Primo stadio: dalla vita intrauterina al terzo mese
Nel corso della vita intra-uterina i bisogni metabolici del feto sono automaticamente soddisfatti. La sua attività motoria si esprime attraverso un vero comportamento posturale, che si manifesta molto precocemente attraverso il suo riequilibrarsi nel liquido amniotico grazie alla stimolazione labirintica. Nel corso dello stadio fetale, lo sviluppo è sorretto dal determinismo della maturazione programmato geneticamente, il cui dinamismo resta poco modificato dall’ambiente circostante. Alla nascita, invece, persiste il determinismo dei fenomeni di maturazione, ma essi sono arricchiti attraverso il ruolo stimolante dell’ambiente, che avrà un’incisività sempre più preponderante. Infatti, nel corso del secondo mese s’inverte l’equilibrio delle forze e l’esercizio funzionale, favorito dall’ambiente, prende il sopravvento sulla maturazione.
L’attività iniziale dell’individuo sarebbe dunque principalmente motoria, e per di più si svolgerebbe con modalità in prevalenza automatiche e cioè secondo schemi neurofisiologici primitivi. Rey sostiene che “l’individuo è nato soltanto con le condizioni anatomofisiologiche dei suoi riflessi”. Tale affermazione sembra considerare la vecchia concezione che omologava il neonato ad un mero organismo riflesso. Le successive riflessioni conducono a correggere tale visione estremamente riduttiva. Infatti Aiuriaguerra afferma che “l’attualizzazione delle possibilità riflesse costituisce già una modalità assimilatrice, che si adatta all’ambiente nel momento in cui si esercita”. Gli atti riflessi si estrinsecano secondo variabili relative ai bisogni e alle situazioni ma soprattutto secondo la relazione con l’ambiente esterno. La nuova cultura antropologica sottolinea come l’azione che si esercita nei riflessi primitivi viene vissuta nel suo svolgersi ed è condizionata dalle sensazioni derivanti dal movimento stesso e dagli effetti (piacere/dispiacere) prodotti dal risultato dell’atto. Per Ajuriaguerra, quindi, anche le forme più semplici dell’attività nervosa comportano una strutturazione dell’esperienza, sebbene nel suo aspetto più primitivo. Ne consegue che, si possa ascrivere ai riflessi neonatali il significato di “organizzatori primari” delle forme più successive e più elaborate di attività. In effetti il periodo neonatale è il momento più ricco ed originale di tutta la storia dello sviluppo e contiene già tutte le possibilità successive, che la crescita implica. A conferma di ciò, ci sono studi recenti, i quali rivelano capacità e sviluppi di abilità percettive e motorie insospettabili per questa età, le quali sono pronte per essere usate. Ad esempio bambini appena nati, a cui viene fissato il tronco, possono allungare una mano verso un oggetto, colpirlo e talvolta anche afferrarlo. Tale capacità si estrinseca fintanto che dura l’interesse del piccolo per l’oggetto. Questa è un’attività “latente”, non essendo di solito esercitata - anche perché non stimolata dall’adulto, che ne ignora l’esistenza – non si afferma, né si organizza, ma piuttosto, per quella stessa ragione, si affievolisce e tende a scomparire. I neonati sono in grado di calciare o tirare una corda per far girare una composizione mobile, capiscono ben presto che alcuni comportamenti producono un effetto sul mondo intorno a lui e addirittura il bambino è in grado di esprimere con un sorriso la soddisfazione per il risultato ottenuto. L’associazione e l’integrazione degli stimoli visivi, uditivi, cutanei e propriocettivi sono indispensabili allo svilupparsi dell’attività motoria e probabilmente tutto questo insieme fa parte ed è testimonianza di un’organizzazione “corticale” già assai ricca nel neonato. Il neonato, inoltre, quando la madre od un’altra persona gli parla, lui muove il corpo secondo ritmi ben precisi, attuando una danza ritmata, sulla struttura del discorso, cioè in armonia con il ritmo delle singole parti che esse compongono. Questo comportamento sociale è denominato: sincronia interattiva.
La scoperta della sincronia interattiva spiega come il neonato non è socialmente isolato, ma fin dalla sua nascita partecipa al processo comunicativo. Egli, infatti, usa le sue straordinarie capacità di percezione e di apprendimento in funzione dei suoi bisogni e delle sue esperienze sociali. È evidente che il neonato possiede delle ampie possibilità comportamentali: “ha un sistema percettivo funzionante, alcune abilità motorie ed uno straordinario repertorio di comportamenti sociali che gli consentono di interagire con gli altri”. Dalla nascita fino ai due mesi si avvia il raffinamento delle condotte psicomotorie di base, per il proficuo intrecciarsi dei processi di maturazione e di apprendimento. I primi due mesi di vita del bambino sono caratterizzati dai cosiddetti riflessi arcaici. Essi rappresentano un insieme di reazioni innate, caratterizzate da modificazione della distribuzione tonica, sotto l’aspetto di riflessi di raddrizzamento e di automatismi ritmici degli arti. In altri termini essi sono qualificati come risposte motorie alle stimolazioni dell’ambiente, caratterizzano i primi mesi della vita del bambino e scompariranno con la maturazione del sistema nervoso, la loro assenza o la loro persistenza oltre una certa età sono senz’altro segnali d’allarme di sofferenza neurologica. I riflessi arcaici, quindi, rappresentano la parte più importante della neuro-psicomotricità di questi primi momenti di vita.
- Il riflesso di Moro: sollevando il bambino dal piano prendendolo sotto la schiena e rilasciandolo successivamente, quando lo si tira per i piedi o si picchia sul cuscino dove è appoggiata la testa, si scatena una risposta riflessa che si distingue in due momenti, all’inizio si manifesta un movimento di allargamento delle braccia (estensione-abduzione degli arti superiori), in un secondo momento il bambino allarga le dita a ventaglio e gli arti superiori descrivono un narco di cerchio, in una sorta di abbraccio (flessione-adduzione degli arti superiori). Questo riflesso è presente fin dalla nascita, ma è dal terzo giorno che si manifesta più compiutamente, è più marcato durante le prime otto settimane e scompare prima dei sei mesi.
- Il riflesso di prensione palmare (grasping): stimolando il palmo della mano del neonato con un dito o un oggetto allungato, si genera una reazione di presa a pugno senza flessione del pollice, di una certa intensità si può giungere a sollevare il bambino dal piano del letto per qualche istante. Il riflesso scompare totalmente verso i nove mesi.
- Il riflesso della marcia automatica: sostenendo il bambino per le ascelle con la pianta dei piedi a contatto di un piano d’appoggio e con il tronco leggermente inclinato in avanti, si evoca la successione di passi di marcia. Si osserva più costantemente a partire dal nono al quattordicesimo giorno, ma l’epoca di maggiore evidenza corrisponde alla terza settimana d’età. Va risolvendosi con lenta gradualità e in media si vede scomparire intorno al quarto quinto mese. Tuttavia, può accadere che a sei sette mesi d’età si rimanga in dubbio se si tratti ancora di una marcia riflessa o di una già definitiva.
- Il riflesso di raddrizzamento: in risposta ad una pressione esercitata sulla piante dei piedi, in particolare sul tallone anteriore, si ottiene l’estensione dei diversi segmenti degli arti inferiori, la quale può irradiarsi agli altri segmenti corporei fino ad interessare il capo. Questo riflesso va risolvendosi verso i due tre mesi, almeno in questa sua forma passiva e statica; ricompare sotto forma di schemi più spontanei nella fase del raggiungimento attivo della posizione verticale.
- Il riflesso di piazzamento: nel momento in cui la parte dorsale del piede del bambino, sostenuto in sospensione verticale, tocca il bordo di un tavolo, si produce un sollevamento dello stesso piede, che tende a posarsi al di sopra del piede del tavolo. Si evidenzia in genere a partire dal decimo giorno d’età, mentre non si conosce una data certa della sua scomparsa.
- Il riflesso di allungamento crociato: se viene stimolata la superficie plantare di un arto anteriore fissato in estensione, l’arto controlaterale libero attua in risposta una flessione e quindi una estensione-adduzione per cui si avvicina allo stimolo nocicettivo. Sembra che questo riflesso, piuttosto che alla sua estinzione vada incontro ad un perfezionamento utilitaristico.
