molto simile a quella della popolazione inglese, con una bassa frequenza per il tipo B, determinando così che non vi erano relazioni con le razze mongole o con gli orangotango.
Adrien Bleyer (1879-1965), screditò ulteriormente l’idea di Crookshank, descrivendo una decina di casi di bambini di razza nera con tratti mongoloidi, senza che vi siano state contaminazioni con sangue di razza mongola, dimostrando invece quello che era stato anche un assunto di Down nel 1866, che l’idiozia mongoloide si può presentare in tutte le razze. Secondo Bleyer, alla base della sindrome vi era un disordine genetico conseguente a una non-disgiunzione in almeno uno dei due gameti parentali, come scrisse all’interno dell’American Journal of Diseases of Childhood nel 1934.
Quest’idea di Bleyer si inserisce in un contesto storico ricco di ricerche genetiche. Infatti, nei primi trent’anni del XX secolo, furono molti gli scienziati a interessarsi allo studio della natura e dei meccanismi dei cromosomi e dell’ereditarietà. Già nel 1932, Davenport ipotizzò che la disabilità intellettiva potesse essere causata da irregolarità cromosomiche e nello stesso anno, il dottor Waardenburg ipotizzò che fosse la non-disgiunzione a portare alla trisomia o monosomia causa della sindrome di Down (Patterson, 2005). In questi anni quindi la ricerca delle cause della sindrome si concentrò sul campo genetico e si raggiunse una spiegazione pressoché certa attraverso il lavoro di Jérôme Lejeune, Raymond Turpin e Marte Gautier che nel 1959 pubblicarono la loro scoperta della presenza di un terzo cromosoma 21 nelle cellule di soggetti Down.
La ricerca scientifica in tutti i suoi aspetti si è accompagnata a un nuovo modo di pensare al trattamento delle disabilità mentali che fosse basato sul concetto di “normalizzazione”, che Nirje riassume affermando: «L’applicazione del principio di normalizzazione non dovrà far diventare “normali i subnormali” ma renderà le condizioni di vita dei mentalmente subnormali il più possibile normali tenendo in considerazione il loro grado di handicap, le loro competenze e maturità, così come il bisogno di attività di riabilitazione e di accessibilità ai servizi…» (B. Nirje 1970 in David Right, 2011). Questo concetto trovò campo fertile soprattutto in Nord America durante gli anni della presidenza di John F. Kennedy. Egli nel 1962 istituì il “President’s Panel on Mental Retardation” che, nell’Ottobre dello stesso anno, pubblicò il suo report in cui i membri concludevano che «…ci fosse bisogno di una maggiore ricerca per la salute mentale, un sistema di servizi che provvedesse a un
‘continuum di cura’, e un’azione sociale per prevenire il ritardo mentale, tutto ciò può essere raggiunto rispettivamente attraverso ‘lo stabilimento di istituti di ricerca universitari, integrando servizi medici, educativi e sociali in un impianto centrale, e superando la deprivazione sociale» (David Right, 2011). Negli anni a venire, in America e in Europa, si sviluppo il processo di deistituzionalizzazione e si stabilirono così una serie di servizi rivolti alla cura della persona con disabilità intellettiva o di altro genere.
3 In questo capitolo, verranno usati i termini “idiota”, “imbecille”, “deficiente” e “mongoloide” con il solo scopo di mantenere il riferimento all’epoca storica in cui l’accezione che questi termini avevano era quella di termini clinici