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LO SVILUPPO COMUNICATIVO - SOCIALE: strumenti di screening e criteri semeiologici nel corso dei primi tre anni di vita.

LO SVILUPPO COMUNICATIVO-SOCIALE

Con il termine di sviluppo comunicativo-sociale viene indicato il processo mediante il quale il bambino acquisisce progressivamente quelle competenze che gli permettono di “capire” e di padroneggiare le modalità comportamentali, i codici comunicativi e le regole che definiscono le relazioni del gruppo sociale di appartenza.

Il termine di Sviluppo Comunicativo-Sociale viene attualmente preferito a quello di Processo di Socializzazione, più spesso utilizzato in passato. Il motivo di tale preferenza è legato al fatto che con il termine di Processo di Socializzazione veniva eccessivamente enfatizzato il ruolo dell’ambiente, quale fattore esclusivo nel “plasmare” il bambino e portarlo ad acquisire le regole del gruppo sociale. In questa prospettiva, sia il modello psicoanalitico che quello comportamentista ignoravano le potenzialità del bambino nel condizionare le caratteristiche del processo di socializzazione. Attualmente, viceversa, viene riconosciuto al neonato un preadattamento geneticamente determinato ad agire ed interagire con l’ambiente sulla base di un’innata spinta “sociativa”. Pertanto, il termine di Sviluppo Comunicativo-Sociale vuole enfatizzare il ruolo determinante del bambino che in accordo ad una serie di competenze “potenziali” si pone come protagonista di questo processo, conferendogli caratteristiche personali ed originali.

Lo studio dello sviluppo comunicativo-sociale prevede tre aspetti fondamentali:

  • la presa di coscienza di Sé
  •  la presa di coscienza dell’Altro
  • la presa di coscienza di Sé-con-l’Altro

 

La presa di coscienza di sé

Nella progressiva acquisizione della coscienza di sé, come persona, il bambino passa attraverso una lunga serie di fasi. Si tratta di un percorso che parte dal periodo neonatale, caratterizzato da un'iniziale situazione di scarsa differenziazione. Indipendentemente dal modello teorico utilizzato, la maggioranza degli Autori è d’accordo nel riconoscere l’esistenza di una spinta che fin dalla nascita porta il bambino a conoscere, capire, agire ed interagire. Tale spinta gli consente di raccogliere una serie di informazioni che provengono attraverso la vista, l’udito, il tatto, il gusto, l’olfatto e le vie della sensibilità profonda. Tali dati vengono, poi,  sistematizzati in strutture di conoscenza, inizialmente semplici e progressivamente più complesse.

In questa prospettiva la prima scoperta che il bambino fa è quella del corpo. Ciò avviene attraverso una scrupolosa investigazione delle parti del proprio corpo:

  • nel primo mese porta le mani alla bocca;
  • a 2 mesi comincia a guardare con interesse le proprie mani;
  • a 3 mesi congiunge le mani sulla linea mediana, le guarda e le porta alla bocca;
  • a partire dai 4 mesi estende la sua esplorazione al resto del corpo, toccandosi progressivamente la pancia, le gambe e, infine, verso gli 8 mesi, i piedi, che grazie alla fisiologica ipotonia presente in questo periodo, riesce anche a portare alla bocca.

In questo processo di progressiva scoperta c'è un momento cruciale, in cui il bambino finalmente arriva alla formazione di un modello interno del corpo: lo schema corporeo. Si tratta di un primitivo senso di unità corporea, cui il bambino vi arriva un pò per volta, mettendo insieme pezzi sparsi,  frammenti di sensazioni diverse che fino a quel momento non erano ancora tenute insieme da un unico filo conduttore. In altre parole, è il momento in cui il bambino accede alla rappresentazione mentale del corpo, la quale garantisce l'adeguata sintesi percettiva dei dati provenienti dall'ambiente interno e da quello esterno, e, nel contempo, si pone come premessa per l'organizzazione dell'atto motorio.

Lo schema corporeo, pertanto, è la rappresentazione mentale del corpo e rappresenta un quadro di riferimento eminentemente topologico, che permette la localizzazione, la discriminazione, il riconoscimento degli stimoli in ingresso, ed insieme la consapevolezza della posizione del corpo o di sue parti nello spazio.

Riguardo al momento in cui si forma lo schema corporeo, molti Autori, facendo riferimento alle esperienze effettuate valutando le reazioni del bambino allo specchio, ritengono che esso venga acquisito all'età di circa 8 - 9 mesi. In questa epoca compare il senso di unità corporea: un territorio ben delimitato nello spazio, entro confini precisi.

Bisogna tuttavia rilevare che quello che il bambino scopre a questa età non è ancora se stesso; non è ancora il suo corpo. All’età di 9 mesi, cioè, egli prende coscienza del corpo come un tutto unico, ma non riesce ancora ad accedere all’autocoscienza del proprio corpo.

In effetti, solo dopo un lungo periodo di "esercizi" finalizzati a proporsi agli altri e a raccogliere informazioni relative alle conseguenze dei suoi atti, il bambino accede alla fase dell'autoriconoscimento, che si realizza intorno ai 2 anni. Il bambino, allora, non si limita più a riconoscere l'immagine di un corpo, ma comincia a realizzare che quell'immagine che vede riflessa rappresenta l'involucro che lo contiene e che lui stesso può rappresentarsi nella mente. Egli ha coscienza che questo corpo che vede ha una sua forma e un suo pensiero che gli appartengono. E' l' autocoscienza.

 

La presa di coscienza dell’altro

Come già più volte ricordato, molte delle teorie dello sviluppo ispirate al modello psicodinamico tendono ad affermare che le prime fasi della vita sono caratterizzate da un’indifferenziazione fra Sé ed altro da Sé. Esisterebbe, cioè, una “confusione” con conseguente incapacità, da parte del bambino, di individuare l’altro. Indirizzi teorici più recenti, viceversa, sarebbe contrari a questa visione, e tendono ad affermare che, fin dalla nascita, il bambino riesce a “riconoscere” l’altro come una figura privilegiata con cui “vuole” entrare in uno scambio comunicativo. Una serie di esperienze ha permesso infatti di rilevare che il neonato è particolarmente interessato alla voce umana e, in particolare, a quella della figura di accudimento. Nell’ambito, cioè, delle molteplici afferenze uditive che gli arrivano, il bambino molto precocemente mostra di discriminare rumori, suoni e voci, e di preferire nettamente la voce della mamma. Anche nell’ambito delle afferenze visive, egli è particolarmente attratto dagli stimoli che si riferiscono al volto dell’altro: inizialmente si sofferma sui contorni e, molto precocemente, avvia un’esplorazione sistematica con l’esame dei particolari (occhi, naso, bocca, orecchie).

La presa di coscienza del volto umano subisce notevoli progressi nei primi mesi di vita. L'esame sistematico delle parti del volto e delle modificazioni che continuamente assumono permettono al bambino di giungere a due importanti conquiste complementari:

  • l'identità del volto;
  • la “variabilità” di uno stesso volto in rapporto a determinate circostanze.

Con l'acquisizione del concetto di identità, il bambino impara che esiste un insieme di dati percettivi (occhi, naso, bocca), i quali, anche se variabili nella loro forma, costituiscono nel loro complesso un'unità percettiva più complessa: il volto umano.

Ma, parallelamente all'acquisizione del concetto di identità, il bambino impara che uno stesso volto può assumere configurazioni percettivamente diverse, ciascuna delle quali ha uno specifico significato. Mostrare i denti, spalancare gli occhi, corrugare la fronte conferisce al volto nel suo complesso una particolare configurazione; ma, lo stesso volto, in altre circostanze, può assumere una “forma” diversa con labbra distese, angoli della bocca rivolti verso l’alto, e spianamento delle rughe della fronte.

Le tappe successive di questo percorso sono appunto rappresentate dalle capacità che progressivamente il bambino acquisisce di attribuire un significato a ciascuna di queste "forme" del volto. Il bambino, cioè, impara che ciascuna espressione facciale è associata ad un particolare stato emotivo dell'altro. E' il processo di riconoscimento degli stati emotivi dell'altro attraverso la lettura delle espressioni mimiche.

La capacità del bambino di "riconoscere" in maniera più definita l'Altro, ed in particolare di "riconoscere" alcuni tratti distintitivi di questa nuova entità percettiva che egli si va costruendo mentalmente, è espressa in maniera evidente a partire dal 3° mese di vita, con la comparsa del sorriso al volto umano. In effetti, a questa età il bambino non sorride solo al volto della madre o dei familiari, ma anche ad una semplice maschera che raffiguri in maniera esplicita i caratteri del volto: due occhi, un naso, la bocca. Si è parlato in questi casi dell'abilità del bambino di riconoscere una "gestalt privilegiata": vale a dire un insieme percettivo, i cui elementi costitutivi sono le caratteristiche del volto. La connotazione emotiva di questa conquista cognitiva è di tonalità decisamente positiva: il piacere. Il bambino già all’avvicinarsi delle persone mette in atto comportamenti indicativi di questo piacere, attraverso uno sguardo più attento, un atteggiamento posturale di attesa ed una mimica partecipativa. A questa età il bambino sorride volentieri a chiunque si avvicini, soprattutto quando lo stimolo visivo (il volto) è associato ad uno stimolo uditivo (la voce).

In questo processo di “scoperta” dell’altro, il bambino raccoglie e sistematizza sempre nuovi dati, che gli consentono all’età di 8 mesi di giungere alla definizione dell’Altro come una persona autonoma e a riconoscerla come una figura privilegiata nel suo universo affettivo. E' evidente che questa conquista (= l'Altro come persona autonoma) è contestuale ad un'altra conquista, peraltro già descritta: la rappresentazione mentale di un corpo come un tutto unico.

Questa avvenuta consapevolezza dell’Altro come “persona” è alla base di due paure comuni nella prima infanzia: la paura dell’estraneo e l'ansia di separazione.

La paura dell'estraneo è una reazione emotiva di tonalità negativa che il bambino mette in atto alla comparsa di una figura “non familiare”. Tale reazione si esprime con una serie di comportamenti indicativi del disagio del bambino: interrompere un’attività in corso, guardare alternativamente la madre e l’estraneo, evitare i tentativi di contatto proposti dall’estraneo, avvicinarsi alla madre, fino ad avvinghiarsi ad essa. Questa paura per l’estraneo, contrasta nettamente con i comportamenti presentati dal bambino in epoca precedente, quando tendeva “ad andare con tutti”.

Strettamente connessa con la paura dell'estraneo è l’ ansia di separazione. Si tratta ancora una volta di una reazione emotiva con tonalità negativa che compare quando il bambino vede che la madre si allontana.

Queste due paure, la paura dell'estraneo e l'ansia di separazione si inscrivono in questa particolare fascia di età (8-9 mesi), in quanto rappresentano l'immediata testimonianza dell'avvenuta capacità da parte del bambino:

  • (a) di percepire l'Altro come entità fisica dotata di esistenza autonoma, che può essere presente, ma può anche allontanarsi (ansia di separazione)
  • (b) di effettuare un confronto discriminativo fra figure conosciute, e come tali familiari, e figure sconosciute (paura dell'estraneo).

Quanto appena accennato induce a riflettere sul fatto che nel processo di conoscenza di se stesso e dell’altro, il bambino non si limita a scoprire le caratteristiche fisiche del suo corpo e del corpo dell’Altro, ma impara a conoscere e riflettere sugli stati mentali propri ed altrui. Gli stati mentali vanno intesi in termini di:

  • emozioni,
  • desideri,
  • credenze.

Nella comprensione degli stati mentali dell’altro, le emozioni rappresentano la prima tappa.

Il bambino nel suo percorso di conoscenza analizza ed elabora non solo gli stimoli fisici dell'ambiente o gli eventi meccanici che avvengono o le relazioni che li legano, ma analizza ed elabora anche i comportamenti degli altri e le reazioni emotive che li accompagnano. In accordo al modello dell'elaborazione dell'informazione, cioè, il bambino analizza le reazioni emotive al pari di qualsiasi altro "stimolo". Così come il lattante di 5-6 mesi valuta e comprende che cosa succede se … "Batto un oggetto sul tavolo" (= "Si determina un suono"), allo stesso modo valuta e comprende che cosa succede se …"Tiro i capelli al fratellino" (= "Piange").

Ciò riguarda naturalmente anche le reazioni emotive di tonalità positiva: che cosa succede se … "Arriva la nonna" (= "la mamma è contenta"). Il bambino in questo modo impara a riflettere sulle emozioni e a riconoscerle negli altri, quale tonalità di fondo che accompagna i vari comportamenti.

E’ evidente che questo progressivo processo di acquisizione e comprensione delle emozioni e, in epoche successive, dei desideri e delle credenze degli altri, riconosce un presupposto necessario e indispensabile: vale a dire, l’interesse del bambino per l’altro e la volontà di entrare in uno scambio relazionale con esso.

Ciò, come più volte ripetuto, è garantito da una predisposizione innata, anche definibile come un preadattamento proprio della specie.

Facendo riferimento, ad esempio, alle reazioni del neonato nei confronti del volto dell’altro, si è visto che esso assume una valenza particolare, non solo per i suoi attributi percettivi (il lattante è particolarmente attratto dagli oggetti in movimento), ma in quanto rappresenta la scoperta da parte del bambino di “qualcosa che è simile a me”. In questo senso sarebbe interpretata la partecipazione del lattante, anche molto piccolo, a giochi di imitazione di espressioni facciali. Una serie di ricerche ha infatti messo in evidenza la capacità del neonato di imitare espressioni mimiche, quali corrugare la fronte, tirar fuori la lingua, spalancare la bocca.

Le esperienze cui si fa riferimento, sono quelle di Meltzof e Collaboratori, i quali ritengono che l’aspetto “eccezionale” dell’imitazione in un’epoca così precoce risiede nel fatto che il bambino non può effettuare un confronto visivo diretto fra il proprio volto e quello dell’adulto. Si può quindi ipotizzare che questa originaria capacità di imitare faccia parte della dotazione innata del bambino normale. Essa testimonierebbe, da un lato, la capacità del neonato di percepire gli altri come persone piuttosto che come cose e rappresenterebbe, dall’altro, uno “strumento” per accedere ad una esperienza di sintonizzazione emotiva, quale premessa per la successiva conoscenza e condivisione delle emozioni.

Progressivamente, la capacità di leggere le espressione facciali consente al bambino di arricchire il suo bagaglio di conoscenze circa le emozioni e le circostanze atte a suscitarle, permettendogli di contestualizzarle.

Il repertorio comportamentale del bambino, indicativo del processo in base al quale impara a conoscere e gestire le emozioni, si arricchisce molto rapidamente di sempre nuove modalità espressive. Sotto questo aspetto, un’importanza particolare assume lo sguardo referenziale.

Con il termine di sguardo referenziale viene indicato un comportamento evidenziabile a partire dal 6° mese di vita, rappresentato dal guardare la madre, o comunque la figura di accudimento per stabilire con essa un’esperienza di sintonizzazione emotiva. Lo sguardo referenziale, pertanto, può comparire, ad esempio, quando si presenti inaspettatamente uno spettacolo nuovo per il bambino: egli rivolge lo sguardo alla madre per cercare di cogliere le sue emozioni nei confronti dell'evento nuovo e regolare su di esse il proprio comportamento. Lo sguardo referenziale compare anche quando il bambino mette in atto un certo tipo di comportamento (prendere un oggetto o lanciare un oggetto): egli quindi guarda la madre per valutare eventuali segni di approvazione o di disapprovazione. Questa "lettura" avviene attraverso l'osservazione dello sguardo della madre, della sua mimica facciale, di particolari intonazioni verbali o di comportamenti anche più espliciti.

Lo sguardo referenziale comincia a comparire verso i 5 - 6 mesi

Va, tuttavia, considerato che lo sguardo referenziale oltre a mediare questa funzione di sintonizzazione emotiva, assolve molte altre funzioni. Esso, per esempio, può assumere un significato comunicativo, sia in senso richiestivo (per richiedere) che dichiaritivo (per rendere partecipe l’altro di un proprio interesse).

In senso richiestivo, lo sguardo referenziale è messo in atto quando il bambino, ad esempio, sposta lo sguardo da un oggetto, che è lontano dalla sua portata, alla madre affinché lei glielo prenda, o anche quando un oggetto in movimento si ferma ed il bambino rivolge lo sguardo alla madre affinché lo rimetta in movimento.

In senso dichiarativo, lo sguardo referenziale rientra in un repertorio di comportamenti che assolvono ad una funzione più complessa, definita con il termine di attenzione condivisa.

L’attenzione condivisa può essere considerata come un bisogno, un piacere o, più generericamente, la volontà di condividere con l’altro un comune fuoco di interesse. Essa si realizza attraverso una serie di comportamenti messi in atto dal bambino per richiamare l'attenzione dell'altro su un oggetto, un gioco o spettacoli che rivestono per lui una particolare rilevanza. Ciò, al fine di stabilire con l'altro un comune fuoco di interesse; per rendere, cioè, l’altro partecipe dei suoi interessi. Ma l'attenzione condivisa si esprime anche con comportamenti finalizzati ad interessarsi di ciò che l'altro sta facendo; a curiosare su ciò che sembra coinvolgere emotivamente l'altro; a direzionare la propria attenzione nei confronti di un oggetto, di un gioco o di un evento su invito dell’altro.

L’attenzione condivisa può essere considerata come il bisogno di condividere con l’altro un comune fuoco di interesse. I comportamenti indicativi di attenzione condivisa si realizzano su iniziativa del bambino (per richiamare l’attenzione dell’altro) o in risposta ad un’iniziativa dell’altro (che richiama l’attenzione del bambino)

I comportamenti che realizzano questo bisogno di attenzione congiunta, cominciano a comparire dai 9 mesi di vita e sono rappresentati da:

  • sguardo referenziale
  • indicare con il dito
  • mostrare
  • “dichiarare” verbalmente

Si tratta, pertanto, di comportamenti che divengono progressivamente più complessi ed espliciti.

  • Inizialmente, il bambino utilizza lo sguardo referenziale: mentre sta ad esempio osservando un giocattolo in movimento, distoglie momentaneamente lo sguardo dall’oggetto e lo rivilge alla madre, quindi ritorna a guardare l’oggetto.
  • Successivamente si appropria del gesto di indicare (pointing): se vede qualcosa che lo incuriosisce o lo diverte, utilizza il dito indice puntato verso l’oggetto per richiamare l’attenzione dell’altro.
  • In epoca ancora successiva, il bambino per condividere con l’altro l’interesse nei confronti di un oggetto diventa capace di porgerlo e mostrarlo.
  • Quando, infine, è in grado di utilizzare il linguaggio verbale richiama con espressioni verbali il suo interesse per un oggetto, un gioco o uno spettacolo interessante (“Uh, guarda!”, “L’aeroplano!”, “E’ venuta la nonna!”).

Gli esempi appena citati si riferiscono ai comportamenti di attenzione congiunta che avvengono su iniziativa del bambino. Ma l’attenzione congiunta si manifesta anche quando il bambino si accorge che l’Altro è interessato a qualcosa e rivolge la sua attenzione a questo qualcosa: è l’attenzione congiunta in risposta ad un interesse dell’Altro.

L'attenzione condivisa comincia a comparire verso i 9 mesi e si realizza attraverso una serie di comportamenti di complessità crescente: sguardo referenziale, indicare con il dito, mostrare, dichiarare verbalmente.

In relazione a questi ultimi due aspetti considerati, lo sguardo referenziale e l’attenzione congiunta, va tenuto presente che lo sguardo referenziale oltre ad essere utilizzato come comportamento per l’attenzione congiunta, assolve anche altre funzioni (per esempio, lettura delle emozioni dell’altro o richiesta che l’altro faccia qualcosa per lui). D’altro canto, l’attenzione congiunta oltre ad utilizzare lo sguardo referenziale si avvale di altri tipi di comportamento (indicare con il dito, mostrare, dichiarare verbalmente).

Il passo successivo nella presa di coscienza dell'altro e dei suoi comportamenti, è rappresentato dalla comprensione dei desideri dell’altro. Il bambino, cioè, comincia a comprendere che i comportamenti dell’altro sono dettati dalla volontà di rispondere a determinati desideri. La comparsa di questa capacità è testimoniata dalle caratteristiche che assume il gioco di finzione a partire dai 14-15 mesi. A partire da tale età, infatti, il bambino ripropone nel gioco di finzione sequenze comportamentali che ha visto nella realtà quotidiana. La riproposizione in chiave ludica di queste "scene" non è limitata alla semplice ripetizione di atti, ma è arricchita di tutte le sfumature emozionali, che il bambino ha saputo cogliere, e delle finalità, che è riuscito ad interpretare. In queste situazioni il bambino dimostra di aver fatto sensibili passi in avanti nella comprensione dell'altro e dei suoi comportamenti, in quanto è capace di leggere non solo le emozioni che si associano ad una determinata azione dell'altro (la mamma che dice: "Sono contenta che hai fatto la pappa …"), ma anche le finalità di tale azione ("… la mamma vuole che mangi,  così diventi grande, grande").

Quando nello sviluppo del gioco di finzione il bambino comincia a riprodurre scene di routine quotidiane, dimostra di aver colto emozioni, desideri e finalità presenti nel comportamento dell'altro. Ciò comincia a comparire verso i 14 - 15 mesi di vita.

Una tappa decisiva nella presa di coscienza degli stati mentali dell’altro e dei suoi comportamenti è la comprensione delle credenze dell’altro. Si tratta, cioè, di capire quello che gli altri credono relativamente ad alcuni aspetti della realtà e che condiziona il loro comportamento. Sono implicite in questa competenza le seguenti capacità:

  • la capacità di capire che gli altri hanno delle loro convinzioni relativamente ad alcuni aspetti della realtà,
  • la capacità di capire che quello che gli altri credono può essere falso,
  •  la capacità di capire che gli altri si comporteranno in rapporto a quello che loro credono, indipendentemente dal fatto che sia falso o vero.

Queste capacità appena espresse rientrano in un costrutto teorico definito con il termine di Teoria della Mente.

Con il termine Teoria della Mente viene indicata la capacità del bambino, e più in generale di qualsiasi individuo adulto e socialmente competente, di riflettere sulle emozioni, sui desideri e sulle credenze proprie ed altrui e di comprendere il comportamento degli altri in rapporto non solo a quello che ciascuno di noi sentedesidera o conosce, ma in rapporto a quello che ciascuno di noi pensa che l'altro sente,desidera o conosce.

"Maria ha lasciato Andrea!", "Io penso che lo abbia lasciato perché lei desiderava una vita diversa da quella che Andrea poteva offrirle…" ovvero "Io penso che lo abbia lasciato perché lei credeva che lui la tradisse…".

Formulare ipotesi di questo genere significa avere una Teoria della Mente.

In effetti, tutta la nostra vita è imperniata nel capire perché gli altri si comportano in un certo modo, perché non hanno compiuto determinate azioni o perché abbiano adottato determinati atteggiamenti e comportamenti. Bisogna, tuttavia, stare attenti a non considerare questo aspetto come un semplice gusto del "pettegolezzo". Cercare di capire il perché gli altri si comportano in un certo modo e riuscire ad interpretare le motivazioni del comportamento degli altri è una capacità che ci permette di vivere e sopravvivere.

Vedere un soggetto che si aggira con fare sospetto ci mette in allarme. In questo esempio, il giudizio che noi diamo sul comportamento sospetto deriva dalla nostra capacità di leggere una serie di indizi derivanti dall'altro e dal contesto (per esempio, dall'abbigliamento del soggetto, in assoluto o in relazione al luogo in cui si svolge la scena; dal suo atteggiamento posturale; dal suo modo di guardare e di guardarsi intorno; dalla scarsa prevedibilità della presenza di un estraneo in un determinato luogo; etc.). Tali indizi attivano il nostro sistema della Teoria della Mente per cercare di capire perché quel tipo sta là e che cosa sta facendo. Se la nostra Teoria della Mente non riesce a dare un'interpretazione logica a questi quesiti, giudichiamo la persona "sospetta". Conseguentemente andiamo in allarme semplicemente per il fatto che non riusciamo a capire perché quel tipo sta là e che cosa sta facendo. Se, viceversa, la nostra Teoria della Mente riesce a dare un'interpretazione logica alle intenzioni, alle emozioni e alle motivazioni del tipo che vediamo, stiamo tutti più tranquilli!

In questa prospettiva la Teoria della Mente ci permette di capire non solo i comportamenti degli altri, ma più in generale, le situazioni sociali e di scegliere i comportamenti più opportuni nelle diverse circostanze.

Andare dalla mamma per chiedere un regalo e "capire" che forse non è il momento adatto. Il guardare la mamma e vedere che sta parlando con qualcuno con tono della voce alterato, che la sua mimica è tesa, che non si è neanche accorta che lui si stava avvicinando, permettono al bambino che abbia acquisito una Teoria della Mente, di capire che non è il caso di fare la sua richiesta ("Io sono sereno e io desidero un regalo, ma io penso che la mamma sia arrabbiata e io penso anche che la mamma non desideri essere interrotta. Io so che in queste situazioni la mamma si comporta nei miei confronti in maniera diversa da quella abituale).

Secondo i teorici di questo approccio la capacità del bambino di pensare a quello che gli altri pensano, desiderano o credono, viene raggiunta all'età di circa 4 anni. Per dimostrare l'avvenuta conquista di questa capacità si ricorre in genere ad un giochino che è divenuto ormai un classico: la storia di Sally ed Anne.

L'esperimento consiste nel mostrare al bambino la scenetta illustrata in Figura. Verbalmente si rinforzano le fasi della scena:

Questa è Sally e questa è Anne. Esse depongono una palla nel cestino.

Sally esce dalla stanza ed Anne sposta la palla dal cestino nella scatola.

Sally ritorna; vuole riprendere la palla.

Si chiede quindi al bambino in esame: "Secondo te, Sally dove andrà a cercare la palla ?"

La risposta del bambino varia in rapporto all'età.

Fino ai 4 anni, egli risponderà : "Nella scatola" (cioè, là dove la palla sta realmente e dove lui l'ha vista mettere).

A partire dai 4 anni, egli invece risponderà: "Nel cesto" (cioè, non dove lui sa che sta la palla, ma là dove Sally crede che stia la palla).

A partire dai 4 anni, in altri termini, il bambino riesce a pensare con la "testa" degli altri. Riesce, cioè, a prevedere il comportamento degli altri, il quale è motivato non da ciò che lui sa o desidera, ma da ciò che l'altro sa, desidera o crede di sapere.

Lo sguardo referenziale, l' attenzione condivisa e il gioco di finzione rappresentano, secondo alcuni Autori, i precursori di un processo che porta il bambino ad acquisire, verso l'età dei 4 anni, una Teoria della Mente.

Il modello della Teoria della Mente, anche se indubbiamente suggestivo presenta ancora notevoli punti controversi, per cui risulta attualmente oggetto di numerosi studi.

Ritornando su un piano descrittivo, da tutti gli esempi riferiti appare evidente che nel processo di presa di coscienza dell’Altro, il bambino comincia anche a "capire" di dover condividere e rispettare alcune regole sociali.

Inizialmente il bambino comincia a presentare comportamenti indicativi del fatto che comprende le proibizioni: quando viene rimproverato si ferma, esita, guarda con circospezione l'altro, fa il broncio, piange. Il significato di questi comportamenti é duplice: da un lato, il bambino dimostra di saper cogliere nella mimica, nell'intonazione vocale, nell'atteggiamento dell'altro, diverse sfumature che possono essere indicative di approvazione, di soddisfazione, di rassicurazione o, come in questo caso, di rimprovero; dall'altro, egli comincia a realizzare l'esigenza di adeguarsi ad alcune regole di comportamento.

Successivamente, infatti, egli interiorizza tali regole, che finiscono come tali per rientrare nel suo codice morale.

In questo processo di progressiva acquisizione del concetto di sé e dell’altro è evidente l'importanza delle figure dell’ambiente significativo del bambino e della qualità dei loro atteggiamenti nel porsi come partner nella relazione.

 

La presa di coscienza di sé-con-l’altro

A) Le relazioni precoci

Come più volte accennato, il neonato nasce con una predisposizione innata ad agire ed interagire con l'altro. Questo "innatismo" si fonda su una particolare e specifica organizzazione anatomica e funzionale del Sistema Nervoso Centrale. Tale organizzazione, predefinita dalla specie, si traduce in due aspetti particolarmente importanti:

  • la presenza, già alla nascita, di una motivazione intrinseca ad entrare in uno scambio relazionale con l'altro. Tale motivazione è presente in diversi costrutti teorici e viene variamente definita come pulsione sociativaintersoggettività primaria o empatia non inferenziale;
  • la dotazione "innata" di un apparato senso-percettivo-motorio, che permette al neonato di cogliere i segnali sociali e privilegiarli rispetto agli altri.

E' stato anche più volte sottolineato che tutti gli atti comportamentali di un individuo sono dotati di una coloritura emozionale. Tale "coloritura", che può essere di segno positivo ovvero negativo, spinge il comportamento, lo guida, ma ne viene anche da esso influenzata. Lo studio dei comportamenti sociali, pertanto, non può prescindere da questa dimensione affettiva, la quale peraltro permette di cogliere nello Sviluppo una serie di modifiche nel modo di comprendere e gestire le emozioni.

La prima persona con cui il bambino stabilisce un "rapporto sociale" è la madre, con la quale egli instaura gradualmente una relazione stabile e continuativa attraverso un processo piuttosto lento, che copre all'incirca tutto l'arco del primo anno di vita. I rapporti che si stabiliscono durante i primi mesi di vita fra il bambino e la madre sono tanto intimi da configurare un'unità inscindibile, cui è stata data la denominazione di diade o relazione diadica. L'aspetto che colpisce in una "relazione sociale" così intima è l'attaccamento del bambino alla madre e, come vedremo meglio in seguito, della madre al bambino. L'attaccamento è un bisogno di vicinanza fisica con una figura privilegiata.

L’attaccamento può essere anche definito come un legame emotivo, un vincolo affettivo fra due persone.

In una relazione di questo tipo il bambino, o anche un adulto che è “attaccato” ad un’altra persona, individua quest’ultima come un costante punto di riferimento in situazioni di disagio. La persona cui si è “attaccati” rappresenta una “base sicura” dalla quale poter partire ad esplorare il mondo e alla quale ritornare quando ci si sente preoccupati o sfiduciati.

L’esistenza di un attaccamento è testimoniato dalla presenza di specifici comportamenti: i comportamenti di attaccamento. Essi sono finalizzati a ricercare e mantenere la vicinanza con una figura per cui si prova attaccamento. Essi, in rapporto all’età e alle capacità “espressive” del soggetto, possono andare dallo sguardo, al sorriso, all’avvicinamento o alla ricerca del contatto fisico.

Sulla base di quanto esposto è necessario tenere distinti i concetti di attaccamento e di comportamenti di attaccamento.

L’attaccamento, infatti, è un legame affettivo con una figura specifica, generalmente la madre.

comportamenti di attaccamento sono quei comportamenti che ci fanno capire che c’è un attaccamento. Pertanto, mentre la relazione affettiva di attaccamento può rimanere immutata nel tempo, i comportamenti manifesti ad essa correlati possono mutare sensibilmente. Peraltro, un bambino con un forte attaccamento può in alcune situazioni mostrare modesti o inapparenti comportamenti di attaccamento (giocando, per esempio, per proprio conto, senza rivolgere particolare attenzione alla madre), mentre in altre circostanze (quando, per esempio, è in una situazione nuova) può mettere in evidenza comportamenti di attaccamento molto marcati (come aggrapparsi alla madre).

Circa la natura di tale attaccamento, le ipotesi interpretative hanno subìto in questi ultimi anni sensibili modifiche.

  • Prospettiva psicoanalitica. Secondo Freud, l’attaccamento del bambino alla madre era legato al fatto che essa era in grado di soddisfare i suoi bisogni alimentari: “l’amore nasce dal bisogno, soddisfatto, di cibo”. In accordo alla prospettiva psicoanalitica, in questo stadio iniziale, le esperienze affettive del neonato sono dipendenti dall'urgenza dei bisogni fisiologici fondamentali (fame, sete, sonno, bisogno di calore), i quali provocano confuse sensazioni di disagio o di piacere, che continuamente si alternano. Di conseguenza, gli oggetti esterni esistono per lui soltanto in relazione alle gratificazioni e frustrazioni che possono procurare. Per ridurre la tensione derivata da bisogni insoddisfatti, il bambino pertanto non può fare altro che esprimere il disagio con semplici scariche riflesse, le quali non hanno inizialmente alcun valore intenzionale. Per tale motivo, il pianto, le vocalizzazioni, l'agitazione corporea generalizzata ed il sorriso appaiono inizialmente dipendenti da stimoli interni di carattere esclusivamente fisiologico, collegandosi poi gradualmente a situazioni più complesse di tipo psicologico e sociale. In questa prospettiva, la madre, all'inizio, è solo uno strumento per il soddisfacimento dei bisogni fisiologici e non un oggetto d'amore in se stesso. Ne deriva che l’attaccamento del bambino alla figura di accudimento è secondaria alla funzione che essa svolge di soddisfare i suoi bisogni primari.
  • Prospettiva associazionistica. Secondo la teoria associazionistica (o dell’apprendimento),  il bambino si attacca alla madre in quanto l’associa a sentimenti piacevoli e a sensazioni favorevoli. In altri termini, la "relazione sociale" dipende da un condizionamento con valore di ricompensa positiva verso la madre. In pratica, l'interpretazione fornita da tale tipo di approccio prevede il seguente procedimento. Qualsiasi stimolo nuovo che sia associato ad una ricompensa (cibo o sensazione piacevole) acquista di per sé un valore di ricompensa. In rapporto a tale condizionamento la madre, in quanto stimolo, acquista il significato di piacere e soddisfazione, nello stesso modo in cui per i cani di Pavlov il campanello diventava segno di cibo. Il bambino, cioè, impara che l'avvicinamento a questa fonte di piacere determinerà una gratificazione effettiva dei suoi bisogni. Il bambino apprende l'importante risposta che consiste nel guardare la madre e rivolgersi a lei quando ha fame. In accordo al principio della generalizzazione degli stimoli, una risposta appresa in corrispondenza di un determinato stimolo tende a verificarsi anche in corrispondenza di stimoli simili all'originario. Altri fonti di dolore e di disagio, quali quelle relative al freddo o a tensioni addominali, sono in effetti simili al dolore e al disagio connessi alla sensazione di fame. Il bambino, pertanto, nei confronti di tali fonti di dolore o di disagio tende a esprimere la stessa risposta che aveva espresso quando aveva fame. In altri termini, il bambino che si rivolge alla madre quando ha fame, finisce per rivolgersi a lei per ottenere consolazione (gratificazione di bisogni) anche quando prova dolore o disagio per altri motivi. Sempre in accordo al principio della generalizzazione, dal momento che la madre "assomiglia" ad altre persone, il bambino "generalizza" la risposta di avvicinamento, estendendola ad altre figure.

Entrambe le interpretazioni, quella psicoanalitica e quella associazionistica (o per apprendimento), riconducono l’attaccamento al soddisfacimento di un bisogno più primitivo. Esse, pertanto, considerano la motivazione sociale (il bisogno, cioè, di entrare in una relazione empatica con l’altro) una pulsione secondaria

  • Prospettiva etologica. La prospettiva etologica nasce in rapporto ad alcune esperienze effettuate sul comportamento degli animali. Una delle più importanti serie di ricerche è stata svolta da Harlow, il quale mise delle scimmiette appena nate insieme con scimmie "madri" finte, inanimate. Alcune di queste scimmiette venivano nutrite con un poppatoio fissato al "petto" di una madre costituita da una semplice rete metallica opportunamente forgiata; altre venivano "alimentate" in maniera analoga da una madre "pupazzo", la quale si differenziava dalla prima in quanto era rivestita di un tessuto spugnoso e soffice. Quando alle scimmiette veniva offerta la possibilità di avvicinarsi tanto alla prima quanto alla seconda madre, esse sceglievano la madre di pezza e passavano più tempo aggrappate a questa piuttosto che alla madre di semplice rete metallica. Questo comportamento si riscontrava anche nelle scimmiette che erano state nutrite soltanto dalla madre di rete metallica: in effetti, esse si rivolgevano alla madre metallica solo quando avevano fame. Nelle suddette esperienze di Harlow, veniva anche preso in considerazione il comportamento delle scimmiette in occasione di un evento stressante. Infatti, quando nella gabbia veniva introdotto uno stimolo capace di causare paura (un grosso ragno di legno), la scimmietta correva dalla madre di tessuto a spugna invece che da quella di rete metallica. La madre di pezza era anche più efficace della madre metallica nel ridurre la paura della scimmietta: quando era presente la madre di pezza c'erano maggiori probabilità che la scimmietta si spingesse a esplorare lo stimolo che provocava in lei paura; quando, invece, era con la madre metallica, la scimmietta aveva più paura ed era meno incline ad esplorare lo spazio aperto intorno all'oggetto strano e "minaccioso".

Un altro contributo determinante che deriva dall'etologia è quello di Lorenz, relativo al fenomeno dell' imprinting o dell' impronta percettiva. In pratica è stato osservato che un’oca, appena uscita dall'uovo, segue la prima "cosa" che cade nel suo campo percettivo. Abitualmente, la prima "cosa" che vede è la madre. Ma gli etologi hanno anche scoperto che se questa prima "cosa" è un oggetto o anche una figura umana in movimento, l’oca comincerà a seguire l'oggetto o la figura umana. Ancora una volta si realizza un bisogno di vicinanza, un attaccamento, con una figura privilegiata, anche se questa non allevia né riduce in alcun modo la fame, il dolore o il disagio. Nel caso dell’oca, in particolare, non c'è nemmeno bisogno di un contatto fisico fra l'animale e l'oggetto seguito.

Entrambe queste esperienze citate, di Harlow e di Lorenz, testimoniano che "i piccoli" vengono al mondo con un bisogno innato di un rapporto di vicinanza con una figura privilegiata, indipendentemente dal fatto che questa riesca o meno a soddisfare i loro bisogni alimentari.

Nell’area della ricerca etologica si inserisce la teoria di Bowlby dell’attaccamento.

Bowlby pone come elemento centrale della sua teoria la tesi della socializzazione come motivazione primaria: “i legami emotivamente significativi tra gli individui svolgono funzioni basilari di sopravvivenza ed hanno perciò uno status primario, non secondario a qualcos’altro”. Si tratta, quindi, di una prospettiva in base alla quale il bambino nasce con una predisposizione, inscritta nel patrimonio genetico della specie umana, a ricercare e a mantenere la vicinanza con una figura specifica, che, in termini evoluzionistici, garantisce la sopravvivenza. E’ evidente, in una formulazione di questo genere, una posizione completamente opposta alle teorie psicoanalitiche e a quelle dell'apprendimento sociale.

Va, tuttavia, sottolineato che affinché si strutturi un solido legame di attaccamento è necessario che il bambino possa disporre di un rapporto stabile e continuativo con la figura materna. Ciò, sotto molti aspetti, è garantito dal fatto che se da un lato c'è un attaccamento del neonato alla madre, dall'altro c'è un attaccamento della madre al neonato.

L’osservazione della coppia madre-neonato permette di rilevare che la relazione è molto fluida e funzionale, anche se in effetti essa si instaura fra due partner molto sbilanciati in termini di competenze senso-percettivo-motorie, comunicative, cognitive. Ciò sembra riconducibile al fatto che, a questa relazione così intima, adulto e bambino giungono predisposti da una serie di pre-adattamenti propri della specie. Il piccolo bambino è dotato di una serie di segnali capaci di stimolare il comportamento adottivo, mentre, dal canto suo, la madre possiede tutte le caratteristiche capaci di soddisfare i bisogni del bambino: “entrambi sono fatti per piacersi”. Si tratta di una prospettiva mutuata ancora una volta dalla Etologia, in rapporto alla quale, la registrazione delle reazioni di un adulto nei confronti di un bambino ha permesso di rilevare un repertorio di comportamenti per molti aspetti universale. Adulti e ragazzi, femmine e maschi, alla vista di un bambino mettono in atto una serie di comportamenti molto caratteristici, che possono essere raggruppati in alcune categorie fondamentali. Tipici, in questo senso, sono:

  • le espressioni facciali di falsa sorpresa, di cipiglio e di partecipazione emotiva, associate ad espressioni vocali congruenti ("Uh, ma che bello che sei!", "Ah, cattivone!", "Oh, povero caro!");
  • il sorriso;
  • il linguaggio puerile, rappresentato da una semplificazione grammaticale della frase, da una riduzione della lunghezza media dell'enunciato, oltre che da un tono scandito e più lento;
  • lo sguardo, che non segue i pattern abituali di reciprocità, ma che si caratterizza per la continuità e l’insistenza;
  • l'esigenza di attirare l'attenzione “ad ogni costo” e di perseverare nel cercare di mantenerla.

Circa gli stimoli in grado di innescare tali reazioni vanno considerate diverse categorie di segnali, rappresentate dall’apparenza fisica, dai comportamenti di segnalazione e dai comportamenti di avvicinamento.

  • L’apparenza fisica. Lorenz, in proposito, parla di un prototipo infantile, cioè di un insieme di tratti distintivi di un piccolo, costituiti da una grande testa sproporzionata rispetto al corpo; da una fronte molto ampia e sporgente rispetto al resto del volto; dagli occhi molto grandi rispetto all'ampiezza della faccia; dagli occhi posti al di sotto della linea centrale che divide, orizzontalmente, la faccia; e da guance paffute e sporgenti. Lorenz e diversi altri ricercatori hanno sostenuto che queste caratteristiche di prototipo infantile sono essenzialmente le stesse per tutte le specie animali conosciute, il che può spiegare il forte richiamo e il sentimento di tenerezza e di protettività che la maggior parte dei cuccioli di animale suscita negli individui umani. Secondo gli etologi, pertanto, le caratteristiche fisiche e morfologiche che distinguono il piccolo dall'adulto assolvono la funzione di attivare nei genitori meccanismi innati che li inducono ad occuparsi di lui.
  • comportamenti di segnalazione. Essi includono le molteplici espressioni mimiche, di cui il neonato è già molto ricco. Il neonato, infatti, dispone di un'ampia varietà di espressioni facciali che appaiono identiche a quelle utilizzate dagli adulti, per indicare imbarazzo, sorpresa, dolore, gioia, noia, serenità. Questi atteggiamenti del bambino, così simili a quelli dell'adulto, inducono la madre a percepirlo come un piccolo uomo, cioè a riconoscergli già in epoche così precoci una vita mentale molto ricca. Gli vengono attribuite competenze comunicative (“adesso mi vuole dire che...”), capacità intellettive (“ha capito che sto per andar via...”), esigenze affettive (“non gli piace stare solo...”). Queste interpretazioni adultomorfe hanno una portata rilevante. Sul piano affettivo, infatti, esse permettono di interrompere quel rapporto fantasmatico in base al quale, per la madre, il bambino è un prodotto ed un oggetto della sua fantasia. Il bambino con la sua presenza fisica, ma soprattutto con i suoi comportamenti assume concretezza reale. Ciò comporta una ristrutturazione psicologica, in quanto la madre deve ormai porsi di fronte ad un essere che, per quanto nato da lei, è altro da lei. Questa distanza fisica e psichica permette quindi di individuare madre e bambino come due partner diversi, che come tali possono entrare in un interscambio comunicativo. Su un piano evolutivo-cognitivo, l'importanza di queste interpretazioni materne è parimenti fondamentale. Interpretando, la madre attribuisce ai vari comportamenti del bambino un significato e vi risponde adeguatamente. Ciò permette al bambino, fin da età precocissime, di apprendere gli effetti del proprio comportamento. È un meccanismo in base al quale via via nel corso dello sviluppo una serie di comportamenti finiscono per assumere significatività e valore comunicativo, che inizialmente non avevano.
  • comportamenti di avvicinamento. Molto presto, con il procedere della maturazione e dello sviluppo, accanto ai comportamenti di segnalazione, che hanno l'effetto di avvicinare la madre al bambino, compaiono i comportamenti di avvicinamento, che hanno l'effetto inverso, cioè quello di avvicinare in qualche modo il bambino alla madre. Il tendere le braccia, il carezzare, l'abbracciare, sono comportamenti attivi di avvicinamento, di accostamento, di ricerca del contatto fisico. Sul piano affettivo, l'importanza di questi comportamenti è significativamente messa in risalto da Diatkine quando afferma che essi funzionano come “... segnali che permettono alla madre di divenire ciò che essa ha creduto di essere per il bambino fin dal suo primo sorriso”. Sul piano comunicativo-evolutivo, questi comportamenti hanno il valore di un feed-back, di un'informazione di ritorno che rassicura la madre circa l’adeguatezza delle sue interpretazione.

In sintesi, anche nella figura di accudimento esistono dei pre-adattamenti propri della specie che facilitano un’esperienza di sintonizzazione e di sincronizzazione con il proprio bambino.

In rapporto a tali pre-adattamenti, il bambino e la madre imparano ad alternare i propri turni e a leggere i segnali l’uno dell’altro relativi all’inizio e alla fine dei turni. Essi imparano come anticipare il comportamento l’uno dell’altro. Progressivamente, mano a mano che la loro interazione continua nelle successive sedute di allattamento o in altre situazioni, madre e bambino imparano a leggere le intenzioni, a interpretare gli affetti e a “leggere i segnali su come l’altro partner stia interpretando la loro condotta”. Queste esperienze emozionali e relazionali si traducono in strutture interne, definite da Bowlby come “modelli operativi interni di attaccamento”, che divengono la base per interpretare tutti i futuri rapporti.

Il concetto di modello operativo interno risulta particolarmente importante. Bisogna, infatti, considerare che l’attaccamento svolge molteplici funzioni. Esso nasce come bisogno del bambino di un rapporto di vicinanza “fisica” che gli garantisce sicurezza e tranquillità, soprattutto quando è spaventato o ha timore. Questo senso di sicurezza, a sua volta, gli permette di esplorare il mondo e di organizzare in maniera produttiva e positiva tutte le esperienze che nel corso dell’esplorazione effettua. Progressivamente, crescendo, il bambino “memorizza” la qualità delle relazioni che intercorrono con la figura di attaccamento e giunge ad interiorizzare un’immagine mentale non solo della figura di accudimento, ma anche della qualità che ha abitualmente caratterizzato la relazione di attaccamento. In questa prospettiva, le persone importanti per il bambino sono presenti nella sua mente sotto forme di elementi sensoriali (visi, voci, suoni, odori) e di rappresentazioni mentali della sua relazione con loro.

Da ciò risulta evidente che il benessere del bambino dipende soprattutto, nelle prime fasi di sviluppo, dalla capacità da parte della madre, o di un suo Sostituto, di comprendere e soddisfare i suoi bisogni urgenti, al fine di aiutarlo a costruirsi un modello operativo interno di attaccamento di qualità positiva. In questo modo la madre si pone come una “base sicura” e permette al bambino di “sapere” che, anche quando non è fisicamente presente, essa sarà con lui in caso di bisogno.

Al contrario, il “fallimento” di questi primi scambi diadici può condizionare negativamente la qualità dell’attaccamento.

La sensazione da parte del bambino di non poter contare su una “base sicura” lo porta ad interiorizzare un modello operativo interno di attaccamento che non lo sostiene nelle sue attività esplorative e nell’organizzazione strutturante della realtà.

Da una serie di ricerche effettuate, sono stati individuati alcuni “pattern” di attaccamento che per le loro caratteristiche risultano sufficientemente definiti. La Ainsworth ha utilizzato una situazione sperimentale, la strange situation, rappresentata dal mettere a confronto il bambino con una situazione “nuova”, “sconosciuta”, in cui egli viene separato per pochi minuti dalla madre. Tale situazione sperimentale è stata applicata a bambini di 12 mesi. La sperimentazione, in effetti, era tesa a registrare i comportamenti del bambino quando, dopo un’assenza di 3 minuti, la madre ritornava da lui. In tal modo sono stati registrati una serie di comportamenti che hanno portato all’individuazione di tre pattern di attaccamento, a cui successivamente ne è stato aggiunto un quarto.

Essi sono:

  • l’attaccamento sicuro. Questo tipo di attaccamento è caratterizzato da un particolare comportamento del bambino, in cui dopo un’iniziale timore per l’assenza della madre, si tranquillizza rapidamente quando la vede ritornare e riprende prontamente a giocare. In questo tipo di attaccamento il bambino dimostra di aver fiducia che la madre sarà disponibile, presente e attiva nel caso dovesse incontrare situazioni paurose o pericolose. Questa sicurezza interna gli consente di sentirsi audace nelle esplorazioni del mondo e capace di interagire con esso. Questo pattern di attaccamento si costruisce progressivamente, grazie ad un genitore disponibile, che è stato capace di interpretare i segnali che il bambino gli ha inviato e che è stato presente quando egli ha cercato protezione, conforto o aiuto;
  • l’attaccamento resistente. In questo tipo di attaccamento, l’esperienza di una separazione, anche fugace (3 minuti), in una situazione estranea, determina nel bambino una “sovra-attivazione” del sistema di attaccamento. Il bambino si mostra molto ansioso e non si tranquillizza al ritorno della madre, ma anzi persiste ed insiste in comportamenti di ricerca di prossimità con la madre, nonostante il contatto con il genitore. In questo tipo di attaccamento manca nel bambino la certezza che il genitore sarà presente e disponibile in caso di bisogno. In conseguenza di questa insicurezza, egli tenderà a stare sempre vicino alle figure di accudimento, avrà scarsa tendenza ad esplorare il mondo e sarà particolarmente predisposto a provare l’ansia di separazione. Questo pattern di attaccamento è legato a una scarsa continuità del rapporto (separazioni), a situazioni che mettono a rischio la continuità del rapporto (soprattutto minacce di abbandono come strumento di controllo) o alla presenza di un genitore disponibile in alcune occasioni, ma non in altre;
  • l’attaccamento evitante. Il comportamento del bambino è caratterizzato da un apparente disinteresse nei confronti dell’assenza della madre e, soprattutto, sembra ignorarla quando ritorna. In questo tipo di attaccamento il bambino sviluppa la completa sfiducia nelle capacità dell’ambiente di rispondere ai suoi bisogni di aiuto e protezione. Si configura una penosa certezza che nei casi di bisogno non potrà contare sul sostegno delle figure di accudimento; una certezza in rapporto alla quale cercherà di vivere senza l’amore e il sostegno degli altri. Questo pattern di attaccamento è in genere favorito da carenze affettive quantitative (istituzionalizzazione) o qualitative (abbandono e/o maltrattamenti);
  • attaccamento disorganizzato/disorientato. Questo tipo di attaccamento è caratterizzato, appunto, da comportamenti disorganizzati e chiaramente indicativi di un marcato disorientamento al ritorno della madre: per esempio, alcuni bambini incominciano a girare per la stanza, avvicinandosi e allontanandosi ripetutamente, mentre altri entrano in una specie di trance, rimanendo immobili e congelati. Esso sembra essere sotteso da un’incapacità del bambino di organizzare strategie di adattamento definite, in quanto ha sperimento forme di comunicazione ambivalenti e confuse con le figure genitoriali. Si tratta, cioè, di un pattern di attaccamento favorito da genitori che hanno assunto atteggiamenti affettivo-relazionali contraddittori e poco chiari nei confronti del bambino.

Le osservazioni effettuate sembrano mostrare che durante i primi due-tre anni di vita il pattern di attaccamento può essere considerato come una qualità della relazione e che è strettamente dipendente dagli atteggiamenti dei genitori. In questa prospettiva, cioè, anche se l’attaccamento si pone come una motivazione sociale primaria, la tipologia dei pattern di attaccamento è strettamente dipendente dalle esperienze emozionali e relazionali precoci.

Va tuttavia rilevato che man mano che il bambino cresce, sia il pattern di attaccamento sia le caratteristiche di personalità ad esso connesse, diventano sempre più resistenti al cambiamento. In altri termini, il bambino tenderà a trasferire i primi pattern di attaccamento in nuovi rapporti.

Indipendentemente dal modello interpretativo utilizzato, risulta evidente che la qualità delle prime relazioni “sociali” svolge un ruolo critico e determinante per tutto il successivo sviluppo affettivo. Cure e attenzioni adeguate rappresentano la premessa indispensabile di un sentimento di fiducia negli altri, che a sua volta costituisce il nucleo di una stabile fiducia in se stessi.

B) Le fasi successive

A partire dai 2-3 anni il bambino acquisisce, come abbiamo visto, una soddisfacente coscienza di sé ed insieme una soddisfacente coscienza dell'altro. Il bambino è ora capace di un'analisi anche sommaria dei propri attributi fisici, sessuali e comportamentali e insieme di quella degli attributi fisici, sessuali e comportamentali dell'Altro. Ciò comporta un processo molto sottile e fondamentale nella socializzazione del bambino; un processo che lo porta ad appropriarsi dei codici e delle regole del gruppo sociale a cui appartiene.

E’ evidente che anche in questo processo i genitori assumono un ruolo determinante. Una posizione centrale è assunta, in particolare, dalla madre, specialmente nei primi anni di vita, per l'intenso legame che essa stabilisce con il figlio. Questa relazione ha inizio già nella fase del concepimento ed evolve gradatamente durante i successivi momenti della gravidanza, del parto, dell'allevamento. Tale relazione presenta, da una parte, i caratteri tipici e comuni alla specie ed al contesto socio-culturale e, dall'altra, assume connotazioni specifiche, strettamente connesse con la personalità della donna. In altri termini, se il “sentimento” che lega la coppia madre-bambino è universale, gli stili e le modalità con cui si realizza sono variabili da coppia a coppia in relazione alle caratteristiche del bambino, alle caratteristiche di personalità della madre e alle caratteristiche del gruppo socio-culturale.

Anche se, nel primo anno di vita, il centro dell'universo infantile è costituito dalla madre, anche la figura paterna ricopre, già in fase precoce, un ruolo fondamentale nella vita affettiva del bambino. Mentre precedentemente veniva generalmente riconosciuto al padre un ruolo strumentale (nel senso economico-sociale) ed alla madre un ruolo espressivo (nel senso affettivo-comunicativo) all'interno della famiglia, oggi, tale ripartizione tradizionale delle funzioni è stata ampiamente messa in discussione. Si può, quindi, osservare più frequentemente un progressivo livellamento dei ruoli e una partecipazione reciproca al sostegno materiale ed affettivo.

L'importanza del padre si esplica in due direzioni: da una parte, in quanto ha influenza diretta sul bambino, dall'altra, in quanto agisce sul bambino indirettamente, tramite la madre, influenzandola ed indirizzandone l'atteggiamento verso il figlio.

Una delle funzioni più importanti del padre è quella di interporsi nello stretto legame madre-bambino, attenuandone progressivamente il carattere simbiotico. Il padre funge dunque in tal senso quale primo rappresentante della realtà sociale esterna, con la quale il piccolo impara a stabilire rapporti.

La presenza di un padre sollecito e disponibile facilita inoltre lo sviluppo della sfera cognitiva, del concetto di sé, della capacità di controllare gli impulsi e di acquisire padronanza sull'ambiente esterno, sia fisico che sociale.

La disponibilità, pertanto, di modelli di riferimento stabili e rassicuranti (madre e padre), rende possibili processi di indentificazione che si traducono in una fonte importantissima di sicurezza. L'identificazione è un concetto tratto dalla psicoanalisi e si riferisce al processo che porta il bambino a pensare, provare sensazioni e comportarsi come se le caratteristiche di un'altra persona - il cosiddetto modello - appartenessero a lui. Mediante questa identificazione il bambino assimila in effetti la forza e l'adeguatezza del genitore; riceve, cioè, la sensazione di essere più adeguato e dotato di autocontrollo. Inizialmente, il processo di identificazione comincia quando il bambino percepisce di essere simile al modello per certi aspetti, di avere in comune con il modello alcuni attributi fisici o psicologici. Una volta formatasi, l'identificazione verrà rafforzata o indebolita nella misura in cui il modello è attraente e desiderabile. Quando entrambi i genitori gli appaiono consolanti e potenti, il bambino tende ad identificarsi in una certa misura con ciascuno di essi. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, il bambino percepisce una maggiore somiglianza con il genitore dello stesso sesso (nell'abbigliamento, nei capelli, negli attributi sessuali) e si identificherà pertanto in maniera più accentuata con esso. Man mano che l'identificazione si rafforza il bambino comincia a comportarsi come se possedesse effettivamente alcune caratteristiche del modello: i comportamenti che in un primo tempo egli aveva imitato diventano automatici e formano aspetti più solidamente radicati del suo modo di comportarsi e di rapportarsi all'altro. E' necessario, tuttavia, sottolineare che l'identificazione non è un fenomeno del "tutto o niente": ogni bambino si identifica in una certa misura con tutti e due i genitori.

L’identificazione è un processo che porta il bambino ad appropriarsi degli stili comportamentali di un modello di riferimento. Mediante tale identificazione il bambino assimila in effetti la forza e l'adeguatezza del modello

Ma la presa di coscienza di sé, oltre a favorire i processi di identificazione, comporta anche altre importanti "novità":

  • un progressivo abbandono del bisogno di cure totali;
  • l'emergere di sentimenti di padronanza sul proprio corpo;
  • un accresciuto interesse all'ambiente circostante, al di là del ristretto ambito domestico.

In tal modo, il bambino comincia ad essere molto più interessato ai rapporti con gli altri bambini, specialmente nelle attività di gioco. Intorno al 2° anno di età, infatti, si possono osservare le prime relazioni di scambio, che rimangono tuttavia ancora piuttosto episodiche e labili. Il bambino, in questa fase, ricerca la compagnia dei coetanei;, anche se le attività intraprese si configurano come giochi paralleli, nel senso che ciascun bambino gioca per conto proprio in presenza dell'altro senza che si stabilisca una reale partecipazione ad un'attività comune. Si tratta comunque di un arricchimento del mondo esperenziale del bambino, che gli fornisce un nuovo essenziale impulso al processo di socializzazione. I contatti con gli altri sono infatti fonte costante di stimoli sociali e cognitivi, dando al bambino la possibilità di imparare come si interagisce in situazioni sociali, come si affrontano l'ostilità, le risposte aggressive, l'amicizia, etc.

Successivamente, verso i 3-4 anni, in coincidenza con la scolarizzazione, il gioco con divisione dei ruoli e cooperazione (gioco di gruppo) diventa sempre più vario ed articolato. In questa fase, l'intero comportamento emozionale tende a stabilizzarsi e il bambino stesso impara progressivamente a controllare le proprie emozioni, che tendono ad interiorizzarsi, ad approfondirsi e ad apparire più equilibrate, ricche, socializzate.

Nella terza infanzia (o fanciullezza), la Scuola e, con essa il gruppo dei coetanei, diventa il centro della vita extrafamiliare del bambino, nel cui ambito egli amplia le norme morali ed acquisisce comportamenti più autonomi ed indipendenti dalla famiglia. A partire dall'epoca della scolarizzazione, il gruppo dei pari rappresenta una sottocultura a sé stante che modella, tramite valori ed atteggiamenti condivisi, la personalità infantile ed il concetto di sé. Per quanto il fanciullo al momento dell'ingresso a scuola abbia già elaborato adattamenti significativi nell'ambito della propria famiglia, la scolarizzazione favorisce nuove occasioni di esperienza e di crescita sociale. Va infatti considerato che mentre nella famiglia la trasmissione dei codici educativi viaggia su canali relazionale-affettivo e su movimenti identificatori (processi di identificazione primaria), nell'ambito della scuola l’educazione comincia ad essere basata sulla trasmissione sistematica ed organizzata di conoscenze.

Il gruppo-classe, d'altra parte, costituisce uno spazio sociale specifico e molto diverso sia dal gruppo familiare che dai gruppi ludici occasionali. Ciò sia per l'elevato numero di ragazzi che per la specifica relazione prescritta con un adulto, il maestro, che è la figura centrale del gruppo stesso. Il rapporto con l'insegnante è finalizzato al processo di apprendimento ed orientato verso obiettivi, norme e ruoli precisi.

L'interazione tra pari in tale contesto “strutturato” comporta esperienze molto complesse, relative ai problemi di accettazione reciproca, di appartenenza, di controllo dell'altro, di prestigio. Le dinamiche di rivalità e di competizione possono raggiungere notevole intensità in una situazione, in cui l'affetto e l'approvazione di un unico adulto (l’insegnante) va diviso con gli altri.

Intanto, alle norme etiche proprie delle prime fasi dello sviluppo morale, basate su sanzioni esterne più che interne, legate a proibizioni o a comportamenti specifici ed accettate dal bambino solo in quanto imposte dall'autorità adulta, molto gradatamente si sostituiscono quelle basate su criteri più astratti e generalizzati, meno dipendenti da ricompense o punizioni esterne e più legate a regole interiorizzate. In questa evoluzione, ancora una volta assume fondamentale importanza l'interazione in gruppi di coetanei: il gruppo consente un progressivo distacco dalla subordinazione all'autorità adulta, facilitando la ricerca collettiva di giudizi e di leggi morali, basate sulla reciprocità e sull'uguaglianza.

Lo sviluppo morale richiede, da una parte, una maturazione cognitiva adeguata con l'acquisizione di forme di pensiero astratto e presuppone, dall'altra, armonici processi di identificazione.

I processi di identificazione, come abbiamo accennato, si attuano inizialmente nei riguardi delle figure parentali: se i genitori costituiscono per il bambino delle figure positive su cui modellarsi, egli tenderà ad adottare i valori e le norme del genitore e a seguirli, pena la perdita dell'amore e dell'approvazione. L'assimilazione dei modelli familiari dà luogo alle cosiddette identificazioni primarie. Successivamente tali processi identificatori si estendono ad ambiti extrafamiliari, interessando maestri, coetanei, etc., per cui le norme interiorizzate si arricchiscono ulteriormente (identificazioni secondarie).

In tal senso, il bambino si costruisce un sistema abbastanza ordinato e preciso di principi e valori, che contribuiscono a meglio definire e caratterizzare l'immagine di sé.

Come accennato, la figura dell’insegnante riveste un ruolo fondamentale nello sviluppo infantile e la sua importanza è generalmente inferiore solo a quella dei genitori, costituendo egli un modello di riferimento significativo per le identificazioni secondarie. Il processo d'insegnamento plasma la personalità infantile attraverso meccanismi complessi di modellamento, per cui talune risposte, considerate auspicabili, vengono rinforzate, mentre tal’altre sono scoraggiate.

 

La valutazione dello sviluppo comunicativo-sociale

La metodologia adottata per studiare e valutare lo sviluppo risente inevitabilmente dell'orientamento concettuale dei ricercatori che si dedicano a tale studio e del quadro teorico a cui fanno riferimento: psicoanalitico, comportamentista, cognitivista, etologico.

In effetti, quale che sia il modello teorico utilizzato, la metodologia di studio prevede l'adozione di "strumenti" simili: ciò che cambia nei diversi approcci è la lettura dei dati ricavati.

Per studiare lo sviluppo e le fasi che lo caratterizzano, infatti, gli "strumenti" adottati sono essenzialmente rappresentati da:

  • anamnesi
  • osservazione
  • libera
  • in situazioni semistrutturate
  • questionari
  • interviste
  • colloquio
  • reattivi standardizzati

Un aspetto particolarmente importante, che rappresenta il presupposto indispensabile per un "buon" esame dello sviluppo, è l’atteggiamento che deve assumere l'esaminatore nelle varie fasi del processo.

La qualità della relazione che si va a stabilire con il bambino svolge un ruolo determinante. Da essa infatti dipendono la compliance dei genitori, la partecipazione del bambino, e, quindi, la possibilità di conoscere e capire.

La qualità della relazione è garantita dall'osservanza di alcuni aspetti critici, rappresentati da:

  • una grande disponibilità. Durante il tempo in cui ci si trova con il bambino bisogna essere a sua totale disposizione, liberi da altre preoccupazioni ed avere tutto il tempo necessario affinché possa stabilirsi una relazione. E' tuttavia implicito che questa disponibilità si riferisce soprattutto ad una disposizione psichica, che permetta al bambino di sentire che c'è una reale volontà di ascoltare e di comunicare;
  • assenza di idee preconcette. Il bambino viene per "parlarci" di lui e solo lui può permetterci di conoscerlo. Anche quando si dispone già di una descrizione molto dettagliata del bambino, fornita dai genitori, è necessario mettersi in una situazione di ascolto per cercare di capire e di conoscere. Non bisogna infatti mai confondere il vissuto dei genitori con la realtà del bambino;
  • il desiderio di comprendere. E’ evidente che se lo scopo ultimo è quello di ottenere dei dati per definire un profilo, ciò non di meno deve esserci una sana curiosità nel cercare di capire e comprendere una realtà, quella del bambino, che è sempre unica ed originale. Un atteggiamento, infatti, che si limiti a descrivere può sottendere dinamiche non sempre produttive al processo di conoscenza del bambino, quale il voler rispondere al desiderio di un altro (della madre, del padre, di un insegnante), ovvero il voler soddisfare un'esigenza personale dell'esaminatore (voler verificare una teoria, cercare conferme di un'abilità professionale, etc.);
  • la capacità di analizzare i sentimenti che scaturiscono dalla relazione con il bambino al fine di mantenere un assetto di lavoro che utilizzi il gioco delle proiezioni reciproche tra l'esaminatore ed il bambino senza esserne sopraffatto;
  • la capacità di identificarsi con il bambino senza confondersi con esso, utilizzando l’empatia per registrare gli stati affettivi del bambino.

Sulla base di quanto premesso, vengono di seguito fornite alcune indicazioni relative all’Osservazione.

 

L'osservazione

Bisogna innanzitutto sottolineare che dal momento in cui genitori e bambino entrano nella sala da visita, fino a quello in cui si congedano, la semplice osservazione, intesa nel senso di limitarsi a “guardare” il bambino, il suo modo di muoversi, di chiedere, di rispondere alle richieste dei genitori, di rapportarsi all’altro e all’oggetto, di porsi nei confronti dei compiti proposti, permette di raccogliere la maggioranza delle informazioni utili per il “processo di conoscenza”.

Risultano, infatti, particolarmente importanti aspetti, quali:

  • il modo in cui il bambino entra nella stanza, che può variare dal rifiuto manifesto, all’inibizione o alla completa disinibizione;
  • il modo in cui investe lo spazio, che può esprimersi con la ricerca di uno spazio privilegiato in cui resta “confinato” o, al contrario, con un’attività motoria frenetica che lo porta a spaziare per tutta la stanza;
  • il modo in cui esplora gli oggetti presenti nella stanza, che può variare da una completa indifferenza, ad una esplorazione sistematica o ad una manipolazione caotica e afinalistica;
  • il modo in cui reagisce alla presenza dell’altro, che può essere caratterizzato da una completa indifferenza o da una eccessiva diffidenza o da una buona disponibilità;
  • il modo in cui risponde alle richieste dell’esaminatore, che può variare da una sollecita disponibilità ad interagire, ad un’aderenza passiva o a un completo rifiuto.

Indipendentemente da queste informazioni derivanti dal "guardare" il comportamento del soggetto, l'osservazione, quale "tecnica" psicodiagnostica, prevede momenti più strutturati. Una seduta di osservazione, cioè, si configura come una situazione in cui il bambino è comunque messo in condizione di agire ed interagire liberamente, ma in cui le variabili esterne sono controllate attraverso una sorta di standardizzazione. Tale standardizzazione, in pratica, si traduce in un'organizzazione predefinita dello spazio in cui deve svolgersi l’esame, del materiale messo a disposizione del bambino e delle sequenze con cui devono essere proposte le attività.

Il ruolo dell'OSSERVAZIONE nel contesto dell'esame varia in rapporto all'età del soggetto e al tipo di problema. Per bambini molto piccoli o per soggetti portatori di disabilità sociali che interferiscono massivamente sui comportamenti adattivi, per i quali il COLLOQUIO e l'applicazione di REATTIVI MENTALI risulta difficile o impossibile, l'OSSERVAZIONE finisce per divenire la modalità prioritaria, se non addirittura esclusiva, per conoscere e capire il bambino.

In una situazione di questo genere ciò che viene valutato è in pratica l’attività esplorativa e l’attività ludica del bambino.

L'attività esplorativa e il gioco vengono generalmente considerati come fenomeni simili se non identici, il che sembra si basi sul fatto che entrambi hanno in comune basi motivazionali simili. Sia il comportamento esplorativo sia il gioco, infatti, sono forme di comportamento motivate intrinsecamente.

Il comportamento esplorativo consiste in un esame senso-percettivo-motorio di un oggetto, di una situazione o di un evento la cui funzione é ridurre l'incertezza soggettiva (cioè acquisire informazione). L’incertezza soggettiva nasce come uno stato motivazionale dal confronto con oggetti, persone, luoghi e/o eventi che in qualche modo sono diversi rispetto alla passata esperienza del soggetto. Ne deriva che gli attributi di uno stimolo in grado di determinare il comportamento esplorativo è la novità.

Il gioco, al contrario dell’esplorazione, non é prevalentemente associato con l’acquisizione di informazione circa il contesto dello stimolo; il comportamento é appropriato allo stimolo ma non dominato da esso. Ne derivano comportamenti e sequenze comportamentali che sono intrinsecamente motivati – come per l’esplorazione -, ma che appaiono apparentemente compiuti "per se stessi" e condotti con relativo rilassamento ed attivazione emotiva di tonalità positiva.

Per quel che riguarda in particolare il gioco, esso assume nell'esame del bambino un ruolo determinante. E' necessario, pertanto, dedicare a questa "attività" del bambino una descrizione dettagliata.

 

Il gioco

Il gioco è in grado di offrire all’esaminatore una serie di conoscenze in merito a diversi aspetti:

  • l’attitudine del bambino a rapportarsi ai giochi (inibizione, eccitazione) e le modalità con cui li usa (tutti insieme, uno dopo l’altro, etc.);
  • la capacità di organizzare il gioco, che indica la maturazione affettiva del bambino ed il tipo di funzionamento mentale;
  • la tematica del gioco (stereotipie, scene d’aggressione, etc.) per il suo alto significato proiettivo;
  • la verbalizzazione che accompagna il gioco;
  • l’abilità psicomotoria (armonia dei gesti, modalità di prensione, stabilità motoria);
  • la tolleranza alle frustrazioni, che si può rilevare al momento di interrompere il gioco.

Nel complesso, il gioco rappresenta una modalità privilegiata per valutare il livello di sviluppo del bambino, per conoscere le caratteristiche del suo pensiero e, soprattutto, per accedere al suo mondo interno. Due aspetti vanno, in particolare, sottolineati:

  1. il gioco come strumento per conoscere il livello di sviluppo;
  2. il gioco come strumento per capire dinamiche relative al mondo interno del bambino.

1) Il gioco come strumento per conoscere il livello di sviluppo

Le attività che il bambino svolge nel corso del "gioco" riflettono:

  • le sue capacità di organizzare i dati percettivi;
  • gli schemi di conoscenza che possiede;
  • il repertorio di "comportamenti" che gli permettono di agire sulla realtà esterna.

In una parola, il gioco permette di rilevare elementi utili a definire il livello di sviluppo cognitivo raggiunto dal bambino.

Le caratteristiche e la complessità del gioco presentano un'evoluzione sequenziale, per tappe, le quali rappresentano l’espressione delle progressive acquisizioni che il bambino va effettuando sul piano cognitivo.

  • Fino all'età di di 7-8 mesi, nei confronti di un oggetto, il bambino si limita ad un gioco esplorativo, portandolo alla bocca o manipolandolo, mediante il quale, oltre a “divertirsi”, estrae i dati rilevanti dello stimolo, in termini di caratteristiche fisiche e connotazioni emozionali ad esso connesse.
  • A partire dai 7-8 mesi il bambino comincia ad impegnarsi in giochi pre-simbolici, nell'ambito dei quali si diverte ad agire sugli oggetti (batterli su un piano, farli cadere, lanciarli-raccoglierli; raggrupparli-sprarpagliarli; deporli in un contenitore-ricacciarli; etc.). Si tratta di un gioco che gli permette, peraltro, di valutare gli effetti delle sue azioni. Sempre a questa età, in rapporto alle cresciute competenze relazionali, che gli permettono di “conoscere” Sé e l’Altro come entità separate, il bambino comincia anche ad impegnarsi in giochi con l’Altro. Ne sono esempi, il gioco del “cucù-tetè” o il gioco di ripetere gesti che provocano il divertimento dei gentori (“batti le manine!”, “fai ciao!”, “come è la pappa?”). E’ importante rilevare che a questa età, tuttavia, non è ancora maturata la capacità di giocare con l’altro, condividendo un gioco con l’oggetto: il bambino o gioca con l’oggetto o gioca con l’altro.
  • All'età di 10 mesi fa la sua comparsa il gioco di finzione. Con il gioco di finzione il bambino comincia a far finta di. Si tratta comunque di un’attività che inizia in maniera molto elementare e che presenta via via una complessità crescente nel corso dello sviluppo (Figg. 3.1 e 3.2).
    • Già verso i 10 mesi, infatti, il bambino fa finta di bere da una tazza vuota o di mangiare con un cucchiaio una pappa inesistente. Si tratta di un tipo di gioco che viene definito funzionale, in quanto l’oggetto è riconosciuto nel suo uso ed utilizzato per gioco come tale.
    • Questo tipo di gioco funzionale molto precocemente subisce un cambiamento, nel senso che sempre più spesso il destinatario del far finta di diventa un’altra persona o un giocattolo. In particolare, le bambole si prestano molto bene a questo gioco di simulazione (vestirle, svestirle, darle da mangiare). Si tratta comunque di un gioco in cui l’oggetto continua ad essere adoperato secondo il suo vero uso.
    • E’ solo a partire dai 2 anni, grazie alla comparsa della funzione rappresentativa, che nel gioco di finzione gli oggetti adoperati rappresentano cose completamente diverse (usare una scopa facendo finta che sia un cavallo o utilizzare un cubo di legno per rappresentare un gatto ed un altro cubo per rappresentare un topo, etc.).
  • Verso i 4-5 anni compare il gioco socio-drammatico, nell'ambito del quale il bambino comincia ad interpretare delle parti o ad assumere ruoli definiti. Ne sono esempi, il giocare a "papà, mamma e figlio", "maestra e alunni", "dottore e ammalato", "guidatore e passeggeri", etc. Al di là degli aspetti emozionali e relazionali rilevabili nell'ambito di questo tipo di giochi, essi testimoniano la raggiunta capacità del bambino di "capire" i ruoli sociali, le regole che caratterizzano i rapporti interpersonali, e di "pensare con la testa degli altri".
  • Sempre in relazione alle conquiste cognitive, a partire dai 7 anni il bambino comincia ad impegnarsi in giochi che hanno regole ben precise: il calcio, i birilli ed altri giochi simili.

Considerando l’importanza del gioco di finzione ( = il gioco di far finta di …) nello sviluppo del bambino, è necessario definire alcuni elemnti critici nel valutarne la sua evoluzione. Tali elementi sono:

  • l’agente simbolico, vale a dire il destinatario dell’atto simbolico;
  • il sostituto simbolico, che esprime il grado di astrazione rappresentativa;
  • la complessità simbolica, che si riferisce al numero di atti simbolici combinati fra loro per creare il gioco.
  • L’agente simbolico, si riferisce, come accennato, al destinatario dell’atto simbolico. Indipendentemente dall’età, la sequenza che caratterizza la progressione in questa area può essere espressa a livelli di complessità crescente:
    • ad un livello 1, il bambino agisce su se stesso. E’ lui il destinatario dell’azione. Ad esempio, dà da mangiare a se stesso:
    • ad un livello 2, il bambino agisce sull’altro. Per esempio, dà da mangiare alla mamma o alla bambola;
    • ad un livello 3, il bambino assume l’identità di un’altra persona o di un oggetto o di un animale. Per esempio, gattona come un gatto o si mette le scarpe della mamma o fa finta di essere il papà;
    • ad un livello 4, il bambino esce dal “quadro” del gioco ed organizza i ruoli di altre persone, sia come agenti che come riceventi. Per esempio, dice: “tu sei la maestra e tu l’alunno, allora la maestra ti dice che devi fare il disegno”.
  • Anche per quel che riguarda il sostituto simbolico è possibile individuare 4 livelli. Considerando che tale area riguarda il grado di astrazione rappresentativa, è possibile sequenzialmente osservare che:
    • ad un livello 1, il bambino utilizza oggetti reali ed il gioco è di tipo funzionale;
    • ad un livello 2, l’oggetto continua ad essere abbastanza realistico, ma non è necessariamente reale. Per esempio, per far finta di pettinarsi non è necessario avere un pettine, ma può essere sufficiente una miniatura, un pettinino;
    • ad un livello 3, l’oggetto è ambiguo, anche se ha qualcosa in comune con l’oggetto reale o può assomigliare a quello reale. Per esempio, il bambino può utilizzare un bastoncino facendo finta che è un cucchiaino o una scatola cubo facendo finta che è una casetta;
    • ad un livello 4, il bambino ricorre a oggetti immaginari o non convenzionali.
  • Per quel che riguarda, infine la complessità simbolica, intesa come il numero di atti simbolici che il bambino riesce a combinare per creare il gioco, i 4 livelli che ne esprimono l’evoluzione sono i seguenti:
    • ad un livello 1, il bambino compie un solo atto di gioco, una sola volta;
    • ad un livello 2, il bambino compie un solo atto di gioco, ma ripetuto più volte, simulando una routine. Per esempio, dà più volte da mangiare alla bambola;
    • ad un livello 3, il bambino compie 2 o 3 schemi correlati, esegue 2-3 atti collegati sullo stesso tema. Per esempio, gira il caffè nella tazzina, lo beve e si pulisce la bocca;
    • ad un livello 4, il bambino può agire e ripetere tutti gli eventi principali di una piccola scena di vita, che rappresenta un evento ritualizzato, come la festa di compleanno o la routine di andare a letto, o la cena. Il bambino ha tutta la scena nella mente e può rappresentarne tutte le fasi, dall’inizio alla fine.

2) Il gioco come strumento per capire dinamiche relative al mondo interno del bambino.

Il significato del gioco infantile è stato sviluppato ed approfondito soprattutto da Melanie Klein che indicò, nell'analisi del gioco, la tecnica più adatta al bambino; tecnica che permette di individuare i disturbi affettivi anche nell'età che precede la comparsa del linguaggio verbale.

La sequenza del gioco viene in tale prospettiva considerata l'equivalente delle libere associazioni dell'adulto, in quanto esso costituisce un mezzo di espressione fondamentale e congeniale al bambino.

L'indagine può essere condotta o osservando il bambino che gioca liberamente con giocattoli vari oppure fornendogli del materiale prestabilito (soprattutto utile è il “metodo dei burattini” della Rambert, che consiste nell'invitare il soggetto a rappresentare delle scene con dei burattini).

Nel contesto diagnostico, l'osservazione delle modalità attraverso le quali il bambino si muove coi giocattoli, l'analisi delle sequenze ludiche e dell'organizzazione del mondo rappresentativo, può fornire indicazioni valide sull'organizzazione psichica ed in particolare su eventuali nuclei conflittuali, sulla struttura dell' Io e sui meccanismi di difesa.

L'interpretazione è naturalmente psicodinamica, anche se la valutazione del significato del gioco non dovrebbe mai prescindere dall'analisi del contesto relazionale in cui esso si svolge.

I particolari del gioco non vanno infatti valutati in se stessi e secondo schemi interpretativi fissi e costanti, eventualmente di tipo simbolico: uno stesso oggetto può infatti assumere significati diversi, molteplici e va quindi ricondotto all'ambiente di cui fanno parte il bambino e l'esaminatore.

Un aspetto particolarmente importante è l’atteggiamento che deve assumere l’osservatore nell’ambito dell’osservazione.

Abitualemente è prevista la partecipazione dell’esaminatore; una partecipazione intesa come un atteggiamento propositivo teso ad incoraggiare l’azione e l’interazione del bambino. Nei confronti dei bambini più “resistenti” l’esaminatore molto spesso parte da una contestualizzazione di alcuni comportamenti spontanei del bambino, ripetendoli, ampliandoli e rilanciandoli per creare un’esperienza di sintonizzazione, quale premessa per avviare un’azione condivisa. Si tratta tuttavia di una partecipazione che non è mai invadente né direttiva. L’esaminatore si limita a favorire l’attività del bambino lasciando ampio spazio alla sua libera iniziativa. Bisogna, infatti, tener presente che quanto più l’osservazione è apparentemente libera, in un contesto relazionale rassicurante, tanto maggiori saranno le possibilità espressive del soggetto e, quindi, gli elementi che si riescono a cogliere. Il termine apparentemente viene sottolineato per indicare che, nell’organizzazione dell’osservazione, nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione. In effetti l’operatore ha uno schema mentale ben preciso che lo guida. La stessa scelta di lasciare “libero” il bambino di agire e di interagire risponde ad un criterio metodologico inserito in un protocollo predefinito, in cui le variabili esterne sono controllate attraverso una sorta di standardizzazione (spazio in cui deve svolgersi l'osservazione, materiale messo a disposizione del bambino, sequenza delle attività che vengono proposte, etc.).

Va, infine, rilevato che il metodo dell'osservazione assume un ruolo preminente anche in campo psicoanalitico, configurandosi come una tecnica con metodologia ben definita. In effetti, già Freud aveva indicato la possibilità di comprendere aspetti significativi del comportamento del bambino attraverso l’osservazione. L’analisi, che egli fece della sequenza di gioco di un bambino di 18 mesi è generalmente considerata il modello delle ricerche successive. A differenza del metodo classico della psicoanalisi, che si basa su di un processo di ricostruzione retrospettivo, l’osservazione diretta permette un’analisi del comportamento e delle risonanze affettive concomitanti, in situazioni reali attuali. I contributi dei due metodi vengono pertanto attualmente considerati complementari e suscettibili di reciproca verifica.

La "tecnica" dell'osservazione in campo psicoanalitico è molto semplice: l'osservatore è presente nella situazione osservata (gioco, interazione con i coetanei, rapporto con la figura materna o altri familiari), senza tuttavia intervenire attivamente nell'azione o nella verbalizzazione. E' necessario tuttavia tener presente che, per quanto elementare e apparentemente ovvia negli aspetti tecnici, l'osservazione si rivela un metodo complesso ed articolato, poiché il rapporto osservatore-osservato è un rapporto che, lungi dall'essere neutrale ed oggettivo, è sotteso da una valenza affettiva particolare.

La posizione dell'osservatore implica infatti risonanze affettive, spesso molto intense e la frequente messa in atto di un processo di identificazione con il soggetto osservato, il quale, d'altra parte, verrà a sua volta inevitabilmente condizionato dalla presenza dell'osservatore.

L'insieme di questi atteggiamenti e fattori, relativi sia all'uno che all'altro dei partecipanti alla situazione di osservazione, deve essere sottoposto ad accurata analisi e costituisce la fase finale del lavoro interpretativo.

 

Principali segnalatori dello sviluppo comunicativo-sociale

A partire dai 9 mesi di vita una valida metodologia per la valutazione dello Sviluppo Comunicativo-Sociale è l’analisi dei segnalatori comunicativi legati all’attenzione condivisa.

L’attenzione condivisa può essere considerata come un bisogno, un piacere o, più generericamente, la volontà di condividere con l’altro un comune fuoco di interesse. Essa si realizza attraverso una serie di comportamenti messi in atto dal bambino per richiamare l'attenzione dell'altro su un oggetto, un gioco o spettacoli che rivestono per lui una particolare rilevanza. Ciò, al fine di stabilire con l'altro un comune fuoco di interesse; per rendere, cioè, l’altro partecipe dei suoi interessi. Ma l'attenzione condivisa si esprime anche con comportamenti finalizzati ad interessarsi di ciò che l'altro sta facendo; a curiosare su ciò che sembra coinvolgere emotivamente l'altro; a direzionare la propria attenzione nei confronti di un oggetto, di un gioco o di un evento su invito dell’altro.

I comportamenti che realizzano questo bisogno di attenzione congiunta, cominciano a comparire dai 9 mesi di vita e sono rappresentati da:

  • sguardo referenziale
  • indicare con il dito
  • mostrare
  • “dichiarare” verbalmente

Si tratta, pertanto, di comportamenti che divengono progressivamente più complessi ed espliciti.

  • Inizialmente, il bambino utilizza lo sguardo referenziale: mentre sta ad esempio osservando un giocattolo in movimento, distoglie momentaneamente lo sguardo dall’oggetto e lo rivilge alla madre, quindi ritorna a guardare l’oggetto.
  • Successivamente si appropria del gesto di indicare (pointing): se vede qualcosa che lo incuriosisce o lo diverte, utilizza il dito indice puntato verso l’oggetto per richiamare l’attenzione dell’altro.
  • In epoca ancora successiva, il bambino per condividere con l’altro l’interesse nei confronti di un oggetto diventa capace di porgerlo e mostrarlo.
  • Quando, infine, è in grado di utilizzare il linguaggio verbale richiama con espressioni verbali il suo interesse per un oggetto, un gioco o uno spettacolo interessante (“Uh, guarda!”, “L’aeroplano!”, “E’ venuta la nonna!”).

Gli esempi appena citati si riferiscono ai comportamenti di attenzione congiunta che avvengono su iniziativa del bambino. Ma l’attenzione congiunta si manifesta anche quando il bambino si accorge che l’Altro è interessato a qualcosa e rivolge la sua attenzione a questo qualcosa: è l’attenzione congiunta in risposta ad un interesse dell’Altro.

In questa prospettiva un utile strumento di valutazione è la Scala dello Sviluppo Comunicativo-Sociale Preverbale (SCS-PV). Essa consiste in una seduta di gioco strutturata, nel corso della quale vengono proposte una serie di situazioni-stimolo con una disposizione predefinita degli spazi, del materiale e delle modalità di presentazione delle prove. La seduta ha una durata di circa 20-25 minuti e prevede 12 situazioni-stimolo selezionate in base alla capacità di facilitare l’emergenza di una serie di comportamenti socio-comunicativi preverbali. Si tratta di comportamenti che abitualmente cominciano a manifestarsi all’età di 8 mesi. Pertanto, la scala può essere utilizzata a partire da tale età sia in bambini con sviluppo tipico, che in quelli con sviluppo atipico.

In effetti i comportamenti sollecitati possono essere fatti rientrare in tre categorie mutuamente esclusive. In particolare, le tre categorie possono essere brevemente descritte come segue:

  • COMPORTAMENTI DI ATTENZIONE CONDIVISA --> si riferiscono alla competenza del bambino nell’uso dei comportamenti non verbali finalizzati a condividere con l’altro esperienze circa oggetti o eventi.
  • COMPORTAMENTI DI RICHIESTA --> si riferiscono alla competenza del bambino nell’uso dei comportamenti non verbali finalizzati a chiedere aiuto per ottenere oggetti o scatenare determinati eventi.
  • COMPORTAMENTI DI INTERAZIONE SOCIALE --> si riferiscono alla competenza del bambino nell’impegnarsi in sequenze di interazione giocose e emotivamente cariche  con gli altri.

Ciascuna categoria prevede al suo interno un’ulteriore classificazione a seconda che i comportamenti osservati vengano avviati su iniziativa del bambino ovvero vengano effettuati dal bambino in risposta ad una sollecitazione dell’esaminatore.

Vengono quindi a configurarsi:

  • Iniziativa nell’Attenzione Condivisa (IAC) si riferisce alla frequenza con cui un bambino usa segnalatori comunicativi per catturare l’attenzione dell’altro su oggetti e/o eventi che lo interessano. I segnalatori comunicativi utilizzati possono essere di livello “basso”, come lo sguardo, ovvero di livello “alto”, come il mostrare;
  • Risposta all’Attenzione Condivisa (RAC), si riferisce alla frequenza con cui il bambino risponde ai comportamenti comunicativi dell’altro, finalizzati ad attirare la sua attenzione;
  • Iniziativa nella Richiesta di un Oggetto (IRO), si riferisce alla frequenza con cui un bambino usa segnalatori comunicativi per richiedere l’aiuto dell’altro nell’ottenere un oggetto ovvero che si verifichi un evento. I segnalatori comunicativi utilizzati possono essere di livello “basso”, come lo sguardo, ovvero di livello “alto”, come l’indicare o il mostrare, integrato con lo sguardo;
  •  Risposta alla Richiesta (RR), si riferisce all’abilità del bambino nel rispondere  a semplici comandi gestuali o verbali dell’esaminatore, per ottenere un oggetto dal bambino ovvero che egli compia una determinata azione.
  • Iniziativa nell’Interazione Sociale (IIS), si riferisce alla frequenza con cui il bambino mette in atto comportamenti finalizzati ad iniziare sequenze di interazione ludica con l’esaminatore;
  • Risposta ai comportamenti di Interazione Sociale (IIS) si riferisce alla frequenza con cui il bambino risponde alle sollecitazioni dell’esaminatore per iniziare sequenze di interazione ludica.

Oltre alla valutazione di tali comportamenti, la SCS-PV prevede anche due prove riservate al gioco simbolico. Con questo termine ci si riferisce al “gioco del far finta di…”, cioè a tutte quelle attività ludiche in cui l’agente interpreta un “ruolo” e l’oggetto perde il suo significato reale o funzionale per acquisirne uno immaginario. Appare evidente che la gamma di situazioni simboliche variano a seconda dell’età in riferimento a tre parametri:

  • Agente simbolico: cioè chi è l’agente dell’azione (chi fa l’azione) e chi la riceve;
  • Sostituto simbolico: cioè un oggetto che rappresenta qualcosa d’altro
  • Complessità simbolica: cioè il numero di atti combinati per creare il gioco stesso.

Infine, con la SCS-PV vengono valutati anche alcuni aspetti temperamentali: i livelli di attività, l’emozionalità positiva e l’emozionalità negativa.

 

Bibliografia

  1. Militerni R.: Lo sviluppo neuropsichico. Idelson-Gnocchi, Napoli, 2004
  2. Camaioni L., Di Blasio P.: Psicologia dello sviluppo. Il Mulino, Bologna, 2002
  3. Levi G., et al.: Linee Guida per l’autismo. Giornale di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva: Vol.25; Aprile 2005

Tratto da www.neuropsicomotricista.it  + Titolo dell'articolo + Nome dell'autore (Scritto da...) + eventuale bibliografia utilizzata

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