Secondo stadio: dal terzo al nono mese
Il periodo che va dai tre ai nove mesi vede l’emergere e l’affermarsi di funzioni altrettanto importanti di quelle affiorate in precedenza e fondamentali dello sviluppo ontogenetico. L’attività riflessa prosegue la sua graduale attenuazione fino all’estinzione, la quale si compie intorno ai sei-sette mesi. Spesso alcune delle attività primitive sembrano scomparire, per poi riapparire nella loro forma più attiva (“volontaria”) durante le età successive, oppure sembrano continuarsi in modo indistinto in abilità (motorie) ormai “definitive”. Secondo la concezione piagettiana, lo schema innato della motilità riflessa trapassi nelle “reazioni circolari primarie” ( secondo e terzo mese, s’intende la ripetizione di un’azione prodotta inizialmente per caso, che il bambino esegue per ritrovare gli interessanti effetti. Grazie alla ripetizione, l’azione originaria si consolida e diventa uno schema che il bambino è capace di eseguire con facilità in altre circostanze ), segnando l’avvio dei primi adattamenti acquisiti nella relazione con l’ambiente. Si consolida dunque in questo periodo la saldatura tra il momento “riflesso” della motilità con quello “prassico”. Si passa così dagli adattamenti primitivi delle reazioni circolari, semplici ripetizioni di atti “che si chiudono in se stessi”, agli adattamenti “intenzionali”, atti che concepiscono l’utilizzazione di mezzi per realizzare uno scopo ( reazioni circolari secondarie ). Tali comportamenti che cominciano a prender corpo quando si stabilisce l’indipendenza dell’oggetto dell’azione, rivelano un’intenzione che definisce l’atto come intelligente. Siamo dunque di fronte al graduale incremento di complessità e precisione degli atti che appunto sono destinati a sfociare nelle prassie propriamente dette. Tale evoluzione si realizza attraverso la messa in atto di procedimenti sempre più articolati che applicano schemi di nuova scoperta a situazioni sempre nuove, coordinandoli fra loro. È l’annuncio delle future operazioni mentali. In tutto questo procedere di affinarsi di condotte motorie, il patrimonio innato dei riflessi primitivi ne rappresenta il substrato indispensabile. Secondo la versione di Milani-Comparetti, esso rappresenta il repertorio neuromotorio disponibile e viene “riciclato” ogni volta che deve essere attuato un pattern motorio appreso. L’utilizzazione intenzionale del repertorio neuromotorio produce l’atto “volontario”, qualificandolo come psicomotorio. La ripetizione sistematica dell’atto si risolve peraltro nella sua automatizzazione, col che esso va ad incrementare il patrimonio degli automatismi e sarà impiegato a sua volta come substrato per un nuovo atto volontario. Sono poste in codesto modo le basi per successive intenzioni motorie, le quali si attuano grazie alla disponibilità di un sempre più ricco repertorio di automatismi (che risulta dunque dalla stratificazione di ulteriori forme automatizzate su quello iniziale del riflesso primitivo).
In altri termini sono già dispiegati a quest’epoca gli elementi essenziali e i meccanismi utili allo sviluppo della psicomotricità. Un esempio di quanto finora detto è fornito dalla prensione. Essa nella sua forma definitiva, sancisce l’uso volontario della mano che si chiude intenzionalmente sull’oggetto per impadronirsene. L’esercizio del riflesso di prensione, in relazione alla presa fortuita di un oggetto, apre alle reazioni circolari corrispondenti, le quali esprimono in modo evidente la realtà dello schema assimilatore di Piaget. Secondo la versione piagettiana, la struttura riflessa di partenza incorpora elementi nuovi, derivati dalla relazione con l’ambiente attraverso contatti fortuiti con un oggetto, innescando così la sequenza che dalle reazioni circolari conduce a schemi di prensione sempre più complessi. Se di fatto il neonato possiede la capacità di afferrare oggetti vari, in realtà non si tratta di un atto in sé strutturato allo stesso modo della prensione definitiva, consiste in sostanza di un “movimento che punta all’oggetto” cui può seguire occasionalmente la presa per contatto. Esso è destinato comunque ad affievolirsi, perché non ulteriormente sollecitato, e a non dare più segno di sé entro le quattro settimane d’età, per poi ritornare intorno ai quattro mesi. A quest’epoca si ripresenta nella stessa forma, presumibilmente come annuncio della prensione vera e propria, nella quale ad ogni modo risulterà incorporato per costituirne una delle componenti. La prensione definitiva consterà infatti dell’atto di sollevare gli arti verso l’oggetto e di quello successivo di chiusura della mano intorno all’oggetto stesso, dopo aver raggiunto il bersaglio. Inizialmente la vista fornisce lo stimolo al movimento e ne controlla l’esecuzione. Ancora intorno ai sei mesi il bambino deve vedere l’oggetto e simultaneamente la sua mano. Solo oltre il sesto mese il bambino impara ad afferrare tutto ciò che vede, indipendentemente dalla visione della mano. Egli comunque porta davanti agli occhi qualunque oggetto preso per caso fuori del campo visivo. Dopo questo stadio della presa a vista degli oggetti, nei mesi seguenti, alle informazioni visive, le quali ora permettono di apprezzare anche la distanza e la posizione dell’oggetto, si associano quelle propriocettive-cinestetiche che forniscono i mezzi per controllare l’atteggiamento dell’arto superiore durante tutto il movimento.
