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RIASSUNTO - PREMESSA - Dall’idiozia mongoloide alla Trisomia 21: l’approccio terapeutico neuropsicomotorio in funzione dell’evoluzione della persona. Riflessioni sull’area emotivo-affettiva

Dall’idiozia mongoloide alla Trisomia 21: l’approccio terapeutico neuropsicomotorio in funzione dell’evoluzione della persona. Riflessioni sull’area emotivo-affettiva - Stefania EDI

Riassunto

La Trisomia 21 è una delle più frequenti anomalie cromosomiche e nel suo quadro sindromico annovera come elemento costante una disabilità intellettiva di entità variabile. Quest’ultima non comporta solamente una compromissione delle funzioni intellettive, ma anche delle limitazioni significative nel funzionamento adattivo, inteso come l’insieme delle abilità concettuali, sociali e pratiche che permettono un adattamento funzionale all’ambiente. In particolare, le persone con disabilità intellettiva manifestano spesso delle difficoltà nella comprensione e nella gestione delle emozioni e delle relazioni interpersonali, poiché esse costituiscono dei fenomeni complessi ed estremamente dinamici, strettamente interconnessi con le funzioni cognitive. Partendo da questi presupposti, abbiamo deciso di svolgere in collaborazione un’analisi dell’area emotivo-affettiva, declinando la tesi in due lavori per permettere di comprendere meglio come, a partire dall’età evolutiva fino all’età adulta, evolvano le principali difficoltà in questo ambito e inoltre offrire una visione di come sia cambiato nella storia il rapporto tra la persona con Trisomia 21 e la società. Le aree emotiva e affettiva, per questo lavoro, costituiscono quindi gli ambiti di maggior interesse, poiché si crede che rappresentino due aspetti che impattano in modo considerevole sulle possibilità di autonomia dell’individuo e sulle sue condizioni di salute.

Per quel che riguarda questa specifica linea di ricerca, si è cercato di descrivere da un lato le evoluzioni storiche che hanno modificato la prospettiva clinica e l’atteggiamento sociale nei confronti della Trisomia 21, partendo dal primo inquadramento delineato nel 1866 da J. L. Down fino all’età contemporanea, e dall’altro di analizzare le principali difficoltà manifestate dagli adulti con questa sindrome nell’ambito emotivo-affettivo. Il lavoro si è quindi distinto in due parti. In una prima parte sono state esposte le principali figure cliniche che si sono occupate di disabilità intellettiva e di Trisomia 21, delineando quelli che sono stati i principali cambiamenti sociali e giuridici nell’enorme campo della malattia mentale e i cambiamenti in campo clinico rispetto alle cause e al trattamento della sindrome e delle “idiozie” in generale, connessi anche all’evoluzione che ha seguito l’identificazione nosografica della patologia. In una seconda parte, contestualizzata nell’attualità, ci si è concentrati maggiormente sull’analisi delle problematiche emotivo-affettive che riguardano l’età adulta. Per fare questo, sono stati costruiti tre modelli di questionario, uno rivolto alle famiglie, uno agli educatori e uno ai ragazzi, che abbiamo somministrato a un gruppo di persone con Sindrome di Down, di età compresa tra i 19 e i 46 anni, frequentanti il Circolo Culturale Giovanile di Porta Romana. I questionari rivolti ai genitori sono stati strutturati in modo da ricostruire la storia scolastica, terapeutica, ricreativa e lavorativa del soggetto e di comprendere se vi siano mai state problematiche evidenti, soprattutto negli ultimi due ambiti citati. Il questionario agli educatori e ai ragazzi si è occupato di indagare in modo più approfondito le competenze emotive e affettive dei soggetti, offrendo anche uno spunto sulle loro capacità di autonomia. La particolarità di questi due modelli si trova nella medesima strutturazione che li caratterizza, pensata per poter analizzare qualitativamente le risposte e ottenere informazioni circa l’autoconsapevolezza che i ragazzi hanno dei loro punti di forza e di debolezza. Dai risultati ottenuti dai questionari, è emerso che i soggetti presi in esame sono ragazzi che hanno raggiunto un discreto grado di autonomia ma che necessitano comunque della presenza di una persona a cui fare riferimento e dalla quale sono in parte dipendenti. Hanno difficoltà in attività che necessitano una maggiore pianificazione (come la cucina, la spesa e la gestione delle finanze) ma queste vengono risolte con una richiesta di aiuto, solitamente all’educatore. Hanno saputo instaurare delle relazioni interpersonali, nelle quali sembrano saper mettere in campo discrete abilità di gestione dei conflitti e di sostegno e conforto all’altro. Dimostrano di saper gestire le loro reazioni emotive, trovando soluzioni alternative quando sono in difficoltà (anche se evidenziano il loro grado di dipendenza), ma lo stesso non si può dire quando affrontano una novità. In questo caso, pur venendo incuriositi dalle nuove proposte, capita con una buona frequenza che mettano in atto comportamenti di isolamento o impulsivi, anche se contenibili. Inoltre, le discrepanze nelle risposte degli educatori e dei ragazzi riguardo alle loro reazioni emotive, offrono uno spunto di riflessione sul fatto che i soggetti con Trisomia 21 possono avere una scarsa autoconsapevolezza delle proprie emozioni e capacità.

