La comunicazione verbale in terapia psicomotoria
Se la comunicazione non verbale assume in terapia primaria importanza, che dire di quei momenti in cui la parola affiora nell'interazione tra bambino e psicomotricista? E' evidente che l'aspetto verbale della comunicazione in terapia assume vari significati. E' opportuno che lo psicomotricista sappia riconoscerli per non permettere ad un'area non controllata dell'interazione di produrre effetti imprevisti che potrebbero risultare antiterapeutici.
Ho già trattato degli aspetti paralinguistici della parola (vedi Capitolo primo). In questo capitolo ne riprenderò alcuni concetti per soffermarmi poi, soprattutto, sugli aspetti linguistici in relazione ai canali non verbali della comunicazione in terapia.
Tra le funzioni paralinguístiche della parola in terapia prevalgono quella fàtica e quella emotiva. La prima serve ad aprire e mantenere la comunicazione con il bambino, come una sorta di gesto sonoro che li collega tra loro. Tale funzione è sussidiaria rispetto all'analoga funzione della dimensione tonico-posturale e, più in generale, degli altri aspetti non verbali. Questo soprattutto all'inizio della terapia, quando è preminente l'obiettivo di stabile un contatto con il bambino.
In questa fase, la comunicazione non verbale assume grande importanza. Più avanti nella terapia, il contatto corporeo con il bambino diventa meno continuo e il corpo di quest'ultimo comincia a funzionare ad una distanza spaziale sempre maggiore; allora la parola assume maggiore importanza in quanto serve a mantenere la comunicazione.
Riguardo alla funzione emotiva, va detto che la parola veicola messaggi sulla relazione ed il terapista può con essa dare messaggi dì rassicurazione, contenimento, accettazione, piacere utilizzando vocalizzi, lallazioni, onomatopee, in cui conta molto il tono, il ritmo, gli intervalli, la ripetizione.
Per quanto riguarda i significati linguistici della parola, in terapia, assumono importanza soprattutto la funzione referenziale e quella metacomunicativa. La prima si riferisce alla possibilità di nominare, denotare, accompagnare un gesto, un movimento, una variazione tonica e quant'altro è in relazione all'assetto tonico posturale. Con la parola il terapista seleziona un particolare modo di essere del bambino, isolandolo dal flusso continuo delle variazioni e, in questo modo, gli conferisce statuto di realtà.
Ciò serve a rendere un comportamento preminente e ripetibile in quanto lo porta alla conoscenza del bambino e gli dà una connotazione positiva. Questo è possibile solo se il bambino comprende il codice linguistico verbale.
La funzione metacomunicativa si ha solo quando il bambino possiede una capacità di rappresentazione simbolica e una comprensione a livello metacomunicativo della lingua, cosa che, solitamente, si ha nel bambino affetto da patologie non gravi o in una fase avanzata della terapia, quando tale capacità e comprensione sono state acquisite. La funzione metacomunicativa permette di tenere separati il piano della realtà da quello simbolico.
Comunicazione verbale e non verbale si intrecciano, nel corso della terapia, in vari momenti. E' importante che vi sia una coerenza tra questi due livelli comunicativi. A tale proposito mi soffermerò ad analizzare alcune situazioni di concordanza e di discordanza.
Mi sembra interessante mettere in relazione tali aspetti con i vari tipi di collegamento temporale che vi possono essere tra verbale e non verbale, in quanto la diversa sequenza può fare assumere alla parola significati diversi.
La parola può precedere la comunicazione non verbale. Il significato che essa assume, in questo caso, può essere consapevole o inconsapevole per chi lo usa. Può preannunciare il significato della comunicazione non verbale o delimitarne la stessa. Usata dal terapista può avere anche una funzione di richiamo che permette allo stesso, in un secondo momento, di portare il bambino sul livello non verbale.
Tale uso deve essere inserito nella funzione fàtica e quindi negli aspetti paralinguistici. Questa strategia è spesso utile con quei bambini in cui l'uso della parola è massiccio e il corpo è sopraffatto dalla verbalità. La parola apre un canale di- comunicazione con il bambino che, pian piano, può lasciarsi andare con il corpo.
Una funzione di annunciazione dell'azione da parte della parola può determinare il passaggio dalla fase analogica a quella logica e ciò è possibile quando il bambino possiede capacità di comprensione e di anticipazione dell'azione. E' necessario che il terapista sia pienamente cosciente di questi usi e controlli perfettamente la tecnica.
A volte non è così. Il significato dell'uso della parola è inconsapevole, in questo caso vi è il rischio che la parola sostituisca del tutto la comunicazione non verbale e lo psicomotricista rimane intrappolato nel verbale. Ciò è frequente nei terapisti che non padroneggiano il livello extraverbale della comunicazione e l'incertezza e l'ansia ad essa collegata portano a tale uso della parola. Bisogna, in questo caso, pensare che l'iter formativo non ha portato il terapista ad un contatto totale con sé stesso, per cui zone oscure della personalità generano insicurezza che diventa insicurezza terapeutica e fonte di ansia con il bambino. Ciò porterebbe la riflessione sui concetti di formazione permanente e di supervisione, la cui trattazione, però, esula dagli intenti di questo lavoro.
La parola, è, inoltre, contemporanea alla comunicazione non verbale. Quando il linguaggio verbale e corporeo sono concordanti, la parola ha un effetto dì rafforzamento o dì amplificazione di significato del non verbale; in altri termini, si usano due significati per esprimere uno stesso significato. La contemporaneità ha per obiettivo il rafforzamento o l'amplificazione immediata. Anche qui, inoltre, la parola permette al terapista di operare il passaggio alla fase logica. Se tale uso è inconsapevole, cioè non scelto nel terapista, ci troviamo davanti probabilmente, ancora una volta, ad un fenomeno dovuto all'ansia del terapista e all'incertezza terapeutica che ne consegue.
Ma lo psicomotricista può anche far seguire la parola alla comunicazione non verbale; soprattutto se vi è un intervallo di tempo tra i due livelli di comunicazione, si dà modo al pensiero di decodificare il non verbale prima che arrivi la parola a confermare tale decodificazione. Si tratta, a ben vedere, per certi versi, di qualcosa di simile alla tecnica usata dal teatro NO giapponese.
L'effetto è quello di un rinforzo non tanto di una comunicazione non verbale, come quello nell'uso contemporaneo di due canali comunicativi, quanto di un rafforzamento in termini di conferma del processo di decodificazione del bambino. Il vantaggio di tale modalità è innegabile.
Il linguaggio non verbale fluisce senza nessun rafforzamento e si presenta tale alla percezione del bambino. Questo uso ancora una volta permette di operare il passaggio dalla fase analogica alla fase logica. Ma qui non è la parola del terapista ad individuare tale passaggio, essa arriva solo a confermarla e quindi rafforza tale tendenza.
In un'altra dimensione la parola che segue il linguaggio non verbale precisa i contenuti di quest'ultimo. Talora la parola arriva a compensare il fallimento della comunicazione non verbale tra terapista e bambino. Nei casi descritti vi è evidentemente concordanza di significato tra linguaggio verbale e non verbale.
Ma la parola può avere anche significato discordante rispetto al non verbale, ciò sia se essa precede, sia se è contemporanea, sia che segua la comunicazione corporea. Nella maggior parte dei casi vi è inconsapevolezza di tale discordanza da parte del terapista e la causa di ciò ha, ancora una volta, a che fare con insicurezza e ansia del terapista stesso.
Vi è tuttavia un caso in cui la discordanza di significato può avere una valenza terapeutica. Ciò si ha quando si è intenti ad un gioco simbolico in cui sono presenti contenuti distruttivi che potrebbero risultare ansiogeni per il bambino, tali contenuti vengono espressi a parole e negati dagli altri canali. Ad esempio dire :"Ora ti uccido" sorridendo e con un tono rassicurante permette al bambino di affrontare tali temi senza essere distrutto dall'ansia.
Se finora si è parlato soprattutto della parola da parte del terapista è necessario ora portare l'analisi sull'utilizzo del linguaggio verbale da parte del bambino. Ho già detto di quanto nel bambino la verbalità può essere preponderante rispetto alla comunicazione extraverbale. Ciò si verifica soprattutto in quei bambini che hanno un corpo silente o perché inibito o perché paralizzato o, infine, perché l'essere si era disgiunto dal corpo. In questi casi, la verbalizzazione è predominante anche se talora carente in assoluto. Questa ha un significato vicariante, nel senso che serve a compensare incapacità ed impossibilità del bambino. Capita spesso di trovare bambini che, anziché muoversi, parlano di azioni, anziché disegnare, descrivono il disegno, anziché comunicare le emozioni e gli affetti, descrivono quasi asetticamente gli stessi. Sono bambini intrappolati in un corpo "non vivo", prigionieri della parola.
La discordanza di significato tra il linguaggio verbale e quello non verbale è presente soprattutto in quei bambini che hanno una distorsione del processo di simbolizzazione e/o una frattura a livello affettivo ed emotivo. Il linguaggio verbale viene a perdere la sua funzione di esame di realtà. Il livello di gravità di questa situazione è indicato dal divario maggiore o minore fra il valore semantico delle parole ed il contesto in cui sono inserite e le circostanze in cui sono. Ciò non permette una categorizzazione dell'esperienza e le parole diventano barriere nella relazione tra il bambino e la realtà esterna (e l'altro).
E' questo il caso in cui il terapista deve rinunciare alla funzione emotiva delle parole, rispondendo con messaggi non verbali alla funzione emotiva dei messaggi linguistici del bambino. Se le parole sono una barriera nella relazione, devono essere aggirate. Per quel che riguarda le manifestazioni di tutto ciò, va detto che possiamo trovarci davanti essenzialmente a tre possibilità:
- il bambino può presentare una logorrea sconclusionata,
- può usare le parole solo in funzione denotativa
- o, infine, come negazione dei dati di realtà.
Vorrei soffermarmi ora, sul significato di compensazione che le parole del bambino possono assumere. Ho già detto che spesso il linguaggio verbale serve a compensare incapacità ed impossibilità assolute o relative e non va dimenticato che tali incapacità ed impossibilità sono sentite dal bambino non solo in assoluto ma, soprattutto, all'interno della relazione. Ciò pone il problema delle richieste, reali o presunte, sentite dal bambino come provenienti dal terapista.
Tali richieste sono riferibili a comportamenti, prestazioni e comunicazioni. Il bambino che sente una sua incapacità o impossibilità a rispondere a tali richieste tende ad utilizzare la parola come compensazione; egli aggiunge quel "di più" o quell'"invece" che è la parola. Ecco, allora, la necessità per il terapista di chiedersi se la parola del bambino non è indotta dalle sue richieste, consapevoli o inconsapevoli che siano, eccessive o incoerenti.
Se si analizzano le parole del bambino si può, allora, tracciare una "mappa" delle sue incapacità ed impossibilità; si tratta, a ben vedere, di incapacità ed impossibilità di essere il proprio corpo. Il vissuto del corpo si è spostato cioè dal "corpo che sono" al "corpo che ho". In quest'ultima analisi, si potrebbe dire che una massiccia o preponderante verbalità è sintomatica dell'allontanamento dell'essere dal proprio corpo, e ciò è vero non solo nel bambino ma anche nel terapista. L'allontanamento può non essere assoluto ma aversi solo nell'ambito della relazione terapeutica.
Nella valutazione della verbalità del bambino, il terapista deve tenere conto di tutto ciò e quindi anche del proprio modo di essere all'interno della terapia. L'analisi di tali elementi permette una migliore comprensione dell'uso della parola e quindi del modo di essere di entrambi nella relazione e l'individuazione delle dinamiche intrapsichiche in essa coinvolte.
Vorrei aggiungere, per concludere, che la decodificazione del linguaggio verbale se da un lato avviene attraverso l'analisi linguistica dello stesso, dall'altra investe, soprattutto per gli aspetti paralinguistici, il corpo, nel senso che la parola, creando una risonanza emotiva determina, di volta in volta, un particolare modo di essere col corpo.
La comprensione di questi modi di essere corporei porta ad una decodificazione completa delle parole. Ma su ciò mi soffermerò maggiormente nel prossimo capitolo.
Indice |
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INTRODUZIONE | |
Capitolo 1 | La comunicazione non verbale e la terapia psicomotoria |
1.1 Prossemica | |
1.2 Sguardo | |
1.3 Movimento (Gesto, Tono, Mimica) | |
1.4 Paralinguistica | |
1.5 Postura | |
1.6 Il punto di vista della psicomotricità | |
1.7 La terapia psicomotoria, il corpo, la relazione | |
Capitolo 2 | La comunicazione verbale in terapia psicomotoria |
Capitolo 3 | Corpo e comunicazione |
Capitolo 4 | Il silenzio del corpo |
Capitolo 5 | Alcune riflessioni sul concetto di fraintendimento |
Capitolo 6 |
Il linguaggio della psicomotricità e quello di altre discipline |
Capitolo 7 | La parola grido |
Capitolo 8 | Presentazione del caso: Jessica - Diagnosi |
8.1 Alcuni riferimenti sull'Autismo | |
8.2 Dati Anamnestici - Jessica | |
8.3 Prima Osservazione - Jessica | |
8.4 Seconda Osservazione - Jessica | |
8.5 Progetto Psicomotorio | |
8.6 Tre parametri squisitamente psicomotori | |
CONCLUSIONI | |
BIBLIOGRAFIA | |
Tesi di Laurea di: Silvia CARILLO |