In particolare, la presa si perfeziona passando attraverso vari stadi: all’inizio la presa è cubito-palmare, cioè si compie tra il mignolo e il bordo esteriore della mano, con spostamento successivo dell’oggetto al centro della palmo, tale modalità è preminente tra la ventesima e ventottesima settimana; verso la fine di questo periodo compare anche l’afferramento dell’oggetto con le dita a rastrello; tra la ventottesima e la trentaduesima settimana si afferma la prensione palmare, per cui l’oggetto viene afferrato tra palmo e ultime dita flesse. Verso il termine di questo stadio l’area di afferramento si concentra sulle dita radiali (presa radio-palmare); tra la trentaduesima e trentaseiesima settimana , l’oggetto viene afferrato tra i bordi laterali delle ultime falangi del pollice e dell’indice (pinza inferiore); progressivamente si arriva alla presa pollice-indice con una vera e propria opposizione del pollice. Infine si perfeziona l’accostamento frontale dei polpastrelli delle due dita (pinza superiore) che consente la presa di oggetti di dimensioni anche minime. Viene raggiunta così, a nove mesi, la prensione radio-digitale, che è quella definitiva. L’acquisizione della prensione segna una tappa rilevante nell’ottica psico-motoria. Dal punto di vista motorio, è l’espressione più significativa dell’evoluzione da una motilità globale, più primitiva, ad un movimento differenziato, preciso, controllato, che stabilisce la presa di possesso dell’ambiente. La sua importanza emergerà con tutta evidenza nel contesto della prassie.
Dal punto di vista cognitivo, la prensione gioca un ruolo determinante nella scoperta del proprio corpo e degli oggetti. L’esplorazione corporea non si avvarrà più del semplice gesto del “toccare”, ma, come per gli oggetti, di quello di afferrare. Tra i cinque e i sei mesi ad esempio il bambino è in grado di afferrare il piede e di portarlo alla bocca (coordinazione bocca-mano-piede che segue a quella mano-bocca da poco acquisita), quindi è divenuto capace di unificare tre diverse esperienze circa il proprio corpo. La prensione così avvia i progressi della differenziazione tra corpo proprio ed oggetti. Tra l’altro a quest’età il bambino percepisce le parti del corpo come oggetti esterni, bisogna aspettare il compimento del nono mese affinché il bambino riesca a distinguere le sue mani dagli oggetti che afferra. Manipolando gli oggetti, indipendenti del proprio corpo, il bimbo scopre nuovi risultati interessanti. Tale scoperta contribuirà a far eleggere la mano come luogo privilegiato dell’esplorazione, cioè del fare, dell’esaminare, dell’agire sull’ambiente e la capacità di impossessarsi di un oggetto conduce il bambino a passare dal mondo del suo corpo al modo delle cose.
Dal momento in cui il bambino è in grado di prendere, diventa capace di scegliere. Tale scelta, che è un fatto cognitivo, è orientata dal punto di vista affettivo. Ovvero è supportata dal piacere che il bambino riceve dal contatto con l’oggetto e dal risultato del suo agire e dei suoi esperimenti sull’oggetto, e questo piacere stimola, anima, il suo movimento. La mano prensile del bambino rappresenta uno strumento essenziale del comportamento sociale del bambino, ha un ruolo considerevole nella relazione con l’altro: è essa che dona, riceve, respinge.
La prensione è inoltre connessa con il valore simbolico che l’oggetto assume per il bambino, e cioè con il significato di “sostituto” che a quello viene attribuito soprattutto intorno all’ottavo-nono mese, quando si instaura la relazione oggettuale. L’oggetto del quale il bambino può impadronirsi è in grado di rimpiazzare la madre assente e riprodurne le valenze affettive (oggetto transizionale secondo Winnicott). In questo modo la prensione diventa il tramite di una relazione simbolica. E tra la mano, che prende, e l’oggetto che viene preso, esiste un legame complesso: il gesto neuromotorio (di mera natura fisiologica) che si intrica di processi mentali e psicodinamici, di relazioni oggettuali e di intenzionalità.
Inoltre, nella fase in cui si va organizzando la prensione, si va preparando anche la dominanza laterale. In effetti, il bambino nel momento di afferrare, sebbene svolga l’atto preliminare di puntare all’oggetto con entrambi gli arti superiori, tenderà già a servirsi di una mano preferita. Secondo le teorie neurofisiologiche della dominanza emisferica, la lateralizzazione è connessa con la maturazione dei principali centri motori e sensoriali dell’emisfero destinato ad assumere il primato, e questo si realizza a partire dall’età dei due anni. Seguendo la prospettiva psicologica, si ammette che solo dal momento in cui i movimenti si combinano e si organizzano secondo un'intenzione, si impone di fatto un lato dominante, il quale assume il compito di coordinare la motricità e le sue articolazioni spaziali. In un ottica più specificamente psicomotricista, Le Boulch sostiene che la prevalenza laterale si elabora durante il periodo che succede all’esperienza del corpo vissuto, nella fase in cui si organizza la discriminazione percettiva, ovvero a partire dai due anni d’età. Ecco perché non si può parlare di una lateralizzazione manifesta prima dell’età della scuola materna e risulta arbitrario cercare di definire con dei test la lateralità di un bambino prima dei cinque anni. Intanto la lateralizzazione partecipa a tutti i livelli dello sviluppo del bambino ed è fin dall’inizio indispensabile all’adattamento psicomotorio (accompagna la strutturazione spaziale e l’individuazione delle parti del corpo e del corpo totale come riferimento nella spazializzazione). Quindi la “preferenza laterale” manifestata nei primi quattro-sei mesi è una realtà già determinante nel porre le basi della funzione definitiva.
Dai quattro mesi agli otto-nove mesi, con l’acquisizione della prensione, il bambino giunge alla conoscenza pratica dell’oggetto. Piaget afferma che la prensione delle cose viste conduce il bambino a coordinare il suo universo visivo con il suo universo tattile. L’oggetto a quest’età è qualcosa di “presente”, è legato all’azione attuale. Dopo i sei mesi inizia la ricerca visiva degli oggetti, che il bambino, o un’altra persona, lasciano cadere. L’inseguimento visivo inizialmente si interrompe, appena l’oggetto esce dal campo visivo, ad esempio lo sguardo torna alla mano vuota della persona che ha abbandonato l’oggetto. Uguale significato hanno i fenomeni che seguono alla perdita di un oggetto, che il bambino teneva in mano (prensione interrotta: Piaget). Il bambino non lo cerca dove è scomparso, ma si accontenta di portare in basso il braccio e, se l’oggetto non è sulla traiettoria rinuncia. Talora riporta la mano, dove prima teneva l’oggetto, davanti agli occhi, come se considerasse l’oggetto esistente solo in quanto legato alla mano, che compie l’atto di prensione . In effetti secondo la concezione di Piaget , tra i sei e i nove mesi, non è ancora l’oggetto che costituisce l’oggetto permanente, ma l’atto stesso, dunque l’insieme della situazione. Il bambino, inoltre, sarà capace di riprendere l’azione su un oggetto, sospesa in seguito all’interferenza di un estraneo o alla comparsa di un altro oggetto interessante sul campo visivo (reazione circolare differita). Durante questi mesi, se davanti al bambino viene posto uno schermo impedendogli di vedere l’oggetto, egli cerca di sbarazzarsi di ciò che ostacola la prensione. Non fa lo stesso, se lo schermo è distante dal suo viso e più prossimo all’oggetto e lo copre interamente. La stessa condotta si verifica verso gli otto-nove mesi , quando il bambino comincia a sollevare lo schermo, che copre interamente l’oggetto, appena quest’ultimo è scomparsa dalla sua vista, per ritrovarlo, ad esempio il bambino solleva la mano che gli nasconde l’oggetto, mentre sta per afferrarlo. Tale evento segna di fatto il principio della ricerca attiva dell’oggetto fisico scomparso e quindi dell’acquisizione di una permanenza oggettiva. è però da precisare che solo tra i diciotto e i ventiquattro mesi l’oggetto diviene veramente permanente. Infatti secondo la teoria di Piaget, è in questo periodo che il bambino acquisisce la rappresentazione dell’oggetto. Da quest’epoca in poi si compie il coordinamento della permanenza visiva e tattile, dal quale nasce la permanenza pratica dell’oggetto. Essa è una tappa fondamentale del processo cognitivo: segna la fine dell’intelligenza sensomotoria e l’inizio dell’intelligenza rappresentativa, che ben presto si andrà elaborando negli aspetti operativo e rispettivamente figurativo.