Dall’insieme dei risultati ottenuti dalle due linee di ricerca, si è giunti a credere che sia fondamentale attuare un intervento riabilitativo precoce, che si rivolga tanto agli aspetti cognitivi quanto alle altre dimensioni costitutive dell’individuo e che, attraverso un’alleanza terapeutica, venga condiviso con i contesti per lui più significativi per favorire la generalizzazione delle strategie apprese. Nonostante i vincoli evolutivi connessi alla patologia non permettano una completa acquisizione delle competenze emotiva ed affettiva, è necessario accompagnare i soggetti con Trisomia 21 nel raggiungere il maggior livello di sviluppo possibile, al fine di limitare il grado di dipendenza dall’Altro e promuovere un maggior benessere psicologico e sociale. Il TNPEE quindi, partendo dalle caratteristiche del soggetto e attraverso la significazione dei suoi atti, ha il compito di favorire la creazione di un linguaggio interiore e di un sistema integrato di significati, che permettano al bambino di orientare il proprio comportamento e di gestire emozioni e relazioni in modo più funzionale e, per quanto possibile, consapevole.

Premessa

La Trisomia 21, conosciuta anche come sindrome di Down, in origine “Idiozia mongoloide”, è una delle anomalie genetiche più comuni nell’uomo e maggiormente conosciute: essa, oltre ad essere stata descritta e studiata ampiamente nell’ambito della letteratura medico-riabilitativa, ha assunto una considerevole risonanza anche a livello sociale.

Tale sindrome è causata da un’alterazione cromosomica, dovuta dalla presenza di una terza copia, o di solo una parte, del cromosoma 21 in aggiunta al corredo cromosomico diploide normale: questa condizione determina un quadro clinico caratterizzato dalla coesistenza di segni anatomici e neurologici (una facies e dei tratti somatici caratteristici, ipotono ed eventuali anomalie viscerali), che sono sempre associati ad un ritardo di sviluppo globale di entità variabile che, quindi, comprende anche una compromissione delle funzioni intellettive.

Come specificato anche nei principali sistemi di classificazione internazionali, la compromissione delle funzioni cognitive comporta delle ricadute anche sulle altre aree di funzionamento dell’individuo.

Più precisamente la classificazione diagnostica dell’ICD-10, redatta dall’OMS, descrive il “Ritardo mentale” come una “condizione di interrotto o incompleto sviluppo intellettivo, caratterizzato in particolare da alterazioni delle competenze manifestate durante il periodo dello sviluppo, che contribuiscono al livello generale di intelligenza, quali abilità cognitive, linguistiche, motorie e sociali.”

L’American Psychiatric Association, all’interno del DSM-V, invece, delinea tre criteri diagnostici per definire la “Disabilità intellettiva”: essi fanno riferimento all’insorgenza in età evolutiva (criterio C), di un deficit del funzionamento intellettivo (criterio A) e di una compromissione del “funzionamento adattivo, consistente in un mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali per l’indipendenza personale e la responsabilità sociale” (criterio B) 1.

È dunque evidente come la disabilità intellettiva costituisca un quadro dinamico e composito che «…non riguarda solo gli aspetti deficitari dello sviluppo cognitivo, ma esprime una difficoltà di integrazione della personalità nei suoi aspetti cognitivi, affettivi e sociali» (Lolli et al., 2009). Tali dimensioni, soprattutto nel bambino, sono racchiuse e veicolate dall’atto motorio: in questo senso il movimento rappresenta il cardine dell’approccio psicomotorio, che in esso riconosce una fonte espressiva delle modalità d’essere e di conoscenza. L’atto è considerato infatti come fatto psichico, in quanto “parte percepibile del complesso processo che lega l’individuo al mondo” (Wille e Ambrosini, 2008) e che permette al soggetto di scoprire e adattarsi all’ambiente, sia esso fisico o sociale, con il quale è in continua interazione. L’intervento psicomotorio si rivolge dunque alla globalità dell’essere umano, in cui gli aspetti motorio, cognitivo, emotivo-affettivo e sociale sono inscindibili e si esprimono tramite l’atto; a partire da esso intende quindi promuovere uno sviluppo armonico e globale e al contempo accompagnare l’individuo nel suo percorso di crescita, valorizzando la sua espressività nel rispetto delle sue caratteristiche e favorendo l'integrazione delle componenti emotive, intellettive e corporee, attraverso la relazione interpersonale ed il gioco.

Alla luce di queste premesse, in riferimento all’ambito della disabilità intellettiva e della Sindrome di Down (analizzata nella seguente tesi), risulta fondamentale rivolgere l’intervento riabilitativo tanto agli aspetti cognitivi quanto alle altre dimensioni costitutive della persona, osservate anche in relazione ai suoi contesti di vita significativi. In particolare, le aree sociale ed emotivo-affettiva costituiscono in questo lavoro gli ambiti di maggior interesse, in quanto supponiamo che siano aspetti che impattano in modo considerevole sulla qualità di vita, sulle possibilità di autonomia dell’individuo e sulle sue condizioni di salute, intesa come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità” (OMS, 1946).

L’interesse per queste due dimensioni, a partire dall’età evolutiva, assume ancora più rilievo se si considera che nell’ultimo ventennio si è andata diffondendo sempre più una cultura dell’inclusione sociale. Essa a livello internazionale ritrova il suo manifesto nelle disposizioni sancite dalla Convenzione ONU del 2006 sul diritto alle persone con disabilità, la quale ha sottolineato che tutti gli stati membri si devono impegnare per promuovere, proteggere e garantire i diritti umani e le libertà fondamentali anche alla persona con disabilità, che deve poterne godere senza discriminazioni (Saulle, 2007).

Anche nell’ambito della normativa italiana, a partire dalla Costituzione della Repubblica, si sono susseguite diverse leggi rivolte al rispetto di questi diritti fondamentali; tuttavia il principale riferimento in campo assistenziale è rappresentato dalla legge n.104/92, poiché per prima ha dato vita a un processo di cambiamento culturale, orientato al recupero della persona disabile attraverso il suo inserimento nella società e non più soltanto mediante interventi assistenziali specializzati o burocratico-amministrativi. Conosciuta come “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, essa ha stabilito che l’inclusione nel tessuto sociale non si limita all’affermazione del diritto all’educazione e alla formazione in età evolutiva, ma si estende a tutto l’arco di vita dell’individuo e ai differenti contesti sociali, comprendendo quindi l’inserimento lavorativo e la partecipazione alle attività culturali, sociali e sportive.

La legge n.328/2000 invece ha rappresentato il riferimento normativo fondamentale che ha condotto alla ridefinizione dell’assetto dello Stato Sociale: essa, rivolgendosi alla realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali a livello territoriale, si configura come una conseguenza necessaria di una lettura sociale della disabilità.

È opportuno dunque che l’intervento riabilitativo si rivolga precocemente alle aree sociale ed emotivo-affettiva al fine di favorire una maggior comprensione e regolazione delle emozioni sia a livello personale che interpersonale, poiché queste competenze in modo trasversale contribuiscono all’equilibrio emotivo e psicologico dell’individuo e quindi a un adattamento funzionale all’ambiente, che in ultima istanza favorisce l’integrazione della persona nel suo contesto di vita. In un’ottica di prevenzione terziaria appare quindi fondamentale intervenire fin dall’età evolutiva con l’intento di contenere le difficoltà nelle aree emotivo-affettiva e sociale, connesse alla disabilità intellettiva, che permarranno in età adulta.

Per le motivazioni sopra descritte, la seguente tesi si propone di osservare in modo più sistematico gli aspetti emotivo-affettivi che possono essere influenzati dal deficit intellettivo e che, insieme a quelli socio-culturali, possono condizionare il funzionamento adattivo dell’individuo. In particolare, abbiamo deciso di focalizzare il nostro studio sulla Sindrome di Down poiché nella nostra esperienza sia personale che formativa abbiamo avuto la possibilità di incontrare e conoscere persone con questo tipo di condizione. Al di là dell’ampia variabilità interindividuale, ci è stato quindi possibile osservare le caratteristiche che costituiscono un comune denominatore all’interno del quadro clinico e rilevare come l’ipersocialità, cioè l’immediata disponibilità a interagire con l’altro, che è spesso presente, mascheri o porti a sottovalutare le difficoltà a livello emotivo e relazionale, oltre che cognitivo, che si celano dietro di essa.

Inoltre, essendo la Trisomia 21 una patologia con un’alta incidenza nella popolazione mondiale (1:1000 nati vivi secondo dati dell’OMS), nonché una delle maggiori cause di deficit intellettivo, la consideriamo come un valido paradigma rappresentativo dei differenti quadri clinici attraverso i quali può esprimersi la disabilità intellettiva.

Infine abbiamo deciso di collaborare per sviluppare la seguente tesi secondo due differenti linee di ricerca con l’intento di offrire una panoramica completa su questo tema, che non si limiti ad osservare e analizzare solamente l’individuo, ma anche la sua interazione con l’ambiente in cui vive e che ne influenza lo sviluppo e l’adattamento. Le differenti esperienze che abbiamo vissuto a contatto con il mondo della Trisomia 21 hanno poi influito sulle motivazioni che hanno portato alla rispettiva suddivisione dei due ambiti di ricerca.

Abbiamo dunque ritenuto significativo indagare su come si sia evoluto nel tempo il rapporto tra società e persone con la sindrome, ma anche su come sia opportuno intervenire precocemente dal punto di vista riabilitativo, in un’ottica sia sincronica

che diacronica. Pertanto il primo studio si occuperà di descrivere da un lato come si sono modificati nel corso della storia la prospettiva clinica e l’atteggiamento sociale nei confronti della Trisomia 21 (a partire dal primo inquadramento delineato nel

1866 da J. L. Down fino all’età contemporanea) e dall’altro di analizzare le principali difficoltà che gli adulti con questa patologia incontrano negli ambiti emotivo- affettivo e sociale; il secondo lavoro, invece, cercherà di approfondire il rapporto interdipendente tra la centralità del movimento e le dimensioni emotivo-affettiva e cognitiva e di delineare le modalità di intervento con le quali la terapia neuropsicomotoria in età evolutiva, possa avere un’influenza positiva nella gestione delle criticità nell’area emotivo-affettiva che permangono in età adulta.

 


  1. Nella tesi verrà utilizzata l’accezione ”Disabilità intellettiva", che è stata recentemente proposta dai più importanti manuali diagnostici per sostituire quella di “ritardo mentale”, poiché meglio descrive le molteplicità con cui nei diversi individui si può manifestare questa condizione. La parola “ritardo”
  2. infatti era stata contrapposta a quella di “insufficienza” per sottolineare che varie tappe dello sviluppo mentale venivano comunque raggiunte, anche se con tempi più lunghi, mentre il temine “mentale” faceva riferimento a tutto il funzionamento della mente e non solo a quello intellettivo. Inoltre l’uso del sostantivo “disabilità”, evidenzia il fatto che si tratti più di una ridotta capacità di interazione con l’ambiente che di una caratteristica del soggetto stesso e viene sostenuto di recente anche dall’OMS, per evitare l’uso di locuzioni che possono avere connotazioni negative e stigmatizzanti. Anche nella bozza dell’ICD-11 infatti compare l’espressione “disturbi dello sviluppo intellettivo”, che rimanda alla definizione di disabilità intellettiva già presente nel DSM-V.

 

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