- Il “rooting reflex” si ottiene, dopo una stimolazione tattile della cute periorale degli angoli della bocca, sotto forma di rotazione iterata della testa da e verso lo stimolo. Questo movimento termina dal lato dello stimolo, continuandosi con i riflessi labiali e di suzione. Si estingue verso la terza settimana, facendo posto al riflesso dei punti cardinali, il quale si evoca stimolando la cute labiale e consiste in un’apertura della bocca e retroflessione del capo, in risposta alla stimolazione del labbro superiore, e in un abbassamento della mandibola e apertura della bocca e retrazione della lingua. In definitiva il bambino cerca di succhiare il dito che lo tocca innescandosi il meccanismo del riflesso di suzione.
- Il riflesso di suzione: all’introduzione di un dito per 3-4 cm, nella bocca del bambino seguono movimento di succhiamento ritmici. Ad essi succede, in pratica senza soluzione di continuità, il riflesso di deglutizione. Esso si scatena con il contatto dell’alimento con la parete della faringe (è incompatibile con la suzione perché quando il bambino deglutisce non succhia), è un riflesso che non scompare perché è definitivo.
Le reazioni riflesse proprio nel periodo del primo trimestre di vita, iniziano ad attenuarsi fino alla loro risoluzione durante i pochi mesi successivi, la mancanza o il ritardo significativo della loro estinzione sono indici sufficientemente attendibili di probabile patologia nervosa centrale. Anche Piaget dà un’importanza peculiare ai riflessi, infatti ascrive loro il valore di un “patrimonio ereditario che funziona fin dalla nascita”. E fin dalla nascita i riflessi sono già un fattore attivo e fonte di adattamento alla realtà. Piaget afferma che il loro esercizio, in risposta alle sollecitazioni dell’ambiente, porta alla scoperta della possibilità di espletare azioni nuove sull’ambiente. La nuova attività viene incorporata (“assimilata”) nello schema riflesso che ne risulta ampliato. Accade così che il comportamento “innato” dei riflessi si accorda con l’”acquisito” ed inizia il rapporto dialettico tra le strutture ereditarie ed i dati dell’esperienza. Vale a dire che gli esercizi riflessi del primo mese sono il primo anello di una concatenazione evolutiva, si trovano al principio di tutta la storia genetica del comportamento, la quale non è più una successione di eventi maturativi puramente biologici. In tal senso “l’esercizio dei riflessi”, seguendo la teoria piaggettiana, rientra già nell’ambito delle prassie e si pone all’inizio del lungo cammino che appunto dalle condotte riflesse del neonato conduce all’affermarsi della funzione simbolica. La trasformazione dei riflessi domina e qualifica tutta la fase dei primi tre mesi dello sviluppo, e tali riflessi costituiscono l’espressione più vivace e dinamica dello sviluppo psicomotorio, già ricca di importanti premesse per tutte le forme successive di comportamento.
I primi tre mesi, sono anche, il periodo in cui si avvia il controllo statico del capo.
Quest’acquisizione si considera conclusa intorno ai due mesi d’età, ovvero quando, il bambino, sostenuto in posizione verticale, mantiene eretta la testa. Entro il terzo mese diviene stabile. Inoltre, la capacità di mantenere stabilmente la testa eretta e di muoverla senza perdere l’equilibrio, a sua volta consente di migliorare i propri orizzonti visuali. Alla fine del terzo mese il bambino è in grado di seguire con gli occhi i movimenti delle proprie mani, poste davanti al viso, e di studiarne a lungo gli spostamenti. In questa fase, inoltre, sono presenti tutti i presupposti per l’evolversi delle coordinazioni oculo-manuali e della manipolazione degli oggetti, che culmineranno nella prassie.
Il primo trimestre di sviluppo è soprattutto l’epoca in cui si va organizzando il comportamento sociale per eccellenza e cioè il sorriso. Le strutture anatomofunzionali necessarie per il sorriso esistono già alla nascita. Infatti, già durante la prima settimana, diversi stimoli acustici di alta tonalità possono, nel corso di uno stato di sonnolenza o di sonno leggero, dar luogo ad un movimento di sorriso. In questo stadio lo stimolo è neutro, cioè non comporta alcun segnale affettivo. Durante la seconda settimana, si produce un movimento che si manifesta durante lo stato di veglia e lo stimolo ora è più caratterizzato e, tra i tanti, la voce umana a tonalità elevata incomincia a distinguersi come il più attivo. Verso la terza settimana il sorriso è determinato in modo specifico dalla voce umana, privilegiata ovviamente è quella della mamma. Durante queste settimane la percezione visiva di chi parla non aggiunge nulla, mentre a partire dalla sesta settimana il volto umano diventa la causa preminente del sorriso. A partire da tale epoca si entra nella fase del “sorridere dell’altro”, evidenziato da Spizt.
Intorno alla quarantaseiesima settimana d’età il sorriso del bambino sarà il risultato di una risposta alla percezione del volto umano. Lo sviluppo del sorriso sarebbe, quindi, il risultato dell’associazione tra gli stimoli provenienti dall’esterno e quello interno costituito dal piacere (atteso) dall’interrelazione con l’adulto. A questo punto il sorriso assumerà la connotazione di comportamento sociale. Bower, inoltre, afferma che non esiste una sola forma di sorriso. Il bambino possiede una intera gamma di sorrisi fin dalle prime settimane di vita, per cui probabilmente esibisce un sorriso sociale, uno di appagamento, uno di natura intellettuale, etc. È probabile che una composizione di tutti questi aspetti del sorriso si possa trovare proprio nella concezione psicomotoria.
Il sorriso, comportamento complesso, legato allo sviluppo ed alla predeterminazione genetica, è un fenomeno motorio che mette in opera i muscoli facciali necessari, quando questi sono funzionalmente pronti; è un fenomeno intellettivo, che esprime la scelta della persona e dell’oggetto, cui esso è indirizzato, e la conoscenza, per apprendimento, dell’effetto sul mondo esterno; un fenomeno affettivo che anima e orienta movimento e scelta e che esprime il piacere dell’interazione con l’ambiente.
Ajuriaguerra tiene a sottolineare il significato comunicativo del sorriso. L’autore osserva che anche il sorriso iniziale, sebbene possa apparire come una semplice reazione ed eccitazioni interne ed esterne, entra già in sistema relazionale, che immette il bambino nel dialogo con l’altro. L’intimità fisica della relazione che si stabilisce tra la madre ed il neonato è stata paragonata ad una vera simbiosi. All’inizio della vita del bimbo, il momento privilegiato della relazione è quello dell’allattamento al seno più per la natura degli scambi che determina che per ragioni puramente fisiologiche. Il bimbo è in relazione corpo a corpo con la madre, ne sente il calore, il contatto cutaneo, percepisce l’odore della madre e ascolta le sue parole. Esperimenti recenti, hanno evidenziato come il rinforzo essenziale per lo stabilirsi dell’attaccamento, contrariamente a quanto suggeriva Freud, non è di nutrizione, ma di contatto corporeo. Un’importanza peculiare va data al rituale del bagno e della pulizia, con le relative azioni del riscaldare, asciugare, vestire, che apportano al bimbo tutta una serie di sensazioni cutanee. In questo scambio cutaneo, si può dire che il bimbo sia collegato all’istinto materno, perché le relazioni toniche della madre che afferra il bimbo esprimono fedelmente la sua ansia o le sue relazioni emozionali, che non saranno senza effetti sul tono del bimbo stesso. In questo caso si tratta del dialogo tonico di cui parlava Ajuriaguerra. Poiché lo stato tonico del neonato rivela il suo stato mentale, si può concretamente affermare che, con la mediazione dello scambio tonico, il funzionamento psichico della madre induce quello del neonato.
