EMOZIONI E COMPORTAMENTO
Le emozioni assumono un ruolo centrale nella vita degli esseri umani. Lo stato emotivo determina difatti la condizione di benessere o malessere delle persone e ne influenza le azioni, dunque il comportamento. La parola emozione ha in sé il significato di movimento, infatti deriva dal latino emotus, ossia portar fuori. Le emozioni hanno il compito di adattare il nostro comportamento al mondo esterno, senza di esse saremmo statici e la nostra capacità adattativa sarebbe pari a zero.
Cenni di neurobiologia delle emozioni
Le emozioni nascono nella parte più antica del nostro cervello, ovvero il sistema limbico, in comune con altri mammiferi. Il sistema limbico è un complesso di nuclei e fasci che si trovano lungo il confine (limbus) tra cervello e diencefalo. Le funzioni del sistema limbico comprendono (1) controllo degli stati emozionali e delle condotte comportamentali correlate; (2) collegamento delle funzioni intellettive consce della corteccia cerebrale con le funzioni autonome inconsce delle altre parti dell’encefalo; (3) archiviazione della memoria.
Alcuni dei nuclei più importanti sono l’amigdala e l’ippocampo. L’amigdala è forse la struttura che gioca il ruolo più importante nell’emozione grazie ai suoi collegamenti con il talamo, la formazione nervosa situata al di sotto della corteccia e a cui pervengono tutti quegli stimoli che per le loro caratteristiche visive o uditive possono "scatenare" un'emozione. L'amigdala induce reazioni vegetative (aumento del ritmo cardiaco, della pressione, sudorazione, dilatazione della pupilla ecc.), ormonali (aumento degli ormoni della surrenale e della tiroide a causa dell'attivazione dell'ipofisi) e comportamentali. Queste ultime sono dovute all'attivazione dei cosiddetti "gangli della base", formazioni nervose da cui dipendono automatismi motori come quelli implicati nella produzione delle espressioni facciali. L’amigdala si attiva soprattutto durante esperienze emozionali molto intense ed è legata specialmente ad una tonalità affettiva negativa ma è anche implicata nella decodifica di informazioni sociali salienti e per l’elaborazione di espressioni facciali ambigue (Phan et al, 2004).
L’ippocampo, invece, risulta essere coinvolto nei processi di memoria ed è connesso con l’amigdala; questo collegamento è fondamentale per la formazione delle paure apprese contribuendo al richiamo di ricordi emotivamente significativi.
Un’altra struttura nervosa coinvolta nei processi emozionali è il talamo, una formazione ovoidale costituita da cinque tipi di nuclei, in particolare i nuclei anteriori risultano essere coinvolti nella regolazione dello stato d’allerta e quindi dell’ansia; e i nuclei mediali che sono correlati al mantenimento della coscienza degli stati emozionali.
L’autoregolazione emotiva
Le emozioni hanno un impatto significativo sul funzionamento generale del soggetto, motivo per cui imparare a gestire le proprie emozioni è il presupposto fondamentale per raggiungere quello stato di benessere che consenta di influenzare positivamente le azioni dell’individuo, evitando, al contrario, che un’insufficiente regolazione emotiva generi comportamenti disfunzionali.
A tal proposito, per il genitore è fondamentale aiutare il bambino ad acquisire abilità di autoregolazione emotiva efficaci, configurandosi, questo, come un importante fattore di prevenzione e protezione rispetto a diverse problematiche psicopatologiche.
Per autoregolazione emotiva si intende, quindi, quella capacità complessa che consente di gestire le proprie emozioni e di rispondere emotivamente alle richieste ambientali in un modo socialmente accettabile. Esse deve anche avere la caratteristica di flessibilità per essere in grado di adattarsi a ciascuna situazione prevista dal contesto, sperimentare reazioni spontanee e ritardare queste quando non sono opportune alla circostanza, permettendo, dunque, di modificare il proprio comportamento quando necessario. L’autoregolazione emotiva può essere definita come una forma di controllo delle proprie emozioni attraverso l’attivazione di una serie di strategie che consente di modificare emozioni, sia positive che negative, prodotte da eventi esterni che alterano l’umore abituale.
A contribuire allo sviluppo della regolazione emotiva e dell’apprendimento delle strategie di regolazione vi sono sia i fattori intrinseci che estrinseci. Anche se i fattori intrinseci (fattori biologici, temperamentali e cognitivi) giocano un ruolo importante per la nascita e lo sviluppo di questa capacità, essa è influenzata, in misura diversa, da numerosi fattori esterni. Primo fra tutti la qualità dell’interazione con il caregiver e successivamente gli insegnamenti espliciti grazie ai quali il bambino impara a comportarsi in accordo con le norme e con le aspettative dei genitori.
La regolazione delle emozioni inizialmente è, dunque, mediata dal caregiver, e successivamente, nel corso dello sviluppo, si presenta come una modalità maggiormente autonoma e consapevole.
Le tappe dello sviluppo della regolazione emotiva
Volendo tracciare le principali fasi dello sviluppo della regolazione emotiva, è possibile individuarne quella iniziale che copre il primo anno di vita in cui è fondamentale il ruolo dell’adulto per dare significato alle esperienze del bambino. È importante che i genitori, e in genere gli adulti, facciano attenzione allo stato emotivo dei bambini. In particolare, un atteggiamento giudicante e poco empatico risulta disfunzionale e può spingere i bambini a reprimere le loro emozioni, in quanto etichettate come “sbagliate”. Al contrario, un atteggiamento empatico che riconosce e valida l’esperienza emotiva dei più piccoli, comunica che tutte le loro emozioni sono importanti e che queste non sono pericolose e possono essere gestite. A seguito di interventi empatici da parte dei genitori, essi iniziano ad accettare ed elaborare le proprie emozioni, ottenendo una migliore consapevolezza e controllo emotivo. Un esempio di atteggiamento empatico nei confronti del proprio bambino è rispondere prontamente e in modo congruo ad un pianto o un sorriso. Tuttavia, durante questa fase sono presenti anche condotte autoregolatorie da parte del piccolo come la suzione del pollice (adottata per calmarsi durante le situazioni stressanti o per trovare quella sicurezza e tranquillità che concilino il sonno) o sottrarre lo sguardo ad un stimolo particolarmente eccitante.
Alla fine del primo anno di vita compare anche il fenomeno del riferimento sociale in cui il bambino usa l’emozione espressa dal genitore per regolare il proprio stato emotivo e il proprio comportamento.
Tra i 12 e il 36 mesi, invece, le strategie di regolazione emotiva sono prevalentemente di tipo comportamentale; infatti è possibile osservare la ricerca attiva di alcune persone da parte dei bambino (in generale l’adulto di riferimento), la richiesta di vicinanza e di contatto fisico per ottenere sicurezza, conforto e consolazione nonché condotte di evitamento. Queste ultime rappresentano una strategia comportamentale messa in atto allo scopo di sottrarsi dall’esposizione a situazioni, persone, eventi temuti, cioè che suscitano emozioni considerate negative per chi le sperimenta, permettendo al bambino di sottrarsi da un pericolo o minaccia reale. Inoltre, grazie alla capacità di gioco simbolico e di finzione i bambini iniziano ad utilizzare l’attività ludica per rielaborare e dare un senso ad esperienze emotive intense. In tale periodo il caregiver, pur avendo un ruolo minore nella regolazione emotiva, continua comunque a svolgere una funzione fondamentale, soprattutto fornendo sostegno durante esperienze emotive intense e di lunga durata.
Successivamente, nel periodo prescolare (3-5 anni circa), matura gradualmente la capacità di autoregolazione emotiva. Anche in questa fase la mutua regolazione tra bambino e genitore è importante ma in maniera diversa. La figura del genitore è usata come base per contenere gli impulsi, definire i limiti e le regole, mentre il bambino assume gradualmente un ruolo più attivo e facendosi promotore di iniziativa. Il pieno sviluppo del gioco simbolico che consente di utilizzare gli oggetti e le persone in modo allegorico rappresenta una forma fondamentale di regolazione emotiva che, utilizzata insieme al linguaggio, aiuta nella gestione delle emozioni.
Dopo i 5-6 anni gli importanti cambiamenti nell’ambito dello sviluppo cognitivo, sociale e morale comportano l’adozione di strategie regolatorie più complesse che consentono al bambino di mettere in atto strategie di coping appropriate ai diversi contesti sociali (Saarni, 1999, citato in Barone, 2007).
Favorire la regolazione emotiva: il ruolo del genitore
Come accennato nei paragrafi precedenti, la capacità di autoregolazione emotiva non può prescindere, soprattutto nei primi anni di vita, dal sostegno dell’adulto di riferimento che, dando un significato consono alle diverse esperienze dal bambino, plasma questa importante competenza adattiva che andrà inevitabilmente a riflettersi anche sul comportamento.
Sono diverse, infatti, le situazioni problematiche con cui il bambino si ritrova ad interagire, soprattutto nei primi mesi di vita, ed è proprio in queste situazioni che il genitore ha il ruolo fondamentale di ripristinare la calma e lo stato positivo del piccolo attraverso un adeguato care.
Le circostanze problematiche possono essere di varia natura, ad esempio le incomprensioni o la mancata sintonizzazione tra caregiver e bambino o, ancora, affrontare un’esperienza nuova come l’arrivo di una persona estranea. In questi casi il genitore potrebbe impiegare le proprie espressioni facciali che, adattate e combinate ad un intonazione e tono di voce adeguati, possono sostenere il piccolo a ritrovare tranquillità, manifestandogli, dunque, comprensione e sostegno.
Dopo i primissimi mesi di vita le situazioni potenzialmente problematiche potrebbero scaturire dal gioco che diventa più movimentato dal punto di vista fisico. In questi momenti, è probabile che il livello di eccitazione del bambino diventi particolarmente intenso, ed è per questo motivo che cercare di divertirsi senza farsi sopraffare dalle emozioni può servire ad allenare la capacità di regolazione del bambino, ma anche del genitore.
Inoltre, tra i 18 e i 24 mesi si verifica un fisiologico aumento dei comportamenti aggressivi che accompagnano un gioco fisico che diventa più complesso e turbolento. L’attività ludica è, infatti, caratterizzata da frequenti episodi in cui si gioca alla lotta o ad inseguire l’altro giocatore in cui il bambino può esercitarsi a gestire emozioni estreme in un contesto sicuro. È proprio la sicurezza del contesto uno dei fattori che aiuta il bambino a sviluppare la propria capacità autoregolatoria, ma anche il genitore ha un ruolo fondamentale: non consentire al proprio bambino di essere eccessivamente dominante nel gioco impedendo che le sue emozioni vadano fuori controllo.
Man mano che il bambino impara a comprendere il linguaggio, il genitore riesce sempre di più ad aiutarlo a gestire le proprie emozioni e regolare il proprio comportamento attraverso il dialogo spiegando, ad esempio, perché certi comportamenti siano desiderabili e altri inaccettabili e parlando delle emozioni che si provano in situazioni difficili.
La disregolazione emotiva
Nelle situazioni in cui il genitore non è in grado, spesso per motivi indipendenti dalla sua volontà, di fornire un adeguato sostegno al figlio, può essere difficile per il bambino sviluppare buone capacità di autoregolazione, figurandosi come fattore di rischio per la disregolazione emotiva.
La disregolazione emotiva indica l’incapacità da parte dell’individuo di saper riconoscere e regolare le proprie emozioni, intensificandole o inibendole, sia che esse siano positive o negative.
Caratteristiche distintive della disregolazione emotiva sono gli improvvisi cambiamenti di umore, comportamenti impulsivi, dipendenze affettive e, in alcune circostanze, difficoltà a regolare in modo consapevole i propri pensieri. Essa implica una alterata comprensione e accettazione delle emozioni, nonchè incapacità di controllare quelle negative e quindi di agire in modo coerente ai propri obiettivi.
Alcuni soggetti hanno anche difficoltà, oltre ad esprimere emozioni, a riconoscerle negli altri, e difficoltà del distinguere i propri stati mentali da quelli degli altri. Difatti la disregolazione emotiva è spesso associata a difficoltà nella comprensione delle emozioni, sia proprie che altrui.
Condotte genitoriali e difficoltà di autoregolazione
Diversi studi hanno messo in luce la relazione tra stili di interazione difficile del genitore e l’insorgenza di difficoltà di autoregolazione emotiva nel figlio. In particolare, sono stati individuati tre stili di interazioni: lo stile ritirato, quello intrusivo e quello di tipo ansioso-iperprotettivo.
Nello stile ritirato, il caregiver non risponde ai segnali del bambino o addirittura non li nota, restando ritirato in sé stesso, chiuso nel suo isolamento. Questo comportamento è tipico del genitore con disturbo depressivo che mostrando minore interesse, affetto e coinvolgimento emotivo adotta uno stile distaccato producendo una serie di effetti negativi sul bambino. Infatti, di fronte a questa perdurante mancanza di contatto, diventa per lui difficile continuare a sforzarsi di coinvolgere il genitore e regolare il proprio stato emotivo e il proprio comportamento così che anch’egli a sua volta inizierà a provare disagio e ad isolarsi dagli altri.
Nello stile intrusivo, invece, l’adulto può percepire i segnali sociali del bambino in maniera distorta. Ad esempio durante un interazione è possibile che il bambino interrompa momentaneamente il contatto, in questi casi può succedere che il genitore cerchi di forzare il piccolo a ristabilire il contatto prima che lui sia pronto soffocandolo con la propria intensa stimolazione. Se questo schema è ricorrente, la capacità del bambino di gestire le proprie emozioni ed esperienze difficili potrebbe ridursi scivolando in uno stato di mancanza di regolazione. Anche in questo caso una delle patologie genitoriali frequentemente associata a questo stile è la depressione; infatti come accennato nei capitoli precedenti, la depressione materna genera dei comportamenti che oscillano tra l’intrusività e il distacco emotivo.
C’è infine lo stile ansioso - iperprotettivo in cui il genitore ha difficoltà nel dare al bambino l’opportunità di regolare da solo le proprie emozioni in quanto sente di doverlo proteggere o incoraggiare ad evitare le esperienze difficili. Tuttavia, soprattutto se il bambino ha una tendenza ad essere particolarmente inibito, il genitore potrebbe impedirgli di imparare a gestire in modo autonomo situazioni potenzialmente complesse. Inoltre le manifestazioni ansiose da parte dei genitori possono influenzare le sue reazioni a tal punto da diventare egli stesso pauroso. Chiaramente il disturbo psicopatologico genitoriale più frequentemente associato a questo comportamento è il disturbo d’ansia generalizzato.
Problematiche comportamentali internalizzanti ed esternalizzanti
Diverse ricerche hanno messo in evidenza come una scarsa regolazione delle emozioni, sia positive che negative, risulti associata a problemi esternalizzanti del comportamento del bambino, mentre una eccesiva inibizione nella regolazione delle emozioni è correlata a problemi internalizzanti e all’ansia sociale (Eisemberg et al, 1996).
I Disturbi Esternalizzanti riguardano quelle situazioni in cui il disagio del bambino si riversa verso l’esterno, diventando disfunzionale nei confronti del contesto. Essi si caratterizzano per la presenza di aggressività, problemi nella concentrazione, impulsività, iperattività, rabbia e, spesso, bullismo. La rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia fisica che psicologica, mentre l’aggressività nasce dall’impedimento a un certo stimolo o a determinati bisogni. L’impulsività, invece, comporta la mancata organizzazione di azioni complesse a causa di un’eccessiva fretta nell’agire e nel pensare. Ad esempio, un bambino impulsivo può essere colui che mostra difficoltà nel rispetto dei turni durante il gioco o nell’attendere la fine di un domanda prima di dare la risposta. Dunque vi è un’incapacità di riflettere, mediare e dilazionare le risposte comportamentali in relazione alle richieste del contesto.
L’impulsività è strettamente legata all’iperattività, infatti se nell’impulsività troviamo la mancanza parziale del controllo inibitorio, in questo caso esso è totalmente assente. Il bambino iperattivo, infatti, è colui che mostra difficoltà nel rispettare le regole, i tempi e gli spazi dei coetanei, e nell’assumere tutti quegli atteggiamenti a significato adattivo in relazione al contesto di riferimento. L’iperattività si caratterizza per la presenza di livelli di attività motoria particolarmente elevati; il soggetto infatti appare incapace di stare fermo e, anche quando sta fermo, si agita muovendo in continuazione mani e piedi come se fosse costantemente sotto pressione. Appare ovvio come questi bambini privilegino attività ludiche movimentate come corsa e salti, mentre abbiano difficoltà a dedicarsi a giochi tranquilli come quelli a tavolino.
I Disturbi Internalizzanti, invece, sono contraddistinti da sintomi di ipercontrollo, cioè il bambino tende a regolare i propri stati emotivi e cognitivi in modo eccessivo e inappropriato. Il termine “interiorizzante” indica proprio che i problemi in questione sono sviluppati e mantenuti all’interno. Tra i più frequenti ci sono l’ansia, sintomi depressivi, ritiro sociale, abulia e apatia.
Il ritiro sociale rappresenta una condizione che si manifesta in associazione all’ansia o alla depressione. I bambini socialmente ritirati evitano la compagnia altrui e possono essere scarsamente responsivi alle iniziative sociali dei coetanei e presentare deficit comportamentali nel fare e mantenere amicizie.
L’abulia delinea un progressivo indebolimento della volontà nell'intraprendere qualsiasi iniziativa. Comporta un'inibizione dell'attività fisica e cognitiva: il soggetto esita nel prendere una decisione in maniera autonoma e nel compiere una determinata azione, pur essendo consapevole della necessità di dover portarla a termine. Nei casi più gravi, l'abulia porta alla sospensione di qualsiasi atto volontario, conducendo il piccolo paziente all'inerzia totale
L’apatia, invece, comporta una diminuzione o, addirittura, l’assenza di qualsiasi reazione emotiva di fronte a situazioni, eventi della vita di tutti i giorni. Si esprime sotto forma di indifferenza, inerzia fisica, assenza di spirito di iniziativa e difficoltà relazionali.
Entrambe le tipologie di disturbi, sia internalizzanti che esternalizzanti, risultano essere correlati a determinati pattern di attaccamento durante l’infanzia. In particolare, gli studi di Lyons-Ruth (1987, 1990) riportano dati significativi in cui un attaccamento insicuro-disorganizzato predisporrebbe a disturbi esternalizzanti in età scolare, mentre un attaccamento insicuro-evitante sfocerebbe in sintomatologie internalizzanti.
Correlazione con attaccamento e psicopatologia genitoriale
Nei capitoli precedenti abbiamo descritto l’attaccamento insicuro disorganizzato come una relazione caratterizzata dalla presenza di una figura genitoriale “spaventata/spaventante” che assume, nei confronti del bambino, comportamenti incoerenti, contraddittori e non finalizzati, spesso anche violenti. In tali contesti relazionali viene pertanto a crearsi una spirale di paura che diventa disorganizzata in quanto il bambino non trova un equilibrio tra il sistema di difesa (attraverso la messa in atto di risposte di fuga o di attacco) e quello di attaccamento (attraverso la ricerca nel caregiver di vicinanza protettiva e conforto). Per tale ragione, non riuscendo a fronteggiare l’intensa paura, si verifica nel bambino un crollo delle strategie comportamentali e attentive. Questa distorsione nella relazione comporta la formazione di Modelli Operativi Interni di tipo disorganizzato. Tali rappresentazioni mentali, oltre che emotivamente cariche dell’esperienza di paura, sono multiple, non integrate e dissociate rispetto all’idea di sé e dell’altro (Hesse & Main, 2000; Liotti & Farina, 2011).
Sono proprio questi modelli disorganizzati, in associazione alle esperienze di paura, confusione e rabbia inespressa nei confronti di una figura di riferimento estremamente ambigua e, in molti casi addirittura violenta sia dal punto di vista fisico che psicologico, a promuovere l’insorgenza dei disturbi esternalizzanti in età evolutiva, che tendono a perdurare anche in adolescenza. Dunque, nel momento in cui la disorganizzazione dell’attaccamento sia imputabile ad un disturbo psicopatologico genitoriale, questa può essere fautrice dell’insorgenza di tali problematiche comportamentali nel bambino.
A tal proposito la letteratura rileva un’associazione tra Disturbo Bordeline di personalità nel genitore ed esiti psicopatologici nei bambini; i particolare i figli di madri con DBP sono più a rischio di sviluppare a loro volta un DBP, disturbi dello spettro impulsivo e ADHD i cui sintomi distintivi sono proprio inattenzione, impulsività e iperattività, quindi sintomi propriamente esternalizzanti.
Tuttavia, pur in assenza di disturbi psicopatologici, il genitore può adottare particolari stili educativi che possono facilitare l’insorgenza di queste problematiche, ad esempio un’educazione particolarmente severa, punizioni fisiche e una disciplina incoerente che generano dei circoli viziosi in cui, entrambe le parti, rimangono bloccate. È dunque fondamentale riuscire a sostituire uno stile educativo “autoritario” con uno “autorevole”, che riunisce in sé fermezza ma anche affetto.
Nel caso dell’attaccamento insicuro evitante, diversi studi suggeriscono, come detto più volte, che i bambini insicuri-evitanti sperimentano il rifiuto costante da parte dei genitori, soprattutto nei momenti di difficoltà in cui cercano conforto e durante le quali il loro sistema di attaccamento è stato altamente attivato (Ainsworth et al., 1978). Quindi la tendenza del bambino evitante a minimizzare le emozioni negative come la rabbia, la tristezza e l’angoscia consente a quest’ultimo la possibilità di garantirsi la prossimità con il caregiver; tali bambini, infatti, sembrano affettivamente neutri, non mostrano apertamente né segnali di stress alla separazione e né di piacere alla riunione con il caregiver. Proprio questa strategia di regolazione emotiva è finalizzata al mantenimento della vicinanza alla figura di attaccamento in quanto il sistema motivazionale nel bambino sembra essere “la mamma starà con me se eviterò qualsiasi trambusto”. L’evitamento e il mascheramento delle emozioni riducono il livello di arausal del bambino e quindi prevengono l’espressione di rabbia verso la figura di attaccamento, in modo da non distruggere il legame con quest’ultima (Cassidy, 1994). È importante sottolineare che il mascheramento delle emozioni non sta a significare che il bambino non sperimenti l’attivazione emotiva, ma semplicemente non viene espressa. Dunque, questa si caratterizza come una modalità di sovra-regolazione emotiva. Inoltre, non solo le emozioni negative, ma anche quelle positive sono minimizzate dal bambino insicuro-evitante. Ad esempio la gioia potrebbe essere ridotta perché segnala l’apertura e la disponibilità per l’interazione.
Tuttavia, se questa strategia di minimizzazione può risultare adattiva nel contesto del rapporto con la figura di attaccamento, può essere disadattiva in altri contesti, e generare le anzidette condotte internalizzanti patologiche.
Così come alcuni quadri psicopatologici genitoriali correlati ad un attaccamento disorganizzato possono generare disturbi esternalizzanti, anche le psicopatologie legate ad un attaccamento evitante possono facilitare l’emergere di condotte internalizzanti. Ma anche in questo caso, pur in assenza di vere e proprie affezioni diagnosticate, i genitori possono assumere specifici stili educativi che possono facilitare l’insorgenza di problemi di interiorizzazione nel bambino, ad esempio un comportamento iperprotettivo, scarso incoraggiamento ed evidenti manifestazioni d’ansia. Quando il figlio ha sviluppato paure o preoccupazioni profonde o mostra un comportamento notevolmente inibito o timido, è comprensibile che i genitori desiderino ridurre il suo disagio; di conseguenza, potrebbero diventare iperprotettivi. Essi potrebbero avere difficoltà a mantenere un atteggiamento positivo e a incoraggiare affettuosamente il figlio, quando questi si trova ad affrontare situazioni problematiche. Il timore che il figlio non riuscirà a farcela da solo induce il genitore a intervenire per risolvere il problema al suo posto, qualunque sia il grado di difficoltà, impedendo in tal modo al bambino di acquisire l’esperienza necessaria a caversela in modo autonomo.”
Principali quadri clinici con problematiche esternalizzanti del comportamento
Secondo le recenti categorie diagnostiche, è possibile riscontrare le caratteristiche delle problematiche esternalizzanti in tre diversi disturbi: il Disturbo Oppositivo-Provocatorio, il Disturbo della condotta e il Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente.
Il Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) è un quadro clinico caratterizzato da un insieme di comportamenti che assumono l’aspetto di un continua sfida nei confronti delle figure dell’ambiente significativo. L’atteggiamento emotivo di fondo è inoltre caratterizzato da un sentimento di irritabilità e frequenti scoppi d’ira, difatti nel DOP prevalgono i problemi legati alla regolazione delle emozioni quali collera, rabbia e irritabilità.
Il quadro clinico esordisce in genere in età prescolare (dai 3 ai 6 anni) e si esprime con una serie di comportamenti disfunzionali, quali: umore collerico e/o irritabile, comportamento provocatorio, tendenza alla vendicatività.
Relativamente al primo, è presente una bassa tolleranza alle frustrazioni, per cui il bambino va in collera spesso anche per motivi apparentemente futili. Essendoci un umore di fondo irritabile, le richieste dell’ambiente vengono percepite come potenzialmente frustranti. Inoltre, questi bambini sono molto permalosi, per cui anche ad una semplice battuta possono rispondere con un atteggiamento eccessivamente contrariato e alterato.
Per quel che riguarda il comportamento provocatorio, questo comporta difficoltà ad accettare le regole e la tendenza ad anteporre ed imporre i propri bisogni. Pertanto questi bambini litigano spesso con i coetanei o la figura di riferimento, e in alcuni casi deliberatamente per cercare la lite. Addirittura il desiderio di sfidare l’altro si realizza mettendo in atto una serie di comportamenti finalizzati a esasperare l’adulto provocando in esso rabbia.
Infine c’è il comportamento vendicativo che viene utilizzato per vendicarsi appunto di torti reali o presunti; infatti il bambino non riesce ad elaborare i vissuti di rabbia e frustrazione per cui rimugina sull’esperienza e mette in atto strategie vendicative.
Il Disturbo della Condotta viene definito dal DSM-V come un quadro clinico caratterizzato dalla presenza di una serie di comportamenti inadeguati in cui i diritti fondamentali degli altri oppure le norme o le regole della società appropriate per l’età adulta vengono violate. Questi comportamenti risultano essere persistenti e pervasivi.
Il disturbo può avere un esordio precoce già prima dei 10 anni e manifestarsi con atteggiamenti quali: prepotenza nei confronti degli altri bambini, bullismo, disobbedienza e violazione delle regole sia in ambito familiare che extrafamiliare. Frequente è anche la crudeltà nei confronti di persone e animali. La peculiarità di questi bambini è che tendono ad accusare gli altri compagni dei propri misfatti, in quanto sono portati a travisare le intenzioni altri, per cui giustificano il proprio comportamento come “ragionevole” risposta ad atteggiamenti ostili e minacciosi degli altri. È proprio questo uno dei fattori che potrebbe far pensare che in tenera età il bambino abbia assistito a condotte inadeguate nei suoi confronti che abbiano veicolato l’emergere di una profonda disregolazione emotiva, per cui nel tentativo di difendersi da tali comportamenti ne ha adottato degli altri altrettanto disfunzionali e disadattivi.
In ambito scolastico, l’apprendimento è spesso al di sotto del livello previsto sulla base dell’età e dell’intelligenza; bassa è anche la tolleranza alle frustrazioni, con modalità reattive caratterizzate da iper-reattività e rabbia.
Dal punto di visto affettivo-relazionale, i bambini con Disturbo della Condotta presentano scarsa attenzione e interesse limitato per le emozioni e il benessere altrui, difatti presentano tratti di freddezza, insensibilità, appiattimento emotivo e anaffettività. Questo quadro definisce, più in generale, un deficit di empatia che impedisce al soggetto di assumere la prospettiva dell’altro e, quindi, di desistere dai comportamenti che generano in esso sofferenza.
Il Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente rappresenta una categoria diagnostica caratterizzata dalla presenza di una condizione di irritabilità persistente che incide in modo significativo sulla qualità del funzionamento adattivo del bambino. È come se esso fosse costantemente arrabbiato per tutto e contro tutti; frequenti ed intense sono le esplosioni di ira, le cui cause sono, il più delle volte, difficilmente riconoscibili. Sia a scuola che nelle attività del tempo libero, l’atteggiamento assunto è tipicamente irritabile il che rendono il bambino intrattabile, motivo per cui viene spesso evitato ed escluso dai coetanei. Tuttavia questo atteggiamento aumenta una spirale negativa in cui il bambino avverte il rifiuto dell’altro manifestando un senso di inadeguatezza e rabbia.
Principali quadri clinici con problematiche internalizzanti del comportamento
Per quel che riguarda i sintomi internalizzanti, le patologie più frequenti in cui si osservano sono sicuramente i Disturbi d’Ansia, la Depressione e l’Alessitimia.
Per quanto riguarda i Disturbi d’Ansia, è bene effettuare preventivamente una distinzione tra ansia fisiologica e patologica. L’ansia, in generale, rappresenta uno stato emozionale che emerge in risposta a situazioni nuove e/o potenzialmente pericolose, quella fisiologica non è anacronistica, cioè non è collegata ad esperienze passate ma ad esperienze presenti; è collegata a situazioni reali e non a situazioni immaginarie, e non è ricorrente dunque non fa parte delle modalità abituali di comportamento. Mentre l’ansia patologica si manifesta con modalità diverse in rapporto al livello di sviluppo: quanto più è piccolo il bambino tanto più l’ansia si esprime con manifestazioni che coinvolgono l’intero organismo. In generale i sintomi più comunemente descritti sono pensieri negativi e irrealistici, attacchi di panico, interpretazioni errate di sintomi ed eventi, ossessioni e/o comportamenti compulsivi, paura e ansia relativi a specifici eventi o situazioni, preoccupazione eccessive e generalizzate nonché reazioni fisiologiche (nausea, tremori, sudorazione e innalzamento dell’arousal).
I disturbi d’ansia più frequenti in età evolutiva sono: Disturbo d’ansia da separazione, il Disturbo d’ansia generalizzato e il Disturbo fobico.
Il Disturbo d’ansia da separazione comporta sentimenti di paura o ansia eccessiva riguardante la separazione da casa o dalle figure di attaccamento. L’ansia va oltre quella che ci si può aspettare in base allo stadio di sviluppo del bambino (un’ansia da separazione può essere ritenuta fisiologica intorno all’ottavo mese di vita), e si manifesta in modo ricorrente in molte situazioni: quando si sperimenta la separazione da casa o dalle principali figure di accudimento, in relazione all’idea di perderli o che possa succedere loro qualcosa, nello stare soli a casa o in altri ambienti, lontani dalla figura di riferimento. Frequenti sono gli incubi che implicano il tema della separazione e le lamentele di sintomi somatici (mal di testa, dolori di stomaco, nausea, vomito) quando si verifica o si prevede la separazione dal caregiver.
Il Disturbo d’ansia generalizzato, così come quello dell’adulto, è caratterizzato dalla presenza di ansia e preoccupazioni eccessive. I bambini con disturbo d’ansia generalizzato “hanno paura di tutto”: quando vengono lasciati da soli, quando devono fare nuove esperienze, quando sono chiamati a svolgere un compito, hanno paura di eventi catastrofici (terremoti, guerre) e di eventi naturali (temporali). Nei bambini più piccoli il disturbo d’ansia generalizzata si manifesta con sintomi somatici quali mimica tesa, irrequietezza, manifestazioni vegetative; mentre nei bambini più grandi vi è la verbalizzazione di una preoccupazione eccessiva.
Le Fobie sono paure ingiustificate nei confronti di un oggetto o evento specifico, il contatto con il quale determina nel bambino reazioni intense di angoscia. Nei confronti della fobia il bambino tende ad utilizzare strategie difensive rappresentate tipicamente dall’ evitamento. La presenza dell’evento fobogeno scatena nel bambino intense reazioni di angoscia che si traducono sul piano comportamentale in pianto, scoppi d‘ira, irrigidimento e manifestazioni neurovegetative. Inoltre, il livello di ansia o paura varia in funzione sia della vicinanza allo stimolo fobico che alla possibilità di allontanarsi a esso.
La Depressione rappresenta il grado di attivazione più basso del tono dell’umore e assume modalità espressive differenti in rapporto all’età del bambino. Nei primi tre anni di vita si manifesta con irritabilità, pianto frequente “immotivato”, disturbi del sonno, ritardo o regressione psicomotoria, scarsa curiosità nei confronti dell’oggetto, disturbi dell’alimentazione (…).
Tra i 4 e i 6 anni, invece, si assiste a sintomi quali tristezza/irritabilità, interesse ridotto per il gioco, ansia da separazione, bassa tolleranza alla frustrazione, tendenza a ritirarsi di fronte alle difficoltà (…).
Tra i 7 e i 12 anni si manifesta una sintomatologia molto più vicina a quella dell’adulto, quali fantasie di morte, bassi livelli di autostima, sensi di colpa, apatia, tendenza ad annoiarsi in attività piacevoli per l’età, sentimenti di non essere amato dagli altri e lamentele somatiche.
L’Alessitimia si configura come un quadro clinico che si manifesta con l’incapacità di riconoscere ed esprimere il proprio stato emotivo e questa incapacità si traduce poi in uno stile cognitivo molto concreto. Nel bambino, come nell’adulto, l’alessitimia rappresenta una difficoltà a sentire e modulare i propri sentimenti, a parlare e pensare su affetti ed emozioni proprie e altrui. Questi bambini hanno una relazione con sé e con il mondo esterno che esclude il riferimento agli stati emotivi.
I processi di immaginazione sono deboli e la fantasia risulta di conseguenza scarsa; raramente ci si entusiasma o si mostra interesse per qualcosa. Possono, inoltre, verificarsi esplosioni di collera o di pianto, senza tuttavia riconoscerne il motivo. I sogni non vengono ricordati quasi mai e sono prevalentemente incubi. La comunicazione è povera di connotazioni emotive e dunque risulta essere poco efficace, motivo per cui questi bambini vengono rifiutati dai coetanei e tendono ad andare incontro all’ isolamento sociale, aumentando il rischio di rimanere bloccati in un circolo vizioso.
Va evidenziato che, qualunque possano essere le cause della disfunzione, il bambino nasce, cresce e sviluppa la struttura della sua personalità all’interno di un sistema principale, costituito dal nucleo familiare, e di un contesto educativo specifico. “L’ambiente familiare, infatti, con il suo clima può accentuare come limitare la disfunzione di tipo organico e può originare lo sviluppo della disfunzione di tipo affettivo e/o nevrotico […]. Le basi psicoaffettive del bambino si strutturano in famiglia, che offre non solo gli stimoli, ma anche il contesto emozionale, nel quale il bambino già prima di nascere si trova inserito. […] Il clima familiare crea l’ambiente e la rete relazionale, in cui il bambino ha da trovare una sua chiara posizione psicoaffettiva come realtà autonoma e nello stesso tempo interdipendente. Un deficit nel processo identificatorio può causare arresti, inibizioni, espansioni irregolari (falso Sé), instabilità di base.” (Gilberto Gobbi, “Tempo e Spazio”).