Parallelamente all’elaborazione della nozione di oggetto fisico, ovvero all’acquisizione della conoscenza pratica dell’oggetto, si va organizzando l’identificazione dell’oggetto libidico. Quindi la scoperta della permanenza dell’oggetto e l’individuazione della persona –oggetto libidico- nel bambino sono tra loro in sintonia perfetta. Tra l’altro la nozione di oggetto, in Psicoanalisi, si identifica, in modo quasi esclusivo, con quella di “oggetto libidico”, la quale si elabora all’interno del processo di sviluppo relazionale, in cui i legami istintuali si intrecciano con i legami oggettuali. Esso si situa nell’ambito delle teorie delle relazioni di oggetto.
Spitz, a proposito dell’oggetto libidico, afferma che esso rientra nel contesto più ampio dello studio sul tema dello sviluppo mentale e dell’organizzazione dell’Io. L’autore a tal proposito ha descritto varie fasi che conducono alla strutturazione dell’oggetto libidico, ovvero abbiamo lo stadio pre-oggettuale, stadio dell’oggetto precursore e lo stadio dell’oggetto libidico.
L’oggetto inizialmente è percepito solo in funzione del bisogno interno , ad esempio quando ha fame , il bambino riconosce il biberon o il seno, non in quanto tali, ma solo se introdotti in bocca. Questo periodo che va dalla nascita ai tre mesi ed è caratterizzato di fatto dall’ “assenza dell’oggetto”, viene definito stadio pre-oggettuale. Dal terzo mese avviene la risposta con il sorriso al viso dell’adulto che si muova sul piano frontale. Il viso si trova già “situato nella genealogia dell’oggetto libidico, che si svilupperà in seguito”. Esso ha la funzione di “pre-oggetto”: stadio dell’oggetto precursore (dai tre ai sei mesi). Solo a partire dal terzo trimestre di vita appaiono i veri oggetti. Innanzitutto c’è la madre, in lei il bambino scopre il partner con il quale stabilire relazioni oggettuali specifiche. È l’oggetto libidico per eccellenza, fondamentale per le successive relazioni sociali: stadio dell’oggetto libidico che decorre dagli otto ai nove mesi. Dunque in tale stadio l’oggetto libidico (la madre) è costituito e identificato. Con questo si connette l’angoscia dell’ottavo mese. In altri termini quando la madre si allontana, ovvero quando si avvicina una persona estranea, nasce nel bambino la delusione riguardo al suo bisogno di vedere la madre; ne deriva un segnale di pericolo che evoca l’angoscia dell’abbandono. Il verificarsi di tale fenomeno, che sembra possedere una connotazione strettamente affettiva, segnala anche l’esistenza di una nuova funzione dell’Io, cioè la capacità di giudizio. Infatti, la percezione del volto dell’estraneo è confrontata con gli elementi mnesici relativi al viso della madre e, l’accertamento delle diversità, produce il rifiuto, il quale è innescato dal timore che il nuovo “oggetto” possa sostituirsi per sempre a quello materno. Inoltre, secondo Spizt lo sviluppo avviene attraverso momenti nodali che segnano il passaggio da una fase all’altra e che catalizzano l’ulteriore progresso: essi vengono denominati “organizzatori dello sviluppo”. Il primo è rappresentato dal sorriso, il secondo è rappresentato dall’angoscia dell’ottavo mese e il terzo dalla comparsa del “no”, segno importante di potere del bambino sul mondo circostante. L’angoscia dell’ottavo mese costituisce, nella concezione di Spizt, una tappa fondamentale in corrispondenza della quale si producono cambiamenti radicali del comportamento e nella personalità stessa del bambino (con essa il bambino matura la capacità di giudicare e scegliere tra le cose). Fra l’ottavo e il decimo mese compare l’imitazione su base affettiva, che è la riproduzione delle relazioni con la madre. All’interno del rapporto libidico nasce, intorno ai sei mesi, un mezzo ulteriore di comunicazione, cioè la lallazione, interpretata anch’essa come processo imitativo e allo stesso tempo già come strumento privilegiato della comunicazione. Le lallazioni, ovvero la ripetizione di una o due sillabe, sono suoni prodotti già con l’intento di significare, infatti tendono ad assomigliare progressivamente a quelli usati nella lingua parlata (imitazione) arricchendosi anche di sfumature intonazionali, per le quali sembrano assumere quasi un significato vero e proprio. Intorno ai nove mesi si situa il momento della comparsa della prima parola: in genere mamma o papà. È il primo fonema che si distingue dalla serie di bisillabe pronunciate fino ad ora , ed esso comincia ad avere un significato più delimitato, senza però il carattere certo di un’attribuzione esclusiva. Infatti “mamma e papà” possono indicare i genitori, ma possono essere impiegate anche come l’espressione più generica di condizioni emozionali. Anche l’impatto che tali suoni producono sull’entourage familiare è importante: rappresenta un vero e proprio rinforzo per il bambino stesso. Infatti, l’interpretazione spontanea ed entusiastica dei genitori, la quale diventa progressivamente convinzione incrollabile, che si tratti di chiari segni comunicativi a loro indirizzati, stimola in questi tali espressioni di affetto e spinte a ripetere quei suoni, da creare un flusso di continui scambi interattivi. La pronuncia di queste prime paroline, per l’attenzione che suscita nell’adulto, viene associata dal bambino a condizioni emozionali di grande piacere e perciò riceve un continuo rinforzo. Pertanto quella che era in origine un’imitazione vocale, vicina alla parola familiare udita, diventa sempre più un fenomeno semantico, arricchito di contenuti sociali: da comunicazione “privata” assume gradualmente il senso di comunicazione interpersonale e perciò di tipo sociale . a quest’epoca dunque si avvia decisamente il processo simbolico per eccellenza e si va instaurando la supremazia della comunicazione verbale la quale si va sempre più sostituendo all’azione. Anche nell’ambito posturo-motorio, durante il periodo che va dai tre ai nove mesi si svolgono processi di grande portata . tra i tre e i quattro mesi, il bambino può essere messo in posizione seduta, che mantiene per brevissimo tempo. A sei mesi può rimanere seduto senza appoggio esterno; gli arti superiori, estesi perpendicolarmente al piano, provvedono a fornire il sostegno al dorso. A sette mesi, il bambino rimane in equilibrio anche se per breve durata, senza dover ricorrere agli arti superiori nel ruolo di appoggio statico, la posizione seduta diventerà finalmente stabile col compimento dell’ottavo mese. Al nono mese il bambino controlla del tutto la situazione grazie alla più matura coordinazione degli arti inferiori e del tronco, dal quale dipende il mantenimento dell’equilibrio, inoltre il bambino può voltarsi per prendere un oggetto dopo di ciò ritornare in posizione di equilibrio; può anche passare dalla posizione supina a quella seduta e viceversa. Nel controllo della posizione seduta interviene l’informazione visiva che fornisce l’orientamento ottico. L’interrelazione tra queste due funzioni (controllo posturale e afferenze visive) esiste, fin dall’epoca neonatale. Nel corso di questi mesi però gli effetti di tale interazione diventano piuttosto vistosi. Con l’accrescersi delle abilità posturali si arricchiscono e si perfeziona l’esplorazione visiva; l’attenzione suscitata dall’ambiente esplorato, stando in posizione seduta, a sua volta contribuisce a consolidare le acquisizioni posturali. Così se è vero che all’inizio (tre-sei mesi) l’essere posto a sedere consente al bambino di vedere meglio e di più ciò che accade intorno a lui, è vero anche che la scarsa stabilità di tale posizione non gli consente di ampliare più di tanto, come vorrebbe, le esplorazioni visive. Ne nasce l’esigenza di sempre nuovi tentativi di aggiustamenti della posizione. Questi rispondono allo scopo di soddisfare la propria curiosità e soprattutto il bisogno di dominio della situazione. Il bambino perciò impara, nei pochi mesi successivi, ad organizzare adattamenti posturali sempre più complessi, idonei a mantenere stabilmente l’equilibrio e congrui con il suo desiderio di esplorazione e di azione sull’ambiente. L’importanza dell’acquisizione della stazione seduta autonoma, non si limita a questi eventi. Permette, infatti, di liberare gli arti superiori e di adibirli finalmente al loro compito più specifico: la prensione. Il poter afferrare liberamente ed automaticamente le cose, almeno quelle poste nel raggio d’azione degli arti, dà già il senso della conquista del mondo esterno. Già verso il suo esordio (quarto mese), quando la posizione seduta è mantenuta col sostegno altrui il suo controllo deve comunque essere assistito, il bambino inizia ad indicare col dito. Questo gesto, secondo Bower, serve ad attirare l’attenzione degli altri su un oggetto o su un avvenimento interessante. L’autore afferma anche che tale gesto può essere accompagnato dall’emissione di suoni, che significano “dammi”, ovvero da altri con intenzione interrogativa: “che cos’è?”. In molte occasioni l’atto di indicare viene usato per avviare scambi interpersonali. Quindi la maturazione della posizione seduta autonoma ha veramente una considerevole importanza nello sviluppo umano. Oltre ad assicurare la libertà motoria delle estremità, la padronanza della posizione seduta, segna l’inizio del controllo del proprio corpo e assicura un modo peculiare di mettersi in rapporto col mondo. Lo stesso significato di funzione esclusiva dell’uomo ha la stazione eretta, che il bambino raggiunge dopo il nono mese. Il bambino capace di tale esperienza ne è attirato e appare in genere molto soddisfatto di poterla compiere. Si esercita ad essa appena possibile e sperimenta numerose varianti per renderla più sicura. Spesso finisce col diventare la sua posizione preferita, nel giro di pochi giorni dall’esordio. Per raddrizzarsi in modo sicuro il bambino deve poter esercitare contemporaneamente una buona prensione, una trazione degli arti superiori, con la avvicina il corpo al sostegno, ed un’efficace spinta degli arti inferiori. È richiesta cioè una fluida coordinazione di diversi distretti muscolari e un’integrazione posturo-motoria già piuttosto evoluta. È estremamente importante l’interazione tra stimoli percettivi-sensoriali, le sollecitazioni cognitive e le istanze desiderative quale condizione indispensabile per approdare alla nuova abilità. L’accesso alla posizione eretta rappresenta un momento di grande significato, tanto che Koupernick ritiene legittimo affermare che esso segna un nuovo modo di essere al mondo. In confronto alla stazione seduta il progresso è netto; l’universo visibile si arricchisce e l’orizzonte si allarga. Permane tuttavia, come la precedente acquisizione, “la schiavitù della stasi”. Il nuovo mondo è tentatore, ma fa anche paura: non ci si può spostare e non lo si può raggiungere, pena la caduta. È proprio su tale conflitto di sentimenti che si gioca la durata di tale tappa e il passaggio alla tappa successiva e cioè alla deambulazione, la quale costituisce davvero un momento di radicale cambiamento nell’attitudine psicomotoria globale dell’individuo.
Cap. I. LA PSICOMOTRICITA’ Cap. II. LE NOZIONI FONDAMENTALI DELLA PSICOMOTRICITA’ Cap. III. LO SVILUPPO PSICOMOTORIO DEL BAMBINO Cap. IV. L’EDUCAZIONE PSICOMOTORIA NELL’Età PRESCOLARE Tesi di Laurea di: Maria PADOVANO
Indice
INTRODUZIONE
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA