La parola grido
Argomento di questo intervento è una riflessione sul significato della parola in terapia psicomotoria. Credo, tuttavia, che quanto dirò possa valere anche per altri tipi di interventi messi in atto con bambini.
La psicomotricità utilizza essenzialmente un linguaggio non verbale, tuttavia, negli ultimi anni, un numero crescente di psicomotricisti, in modo sempre più massiccio, "mette" parole in terapia.
Ho già avuto modo di riflettere su tale fenomeno, cercando di enumerare i vari significati dell'emergere della parola in terapia psicomotoria, significati che talora possono sfuggire alla comprensione dello psicomotricista stesso. Da parte mia, ritengo indispensabile che il terapista sappia riconoscerli per non permettere ad un'area non controllata dell'interazione di produrre effetti imprevisti che potrebbero risultare anti-terapeutici.
Ciò è particolarmente vero in alcune patologie come, ad esempio, talune psicosi infantili. Su ciò, tuttavia, non mi soffermerò in questo intervento, voglio, invece, in questa sede, interrogarmi su quale parola lo psicomotricista deve andare a cercare, quale parola deve far emergere dal bambino. In questo senso mi è sembrato opportuno individuare un concetto che, in modo provvisorio, ho chiamato "parola grido".
L'emergere della parola in terapia psicomotoria deve rappresentare una rivelazione di autenticità, la rottura del vero, la percezione della possibilità di relazione con l'altro. Lo psicomotricista deve cercare quella parola che rappresenta tutto ciò, la parola grido, appunto.
Questo è possibile se egli cura di non inondare di parole la terapia. Il terapista deve saper aspettare, senza intrudere, l'emergere della parola-grido. Quest'ultima rappresenta uno spartiacque che distingue la verbalizzazione in terapia in due fasi.
Prima del suo emergere, le parole, quando vi sono, hanno soprattutto una valenza paralinguistica, e sono usate spesso come difesa. Dopo cominciano ad avere un significato comunicativo diretto. Ma l'evoluzione della verbalizzazione dipende, in gran parte, dalla capacità del terapista di cogliere il grido dell'essere che si manifesta attraverso la parola e di mettere parole significative nell'interazione con il bambino.
Molti bambini, affetti da varie patologie, "rinunciano" alla parola perché essa ha a che fare con il mondo della costrizione, della non libertà o della minaccia. Quella a cui rinunciano è la parola dell'altro, quella della non autenticità o della distruzione. Tale rinuncia può portare al silenzio.
Altre volte, la messa a distanza della parola avviene attraverso una "ripetizione che svuota". La stereotipia verbale è, in effetti, un meccanismo di svuotamento. La parola, infatti, ripetuta all'infinito, diventa un puro fenomeno impersonale, dove non c'è più né la propria presenza né quella dell'altro. Così anche per l'ecolalia, dove è possibile riconoscere un fenomeno che si potrebbe definire "a specchio", specchio dove la parola dell'altro si infrange e viene svuotata dall'umana presenza. Lo psicotico, ad esempio, in tal modo impedisce che l'altro, attraverso la parola, entri in lui e, al tempo stesso, che particelle di sé fuoriescano e si perdano.
In terapia bisogna dare (o ridare) il senso della possibilità della parola. La percezione di tale possibilità, da parte del bambino, passa attraverso l'emergere della parola-grido. Quest'ultima è la prima parola autentica, quella che nasce dentro l'essere, rappresenta l'essere che emerge e si rende riconoscibile, proiettandosi nel mondo.
La parola-grido non ha, necessariamente, all'inizio, significato relazionale; è il terapista che deve far sentire al bambino la possibilità di tale valenza. Per far ciò egli, per prima cosa, deve saper cogliere la parola-grido. Questo è possibile se il terapista è in contatto con la sua parola autentica, cioè con la sua autenticità.
Il mancato riconoscimento e accoglimento della parola-grido da parte del terapista può avere come conseguenza la rinuncia, da parte del bambino, a quella autenticità e, di conseguenza, una nuova chiusura. Ciò, spesso, è visibile nell'organizzarsi di una stereotipia verbale su quella parola: ancora una volta un meccanismo di svuotamento e di cancellazione.
Riconoscere e accogliere, dunque, ma lo psicomotricista deve anche sapere creare la "giusta dimensione" in cui la parola-grido può essere "detta". Soprattutto nel bambino psicotico, c'è da fare i conti con l'angoscia che l'uscita dalla "fortezza" comporta.
Accoglimento significa anche rassicurazione, rispetto, non intrusione. La tentazione di mettere parole davanti alla parola-grido del bambino può essere forte, bisogna che il terapista stia attento a non distruggere, spaventare, intrudere con le parole.
Se le parole possono esserci, esse devono dare il senso dell'accoglienza, dell'autenticità del bambino, devono essere parole autentiche, significative. La parola-grido attiene al non-detto, all'inespresso perché inesprimibile, anche a sé stesso talora, come succede nelle psicosi, attiene all'impensabile.
Obiettivo del terapista è quello di riportare, nella relazione terapeutica, il bambino all'ascolto del suo essere autentico, sofferente e offrirgli la possibilità di far emergere tale autenticità. Poi, una volta che l'essere è emerso, attraverso la parola-grido, non deve essere più possibile un ritorno al silenzio o ai suoi equivalenti (stereotipia, ecolalia).
Il terapista che riesce a cogliere l'autenticità sofferente del bambino, l'accoglie nella sua autenticità e la rinvia al bambino stesso, compie il più decisivo degli atti terapeutici. In tal modo, infatti, egli si pone come "donatore di senso". Ciò permette al bambino di sentirsi in una "relazione che cura", in cui può, vincendo progressivamente ansie e timori, calarsi sempre di più. cambiamento diventa allora possibile.
Le parole possono emanciparsi dalla quasi esclusiva valenza paralinguistica e dal loro significato difensivo, essere manifestazione e guida del processo di cambiamento, permettere, infine, una progressiva presa di distanza del corpo del bambino dal corpo del terapista e, con questo, la conclusione dell'intervento stesso.
Indice |
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INTRODUZIONE | |
Capitolo 1 | La comunicazione non verbale e la terapia psicomotoria |
1.1 Prossemica | |
1.2 Sguardo | |
1.3 Movimento (Gesto, Tono, Mimica) | |
1.4 Paralinguistica | |
1.5 Postura | |
1.6 Il punto di vista della psicomotricità | |
1.7 La terapia psicomotoria, il corpo, la relazione | |
Capitolo 2 | La comunicazione verbale in terapia psicomotoria |
Capitolo 3 | Corpo e comunicazione |
Capitolo 4 | Il silenzio del corpo |
Capitolo 5 | Alcune riflessioni sul concetto di fraintendimento |
Capitolo 6 |
Il linguaggio della psicomotricità e quello di altre discipline |
Capitolo 7 | La parola grido |
Capitolo 8 | Presentazione del caso: Jessica - Diagnosi |
8.1 Alcuni riferimenti sull'Autismo | |
8.2 Dati Anamnestici - Jessica | |
8.3 Prima Osservazione - Jessica | |
8.4 Seconda Osservazione - Jessica | |
8.5 Progetto Psicomotorio | |
8.6 Tre parametri squisitamente psicomotori | |
CONCLUSIONI | |
BIBLIOGRAFIA | |
Tesi di Laurea di: Silvia CARILLO |