Durante i primi momenti di vita del bambino assistiamo alle grida-pianto, le quali si andranno a sostituire con le vocalizzazioni. Essi sono tra i segnali più importanti che possa esprimere precocemente un bambino. Il pianto ha caratteristiche fin dall’inizio di segnale: deve essere vigoroso, ma variabile per tonalità, qualità e durata, fin dai primi giorni di vita, perché possa informare sullo stato di buona salute del neonato, cui appartiene. Assume un più deciso valore sociale, la sua interruzione, nel corso delle prime settimane, al suono di una voce umana vicina. Lo sviluppo del pianto, come sistema di comunicazione, si articola intorno a due poli: positivo e negativo. In sostanza il bambino piange per esprimere disagio e smette quando un suono attira la sua attenzione, o se viene sottoposto a manipolazioni “amichevoli”. In realtà, secondo le osservazioni di Wolff si sviluppano anche modalità più attive di pianto, che non sono più semplice reazioni ad un disagio, ma piuttosto il segno di una ricerca voluta di attenzione; esse si manifestano intorno alla terza settimana d’età. Si tratta di ciò che Wolff definisce “falso pianto”, una forma di lamenti, di tono e di intensità poco elevati, che mirano ad ottenere risposta dalla madre, la quale tuttavia non sempre ne riconosce il significato e più spesso lo ignorerà, salvi una particolare sensibilità, propri della singola partner. In ogni caso il pianto si “esercita” nel contesto delle relazioni madre-bambino, per poi allargarsi a tutto “l’entourage”. 52
Accanto alle grida, o contemporaneamente ad esse, si manifestano le prime vocalizzazioni; quelle a valenza negativa (suoni nasali, che avrebbero lo stesso significato delle grida pianto) e quelle a valenza positiva (suoni gutturali espressivi di uno stato di soddisfazione). Costituirebbero il primo messaggio dell’individuo alla madre, sebbene vengano prodotti anche in solitudine. Wolff colloca nella terza settimana la data di esordio di tali vocalizzazioni, chiaramente distinte dal pianto “falso” e accorda loro decisamente lo scopo palese di richiamare l’attenzione.
Dall’età di cinque-sei settimane si afferma una vocalizzazione in risposta alle parole della madre. Wolff ha potuto dimostrare che il bambino pronuncia una quantità significativamente maggiore di vocalizzazioni quando il partner gli parla; è anche possibile che avvii una “conversazione” quando questi riproduce le sue vocalizzazioni. A partire dall’ottava settimana , i suoni assumono caratteristiche sempre nuove; il bambino cerca di imitare i suoni percepiti, recuperando i suoni presenti nel proprio repertorio. Il risultato è quello di differenziare maggiormente le singole vocalizzazioni e di creare gli strumenti più adatti a soddisfare il desiderio di entrare in rapporto con gli adulti. Le vocalizzazioni e, secondo alcuni studiosi, anche le grida-pianto, viste in chiave fonetico-strutturale sono semplicemente il momento iniziale dell’acquisizione del linguaggio e vengono collocate nel “periodo prelinguistico”. Tale periodo sarebbe caratterizzato da un’espressione bucco-fonatoria che, in sé stessa, avrebbe ancora uno scarso o nessun valore di comunicazione. Questa ottica però riduce il linguaggio ad una sequenza di avvenimenti e manca di coglierne l’essenza. Se invece si va dentro ai contenuti del linguaggio e se analizzano gli aspetti relazionali e semantici, si può comprendere come una versione fenomenologico-esistenziale attribuisca già a questi suoni un significato comunicativo a pieno titolo. Essi affermano la “presenza vocale” al mondo. Abbiamo tre momenti di vocalizzazione: vocalizzazione di contatto, la quale annuncia la presenza vocale dell’Altro; vocalizzazione di richiamo che traduce il “sono qui per te”, in cui è più esplicita la “direzione verso l’Altro”, essa presuppone l’Altro come probabile fruitore del richiamo e si fonda sulla “carica emotiva propria della vocalizzazione”; infine vocalizzazione di “richiamo individuale”, nella quale si rafforza e prende maggiormente forma la dimensione interpersonale-sociale, diventa un comportamento “vocale-simbolico” che va nel senso della comunicazione tematica, e in definitiva, del dialogo.
Cap. I. LA PSICOMOTRICITA’ Cap. II. LE NOZIONI FONDAMENTALI DELLA PSICOMOTRICITA’ Cap. III. LO SVILUPPO PSICOMOTORIO DEL BAMBINO Cap. IV. L’EDUCAZIONE PSICOMOTORIA NELL’Età PRESCOLARE Tesi di Laurea di: Maria PADOVANO
Indice
INTRODUZIONE
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA