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Il counseling in età evolutiva - Il concetto di counseling nella riabilitazione pediatrica

INDICE PRINCIPALE

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Il concetto di counseling nella riabilitazione pediatrica

Il termine counseling (o counselling) deriva dalla parola latina consilium, che letteralmente significa consiglio, consultazione o giudizio. In generale la funzione del counselor (cioè colui che applica il couseling) è quella di aiutare ed accompagnare il paziente a scegliere, tra le diverse opzioni, quella a lui più conveniente. L’obiettivo non è quello di fornire soluzioni dall’esterno bensì di far emergere le capacità del soggetto in modo che possa affrontare autonomamente scelte e problemi.

Nel campo della riabilitazione, in particolare in quella pediatrica, il counseling assume caratteristiche differenti rispetto agli altri contesti.

In primo luogo il paziente è il bambino, quindi il counseling risulta rivolto alle famiglie. In secondo luogo è opportuno operare una distinzione tra il termine “riabilitazione” e “abilitazione”; il primo viene utilizzato generalmente per indicare il percorso terapeutico attuato nel caso in cui venga persa, indipendentemente dal motivo, una funzione inizialmente presente (es. rieducazione della forza muscolare in seguito ad un tumore o ad incidente), il secondo, invece, si utilizza per indicare tutti gli interventi volti a sollecitare competenze non ancora emerse nel bambino (es. posizioni e passaggi-posturali nel bambino con ritardo dello sviluppo neuropsicomotorio).

In questa tesi la problematica è rappresentata dal ritardo nell’acquisizione delle competenze motorie dovuto ad una lunga ospedalizzazione, in assenza di sofferenza neurologica, pertanto il paziente è il neonato/lattante ricoverato o seguito tramite follow-up: l’operatore deve condividere direttamente con i caregivers informazioni riguardanti il loro piccolo aiutandoli a comprendere le sue difficoltà ed insegnando loro le strategie da adoperare per stimolarne l’apprendimento. Il terapista ha il compito di evidenziare le potenzialità del bambino e di promuovere lo sviluppo delle competenze emergenti condividendo il profilo del bambino con il genitore il quale, a sua volta, deve cercare di favorire ed estendere le occasioni di stimolazione nei contesti di vita del piccolo, soprattutto a casa dove vi sono le fonti primarie di stimoli.

In questo modo viene instaurato un vero e proprio contratto terapeutico tra il professionista e la famiglia.

È fondamentale l’attuazione di un intervento precoce in quanto è ormai comprovata l’esistenza di un periodo sensibile in cui l’apprendimento è più semplice rispetto ad altri stadi dello sviluppo (25).

Negli ultimi anni, in riferimento al counseling in età evolutiva, si è sviluppato anche nell’ambito riabilitativo italiano il concetto di Family-Centered Care (FCC), i cui presupposti ed applicazioni sono delineati in maniera esaustiva nel paragrafo seguente.

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La Family-Centered Care

In questo paragrafo viene approfondito il modello assistenziale definito Family- Centered Care che in questi ultimi anni si è diffuso notevolmente in molti paesi, tra cui l’Italia, divenendo un approccio fondamentale nell’ambito della riabilitazione pediatrica. In primo luogo segue un excursus storico che ripercorre gli eventi principali che hanno portato alla sua affermazione, in seguito viene analizzata la definizione del termine e l’applicazione del concetto nel contesto riabilitativo pediatrico, con particolare riferimento alle situazioni di ritardo delle acquisizioni neuropsicomotorie, relative ai primi 18 mesi, dei bambini ospedalizzati, oggetto di questa tesi.

Note storiche

Il concetto di Family-Centered Care (FCC), o assistenza centrata sulla famiglia, si basa sul riconoscimento del ruolo centrale della famiglia nella vita dei bambini e, pertanto, prevede una pratica assistenziale basata sull’inclusione ed il coinvolgimento della famiglia nel piano assistenziale del bambino con problemi di salute. Si tratta di un concetto multiforme, privo nella letteratura scientifica di una definizione chiara ed univoca, che si è evoluto negli ultimi 50 anni parallelamente ai numerosi cambiamenti della nostra società, tra cui la modifica del contesto assistenziale (prima la casa, poi l’ospedale), l’aumento del livello di coinvolgimento delle famiglie nell’assistenza dei propri figli (prima i genitori venivano esclusi da tale processo, ora devo essere inclusi), l’eliminazione del concetto di bambino come “piccolo adulto” ed il crescente interesse per i bisogni emotivi dei bambini ricoverati.

Prima degli anni ’50, infatti, le teorie sull’educazione dei bambini di stampo comportamentista non riconoscevano l’importanza dell’inclusione delle famiglie nel processo assistenziale in ospedale e dell’interazione emotiva con i bambini; queste ideologie portarono ad un’assistenza di tipo meccanicistico e ad una limitazione delle visite da parte dei genitori.

Dagli anni ’50, grazie agli studi di Bowlby sulla deprivazione materna negli orfanotrofi e di Robertson sugli effetti della separazione materna sui bambini ospedalizzati, incominciano ad essere valorizzati la presenza ed il supporto dei caregivers negli ospedali. Le prime descrizioni sulla presenza materna in ospedale risale al 1958. In questi anni inizia, quindi, la costruzione dell’assistenza centrata sulla famiglia e si assiste all’adozione, da parte di molte istituzioni, di politiche volte all’inclusione dei membri della famiglia all’interno del contesto assistenziale ed alla fondazione di associazioni di genitori con lo scopo di promuovere il benessere del bambino ospedalizzato. Si tratta di un processo lungo che vede diverse resistenze da parte del personale sanitario, poco convinto della positività data dalla presenza genitoriale e preoccupato di poter perdere il proprio potere. Solo verso gli anni ’80-’90 in alcune realtà ospedaliere si diffonde la necessità di stabilire una partnership tra operatore sanitario e genitore.

Nel tempo si sono, pertanto, sviluppati e succeduti diversi modelli di assistenza coma la parent partecipation, la care-by-parent, la partership-in-care fino ad arrivare all’attuale family-centered care.

La parent partecipation considera i genitori come partner dell’assistenza. La care-by-parent ha modificato il concetto di responsabilità per quanto riguarda il bambino in ospedale in quanto, se precedentemente il piccolo era affidato interamente al personale sanitario, con questa nuova visione i genitori svolgono un ruolo attivo e sono costantemente presenti accanto al loro figlio fornendo le cure quotidiane, a partire dagli anni ‘60 vengono introdotte negli ospedali americani unità apposite dove la famiglia può vivere insieme al bambino fino al termine del ricovero.

All’inizio degli anni ’90 emerge nel Regno Unito il modello della partership-in- care che prevede la somministrazione di alcune cure infermieristiche da parte dei genitori previa istruzione e supporto dell’operatore sanitario, le due figure collaborano insieme favorendo la trasmissione delle informazioni relative all’assistenza del piccolo paziente.

La Family-Centered Care rappresenta l’evoluzione di questi modelli (trattata in seguito) (26).

Di seguito vengono citati alcuni eventi principali che hanno contribuito all’evoluzione del concetto di Family-Centered Care nel Regno Unito e negli Stati Uniti, paesi promotori di tale tipo di assistenza.

In Inghilterra nel 1959 viene emanato il Platt Report (Ministero della salute) che riconosce l’importanza del benessere psicologico dei bambini ospedalizzati; nel 1961 nasce la National Association for the Welfare of Sick Children in Hospital (NASCH) per favorire le visite dei genitori; nel 1976 il Court Report (Ministero della salute) riconosce che i bambini hanno esigenze diverse da quelle degli adulti e che il personale sanitario ed i genitori devono lavorare insieme; nel 1989 il Children Act (Ministero della salute) sottolinea l’importanza dei genitori per il bambino; nel 1991 le linee guida del Welfare of Children and Young People in Hospital (Ministero della salute) affermano che “un servizio di buona qualità per i bambini […] è quando esso è incentrato sul bambino e la sua famiglia, dove i bambini, i loro fratelli ed i loro genitori o i loro tutori riescono a percepire una rete senza interruzioni di assistenza e trattamento man mano che si muovono attraverso gli elementi costituenti del servizio sanitario nazionale”; nel 1992 il NAWCH cambia nome in Action for Sick Children sottolineando l’attenzione verso i bambini malati curati a casa dalla famiglia; nel 1996 il NHS:The Patient’s Charter: Services for Children and Young People (Ministero della salute) dichiara che le famiglie hanno il diritto di essere coinvolte nel processo assistenziale dei loro figli (3).

Negli Usa, invece, è stata fondata nel 1965 l’Association for the Care of Children’s Health (ACCH), con l’obiettivo di promuovere la filosofia dell’approccio di cura centrato sulla famiglia; alla fine degli anni '80 compaiono alcune pubblicazioni specifiche (es. la monografia “Family Centered Care for Children Needing Specialized Health and Developmental Services” del 1987 a

cura di T.L.Shelton e J.S.Stepanek) dove viene riportata la prima definizione della FCC e i suoi principi di riferimento; nel 1992 viene fondato l’Institute for Family-Centred Care un’organizzazione con obiettivi simili all’ACCH che ha dato avvio a molte delle migliori iniziative in ambito sanitario negli Stati Uniti; nel 1999 l’istituto per la “Healthcare Improvement” (IHI) propone il programma NICHQ (National Institute for Children’s Healthcare Quality), dedicato principalmente al miglioramento della qualità delle cure sanitarie prestate ai bambini ed incentrato, in parte, sulla promozione del coinvolgimento della famiglia e sull’evidenza clinica della family-centered care.

Organizzazioni simili esistono anche in altri paesi, ad esempio l’Association for the Welfare of Children’s Health in Australia (1973), Children in Hospital Ireland in Irlanda (1970) e l’European Association for Children in Hospital, un’organizzazione composta da 16 paesi membri e dal Giappone (26).

In Italia si trovano molti esempi di collaborazione tra operatori sanitari e famiglia nella definizione e nell’attuazione di programmi terapeutici ma si tratta di una realtà non ancora omogenea. Inoltre, le linee guida per la riabilitazione, prevedono che la responsabilità del progetto riabilitativo non possa essere delegata ai genitori, anche se alcune proposte possono essere trasferite in ambito familiare. La relazione professionisti-famiglia è quindi ancora soggetta ad un’interpretazione paternalistica dove le indicazioni e gli strumenti vengono forniti secondo una modalità top-down (27).

Definizione

La definizione di assistenza centrata sulla famiglia indica un concetto onnicomprensivo composto da tanti elementi diversi, per questo motivo è difficile identificare una definizione univoca di tale termine, codificato per la prima volta nel 1992 dall'attuale Institute for Patient and Family-centered care negli Stati Uniti.

Innanzitutto appare fondamentale chiarire il significato delle singole parole che lo compongono:

  • Famiglia: rappresenta l’istituzione fondamentale in ogni società umana, attraverso la quale la società stessa si riproduce e perpetua, sia sul piano biologico, sia su quello culturale. Il termine è difficile da definire in quanto assume caratteristiche variabili in base ai differenti contesti culturali e sociali, infatti ogni individuo attribuisce un significato diverso a questa parola in base alla propria esperienza di vita.
  • Assistenza: indica il fornire quanto necessario per la salute, il benessere e la tutela di qualcuno.

In letteratura si trovano numerose informazioni sull’argomento ma vi sono significative discrepanze tra le basi teoriche della FCC e la sua applicazione nella pratica assistenziale.

La Family-Centred Care si basa sul riconoscimento, da parte degli operatori sanitari, dell’importanza del ruolo della famiglia nella vita dei bambini in quanto questa rappresenta il fattore più importante che influenza la crescita e lo sviluppo dell’individuo (3). E’ un approccio alla pianificazione, alla realizzazione e alla valutazione dell'assistenza sanitaria che si fonda su una relazione reciprocamente vantaggiosa tra i pazienti, le famiglie e gli operatori sanitari (28).

Secondo una recente definizione la Family-Centered Care rappresenta il “sostegno professionale al bambino e alla famiglia attraverso un processo di coinvolgimento, partecipazione e partnership, basato sull’empowerment e la negoziazione” (3) ed “è caratterizzata da una relazione tra i professionisti sanitari e la famiglia, in cui entrambe le parti si impegnano a condividere la responsabilità per la salute del bambino” (29), quindi è “un modo di prendersi cura dei bambini e delle loro famiglie nei servizi sanitari che garantisce la pianificazione dell'assistenza su tutta la famiglia, non solo per singolo figlio/individuo e in cui tutti i membri della famiglia sono riconosciuti come destinatari di assistenza” (30).

In sintesi il concetto di family-centered care si basa su attributi specifici, ovvero la collaborazione, la negoziazione, l’empowerment, lo scambio di idee ed il sostegno attraverso l’insegnamento.

In particolare il termine partership indica il coinvolgimento dei genitori nel processo assistenziale e la collaborazione con il personale sanitario nel fornire cure al bambino ospedalizzato mentre il termine empowerment indica proprio il processo di affidamento di potere e controllo su una situazione, in questo caso la gestione del proprio figlio alla famiglia ed il ruolo di operatore sanitario come parter e facilitatore dell’assistenza (3).

Il concetto di FCC viene, quindi, utilizzato nelle strutture pediatriche per indicare che un bambino non può essere trattato esclusivamente come singolo individuo in quanto la famiglia rappresenta il centro delle cure ed è fondamentale per il suo benessere (31). Inoltre l'assistenza centrata sulla famiglia richiede che l'operatore sanitario possegga ed usi conoscenze professionali e abilità per supportare la partecipazione del bambino e della famiglia nell'ambiente ospedaliero e nella comunità in maniera diversa in base alle caratteristiche di ciascuna famiglia, con diverse modalità anche per la stessa famiglia durante il percorso terapeutico del bambino. Il rapporto tra la famiglia e il professionista è caratterizzato da una dipendenza reciproca e una condivisione di responsabilità per la cura del bambino che, grazie a questo diverso livello di attenzione, beneficia di una condizione ambientale favorevole la quale incide positivamente sugli effetti delle terapie riabilitative.

In questo senso la FCC trova le sue origini in una filosofia di assistenza infermierisca di tipo olistico e si fonda sull’applicazione pratica del modello biopsicosociale, per questo motivo è anche difficilmente valutabile la sua efficacia; tuttavia esistono in letteratura dei questionari, denominati Measure Of Processes Of Care (MPOC), che permettono di misurare la qualità percepita da parte delle famiglie, in relazione all’implementazione di un’assistenza basata sui principi della FCC (32) (33).

I principi fondamentali della FCC, proposti dall’Institute of Family-Centered Care (2007), sono (34):

  • Riconoscere nella pratica quotidiana che la famiglia è la costante nella vita del bambino, mentre gli operatori sanitari rappresentano un supporto momentaneo;
  • Facilitare la collaborazione della famiglia a tutti i livelli, ospedale, ambiente domestico e comunità, attraverso il coinvolgimento diretto e una adeguata formazione e informazione;
  • Promuovere in ogni momento uno scambio di informazioni completo e imparziale tra i famigliari e gli operatori sanitari;
  • Considerare la presenza di differenze culturali, etniche, economiche, sociali e geografiche;
  • Riconoscere e rispettare diversi metodi di promozione dello sviluppo anche in base alle necessità della famiglia. Incoraggiare il supporto e la rete tra famiglie;
  • Fare in modo che i servizi ospedalieri o domiciliari siano il più possibile accessibili e flessibili per andare incontro alle diverse necessità della famiglia;
  • Non dimenticare che la famiglia è la famiglia e il bambino è il bambino, riconoscere che hanno la propria forza, le proprie emozioni e aspirazioni aldilà del bisogno specifico di salute.

L’evoluzione del processo di ospedalizzazione del bambino: prima e dopo l’introduzione del concetto di assistenza centrata sulla famiglia

Nella metà del XX secolo i bambini venivano ricoverati in ospedale senza i genitori ai quali non era ammesso di far visita ai propri figli oppure veniva consentito per un tempo molto breve. All’epoca erano frequenti i ricoveri per le malattie croniche (es. tubercolosi) che potevano comportare un tempo di ospedalizzazione di diversi mesi o addirittura anni, periodo in cui ai piccoli pazienti non era consentito di vedere i propri familiari provocando veri e propri traumi psicologici, spesso significativi e duraturi. Allo stesso tempo, come citato precedentemente, il modello educativo di stampo comportamentista, la ridotta consapevolezza delle necessità sociali e psicologiche in età evolutiva e l’esclusiva attenzione alle cure incentrate sul corpo consentivano una scarsa interazione emotiva tra il personale sanitario ed i bambini ospedalizzati. Dopo la seconda guerra mondiale molti psichiatri si interessarono alle conseguenze psicologiche date dalla mancanza delle cure genitoriali in quei bambini che erano rimasti da soli a causa delle evacuazioni di massa o della perdita dei genitori. Similmente altri studiosi, tra cui Bowlby e Robertson, volsero la loro attenzione sugli effetti traumatici rilevati nei piccoli pazienti in seguito a ricoveri prolungati; ad esempio negli Stati Uniti, R. Spitz (1945) ha utilizzato il termine "ospedalizzazione" per indicare il calo di salute di un bambino dovuto ad una lunga degenza in ospedale (26).

Oggi è comprovato il ruolo centrale della famiglia quale erogatore di cure e fonte di supporto per il bambino ricoverato, infatti, diversi studi sottolineano come i risultati del percorso assistenziale dipendano dall’adeguatezza del ruolo dei genitori. Ad esempio è stato dimostrato che la presenza di un familiare durante le procedure di assistenza sanitaria diminuisce l'ansia sia del bambino sia dei genitori, riduce la necessità di farmaci, favorisce le modalità di recupero e riduce i tempi di ricovero rispetto ai casi in cui i genitori non partecipino alla cura. Allo stesso tempo i caregivers acquisiscono una maggiore consapevolezza degli elementi del processo assistenziale e si mostrano maggiormente disposti a chiedere aiuto agli operatori sanitari in caso di necessità. Altre osservazioni riguardano la rete di sostegno che si crea tra i genitori dei bambini ricoverati la quale consente un supporto reciproco tra le famiglie aumentando la fiducia e la capacità di problem-solving dei genitori. Infine anche gli operatori sanitari, in questo contesto, sono in grado di garantire una migliore prestazione assistenziale (34) (35).

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Il trattamento abilitativo del neonato e del lattante con ritardo di sviluppo neuropsicomotorio nell’ottica dell’assistenza centrata sulla famiglia: il ruolo del gioco, del TNPEE e della famiglia

Un’ospedalizzazione prolungata, come esposto precedentemente, può comportare una difficoltà nell’acquisizione delle competenze neuropsicomotorie in quanto differenti motivi (es. intervento chirurgico, dolore, posizioni obbligate, presenza di cateteri etc…) possono rappresentare un ostacolo allo sviluppo di nuove funzioni adattive. In questo periodo di tempo, variabile da situazione a situazione, il bambino non riceve parte degli stimoli adeguati alla sua età e necessari per la crescita.

L’intervento abilitativo si basa proprio sulla promozione delle competenze non ancora emerse e, in considerazione dell’età dei piccoli pazienti, utilizza il gioco come modalità operativa in quanto questo rappresenta la prima attività svolta dal bambino. Il gioco, infatti, può essere utilizzato sia come strumento di valutazione sia come metodica di apprendimento. Nel primo caso evidenzia la qualità del repertorio ludico presente e quindi le competenze messe in atto, come quelle motorie, affettive, comunicative, cognitive evidenziando i punti di forza e di debolezza del bambino. Nel secondo caso si configura come un’arena per la pratica delle sue capacità ed un modo tramite cui il bambino può ottenere nuovi input sensoriali migliorando le competenze apprese ed imparando nuove abilità (36); la ripetizione di sequenze motorie elementari o complesse eseguite per risolvere un compito rappresentano l’insieme dei processi percettivo-motori-cognitivi che sottendono l’apprendimento motorio. Per Piaget, infatti, il gioco rappresenta un’attività di assimilazione durante la quale il bambino sottomette la realtà ai propri schemi e la trasforma a suo piacimento (es. gioco simbolico) (10).

In sintesi è intrinsecamente piacevole e motivante in quanto non imposto dall’adulto, pertanto può essere usato per proporre problemi ed esercizi terapeutici; in quanto attività che rispecchia l’interazione con l’ambiente può dare indizi anche sulla routine del bambino e della famiglia, sul modello educativo, sulla relazione caregiver-bambino, sulla sua personalità e sulle modalità di accudimento adottate. Partendo da tali presupposti il terapista può delineare un programma terapeutico per facilitare lo sviluppo delle abilità deficitarie in cui assumono molta importanza la scelta dei giochi, le proposte operative, il setting, il posizionamento, la collaborazione con i genitori etc… elementi che variano in base all’età del soggetto.

Il ruolo del Terapista della Neuropsicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE) è quello di adattare l’ambiente agli obiettivi terapeutici e quindi modificare le proposte e gli stimoli in base alle abilità da promuovere, ad esempio una semplice variazione di posizione può comportare di per sé un nuovo problema da affrontare e l’organizzazione di nuove competenze. L’esaminatore deve, pertanto, partecipare in maniera attiva e propositiva selezionando i compiti funzionali idonei alle possibilità del bambino al fine di incoraggiarlo all’azione e all’interazione senza mostrarsi invadente né direttivo; può facilitarlo e guidarlo nell’uso delle strategie lasciando sempre al bambino il ruolo di protagonista e deve scegliere attività che possano incrementare il suo livello di motivazione, elemento essenziale per l’apprendimento.

Attraverso l’osservazione ed il dialogo con i genitori il terapista può ampliare la conoscenza del bambino e della famiglia; ciò appare fondamentale per fornire consigli idonei e ricercare il coinvolgimento e la collaborazione dei familiari. Il terapista deve informare i genitori sul significato di ciò che suggerisce in modo che possano comprendere l’importanza del trattamento ed insegnare loro, verbalmente e mediante dimostrazione pratica, come sollecitare lo sviluppo del bambino in base alle sue particolari ed individuali esigenze. In questo modo la famiglia può proseguire il trattamento a casa in assenza del professionista; il contesto casalingo rispetto a quello riabilitativo ha il vantaggio di essere l’ambiente di vita del bambino e quindi il luogo dove si sente maggiormente a proprio agio e dove è più disposto ad imparare (36). In aggiunta può essere fornito del materiale in forma cartacea in modo da supportare le informazioni trasmesse verbalmente. L’intervento passa così dall’essere diretto a divenire indiretto. Tuttavia il terapista continua ad esser disponibile in caso di dubbi o chiarimenti espressi dalla famiglia e, finché necessario, monitoria il bambino tramite follow-up periodici.

Da quanto descritto si può rilevare che un punto cruciale è rappresentato proprio dalla collaborazione con la famiglia in quanto requisito indispensabile per attuare qualunque fase del percorso diagnostico-terapeutico.

In sintesi, quindi, come riportato nel Manifesto per la Riabilitazione del bambino, a cura del Gipci, “La riabilitazione è un processo complesso teso a promuovere nel bambino e nella sua famiglia la migliore qualità di vita possibile. Con azioni dirette ed indirette essa si interessa dell’individuo nella sua globalità fisica, mentale, affettiva, comunicativa e relazionale (carattere olistico), coinvolgendo il suo contesto familiare, sociale ed ambientale (carattere ecologico)” (37).

La Family-Centered Care applicata al trattamento del ritardo dello sviluppo neuropsicomotorio

In questo paragrafo intendo presentare alcuni aspetti peculiari dell’applicazione del modello dell’assistenza centrata sulla famiglia, emersi dalla letteratura, nell’intervento abilitativo indiretto del bambino durante l’ospedalizzazione ma soprattutto in seguito alla dimissione. Nonostante il materiale relativo specifico sia risultato ridotto, un ambito in cui sono stati reperiti numerosi risultati riguarda l’assistenza centrata sulla famiglia nei reparti di terapia intensiva neonatale (NICU) dove l’utilizzo di tale modello si rileva utile nella soddisfazione delle esigenze di sviluppo, fisiche e psicosociali dei neonati resa possibile dall’intervento primario della famiglia (34). Alcuni studi dimostrano la possibilità di proseguire l’intervento abilitativo nel contesto casalingo, in seguito alla dimissione dall’ospedale, attraverso l’insegnamento ai caregivers, da parte dei professionisti sanitari, delle modalità di cura. In alcuni casi l’evoluzione del bambino viene monitorata tramite follow-up, visite a domicilio o familiari i quali percepiscono effetti positivi sui loro bambini nonché sul rapporto caregiver-bambino, maggior sicurezza e preparazione nella gestione del proprio piccolo e minori preoccupazioni e stress (38). Infatti inizialmente i genitori tendono ad ammettere di non sapere come interagire o giocare con loro una volta giunti a casa e spesso non hanno chiare le fasi dello sviluppo neuropsicomotorio, ad esempio in molti casi i genitori sono soliti tenere il proprio bambino in braccio o nei diversi sistemi di seduta piuttosto che giocare con loro, contrariamente a quanto necessario. Proprio per questo motivo l’educazione dei familiari alle modalità di accudimento inizia sin dai primi momenti in modo che i caregivers siano pronti ad occuparsi autonomamente del proprio bambino nel momento della dimissione. Il terapista insegna ai genitori come riconoscere i segnali e le fonti di stress e come favorire il rilassamento del piccolo. Viene fornito spesso anche del materiale scritto a supporto delle informazioni espresse verbalmente contenente indicazioni sullo sviluppo, sulla care posturale e suggerimenti per giocare (39).

Proprio per quanto riguarda il passaggio dalla terapia intensiva neonatale a casa in Virginia è stato sperimentato un intervento, denominato SPEEDI (Supporting Play Exploration e Early Development Intervention), che combina l’intervento precoce e intenso con il supporto familiare per promuovere lo sviluppo del bambino. Molti genitori hanno affermato di aver imparato, attraverso l’adesione a questo studio, a comprendere maggiormente i bisogni del loro piccolo e ad inserire nella quotidianità le attività volte ad incrementare le loro abilità (40).

Esistono delle evidenze scientifiche riguardanti i nati prematuri che dimostrano l’influenza positiva degli interventi precoci attuati in seguito alla dimissione ospedaliera sullo sviluppo motorio e cognitivo a lungo termine. A tal fine sono fondamentali sia la qualità dell’interazione caregivers-bambino sia le caratteristiche dell’ambiente di vita (41), in particolare l'interazione precoce caregiver-bambino ha il potenziale per sostenere lo sviluppo sociale, emotivo e linguistico.

Gli stessi risultati sull’efficacia del proseguimento del trattamento a casa post- dimissione si osservano anche al di fuori del contesto della NICU, ad esempio è stato reperito uno studio che afferma i benefici di un programma di esercizi, basato sulle attività ludiche indicate dal terapista, svolto dai genitori direttamente a casa sullo sviluppo motorio di lattanti operati per difetti cardiaci (42). Uno studio controllato randomizzato del 2011, svolto su lattanti con ritardo neuropsicomotorio ad eziologia variabile, dimostra come il trattamento indiretto sia complementare al trattamento diretto svolto dal terapista e come favorisca più velocemente la progressione dello sviluppo in più aree (43).

Similmente due studi relativi rispettivamente al trattamento del torcicollo miogeno (44) e della plagiocefalia (45) hanno evidenziato migliori risultati dell’intervento riabilitativo quando il trattamento del terapista viene affiancato da un programma individualizzato di indicazioni svolto dai genitori direttamente a casa. I bambini trattati anche a casa hanno dimostrato una risoluzione più veloce di quelli trattati solo nel servizio di riabilitazione.

In Olanda è stato sviluppato un programma denominato COPCA (Coping with and Caring for Infants with Special Needs) basato sul coinvolgimento familiare e sull’educazione dei caregivers nella cura del loro bambino; uno studio analizza le differenze tra il programma COPCA e l’intervento fisioterapico tradizionale dove il primo mira a promuovere le attività e la partecipazione attiva della famiglia, attraverso una formazione specifica, mentre il secondo prevede lo svolgimento del trattamento principalmente ad opera della figura del terapista. In questo modo i genitori coinvolti nel programma COPCA hanno imparato come giocare con i propri bambini indipendentemente dalle difficoltà neuropsicomotorie (46). Sugli stessi presupposti in Canada è stato sviluppato un programma per i genitori con bambini accomunati da un ritardo motorio intitolato “Watch Me Move”. Si tratta di un intervento su un gruppo di genitori, in tutto 12, in cui vengono mostrate delle videocassette, letti dei manuali e fornito del materiale cartaceo sulle facilitazioni da attuare a casa per promuovere l’apprendimento delle competenze motorie principali. I partecipanti hanno condiviso le proprie esperienze, il successo, le sfide e gli eventuali problemi legati al problema discutendone insieme. Oltre al trattamento indiretto i bambini sono stati seguiti nel servizio di riabilitazione mediante sedute mensili tramite le quali i genitori potevano osservare le modalità di intervento adottate (47). Nello specifico l’insegnamento delle modalità di intervento ai genitori, quindi il trattamento riabilitativo indiretto, viene vissuto positivamente dalla famiglia e l’aderenza al programma, basato sul rispetto delle attività suggerite dal terapista, presenta effetti positivi sulla risoluzione o attenuazione delle difficoltà neuropsicomotorie (48) (49). Da una revisione sistematica sull’argomento del 2013 emerge che “il trattamento abilitativo di successo si verifica quando i professionisti sanitari dichiarano la presenza e validità di diversi metodi di insegnamento e valorizzano le condizioni per fornire disegni didattici che meglio si adattano alle necessità individuali del paziente”. L’apprendimento deve pertanto essere considerato come un processo e non come un risultato, che coinvolge i pensieri del paziente e le sue capacità intellettive individuali. Inoltre, seppur i genitori percepiscano la difficoltà dell’approccio didattico tale modalità è considerata maggiormente efficace nella promozione dello sviluppo rispetto al solo intervento diretto. La maggior parte delle famiglie è concorde nel prediligere un coinvolgimento diretto che insegni loro come assistere il proprio bambino durante le attività di gioco, rispetto alla semplice osservazione della seduta svolta dal terapista, e quindi nel preferire apprendere l’evoluzione motoria dei loro bambini tramite una combinazione di osservazione, discussione e materiale scritto (50).

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