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Disturbo dello Spettro dell’Autismo (DSA) e Disabilità Complessa

  1. DSA E DISABILITÀ COMPLESSA
    1. I disturbi del neurosviluppo
    2. Disturbo dello spettro dell’autismo
    3. Disabilità complessa
  2. MODELLI DI TRATTAMENTO IN USO
    1. Il modello biopsicosociale (BPS)
    2. Modello assistenziale della Family Centered Care
    3. Le linee guida 21
    4. Early Start Denver Model (ESDM)

INDICE PRINCIPALE 

INDICE

DSA E DISABILITÀ COMPLESSA

I disturbi del neurosviluppo

I disturbi del neurosviluppo (NND), come riportato nel DSM-5, sono una classe di disturbi che hanno esordio tipicamente nelle prime fasi dello sviluppo e sono caratterizzati da un deficit dello sviluppo che causa una compromissione del funzionamento personale, sociale, scolastico o lavorativo. Tali disturbi sono caratterizzati da un’ampia variabilità genetica e clinica e si presentano frequentemente in concomitanza tra loro.

Le conseguenze di tale deficit possono variare da limitazioni lievi e molto specifiche dell’apprendimento fino alla compromissione globale sia delle abilità intellettive che sociali.

Tra i disturbi del neurosviluppo rientrano la disabilità intellettiva, i disturbi della comunicazione, il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), il disturbo specifico dell’apprendimento, il disturbo dello spettro autistico ed i disturbi del movimento.

La disabilità intellettiva è un disturbo con esordio nel periodo dello sviluppo che comprende deficit sia del funzionamento intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici. Esistono diversi gradi di disabilità intellettiva. In accordo al DSM-5, il livello di gravità può essere classificato come lieve, moderato, grave ed estremo. La disabilità intellettiva, in genere, è una condizione che dura per tutta la vita sebbene i livelli di gravità possano cambiare nel tempo.

I disturbi della comunicazione rappresentano un insieme di quadri sindromici caratterizzati da differenti difficoltà per gravità e qualità nella comprensione, produzione e uso del linguaggio. Il DSM-5 individua le sottocategorie di disturbo del linguaggio, disturbo fonetico-fonologico, disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia (balbuzie), disturbo della comunicazione sociale (pragmatica) e disturbo della comunicazione con altra specificazione o senza specificazione. Tali disturbi possono produrre danni funzionali permanenti e si manifestano precocemente.

Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo che riconosce un’importante base neurobiologica e cause ambientali. I sintomi tipici di tale disturbo sono caratterizzati da difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e dell’attività. Come riportato dal DSM-5, si distinguono differenti manifestazioni: predominanza del quadro di disattenzione, predominanza del quadro di iperattività/impulsività oppure combinazione dei due gruppi di sintomi precedenti.

I disturbi specifici dell’apprendimento sono caratterizzati da difficoltà nell’ uso delle abilità scolastiche e di apprendimento. Tali disturbi possono presentarsi attraverso difficoltà nella comprensione del significato di un testo letto, lentezza nella lettura, difficoltà nello spelling, nell’espressione scritta, nelle abilità di calcolo, di ragionamento matematico. In accordo con il DSM-5 si distinguono tre diversi livelli di gravità (lieve, moderata e grave); inoltre in sede di diagnosi è necessario specificare se la compromissione sia a livello della lettura, dell’espressione scritta nonché del calcolo.

I disturbi del movimento coinvolgono le abilità motorie e possono essere distinti in: disturbo dello sviluppo della coordinazione, disturbo da movimento stereotipato e disturbi da tic. Il primo interessa la capacità di coordinare il proprio corpo rispetto a quanto atteso secondo l’età ed è caratterizzato da goffaggine e lentezza/imprecisione nello svolgimento di attività motorie. Per quanto concerne il secondo, l’abilità motoria è inficiata dalla presenza di un comportamento motorio ripetitivo, apparentemente afinalistico e intenzionale, quale ad esempio il dondolio, colpire o mordere il proprio corpo, lo scuotimento delle mani e battere la testa. Infine, i disturbi da tic sono caratterizzati dalla presenza di tic che possono essere rappresentati da vocalizzazioni o movimenti stereotipati, improvvisi, rapidi e aritmici.

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Disturbo dello spettro dell’autismo

Il Disturbo dello spettro autistico è una Sindrome comportamentale causata da un disturbo dello sviluppo biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita (Nicolson et al., 2003). Tale disturbo interessa prevalentemente le aree riguardanti l’interazione sociale, l’abilità di comunicare idee e sentimenti e la capacità di stabilire relazioni con gli altri.

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Origine e inquadramento storico

L’origine del termine autismo si deve a Leo Kanner che, nel 1943, pubblicò “Autistic disturbances of affective contact”, un lavoro nel quale descriveva il disturbo autistico del comportamento affettivo. In particolare, emersero due caratteristiche essenziali di tale condizione: gravi problemi nell’interazione sociale o nella relazione all’inizio della vita e la resistenza al cambiamento o insistenza sull’invariabilità. Quest’ultimo aspetto includeva anche insoliti movimenti stereotipati osservati come il dondolio del corpo e il battere le mani.

L’anno successivo, nel 1944, lo psichiatra Hans Asperger pubblicò uno studio basato su un campione di 8 bambini con caratteristiche simili a quelle descritte da Kanner. Si trattava di ragazzi con marcate difficoltà sociali, insoliti interessi ristretti ma buone capacità verbali.

Nel corso degli anni 70 gli sviluppi in ambito diagnostico portarono al riconoscimento dell’autismo come una categoria diagnostica ufficiale. Diversi studiosi contribuirono alla definizione di tale disturbo: Rimland nel 1964 creò la prima checklist per la valutazione dei sintomi; inoltre, l’autismo venne concepito come un disturbo a sé stante, distinto dalle prime manifestazioni della schizofrenia (Rosen et al.2021). Tra le caratteristiche di tale condizione venne incluso in seguito il ritardo di sviluppo generale delle abilità sociali e linguistiche, interessi ristretti e comportamenti ripetitivi, con esordio precoce nella vita (Rutter, 1978). Anche la National Society for Autistic Children nel 1978 riprese il concetto di Rutter sottolineando, inoltre, la componente di ipo e ipersensiblilità nei confronti dell’ambiente.

Nel 1980 l’autismo venne incluso nella terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM-III, APA) all’interno dei disturbi pervasivi dello sviluppo (PDD) con la definizione di “autismo infantile”. In seguito a tale riconoscimento, numerosi studiosi si interessarono alla patologia ed emersero differenti problematiche quali la rigidità dei criteri diagnostici e l’evoluzione della patologia in età adulta. Furono dunque prese in considerazione alcune modifiche e venne pubblicata in seguito una revisione nel 1987, il DSM-III-R nella quale fu definito “disturbo autistico”. Emerse nel tempo la necessità di creare un approccio più flessibile, orientato allo sviluppo e che fosse utile a ogni età e livello di sviluppo (Siegel et al. 1988; Waterhouse et al. 1993). Per la diagnosi di autismo, vennero stilati 16 criteri, raggruppati a loro volta in tre domini standard di disfunzione:

  • Menomazioni qualitative nell’interazione sociale reciproca
  • Menomazioni nella comunicazione
  • Interessi ristretti/ resistenza al cambiamento e movimenti ripetitivi

Il DSM-III-R fu creato per tenere conto del cambiamento e del livello di sviluppo, nonché per fornire una maggiore flessibilità clinica (Volkmar et al.,1992), e la categoria “sottosoglia” fu etichettata come disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato (PDD NOS). Parallelamente la classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (ICD-10) propose un approccio differente che portò al riconoscimento di altri disturbi quali la sindrome di Asperger, il disturbo di Rett e il disturbo disintegrativo dell’infanzia. (Volkmar et al, 2014). Le opinioni divergenti a quell’epoca complicarono le collaborazioni internazionali di ricerca sulla genetica e l’epidemiologia, necessarie al fine di trovare un accordo sugli standard diagnostici. Seguì dunque un periodo di incertezza nel quale vennero proposti numerosi approcci alla diagnosi senza assodare quale fosse il migliore.

Con la nascita del DSM-IV nel 1994 si raggiunse un accordo, selezionando i criteri di ricerca dell’ICD-10 che furono semplificati e adattati. Si decise di mantenere il modello a tre categorie riducendo il numero di criteri e venne inclusa separatamente la diagnosi del disturbo di Asperger. (Rosen et al. 2021)

Successivamente, risultati di diversi studi mostrarono una larga variabilità nel numero e nella gravità dei sintomi dell’ASD sia all’interno dei sottogruppi diagnostici che tra sottogruppi con un profilo di sintomi principali simili. (Fernell et al. 2010; Macintosh e Dissanayake 2004; Ozonoff et al. 2000; Snow e Lecavalier 2011).

Con la pubblicazione del DSM-5 (2013), si eliminarono le sottocategorie passando da una visione di tipo categoriale ad una dimensionale per cui le condizioni patologiche non sono entità a sé stanti ma si trovano all’interno di un continuum. Venne concepita un’unica dimensione diagnostica, il disturbo dello spettro dell’autismo, nella quale i disturbi sono interpretati come quadri che sfumano l’uno nell’altro e non distinguibili in modo preciso. Nel DSM-5, al fine di considerare le variazioni individuali, si introdussero dei livelli di severità basati sulla necessità del soggetto di ricevere assistenza. Inoltre, il modello a tre categorie venne ridotto a due:

  • Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale (ottenuto tramite l’unione delle categorie della comunicazione e dei sintomi sociali)
  • Comportamenti e/o interessi e/o attività ristrette e ripetitive

Tale versione è utilizzata tuttora nell’approccio ai disturbi dello spettro autistico ai fini diagnostici ed è apprezzabile, rispetto alle versioni precedenti, un maggior grado di sensibilità e specificità.

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Epidemiologia

Il disturbo dello spettro dell’autismo è stato considerato per diversi anni essenzialmente raro con la prevalenza minore di 1 affetto su 1000 bambini. Ad oggi, il World Health Organization stima che la prevalenza sia di 1 bambino su 100 e sostiene che sembra essere in aumento negli anni futuri.

Negli ultimi anni gli studi epidemiologici sul disturbo dello spettro dell’autismo sono aumentati notevolmente al fine di fornire stime oggettive dell’impatto di tale disturbo anche a livello sociale ed economico. Comprenderne la prevalenza ha permesso di individuare lo stato ed i metodi di identificazione, i servizi a supporto disponibili, la popolazione colpita e le strategie efficaci da mettere in atto politicamente per un miglioramento globale.

Frequentemente, tali studi sono stati utilizzati per creare correlazioni con i fattori eziologici legati all’autismo: un esempio può essere la considerazione che l’aumento della prevalenza dell’autismo nel tempo derivi da cambiamenti nell’esposizione ai fattori di rischio ambientale. Studi più recenti (Elsabbagh, 2020) associano la variazione della prevalenza alle disparità sanitarie: le barriere sistemiche e lo stigma causano l’emarginazione dei sottogruppi etnici o socioeconomici modificandone la possibilità di accesso ai servizi.

FIGURA 1 Prevalenza di autismo per 10.000 dal 2012 al 2021

FIGURA 1 Prevalenza di autismo per 10.000 dal 2012 al 2021

In una review di Zeidan e collaboratori del 2022 sono stati analizzati diversi studi con l’obiettivo di stimare la prevalenza del disturbo dello spettro dell’autismo a partire dal 2012. Sono state identificate 99 stime di prevalenza in 34 paesi (figura1).

TABELLA 1 Sommario delle stime di prevalenza del DSA dal 2012 al 2021 - 1

TABELLA 1 Sommario delle stime di prevalenza del DSA dal 2012 al 2021 - 2

TABELLA 1 Sommario delle stime di prevalenza del DSA dal 2012 al 2021

La tabella 1 riassume la dimensione del campione, il numero di stime, il rapporto tra i sessi, la proporzione di soggetti ADS con Disabilità Intellettiva e la prevalenza per ogni regione mondiale. Le dimensioni del campione variavano da 465 a 50 milioni di partecipanti e la prevalenza mediana corrispondeva a 100/10.000. Dalla tabella si evince la maggior prevalenza maschile rispetto a quella femminile, con un rapporto medio di 4:0 e la presenza di disabilità intellettiva concomitante con una percentuale mediana del 33,0%.

In accordo con Zeidan, la variabilità nelle stime analizzate potrebbe essere riconducibile alle differenze metodologiche e contestuali dei vari studi: l’evoluzione della definizione clinica di autismo e la sua differenziazione, il livello di consapevolezza del disturbo e le risorse delle strutture sanitarie ed infine sistemi di sorveglianza di variabile accuratezza hanno impattato in modo significativo sull’identificazione del disturbo.

Nello studio, è stato evidenziato come il sesso biologico sia un elemento che contribuisce alla prevalenza del disturbo, in quanto i maschi sono più rappresentati a livello di patologia rispetto alle femmine. Nello specifico, sono stati individuati “fattori genetici protettivi” nelle femmine che avrebbero la possibilità di compensare le alterazioni a livello di un cromosoma x con la normalità del secondo. (Masini et al. 2020)

Particolarmente influenti sono, inoltre, alcuni determinanti sociali, tra cui l’etnia e la geografia. Le stime riguardanti lo stato sociodemografico mostrano una variabilità intraregionale equivalente o maggiore rispetto a quella tra le regioni; ne è un esempio il sondaggio del 2019 in cui il Missouri aveva i tassi più bassi (85, 81 e 96 per 10.000

rispettivamente per il 2010, 2012 e 2014) mentre il più alto era in New Jersey (rispettivamente 197, 221 e 284 ogni 10.000, per gli stessi anni), ciò ha evidenziato una variazione tripla del tasso di prevalenza per luogo (Christensen et al., 2019).

Gli Stati Uniti hanno monitorato inoltre, nel corso degli anni, l’influenza delle disparità razziali sulla prevalenza dell’autismo; solo recentemente si evidenzia un aumento delle diagnosi per coloro che appartengono a minoranze etniche (Christensen et al., 2019); l’accesso all’identificazione e diagnosi del disturbo dello spettro dell’autismo avviene comunque in età avanzata rispetto ai bambini bianchi e di conseguenza vi sono minori possibilità di avviare un intervento precoce e raggiungere un miglioramento della qualità della vita. (Maenner et al., 2020).

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Ipotesi eziopatologiche e fattori di rischio

Il disturbo dello spettro dell’autismo si presenta come un insieme eterogeneo di fenotipi, non una mera condizione medica. Diversi studi hanno sottolineato la presenza di due o più disturbi (comorbidità) nel soggetto con diagnosi di DSA.

Inoltre, il Disturbo dello Spettro dell’Autismo può essere parte di note sindromi genetiche, tra cui la sindrome di Rett, la sindrome di Tourette, la sindrome dell’X fragile, la sindrome di Down, la NFM di tipo 1, la sindrome di Prader-Willi e diverse altre (figura 2). In queste sindromi sono presenti alcune caratteristiche cliniche che si possono sovrapporre a quelle dell’DSA quali il ritardo dello sviluppo, disturbo del linguaggio e comportamenti ripetitivi/stereotipati. (Styles et al., 2020)

Il disturbo dello spettro dell’autismo, nella maggior parte dei casi, è di origine idiopatica, tuttavia, le ricerche odierne mirano a studiare le comorbidità, le vie neurali ed i fattori di rischio genetici e ambientali.

Come esposto precedentemente, alcune caratteristiche del DSA fanno parte di sindromi ben note, e circa il 10% di tutti i DSA sono associati a una sindrome genetica rara nota caratterizzata da dismorfismi e/o deformità, caratteristiche neurologiche e/o metaboliche (A. Havdahl et al, 2021): questi quadri vengono definiti sindromici.

FIGURA  2 Presenza della sindrome dello spettro dell’autismo in varie sindromi e disturbi

FIGURA 2 Presenza della sindrome dello spettro dell’autismo in varie sindromi e disturbi

Tra le sindromi associate è inclusa la duplicazione 15q11-q13 della sindrome di Prader Willi/Angelman, la sindrome dell’x fragile, la sindrome da delezione 16p11.2 e la sindrome da delezione 22q11. (Sztainberg & Zoghbi, 2016). Alcune ricerche documentano come l’incidenza complessiva del DSA, nelle sindromi sia significativamente superiore rispetto all’incidenza della sindrome nei casi di DSA, che risulta essere inferiore o uguale al 5% (Styles et al., 2020). Le manifestazioni cliniche dell’autismo sindromico sono molto eterogenee, e questo potrebbe essere attribuito alla grande variabilità di background genetico e alle influenze epigenetiche.

Recentemente vi sono stati degli sviluppi sulle tecnologie di decodifica del DNA che hanno permesso di identificare alcune varianti genetiche del DSA attraverso test alla nascita o in vitro. Queste nuove metodologie permettono l’identificazione precoce dei fattori di rischio del DSA e di conseguenza un intervento precoce.

In genere, le varianti genetiche differiscono per la frequenza con cui si verificano nella popolazione (rare o comuni), la tipologia di variante e se sono de novo oppure ereditate.

I tipi di varianti possono essere varianti nel numero di copie, piccole inserzioni/delezioni, riarrangiamenti cromosomici e varianti a singolo nucleotide.

Grazie a iniziali studi di linkage sono state individuate le regioni cromosomiche ereditate dagli individui affetti: sul cromosoma 20p13 (Weiss, Arking, Daly e Chakravarti, 2009) e sul cromosoma 7q35 (Alarcón et. al, 2002).

Sono stati condotti in seguito diversi studi di associazione di geni: ne sono emersi oltre cento candidati per posizione e/o per funzione all’associazione con il disturbo; tuttavia, non vi è stata una replica coerente per nessuno dei risultati, probabilmente a causa dell’eterogeneità genetica e delle piccole dimensioni del campione. (Havdahl et al., 2021).

La più recente analisi di sequenziamento dell'intero esoma condotta dall'ASC (N = 35 584, N casi = 11 986) ha identificato 102 geni associati all'autismo, con un tasso di errore uguale o inferiore allo 0,1, molti dei quali hanno ruoli nella regolazione dell'espressione genica e della comunicazione neuronale durante lo sviluppo cerebrale. (Satterstrom et al., 2020).

Grove e collaboratori nel 2019 hanno analizzato la sovrapposizione genetica tra il DSA ed altri fenotipi: l’architettura poligenica dell’autismo ha correlazioni significative per la schizofrenia e per la depressione maggiore nell’adulto così come correlazioni geneticamente positive con le misure di intelligenza (livello alto) ed il livello di istruzione in età adulta. Altri studi hanno riportato associazioni con l’ADHD e tratti quali ritardo linguistico, instabilità emotiva, stanchezza, autolesionismo, l’età della deambulazione ed il rischio di esposizione a maltrattamenti infantili o ad altri eventi stressanti della vita (Havdahl et al., 2021, Grove et al., 2019, Cross-Disorder Group, 2019).

È stato scoperto, inoltre, che le mutazioni legate al DSA non si duplicavano a livello del singolo nucleotide ma alcune si verificavano a livello del gene e delle vie neurali. (Styles et al. 2020). In particolare, vi sono evidenze che molti dei geni mutati nel disturbo sono elementi fondamentali delle reti di segnalazione attività-dipendenti che regolano lo sviluppo delle sinapsi e la plasticità; la disregolazione di tali vie di segnalazione è cruciale nell’eziologia dei DSA.

Lo studio di Styles e collaboratori riporta, inoltre, come il DSA possa essere causato da alcune mutazioni rare che interrompono le vie sinaptiche, tra cui quelle coinvolte nell’interazione cellula-cellula.

Per quanto concerne le mutazioni de novo, non ereditate dai genitori, si stima che questo tipo di mutazioni spontanee siano la causa genetica di circa il 15-25% dei casi di DSA. Tali mutazioni sono molto eterogenee in termini di dimensioni, alcune possono interessare un singolo gene mentre altre possono essere abbastanza grandi da influenzare una grande porzione di geni. Le manifestazioni cliniche delle varianti multiple nel numero di copie solitamente esitano in fenotipi più gravi mentre le varianti del singolo nucleotide hanno un’origine prevalentemente paterna e sono più frequenti con l’aumentare dell’età paterna. (Chen et al., 2015, Styles et al., 2020).

Il DSA, dunque, è un disturbo con eziologia genetica multifattoriale nonché un disturbo che coinvolge diverse vie neurali e sinaptiche.

Il periodo che va dall’età gestazionale ai primi tre anni di vita è caratterizzato dallo sviluppo neurologico nel bambino. Il processo di maturazione cerebrale può essere influenzato da esperienze avverse dovute all’esposizione ambientale che potrebbero portare ad alterazioni genetiche. Oggi, la ricerca si focalizza dunque sull’individuazione dei periodi di vulnerabilità critica durante lo sviluppo dei circuiti neurali, sullo studio della sensibilità dei circuiti ai fattori ambientali e sulle conseguenze dell’esposizione a tali fattori nei momenti critici. Recenti studi hanno attribuito ad alcuni fattori di rischio ambientali un ruolo chiave nel disturbo dello spettro dell’autismo. (Wu S. et al., 2017)

In primo luogo, vi sono diverse prove che correlano l’età genitoriale avanzata con il DSA e, in particolar modo, quella paterna avanzata (APA) associata con lo sviluppo di schizofrenia, disturbo bipolare, ADHD e DSA. (Janecka et al., 2017). Grazie ad uno studio condotto nel 2010 è emerso come il rischio di DSA aumenta del 29% ogni 10 anni di aumento dell’età paterna; dunque, un padre che ha più di 40 anni ha un rischio più che duplicato di avere un figlio affetto rispetto ad un padre che ha tra i 25-29 anni di età. (Sasanfar et al., 2010).

Per quanto concerne la figura materna sono stati individuati fattori di rischio prenatali, perinatali e post-natali. Le condizioni di salute materna in gravidanza sono incisive sul rischio di DSA: studi riportano che è necessaria una nutrizione adeguata al fine di supportare la crescita fetale: le carenze di macronutrienti, tra cui anche vitamine, sono associate ad un aumentato rischio di sviluppo del disturbo come riporta, ad esempio, lo studio svedese circa la carenza di vitamina D (Magnusson et al., 2016).

Masini e collaboratori, in uno studio del 2020, riportano associazioni statisticamente significative tra il rischio di DSA ed emorragia materna, complicanze del cordone ombelicale, lesioni o traumi alla nascita, nascite multiple, basso peso alla nascita, anemia neonatale, iperbilirubinemia e malformazioni genitali. In particolare, il sanguinamento materno in gravidanza è associato ad un rischio pari all’ 81% di DSA. (Styles et al., 2020). Si evidenzia inoltre, una forte associazione sia della storia psichiatrica dei genitori, maggiormente della madre (casi di schizofrenia, ansia, disturbi della personalità e depressione), sia con lo stato psicologico materno caratterizzato da stress importante e duraturo durante il periodo della gravidanza (Styles et al., 2020).

Infine, tra i fattori di rischio ambientale è stato attribuito un ruolo importante alle neurotossine metalliche (prevalentemente alluminio e mercurio) e all’interazione di tali sostanze con i neurotrasmettitori, nello specifico ricercatori hanno rilevato un rischio aumentato del 60% dovuto all’esposizione ad alti livelli di mercurio. (Masini et al., 2020; Yoshimasu et al, 2014).

Fattori di rischio genetico per DSA

Descrizione dei fattori genetici

Grandi duplicazioni De novo di CNV, come la duplicazione di 15q, l'eliminazione di 22q11.2., l'eliminazione di Xp22.3. e la duplicazione o l'eliminazione di 16p11.2. (~600 kb, comprende circa 29 geni), insieme a CNV submicroscopici de novo come la duplicazione di 7q11.2.3. e microdelezione di 16p11.2.

Il contributo delle variazioni cromosomiche strutturali è stimato tra il 15% e il 25% e considerato come la causa alla base di molti casi di DSA.

SNV de novo in DYRK1A, POGZ, CHD8, NTNG1, GRIN2B, KATNAL2 e SCN2A.

Questi geni hanno un'origine prevalentemente paterna e la loro frequenza aumenta con l'età paterna.

Regioni/loci sui cromosomi 20p13 e 7q35 (CNTNAP2) e due loci mappati sul cromosoma 8.

Regioni di suscettibilità genetica, questi loci sono associati a ritardo del linguaggio e reattività sociale

-Varianti intergeniche tra CDH9 e CDH10 sul cromosoma 5p14.1 come rs4307059, rs10513025,
rs10513026, rs16883317, rs10065041, rs7704909 rs1896731 rs10038113, rs6894838, rs12518194, rs4307059

-Variante all'interno del gene MACROD2 sul cromosoma 20p12.1 come rs4141463

- Varianti nella 5p15.2 come asrs10513025, rs10513026 e rs16883317

-Varianti su 1p13. 2 all'interno del gene candidato TRIM33 come rs936938, rs6537835 e rs1877455
5- Varianti nel DOCK4 IMMP2L e ZNF533 rs11885327, rs1964081 e rs2217262 associate all'autismo

Queste sono varianti comuni nel DSA.

Famiglia di neuroligine NLGN3 e NLGN4

Rare mutazioni X-linked nei maschi con DSA in ritardo mentale in diverse famiglie

CNTNAP2, SLC9A9, BCKDK, AMT, PEX7, SYNE1, VPS13B, PAH e POMGNT1

Rare mutazioni recessive nelle famiglie consanguinee sono state identificate nelle famiglie Amish e nelle famiglie mediorientali con DSA ed epilessia.

La famiglia delle proteine dell'impalcatura (SHNK1, SHANK2 e SHANK3) e la famiglia delle neurexine (NRXN1 e NRXN3)

Nell'DSA sono state documentate rare varianti ereditarie e de novo.

ANDP

Nuove sindromi associate a DSA come DSA con dismorfismi facciali, Rare mutazioni ereditarie troncanti nei geni che sono raramente mutati nella popolazione

FOXP1, MAL e C11orf30

È stato scoperto che la disregolazione di questi geni è implicata nella patogenesi degli DSA poiché è stato riscontrato che diverse varianti sono associate al ritardo del linguaggio e all'autismo.

AMT, PEX7, SYNE1, VPS13B, PAH, POMGNT1

Varianti recessive ereditarie in famiglie consanguinee

Varianti non codificanti nei siti di ipersensibilità alla DNAsi situati entro 50kb

Sono state trovate varianti in famiglie consanguinee

RELN, PRRT1, ZFP57, TSPAN32/C11orf21, OXTR, EN2, MTHFR e MECP2

-Biomarcatori di metilazione specifici per il DSA

-Nel DSA sono state documentate anche modifiche della acetilazione dell’istone, ad esempio, modelli mai regolati dei siti di splicing e modifiche complesse di rimodellamento cromosomico

RNA non codificante: LncRNA: MSNP1AS, Evf2, RPPH1, NEAT1 e MALAT1 e MiRNA hsa-miR-21-3p, hsa miR-29b, hsa- miR-219-5p, miR-146a, miR-221, miR 654-5p e miR-656 miR-133b/ miR-206

È stato riscontrato che LncRNA è più probabilmente coinvolto nella funzione molecolare e/o nella regolazione dei geni specifici del rischio di DSA

 

TABELLA 2 Fattori genetici che aumentano il rischio di DSA

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Diagnosi e screening

La diagnosi del disturbo dello spettro dell’autismo, ad oggi, viene effettuata attraverso diversi approcci clinici; in genere, si basa sull’osservazione prolungata e su una valutazione clinica approfondita da parte dei professionisti sanitari di riferimento. Essenzialmente, ad occuparsi della diagnosi è il medico specializzato in Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’adolescenza (NPI); tuttavia, nel processo di valutazione sono coinvolte altre figure professionali, tra cui logopedisti, terapisti della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, psicologi, e educatori. L’NPI in sede di prima visita è solito eseguire la raccolta anamnestica, l’esame obiettivo, l’esame neurologico e, in seguito, procede con la somministrazione di strumenti diagnostici specifici (interviste strutturate, scale di valutazione). Il manuale considerato gold standard nella diagnosi di DSA attualmente è il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5, 2013) e classifica il disturbo sulla base di alcuni criteri assegnando un punteggio da 1 a 3 sulla base della gravità clinica.

Tuttavia, vengono utilizzati per la valutazione formale anche altri strumenti come, ad esempio, l’Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS), un protocollo per l’osservazione diretta di gioco del bambino che viene strutturata attraverso la proposta di materiali standardizzati sulla base dell’età e del livello linguistico. (Lord et al., 2000). Unitamente all’ADOS si propone l’Autism Diagnostic Interview- Revised (ADI-R), un’intervista semi-strutturata per i genitori, suddivisa in moduli che si basano sulla triade sintomatologica del DSM-5 e indagano il comportamento sociale del bambino (Lord et al, 1994).

È utilizzata spesso anche la Childhood Autism Rating Scale (CARS), una scala di valutazione del comportamento autistico che permettere di raccogliere informazioni in differenti contesti su diversi aspetti: le relazioni interpersonali, l’imitazione, l’affettività, l’utilizzo del corpo, il gioco e l’utilizzo degli oggetti, il livello di adattamento, la responsività agli stimoli visivi e uditivi, le modalità sensoriali, le reazioni d’ansia, la comunicazione verbale ed extra verbale, il livello di attività, di funzionamento cognitivo e le impressioni generali dell’esaminatore. (Schopler et al., 1988).

Talvolta si utilizza la Autism Behavior Checklist (ABC), una scala di valutazione dei “comportamenti problema” che possono presentarsi nel bambino e sono suddivisi in 5 categorie quali linguaggio, socializzazione, utilizzo dell’oggetto, sensorialità e autonomia (Krug, Arid, Almond, 1980).

Per la valutazione del profilo dinamico funzionale è ormai ampiamente in uso la Psycho-Educational Profile (PEP-R) mentre per valutare il livello adattivo del bambino si utilizza un’intervista semi strutturata chiamata Vineland-Adaptive Behavior Scales (VABS); tali strumenti saranno analizzati in seguito.

Sebbene il DSM-5 preveda che i sintomi del disturbo emergano entro i 3 anni di vita, l’età media della diagnosi è di 4-5 anni. Le “linee guida per l’autismo” della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA) forniscono le indicazioni per l’identificazione precoce del DSA attraverso l’attuazione di screening.

La figura professionale che inizialmente si occupa di questo aspetto è il pediatra: poiché egli è la figura clinica che segue lo sviluppo e la crescita del bambino attraverso visite cliniche periodiche, è colui al quale i genitori si rivolgono per primo in caso di preoccupazioni sulla crescita. Le linee guida indicano che è necessario prestare maggiore importanza alle preoccupazioni legate allo sviluppo sociale (non sorride), allo sviluppo della comunicazione verbale ed extra verbale (non richiede e non risponde al nome, non imita i gesti, sembra non ascoltare) e al modo di comportarsi (giochi ripetitivi, atipici, movimenti bizzarri del corpo, iperattività).

Il pediatra si occuperà di valutare inizialmente la risposta al nome e, verso i 12 mesi, somministrare il first year inventory (un test per i genitori con domande inerenti agli aspetti sopra citati); infine la valutazione dell’attenzione condivisa e del pointing verso i 18 mesi.

In particolare, è indicata un’immediata valutazione più approfondita dello sviluppo e degli aspetti socio-comunicativo-relazionali nel caso in cui si manifestino le seguenti condizioni:

  • assenza di lallazione dopo i 12 mesi;
  • assenza di gesti, quali indicare, mostrare, fare “ciao”, dopo i 12 mesi;
  • assenza di parole singole dopo i 16 mesi;
  • assenza di associazioni spontanee di due parole dopo i 24 mesi;
  • perdita di competenze già acquisite nelle aree della comunicazione, del linguaggio e/o della socialità, indipendentemente dall’età in cui essa si verifica.

All’età di 18 mesi dovrebbe essere somministrato un test di screening standardizzato: la Checklist for Autism in Toddlers (CHAT). Si tratta di uno screening che prevede 9 domande da rivolgere ai genitori e l’osservazione diretta di 5 comportamenti del bambino. Sulla base del punteggio ottenuto si avrà un’indicazione sul livello del rischio di autismo (alto, lieve, rischio per problemi di sviluppo o nessun rischio). (Baron-Cohen et al., 1992)

È disponibile la versione modificata M-CHAT che viene somministrata ai 24 mesi, prevede una lista di 23 comportamenti a cui il genitore deve rispondere in assenso o in negazione; nella M-CHAT l’osservazione diretta dei comportamenti non è più presente. (Robins et al., 2001).

Nei casi in cui il pediatra ritiene che il bambino presenti segni associabili al DSA è necessario richiedere tempestivamente una visita specialistica per la conferma diagnostica.

In caso di diagnosi certa sarà necessario monitorare, se presenti nel nucleo famigliare, i fratelli dei bambini con DSA.

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DSM-5 e Criteri diagnostici

In accordo al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5), le caratteristiche essenziali del disturbo dello spettro dell’autismo sono la compromissione persistente della comunicazione sociale reciproca (Criterio A) e dell’interazione sociale e pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi. (Criterio B).

In particolare, il criterio A richiede che siano manifesti nel presente o lo siano stati nel passato i seguenti fattori:

  1. Deficit della reciprocità socio-emotiva che può corrispondere ad una ridotta condivisione di interessi, emozioni o sentimenti, ad un approccio sociale anomalo e all’incapacità di iniziare o rispondere alle interazioni sociali
  2. Deficit della comunicazione non verbale utilizzata per l’interazione sociale rappresentato da scarsa integrazione con il canale verbale, difficoltà nel contatto visivo e nell’espressione attraverso il linguaggio del corpo, deficit nella comprensione ed utilizzo del canale gestuale, fino ad amimia e totale mancanza di comunicazione non verbale
  3. Deficit dello sviluppo, comprensione e gestione delle relazioni che si esprime con difficoltà di adattamento del comportamento ai differenti contesti sociali, interesse scarso o assente verso i coetanei, difficoltà a creare nuove relazioni e ad accedere al gioco simbolico

Il criterio B prevede che siano apprezzabili nel presente o lo siano stati nel passato i seguenti fattori:

  1. Movimenti, utilizzo degli oggetti o eloquio ripetitivi o stereotipati rappresentati da stereotipie motorie, condotte quali mettere in fila gli oggetti o osservarli da angolazioni differenti, atteggiamento ecolalico ed utilizzo di frasi idiosincratiche nella comunicazione verbale
  2. Desiderio di immodificabilità delle situazioni, aderenza alla routine ed assenza di flessibilità che può manifestarsi attraverso comportamenti verbali o extra verbali di disagio in risposta al cambiamento, alimentazione selettiva, schemi di pensiero rigidi ed utilizzo di rituali specifici
  3. Interessi circoscritti e fissi che appaiono anomali per intensità o profondità manifestati attraverso eccessivo attaccamento o preoccupazione nei confronti di oggetti non abituali
  4. Iper- o ipoeccitabilità in risposta a stimoli sensoriali o interessi peculiari verso alcune caratteristiche sensoriali che possono essere rappresentati da una scarsa percezione del dolore e/o della temperatura, forte interesse per la fonte luminosa o i colori dell’oggetto, senso di avversione verso particolari consistenze tattili o fonti sonore.

Ai fini diagnostici è necessario che siano presenti in molteplici contesti tutti i fattori del criterio A e che siano presenti almeno due fattori del criterio B.

Il manuale prevede inoltre che i sintomi debbano essere presenti nella prima infanzia (criterio C), dunque prima dei tre anni di vita; tuttavia, potrebbero non essere pienamente manifesti finché la richiesta sociale non eccede il limite delle capacità dell’individuo.

Il criterio D stabilisce che tali sintomi debbano compromettere significativamente il funzionamento quotidiano del soggetto mentre il criterio E richiede che tali alterazioni non siano meglio spiegate da ritardo globale dello sviluppo o disabilità intellettiva.

Il manuale prevede che vengano soddisfatti i criteri A, B, C e D per poter fare la diagnosi di disturbo dello spettro autistico.

All’interno del DSM-5 sono presenti degli specificatori utili a rendere la diagnosi maggiormente accurata: sarà necessario definire se il disturbo sia associato a compromissione intellettiva, del linguaggio, a condizione medica o genetica nota, ad un fattore ambientale, ad altro disturbo del neurosviluppo o a catatonia.

Appare fondamentale specificare inoltre la gravità attuale del disturbo, caratterizzata da tre livelli di gravità crescente che viene formulata sulla base della necessità di assistenza del soggetto:

Il livello 3 è rappresentato da un grave deficit delle abilità di comunicazione sociale sia verbale che extra verbale, inflessibilità di comportamento ed interessi ristretti/ripetitivi che causano un’importante compromissione di tutte le aree funzionamento del soggetto. In tale livello si rivela necessario un supporto molto significativo.

Il livello 2 è rappresentato da deficit marcati della comunicazione sociale, difficoltà a gestire le relazioni sociali e presenza di condotte comportamentali che interferiscono con il funzionamento del soggetto in diversi contesti per cui è necessario un supporto significativo.

Il livello 1 richiede la necessità di un supporto al fine di prevenire compromissioni importanti del funzionamento, in assenza di esso si evidenzia difficoltà ad avviare le interazioni sociali, difficoltà di pianificazione e nel raggiungimento delle autonomie.

Il DSM-5 prevede che si possano fare diagnosi multiple come, ad esempio, DSA ed ADHD poiché spesso il disturbo dello spettro autistico è accompagnato da altri disturbi.

Il disturbo da deficit di iperattività/inattenzione (ADHD) è la comorbidità più comune con il DSA e può influenzare in modo significativo gli outcomes del disturbo: in presenza di comorbidità con ADHD è necessario effettuare continui monitoraggi. (Lord et al., 2018). Tra i disturbi in comorbidità è presente, inoltre, l’ansia in varie forme, tra cui l’ansia sociale, generalizzata, l’ansia da separazione soprattutto nei bambini più piccoli ed infine le fobie. L’ansia e la depressione sono maggiormente comuni nelle ragazze, durante l’adolescenza. Infine, si evidenzia per il 25% la presenza di aggressività ed irritabilità che possono avere manifestazioni differenti durante il corso della vita, con variabile gravità. (Lord et al., 2018).

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Quadro clinico

Le manifestazioni del disturbo sono molto variabili a seconda del livello di gravità, al livello di sviluppo e all’età cronologica del soggetto; tuttavia, le compromissioni che interessano l’area comunicativa e relazionale-sociale risultano pervasive e costanti.

All’interno del volume “Autismo e psicomotricità” redatto da Gison, Bonifacio e Minghelli nel 2012, si evidenziano gli aspetti principali caratteristici del quadro clinico del disturbo dello spettro dell’autismo. Si evidenzia che, durante il primo anno di vita, l’interessamento dell’interazione sociale si esprime attraverso il deficit dello sguardo reciproco, nonostante non sia completamente assente e possa essere evocabile. Inoltre, sono frequenti alterazioni a livello dell’organizzazione tonico-posturale che si traducono in difficoltà a tollerare il contatto fisico e adattare la propria postura all’altro. Diversi studi hanno riscontrato un pianto differente rispetto ai bambini a sviluppo normotipico, caratterizzato da scarse pause, disfonia e associato a stereotipie. (Esposito, Venuti, 2009). Molto frequenti, infine, anomalie della mimica sia a livello quantitativo (assenza di sorriso o povertà nella modulazione dell’espressività) che qualitativo (emozioni non adeguate al contesto ed improvvise). Nel corso dello sviluppo, la compromissione dell’interazione sociale si manifesta attraverso l’assenza della risposta al nome, assenza o scarsa capacità nell’avviare interazioni sociali o condividere pensieri e sentimenti e difficoltà di imitazione del comportamento altrui. L’utilizzo del canale gestuale (pointing) per organizzare comportamenti di attenzione congiunta appare povero; è presente, tuttavia, l’utilizzo protesico dell’arto altrui ai fini richiestivi.

In merito alla compromissione della comunicazione e dei comportamenti ad essa correlati, nel disturbo dello spettro autistico si evidenzia ritardo nell’acquisizione, alterazione o assenza del linguaggio. Coloro che acquisiscono tale abilità presentano un’organizzazione differente caratterizzata da ecolalie, alterazioni della prosodia, stereotipie verbali e inversioni pronominali. Nell’interazione con l’altro i soggetti con DSA fanno riferimento ad argomenti che talvolta non sono pertinenti al discorso e non sono d’interesse per l’interlocutore. Inoltre, tendono ad utilizzare espressioni idiosincratiche e perseverano nel fare domande di loro interesse senza ascoltare ciò riferito dall’interlocutore. Per quanto concerne la comprensione del linguaggio, si evidenzia una difficoltà della pragmatica, in particolar modo nella capacità di riconoscere metafore, doppi sensi e motti di spirito.

Relativamente a pattern di comportamento, interessi o attività ristretti e ripetitivi, gli autori riferiscono che riguardano tutti i disturbi del movimento/azioni che appaiono atipici e bizzarri a causa dell’alta frequenza e della scarsa aderenza al contesto. Tali comportamenti comprendono stereotipie motorie semplici, utilizzo degli oggetti ed eloquio ripetitivi.

Le atipie possono essere dirette sia verso oggetti (far oscillare una penna, far girare la ruota della macchina…) sia verso parti del corpo (automanipolazioni ripetitive, osservazione delle dita delle mani…) e possono essere rappresentate da peculiari condotte (allineamenti per forma, colore, i travasi di oggetti…). Spesso è evidente una ricerca senso-percettiva rappresentata da interessi insoliti quali l’osservazione di lettere, numeri.

Nei soggetti con ASD, appare molto frequente il bisogno di immutabilità che si manifesta con una forte resistenza al cambiamento (si evidenziano reazioni eccessive per durata ed intensità alle minime variazioni del contesto) e con comportamenti rituali verbali e non verbali (ripetere sempre lo stesso schema motorio, presenza di domande ripetitive). Anche nelle attività di gioco è evidente il bisogno di ripetitività, spesso vengono selezionati alcuni oggetti con cui i bambini organizzano sequenze di gioco povere nelle quali difficilmente è possibile inserire alcune variabili.

All’osservazione, si evince una condizione di iper-iporeattività agli stimoli sensoriali che si traduce in reazioni abnormi a particolari consistenze tattili, suoni, ad una forte attrazione per lo stimolo luminoso e/o una tendenza eccessiva a toccare ed annusare gli oggetti.

In accordo con Amonkar e collaboratori, frequentemente i bambini con DSA presentano deficit nelle abilità grosso- e fino-motorie quali, ad esempio, la coordinazione bilaterale, la stabilità posturo-cinetica e nel cammino, la scrittura, le abilità manipolatorio-prassiche e il controllo visuomotorio. Inoltre, il deficit può interessare le “socially-embedded motor skills” fra cui l’imitazione, le prassie e la sincronia interpersonale, ovvero l’abilità nel sincronizzare i movimenti del proprio corpo con quelli dell’altro. Diversi studi hanno documentato l’associazione tra la gravità dei sintomi principali del DSA e le disabilità motorie (Bhat, 2020). Tali disabilità senso-motorie potrebbero influire sugli aspetti della vita quotidiana inclusi la cura della persona, la mobilizzazione e le attività del tempo libero.

In associazione a tale disturbo, vi sono numerose condizioni coesistenti che, sebbene non rientrino nei criteri diagnostici, hanno un impatto importante sia sul benessere del bambino che sulla qualità di vita di tutta la famiglia. Frequente è la presenza di disabilità intellettiva con QI<70 ed una prevalenza del 70% circa (Lord et al., 2018), (Gison et al., 2012); inoltre possono essere presenti difficoltà del ritmo sonno-veglia (Soke et al., 2018), problemi gastrointestinali (Yang X et al., 2018), alimentazione selettiva, obesità (Lord et al., 2020) e difficoltà di eliminazione, in particolare costipazione.

Nello studio di Lord e collaboratori del 2018, si evidenzia infine la presenza di epilessia associata a disabilità intellettiva e al sesso femminile.

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Disabilità complessa

Il termine “Disabilità complessa” si riferisce ad una condizione di bisogno che interessa le componenti organiche, funzionali, cognitive e comportamentali della persona. Alcune patologie che determinano il quadro complesso hanno basi genetiche e/o sono parte di condizioni rare, altre sono più frequenti. Quest’ultime sono frequentemente associate ad altre condizioni patologiche che possono complicare il quadro di origine.

Studi hanno riportato come tale condizione possa influire in modo incisivo e costante sia sulla vita del bambino che della sua famiglia: in un articolo di Mark Whiting del 2014, si evidenzia che circa il 92,8% delle famiglie hanno difficoltà finanziarie legate ai costi della gestione del figlio; inoltre, vi sono problemi in ambito lavorativo a causa di permessi, mancanza di figure di supporto e mancanza di flessibilità del contesto.

Inoltre, diversi studi nel Regno Unito, hanno riportato che i genitori con un figlio disabile con bisogni complessi sono maggiormente esposti a danni di salute sia fisica che mentale. (Whiting, 2014).

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MODELLI DI TRATTAMENTO IN USO

Il modello biopsicosociale (BPS)

Il modello biopsicosociale è stato l’esito di una serie di cambiamenti per adeguarsi alle scoperte scientifiche. Difatti, nel corso del suo sviluppo la medicina è stata protagonista di scoperte di straordinaria importanza che hanno permesso un numero sempre maggiore di interventi disponibili al mantenimento dello stato di salute. Questo progresso ha contribuito allo sviluppo della concezione dell’uomo come macchina il cui danno/sintomo era un elemento da rimuovere al fine di ripristinare lo stato di salute e raggiungere così la guarigione. Tuttavia, la patologia, intesa come squilibrio di base, poteva trovare espressione in altre forme attraverso manifestazioni eterogenee (Engel, 1977).

Inizialmente, era in uso il modello biomedico, un modello scientifico costituito da assunti e regole di comportamento, per lo studio delle patologie. Come riporta Engel nel suo articolo “The need for a New Medical Model: a challenge for biomedicine” del 1977, un modello rappresenta un sistema di credenze utili a dare una spiegazione ai fenomeni naturali e a ciò che ancora non si comprende. Quanto più il fenomeno indagato è socialmente o individualmente significativo, tanto più si sente la necessità di avere un sistema che gli dia un significato. Il modello di Engel è diventato, con il tempo, un dogma in grado di definire il concetto di malattia (Engel, 1977); tra gli assunti principali vi è l’idea che tutte le patologie, incluse quelle mentali, possano essere l’esito di uno squilibrio dei meccanismi fisici sottostanti. Negli anni, con l’avanzare del progresso scientifico e lo sviluppo di nuovi strumenti, si sviluppò una crisi attorno al concetto di malattia: la psichiatria iniziò ad attribuire l’origine di alcune patologie alle relazioni umane disfunzionali mentre i medici iniziarono ad escludere i problemi psicosociali dal campo diagnostico poiché non causati da meccanismi biologici sottostanti. Tale crisi interessò principalmente il campo delle malattie mentali dividendo gli psichiatri in posizioni opposte. Da un lato si iniziò a parlare di origine biologica anche nelle patologie psichiatriche riferendosi a disfunzioni cerebrali, alterazioni biochimiche o nella neurofisiologia cerebrale; dall’altro, aumentava sempre di più la consapevolezza che molte patologie mentali non trovassero una conferma medica nella diagnosi.

Il modello biomedico venne influenzato dal riduzionismo, modello molto diffuso nella visione occidentale le cui origini risalgono intorno al XV secolo. La visione riduzionistica sosteneva che qualsiasi fenomeno complesso potesse essere scomposto in problemi più semplici e ridotti spiegabili dalla biologia molecolare e dalla chimica. Applicata alla medicina, la malattia appariva dunque una qualsiasi deviazione dalla condizione di normalità che poteva essere ricondotta a cause naturali o ignote. In quell’epoca, era diffuso il dualismo mente-corpo: al primo aveva accesso solo la religione mentre il secondo era di dominio dell’uomo, al quale era permesso studiarlo. Lo studio del comportamento o della mente umana, al contrario, rimaneva di predominio ecclesiastico. Questa concezione distinta tra mente e corpo contribuì alla concezione del funzionamento meccanicistico dell’uomo e all’idea della malattia come un malfunzionamento del sistema. La Chiesa ebbe grande influenza sullo sviluppo della scienza indirizzando gli studi sui processi biologici specifici della malattia ed escludendone la visione globale che coinvolgeva anche gli aspetti psicosociali e comportamentali. (Engel, 1977).

Durante la crisi nella medicina, alcuni studiosi iniziarono a sostenere che l’applicazione esclusiva del modello biomedico riduzionista non fosse sufficiente. Tra questi, lo psichiatra statunitense Seymour S. Kety presentò, utilizzando il modello biomedico, due patologie con caratteristiche distinte, descritte come sindromi: il diabete mellito e la schizofrenia. Egli sostenne come gli esiti di entrambe le patologie potessero essere influenzati in positivo o negativo dalla presenza e/od esposizione a determinati fattori (ambiente familiare, stato socioeconomico, abilità cognitive); di conseguenza, l’adesione esclusiva al modello biomedico riduzionista risultava limitante in ambito terapeutico in quanto non considerava tali aspetti. Lo psichiatra sottolineò alcuni aspetti critici del modello, tra cui la possibilità che fossero presenti le alterazioni fisiologiche alla base del diabete o della schizofrenia senza che ci fosse la manifestazione franca del disturbo. Da un punto di vista esperienziale, dunque, si trattava solo di una malattia potenziale. Inoltre, il paziente, rivolgendosi al medico, spesso si ritrovava a descrivere il proprio stato con anomalie comportamentali e psicosociali. Il modello biomedico, al contrario, non prendeva in considerazione il racconto verbale del paziente bensì si focalizzava sui dati clinici di laboratorio. Apparve perciò evidente razionalizzare tali aspetti al fine di correlarli al sintomo biologico. Un altro aspetto emerso è stata la variabile delle condizioni di vita del soggetto affetto, che può incidere notevolmente sull’insorgenza e il decorso della patologia. Cassel, nel 1964 dimostrò come persone sottoposte ad elevato stress ambientale fossero maggiormente suscettibili allo sviluppo della malattia e come tale fattore incidesse sull’età di insorgenza. Infine, aspetti come la percezione della malattia da parte del soggetto, che poteva non coincidere con l’insorgenza dei sintomi, inficiare sulla consapevolezza di aver bisogno di un medico e quindi di dover iniziare la terapia; così come il mantenimento del ruolo di malato anche in seguito alla guarigione clinica, sono variabili che secondo Kety influivano in modo incisivo sullo stato del paziente.

Engel, nel suo articolo, sottolinea l’importanza del contesto di vita del paziente nel momento della formulazione della diagnosi. In relazione alla complessità del rapporto tra salute e malattia, propone quindi un nuovo modello di riferimento più ampio, il modello biopsicosociale. Il medico, secondo questo approccio, dovrebbe valutare ogni aspetto rilevante in sede di diagnosi medica, senza dare priorità ai dati biologici al fine di stabilire la natura del problema e fornire la terapia adeguata considerando gli aspetti biopsicosociali. Engel sosteneva che il confine tra salute e malattia era difficoltoso poiché intervengono nella definizione sia fattori culturali che psicosociali. Utilizzando il modello biopsicosociale, riuscì ad includere sia i soggetti che, clinicamente malati, si sentivano sani, sia coloro che pur essendo sani, percepivano un malessere. L’obiettivo fu quello di modificare il modello di intervento terapeutico allargando il concetto di malattia e di terapia al fine di coinvolgere maggiormente il paziente nel processo di cura. Il modello biopsicosociale poneva, dunque, l'accento sulla visione dell'uomo nella sua globalità nonché sulla considerazione del soggetto malato come persona bisognosa di aiuto, inconsapevole della causa del proprio malessere per il quale prova impotenza. Un ulteriore aspetto previsto dal modello era che il medico dovesse assumersi la responsabilità della valutazione del paziente e, laddove fosse necessario, consultarsi con altri professionisti. Dunque, il medico, al fine di identificare correttamente la malattia della quale soffre il paziente, deve necessariamente considerare il disturbo come l'esito di una complessa interazione tra aspetti biologici, psicologici e sociali.

Il modello biopsicosociale trova le sue basi neurofisiologiche negli studi sugli animali effettuati nel 1936 da Selye, direttore dell'istituto di Medicina e Chirurgia di Montréal.

Dopo aver iniettato un composto stimolante che colpiva le ghiandole surrenali di bovini e ratti, osservo le reazioni e definì lo stress come “la reazione aspecifica dell’organismo a qualsiasi sollecitazione” (Selye, 1936). Successivamente in uno studio del 1973, ne distinse due tipi: l’eustress che comportava un adattamento con miglioramento della performance ed il distress che, al contrario, comportava un peggioramento delle risposte del soggetto. Successivamente si giunse alla consapevolezza che lo stress fosse soggettivo e contestuale: a differenza dell'animale, che subisce passivamente gli stimoli esterni, l'uomo attribuisce un significato allo stressor (evento stressante di origine organica psicologica o sociale) producendo una risposta fisiologica che dipende dal singolo individuo, dal significato e dalla percezione della situazione. Come riportato da Torta e Musa nel libro “Psiconcologia. Il modello biopsicosociale” del 2007, è possibile affermare che alcuni stressor emozionali significativi possano produrre una catena di modificazioni a livello del sistema nervoso centrale e periferico, endocrino e immunitario. Un esempio è l'attivazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) in condizioni di stress al fine di produrre un adattamento contingente. Anche il sistema dopaminergico risponde allo stress rilasciando dopamina solo in presenza di uno shock non evitabile. In caso di stress cronico, l'eccesso di risposta allo stressor comporta un incremento del livello di ormoni in circolo che provocano danni a livello neuronale. Inoltre, gli autori riportano inoltre come, in caso di cronicità, il danno sia esteso al sistema noradrenergico e quello serotoninergico. Per quanto concerne la relazione con il sistema immunitario sono stati individuati i recettori per i principali neurotrasmettitori su linfociti e macrofagi: lo stressor induce una risposta a cascata che, a partire dal rilascio di ormoni come il cortisolo o l’ACTH, provoca una modificazione dell'azione delle cellule immunocompetenti. Il meccanismo alla base della risposta allo stress agisce attraverso un circuito di feedback bidirezionale per il quale l'attivazione di un elemento del sistema coinvolge gli altri. Vista la complessità dell’interazione tra i vari sistemi e le variabili che influenzano la risposta allo stress, si rivela maggiormente necessaria una diagnosi che coinvolga anche gli aspetti psicologici e sociali oltre che fisiologici.

Per quanto concerne l’applicazione del modello biopsicosociale, nell’articolo “The Clinical Application of the Biopsychosocial Model” del 1980, Engel fornisce una guida.

È necessario che il medico, durante il processo di cura del paziente, segua la gerarchia ed il continuum dei sistemi naturali proposti da Weiss e Bertalanffy che evidenziano come la natura sia organizzata in un continuum di gerarchie nel quale vi sono le unità maggiori, dotate di grande complessità e quelle minori, maggiormente semplici. Parlando di continuum, la gerarchia può essere vista su una linea verticale in cui ogni sistema è una componente dei sistemi più alti; tuttavia, possiede le proprie caratteristiche e dinamiche.

Secondo Engel, ogni medico dovrebbe iniziare a focalizzarsi sul sistema/livello della persona e sulla relazione medico-paziente. Il modello biopsicosociale considera il paziente o la persona che ne fa le veci (se impossibilitato a testimoniare), la prima fonte di informazione; la raccolta dei dati si focalizza sull’esperienza interiore (sentimenti, sensazioni, pensieri, opinioni e ricordi) e sull’osservazione comportamentale. A partire dal sistema di gerarchia, il medico considera le informazioni ricevute in riferimento ai distinti livelli e valuta l’utilità di tali informazioni per la cura della persona nel breve e lungo termine. Questo modello, riporta Engel, fornisce un framework concettuale ed una modalità di ragionamento che permette al medico di agire razionalmente anche nelle aree escluse dall’approccio razionale e favorisce un maggiore interesse nella conoscenza degli aspetti psicosociali.

In particolare, ciascun medico è tenuto ad avere una conoscenza dei principi, della terminologia e delle basi di ciascuna disciplina.

Attualmente ritroviamo l’utilizzo del modello biopsicosociale all’interno della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), adottata nel 2001 dall’Assemblea Mondiale della Sanità. Si tratta di una classificazione del funzionamento di ogni essere umano e, dunque, l’applicazione è di tipo universale. Essa risponde a diversi obiettivi tra cui:

  • fornire una base scientifica per identificare variazioni del funzionamento umano;
  • fornire un quadro di riferimento per organizzare i dati relativi al funzionamento umano;
  • stabilire un linguaggio comune per migliorare la comunicazione tra le diverse figure professionali dello stesso paese o internazionali;
  • consentire il confronto dei dati sul funzionamento umano da un paese all’altro, da una disciplina all’altra, grazie a uno schema sistematico di codifica alfanumerica.

Secondo il modello biopsicosociale tale classificazione è il risultato dell’interazione tra le caratteristiche del singolo individuo e le caratteristiche dei contesti in cui vivono gli individui. A partire dallo studio delle interazioni è stato possibile identificare le differenti cause alla base delle difficoltà riscontrate e sollecitare i vari professionisti sanitari ad agire sulle stesse. Tale classificazione guida il professionista a considerare le varie opzioni e strategie che favoriscono la realizzazione di attività da parte del soggetto, tenendo conto delle sue caratteristiche psicologiche, fisiologiche e personali.

All’interno dell’ICF il termine disabilità è utilizzato per declinare gli aspetti negativi dell’interazione tra l’individuo che ha un problema di salute ed il contesto nel quale opera. La disabilità, dunque, non corrisponde ad un deficit o ad una limitazione funzionale, ma ad “una restrizione della partecipazione sociale che corrisponde ai risultati negativi dell’interazione sociale tra le caratteristiche individuali e caratteristiche ambientali.”

Il modello biopsicosociale, tuttavia, è stato oggetto di critiche in quanto non costituisce un modello scientifico o filosofico poiché non fornisce linee guida specifiche sull’applicazione nella pratica terapeutica e di conseguenza consente una estesa varietà di interventi. Tra gli svantaggi del modello biopsicosociale emergono, in particolare, la mancanza di un quadro teorico che definisca funzione e contenuto e indicazioni in merito alle modalità di applicazione (tempistiche), la complessità del modello, le difficoltà nel coordinamento e di destinazione di responsabilità, nonché le problematiche in merito alla formazione del personale sanitario secondo il modello.

Nonostante le critiche, ad oggi, è possibile affermare che il modello biopsicosociale persegue nel suo obiettivo offrendo validi servizi clinici, formativi e di ricerca e contribuendo alla formazione delle politiche sanitarie (G. Papadimitriou, 2017).

Un articolo del 2020 di Zucchetti e collaboratori descrive un modello di intervento applicato in oncologia pediatrica di orientamento psicosociale. Si tratta di un intervento psicosociale altamente intensivo che prevede la presenza di uno psico-oncologo pediatrico che si occupi della famiglia dall’inizio della presa in carico fino alla fine del trattamento e prosegua anche dopo per fornire supporto nella vita quotidiana. In particolare, è necessario che si prenda cura della dimensione psicologica familiare, che incontri le necessità della famiglia e la orienti verso i servizi maggiormente adeguati e che fornisca un servizio strutturato e costante nel tempo. Gli autori sottolineano il ruolo di crucialità dell’approccio psicosociale in quanto determinante per il miglioramento della qualità della vita del bambino e della famiglia sia in termini di benessere emotivo che di assistenza sociale e sanitaria.

Un ulteriore articolo di Førde e colleghi, pubblicato nel 2022 delinea gli aspetti positivi dell’applicazione del modello BPS in ambito dei disturbi da sintomi somatici (SSD). In primo luogo, la grande considerazione del vissuto del paziente è utile al professionista al fine di creare un’alleanza terapeutica nonché di comprendere maggiormente le interazioni dei fattori che costituiscono la sintomatologia clinica a partire dai quali pianificare il trattamento e la riabilitazione. Nello studio si evidenzia come lo stress psicosociale prolungato possa predisporre allo sviluppo di disturbi fisici o mentali i cui sintomi si sviluppano a partire dalla forza dello stressor, dalla resilienza del soggetto e dalla sua vulnerabilità fisica e psicologica. L’applicazione del modello biopsicosociale permette di riconoscere i fattori di vulnerabilità (legati al contesto sociale e familiare) che non sono definibili a livello diagnostico ma che influiscono globalmente sulla salute del soggetto.

Nell’ultimo anno, inoltre, è stata pubblicata una guida che sostiene l’utilizzo del modello BPS in ambito clinico neurologico a livello ambulatoriale ed ospedaliero. Saxena e collaboratori forniscono un modello basato sulle più recenti informazioni in merito all’applicazione clinica del BPS e, attraverso esempi di casi clinici neurologici, delineano l’importanza dei fattori sociali e psicologici nella determinazione delle cure all’interno di un modello centrato sul paziente.

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Modello assistenziale della Family Centered Care

Il modello della Family Centered Care (FCC) ha origine in Canada e negli Stati Uniti dove per primi sono stati delineati i principi cardine di applicazione ospedaliera e riabilitativa. Emerge, in particolare, la monografia pubblicata dall’Association for the Care of Children’s Health (ACCH) nel 1994 ad opera di Terry L. Shelton e Jennifer Smith Stepanek intitolata “Family Centered Care for Children Needing Specialized Health and Developmental Services”. Si trattava di una raccolta delle principali indicazioni e principi chiave della FCC proposti in un’ottica di applicazione alla pratica.

La ACCH è un’organizzazione internazionale di istruzione e di difesa che promuove politiche basate su un approccio centrato sulla famiglia e rivolte ai bisogni di bambini e famiglie in contesto scolastico, domestico o comunitario. È costituita da figure multidisciplinari tra cui amministratori, educatori e ricercatori e mira a definire un modello di servizi per la salute del bambino e della famiglia tenendo in considerazione soprattutto la dimensione umana della presa in carico. I principi chiave della Family Centered Care seguono un ordine preciso tale che ogni principio successivo si fonda sul precedente; inoltre, sono necessariamente da considerare nel loro insieme al fine di garantire un framework concettuale che possa guidare la pratica, l’insegnamento e la ricerca.

Il primo principio fondamentale è la famiglia che, per definizione, indica due o più persone legate da un vincolo che può essere biologico, emozionale o legale. Per il bambino la famiglia è l’unica costante della vita, essa si occupa di accompagnarlo verso l’età adulta all’interno del proprio sistema di valori e credenze e di promuovere la partecipazione alla vita di comunità. Citando una definizione dall’House Memorial 5 Task Force on Young Children and families nel 1990: Le famiglie sono grandi, piccole, estese, nucleari, multigenerazionali, con un genitore, due genitori, e nonni. Si vive sotto uno stesso tetto o molti. Una famiglia può avere una breve durata, di poche settimane, o durare per sempre. Si diventa parte di una famiglia per nascita, adozione, matrimonio, o per un desiderio di mutuo sostegno…Una famiglia è una cultura in sé stessa, con differenti valori e modi unici per realizzare i suoi sogni; insieme, le famiglie diventano una risorsa per la nostra ricca eredità culturale e diversità spirituale…Le nostre famiglie creano i vicinati, le comunità, gli stati, le nazioni.

Esistono quindi famiglie con caratteristiche e culture differenti e comprenderne le diversità appare necessario per offrire una cura family centered. Il primo passo è quello di ascoltare e comprendere come si rappresenta la famiglia del bambino e da chi è composta, cercando di abbandonare i preconcetti o gli stereotipi mentali. Riportando una citazione del Select panel for the promotion of child health del 1981, “la famiglia è l’intermediario tra il bambino ed il mondo esterno e quindi anche con il sistema sanitario”; appare dunque fondamentale organizzare i servizi seguendo le priorità e le scelte della famiglia, dato il ruolo unico che possiede.

Di modelli assistenziali che coinvolgono la famiglia ne sono stati individuati diversi tipi, tra cui il “professionally-centered”, il familiy-allied, il family-focused ed il modello “family-centered. Nel primo caso le famiglie necessitano l’aiuto di figure professionali a causa dell’incapacità di risolvere i propri problemi; nel secondo la famiglia acquisisce un ruolo più attivo ma ancora subordinato ai professionisti; nel terzo è prevista un’iniziale collaborazione tra i genitori ed i professionisti. Infine, il modello family centered considera fondamentali i bisogni e i desideri della famiglia, i quali determinano l’organizzazione del modello assistenziale.

Al fine di intraprendere un percorso terapeutico efficace, il modello FCC prevede che vi sia collaborazione tra gli operatori e la famiglia e che si costruisca una relazione basata sul rispetto, l’ascolto attivo e la comprensione da parte dei professionisti e la possibilità di scelta informata da parte della famiglia. In particolare, i membri della famiglia sono parte integrante del team di assistenza del bambino attraverso la condivisione delle informazioni ottenute secondo la loro unica prospettiva. Inoltre, quando la famiglia è tenuta a fare delle scelte complesse durante il percorso assistenziale, è compito del professionista fornire tutte le informazioni necessarie sulle opzioni esistenti e rispettare la scelta effettuata. A partire da queste considerazioni, emerge un altro principio fondamentale: il rispetto. La FCC intende riconoscere, rispettare e supportare il ruolo cardine che la famiglia assume nel prendere decisioni, insegnare, e proteggere il proprio bambino. È evidente, dunque, la necessità di prendere in considerazione, rispettare e rispondere ai contributi che apporta la famiglia, l’unica vera “esperta” del bambino che lo osserva in diversi contesti e fasi di sviluppo differenti. Come riportato da Freedman, nel 1986, i genitori e le famiglie sono l’unica costante nella vita di un bambino ed i servizi a cui accede sono solo transitori; l’accesso dipende dalla condizione, dalla complessità del quadro clinico o dall’età cronologica del bambino. Importante, inoltre, è la necessità di ascoltare e comprendere i bisogni della famiglia, in quanto unica e diversa dalle altre: da qui deriva il principio di flessibilità. Il modello della family centered care prevede la conoscenza e l’osservazione della famiglia in assenza di pregiudizi che possano condizionare la scelta della proposta di cura; difatti, la FCC è applicabile a tutte le famiglie e soprattutto a quelle che incontrano grandi difficoltà quali l’esposizione ad alti livelli di stress, la mancata adesione ai suggerimenti del professionista o l’utilizzo di strategie di coping differenti da quelle in uso. Un ulteriore aspetto sottolineato nella monografia è il supporto. Ricevere la notizia della nascita di un figlio con patologie croniche o disabilità può destabilizzare la famiglia che si ritrova disorientata. La famiglia può sentirsi isolata rispetto alla mancanza di comprensione da parte degli altri, in assenza di aiuti o supporto; in questi casi, il confronto con altre famiglie che si ritrovano nella stessa condizione può essere utile e di grande impatto. Il supporto tra famiglie permette di aiutarsi reciprocamente nel sentirsi meno soli attraverso la condivisione empatica di esperienze simili e stati d’animo come la speranza, la costruzione di legami amicali, lo scambio di informazioni e modalità di risoluzione ai problemi. Il modello, dunque, mira a fornire supporto alle famiglie promuovendo la creazione di una rete di riferimento facilitando ed incoraggiando il supporto tra famiglie. Diverse famiglie hanno riferito preoccupazioni e frustrazioni in merito alle difficoltà dell’organizzazione del sistema sanitario (accesso ai servizi richiesti, disponibilità di ottenere supporto, mancanza di coordinazione e di comunicazione tra i servizi sanitari). È stata evidenziata, dunque, la necessità di fornire supporto in ambito assistenziale creando un modello, basato sulla coordinazione e il dialogo con le famiglie, che fosse accessibile, flessibile e comprensivo di tuti i servizi fondamentali. Parallelamente ai servizi di supporto, è necessario lavorare sull’empowerment familiare, definito nell’articolo come “processo di aiutare la gente ad esercitare controllo sui fattori che influenzano la propria vita”. L’obbiettivo è quello di aiutare la famiglia a raggiungere la consapevolezza di poter prendersi cura del proprio figlio. Il processo di empowerment, promosso dagli operatori attraverso la comunicazione, momenti di counselling genitoriale e una buona alleanza terapeutica, si basa su una riflessione individuale del genitore circa i punti di forza e le capacità che ha. La famiglia acquisisce maggiore indipendenza grazie alla collaborazione attiva con il professionista, alla proposta di aiuti specifici per i bisogni presentati, l’accettazione ed il sostegno, da parte dell’operatore, delle decisioni da loro prese.

In ambito riabilitativo, il modello di cura centrato sulla famiglia ha iniziato a svilupparsi con la riflessione sul significato della riabilitazione e sugli obiettivi che deve porsi sulla base delle recenti scoperte scientifiche sul Sistema Nervoso Centrale (SNC) e sullo sviluppo del bambino. I primi approcci riabilitativi, risalenti agli anni 60’-70, si fondavano sulla proposta delle prestazioni che il bambino avrebbe dovuto acquisire in assenza del danno, seguendo le tappe dello sviluppo motorio fisiologico. All’epoca, la famiglia aveva un ruolo passivo, limitandosi a seguire le specifiche indicazioni dei professionisti e ad osservare l’esecuzione di sequenze di esercizi da parte del bambino. L’unica dimensione in cui era riconosciuta e considerata l’importanza del ruolo famigliare era quella assistenziale e educativa. Negli ultimi anni, tuttavia, con il progresso scientifico, si è iniziato a considerare l’importanza di un approccio globale al bambino in quanto non è possibile scindere lo sviluppo motorio da quello cognitivo e psichico. Si è diffusa, inoltre, la concezione dell’unicità di ogni individuo, il quale è in grado di rispondere al bisogno utilizzando le proprie soluzioni adattive esprimendo “il massimo livello di autonomia possibile per il momento considerato” nonostante non corrispondano alle soluzioni comuni o consuete. (Milani-Comparetti, 1982). Le evidenze suggeriscono che le funzioni adattive si strutturano per mezzo dell’interazione del bambino con l’ambiente, utilizzate per rispondere a specifiche esigenze di adattamento; esse dipendono dunque dalle risorse del soggetto, dallo scopo e dall’ambiente fisico e sociale e sono estremamente variabili tra i vari individui (Bertozzi et al., 2012). In quest’ottica, la famiglia costituisce l’ambiente di vita primario del bambino ed ha un ruolo centrale nel suo sviluppo.

I principi delineati dall’ ACCH hanno promosso, negli anni, la realizzazione di programmi di cura del bambino finalizzati all’applicazione del modello family centered quali, ad esempio, il CanChildCentre for Childhood Disabiliy Research e l’Institute for Patient- and Family-Centered Care (IPFCC). Entrambe le organizzazioni seguono i principi della FCC operando in stretta collaborazione con le famiglie di bambini e adolescenti con disabilità e con i professionisti dei servizi per l’infanzia e divulgando la pratica family centered. Di particolare rilevanza, nella cultura anglosassone è l’Individualized Developmental Care (IDC), un approccio olistico che a partire dalla nascita del bambino, fino alla dimissione prevede il coinvolgimento ed il sostegno della famiglia. In particolare, l’IDC promuove un programma personalizzato di supporto per lo sviluppo del bambino e premette ai genitori una riappropriazione tempestiva del proprio bambino in quanto essi rappresentano i caregiver primari. Oramai ampiamente validato in ambito di efficacia in Terapia Intensiva Neonatale (T.I.N.). Negli ultimi anni i team di terapia intensiva neonatale stanno implementando l’assistenza sanitaria con l’integrazione e la collaborazione dei genitori al fine di raggiungere l’obbiettivo finale di promozione della salute e benessere dei neonati, delle famiglie e degli operatori sanitari. (Franck at al., 2019). Anche in ambito italiano si sono strutturati gruppi di studio come il Gruppo Italiano Paralisi Cerebrali Infantili (GIPCI), noto per l’organizzazione di convegni il cui obiettivo è la discussione e il confronto di differenti modalità di intervento basate sull’approccio integrato e family centered. Emerge infine, il programma Ronald McDonald House Charities (RMHC) la cui finalità è la promozione della vicinanza fisica ed emotiva delle famiglie con bambini malati nel luogo di ricovero fornendo servizi di alloggio e sostegno ai genitori.

Sempre maggiori sono gli studi che tentano di evidenziare quali modalità si stanno attuando in merito all’applicazione dei principi della FCC, individuandone benefici e problematiche percepiti dagli operatori e dalle famiglie. (Litchfield et al., 2002; Frank et. al, 2021; Franck et al, 2022, Dall’Oglio et al., 2022). Emergono alcune difficoltà riscontrate dai professionisti sanitari durante il processo di confronto e collaborazione con la famiglia: al fine di rendere partecipe il nucleo famigliare nei processi decisionali è necessario che l’operatore metta in discussione il proprio ruolo; inoltre, tale processo può richiedere del tempo, spesso causa della sensazione per l’operatore di non averne abbastanza da dedicare alla terapia con il paziente. In aggiunta, nell’interazione con la famiglia sono richieste abilità comunicativo-relazionali specifiche che non sempre i professionisti sanitari possiedono o sono consci di possedere. Lawlor e Mattingly nel 1998 sottolineano come in un modello centrato sulla famiglia il lavoro del terapista debba focalizzarsi non solo sull’ attività riabilitativa, ma anche sulla presa in carico di molteplici aspetti della vita della famiglia; tali dinamiche possono causare una perdita della definizione del proprio ruolo con difficoltà a ricostituirlo. Risulta centrale per il professionista vedere il proprio lavoro come parte di un intervento multidisciplinare, che riesca a mettersi in rete con il lavoro di altri professionisti in ottica di fornire una presa in carico globale al paziente ma anche di avere la possibilità in équipe di un confronto tra le varie figure, uno scambio sempre aggiornato di informazioni sul paziente, un supporto professionale in caso di difficoltà ed un supporto emotivo per la gestione di questioni delicate e stressanti.

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Le linee guida 21

Il Disturbo dello Spettro dell’Autismo, come precedentemente analizzato, è estremamente complesso e può manifestarsi attraverso quadri clinici di gravità variabile che vanno ad impattare sulla vita dei pazienti e delle loro famiglie in un periodo esteso a tutta la vita. I modelli terapeutici disponibili, coerentemente con la variabilità descritta, sono diversificati e gli operatori potrebbero avere difficoltà ad orientarsi su quale sia il migliore. Nell'ottobre del 2011, per rispondere a tale situazione, l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato la Linea Guida n. 21 “Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti”. Come affermato da Alfonso Mele, responsabile del progetto dell’ISS, la linea guida è stata sviluppata all’interno del “Programma strategico. Un approccio epidemiologico ai disturbi dello spettro autistico”, primo programma che si occupa di salute mentale in bambini e adolescenti. La linea guida ha come finalità la produzione di risultati, ottenuti tramite la ricerca scientifica, che siano trasferibili alla pratica clinica e fruibili da tutti coloro interessati. Citando Mele,questa linea guida fornisce un orientamento su quali sono gli interventi per cui sono disponibili prove scientifiche di valutazione di efficacia, articolando le raccomandazioni per la pratica clinica sulla base di queste prove”. È stata creata una versione per il pubblico al fine di aumentare la consapevolezza da parte di famiglie e cittadini sulla gestione del DSA. In particolare, le Linee Guida n. 21 raccolgono raccomandazioni di comportamento che possono essere utilizzate come strumento dai professionisti sanitari per migliorare la qualità dell’assistenza nonché per aggiornamento e formazione, essendo una sintesi delle migliori evidenze disponibili.

La forza delle raccomandazioni incluse viene espressa attraverso un’accurata formulazione del testo che mostra una valutazione del rapporto benefici-rischi dei trattamenti presentati. Inoltre, era previsto un aggiornamento specifico in caso di nuove evidenze scientifiche rilevanti ed un aggiornamento generale del documento entro quattro anni dalla pubblicazione, tutt’ora in stato di elaborazione. Nel documento è presente una distinzione tra interventi non farmacologici e interventi farmacologici per i quali sono stati individuati alcuni quesiti di ricerca che guidassero l’analisi della letteratura. Per quanto concerne gli interventi non farmacologici i quesiti mirano ad indagare l’efficacia dell’intervento nel DSA, le variabili di tempo di somministrazione, durata e intensità sull’esito del trattamento e la relazione tra specificità dell’intervento e l’applicazione su specifiche manifestazioni del DSA. A seguito della ricerca di letteratura sono stati individuate diverse tipologie di intervento: interventi mediati dai genitori, comunicativi, programmi educativi, comportamentali e psicologici strutturati, biomedici e nutrizionali ed altri tipi di trattamenti.

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Interventi farmacologici

Per quanto concerne gli interventi farmacologici, la ricerca della letteratura finalizzata alla creazione delle Linee Guida 21 ha indagato l’utilizzo del farmaco in bambini con DSA in termini di efficacia, durata e intensità dell’intervento farmacologico; inoltre, sono state considerate le variabili di tempo di somministrazione e l’appropriatezza d’uso di un farmaco specifico in relazione a specifiche manifestazioni del DSA. A seguito della ricerca di letteratura sono stati individuate diverse categorie di farmaci: antipsicotici, stimolanti del sistema nervoso centrale, Naltrexone, Secretina, Antidepressivi, Chelazione ed altri trattamenti.

Per quanto concerne gli Antipsicotici le prove supportano l’utilizzo del Risperidone per il trattamento a breve termine di soggetti con DSA e problemi comportamentali quali irritabilità, ritiro sociale, comportamenti stereotipati. (Jesner et al., 2007; Luby et al.,2006). La raccomandazione delle Linee Guida indica che i genitori e/o i pazienti sono tenuti ad essere informati in modo chiaro e completo sui possibili effetti collaterali (sia nella popolazione infantile che in quella adulta) e sulla mancanza attuale di dati sull'efficacia e sulla sicurezza del farmaco a lungo termine. Anche l’utilizzo di Aripiprazolo viene supportato da prove di efficacia nel breve termine per il trattamento di grave irritabilità ma la raccomandazione indica la necessità di conferma da ulteriori studi in termini di efficacia e tollerabilità del farmaco nel medio/lungo termine.

In merito ai farmaci stimolanti del sistema nervoso centrale le raccomandazioni indicano che il metilfenidato può essere utilizzato per il trattamento dell'iperattività in soggetti fino ai 14 anni con DSA. (Di Martino et al., 2006, Research Units on Pediatric Psychopharmacology Autism Network, 2006).

“L'utilizzo di secretina non è raccomandato nel trattamento di bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico” (L.G. 21, 2011). (Ratliff-Schaub et al., 2005; SIGN, 2007; Coniglio et al., 2001; Corbett et al., 2001).

Per quanto concerne la categoria di Antidepressivi, le Linee Guida non raccomandano l'utilizzo degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). (Williams et al., 2010). Inoltre, il possibile utilizzo degli SSRI può essere preso in considerazione in caso di condizioni cliniche specifiche in comorbidità con il DSA quali il disturbo ossessivo compulsivo e la depressione; è raccomandato analizzare il caso singolo.

Infine, in letteratura è stato analizzato solo uno studio RCT sulla chelazione che è stato interrotto a causa del rischio di effetti tossici, ne consegue la raccomandazione di non utilizzare questo farmaco nel trattamento. (Mitka et al., 2008; Stangle et al., 2007).

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Interventi non farmacologici

Interventi mediati dai genitori

I programmi di intervento mediati dai genitori presi in considerazione sono rappresentati da interventi sistematici e modalità comunicative organizzati secondo sequenze ed obiettivi specifici. È necessario che il genitore segua una formazione specifica (parent training, PT) prima dell’applicazione degli interventi, la quale si svolge sotto la supervisione di specialisti. I programmi presi in considerazione sono molto eterogenei ma presentano in comune il ruolo dei genitori come mediatori dell’intervento. Benché non conclusivi, i risultati prodotti dalla ricerca di letteratura sono coerenti e a favore dell’efficacia degli interventi nel migliorare diverse aree quali nei soggetti a rischio la comunicazione sociale (Wetherby et al., 2006), nei bambini con DSA la comunicazione sociale (McConachie et al., 2007) e i problemi comportamentali (Solomon et al., 2008) mentre negli adolescenti con DSA la capacità di socializzazione con i pari (Laugeson et al., 2009). È emerso inoltre, tramite l’erogazione di interventi mediati dai genitori, che i programmi di parent training producono un effetto positivo sull’approccio dei genitori al bambino, sulla comunicazione sociale dei bambini e sulla relazione genitore-bambino. È stata dunque formulata la seguente raccomandazione:

I programmi di intervento mediati dai genitori sono raccomandati nei bambini e negli adolescenti con disturbi dello spettro autistico, poiché sono interventi che possono migliorare la comunicazione sociale e i comportamenti problema, aiutare le famiglie a interagire con i loro figli, promuovere lo sviluppo e l’incremento della soddisfazione dei genitori, del loro empowerment e benessere emotivo” (L.G. 21., 2011).

Interventi comunicativi

“La comunicazione è uno scambio interattivo fra due o più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento” - Paul Watzlawick

Comunicare presuppone che ci sia una relazione e uno scambio, un comportamento o azione diretta verso un'altra persona alla quale segue una reazione relativa e conseguente. I bambini con disturbo dello spettro autistico presentano una compromissione dell'interazione e della comunicazione sociale reciproca, deficit del linguaggio verbale e non verbale e manifestano pattern di comportamenti, interessi o attività ripetitive, ristrette. Nel soggetto autistico i disturbi relazionali sono interconnessi con i disturbi comunicativi e della comprensione e, nel loro insieme, possono causare la comparsa di frustrazione, di comportamenti indesiderati, una scarsa adattabilità al contesto sociale E difficoltà nell'esprimere e comprendere i propri bisogni e le proprie necessità. Il supporto della Comunicazione Aumentativa Alternativa (C.A.A.) può essere integrato negli interventi riabilitativi con lo scopo di fornire gli strumenti al bambino per l’interazione con l'altro. La C.A.A. intende ridurre, contenere e compensare la difficoltà temporanea o permanente di persone con disturbo della comunicazione ricettiva e/o espressiva attraverso l’utilizzo di strategie, nozioni e ausili dotati di bassa, media o alta tecnologia. La scelta dell’ausilio varia sulla base delle competenze relazionali e motorie del bambino: la bassa tecnologia, costituita da ausili semplici, economici e personalizzabili in funzione del bambino, viene utilizzata in caso di scarse competenze relazionali e difficoltà motorie mentre gli ausili di tecnologica medio/alta sono rivolti a soggetti con competenze discrete. Tra le strategie di intervento offerte dalla C.A.A. vi sono due metodologie di rilievo:

  1. Il Picture Communication System (PCS), un sistema di comunicazione per immagini nel quale il bambino utilizza la propria gestualità (pointing) per comunicare con gli altri. I prerequisiti per l’accesso sono la presenza di intenzionalità comunicativa e relazionale e l’associazione cognitiva tra immagine/simbolo e oggetto. Gli strumenti comunicativi di supporto utilizzati sono le tabelle comunicative.
  2. Il Picture Exchange Communication System (PECS), un Sistema di comunicazione per scambio di immagini. È utilizzato al fine di favorire l’sviluppo del vocabolario e, se già presente, incrementarlo. Solitamente è il metodo utilizzato con i bambini con DSA in quanto non prevede limiti di QI, età né prerequisiti socio-relazionali o motori. Il PECS si fonda sui principi ABA e utilizza il sistema del rinforzo positivo.

Supporto per le abilità comunicative

Gli esiti dell’analisi scientifica, condotta per la formulazione delle linee guida, si basano su un numero limitato di prove; pertanto, è stato possibile avanzare solo un’ipotesi di efficacia per gli interventi di supporto per le abilità comunicative (PECS). È stato analizzato uno studio clinico controllato randomizzato (RCT) di Kasari e collaboratori da cui emergono dati di efficacia forti sullo sviluppo dell’attenzione congiunta e del gioco simbolico a partire da un intervento precoce. Inoltre, la Linea Guida, analizzando una revisione sistematica ha indagato l’efficacia degli interventi di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA). I dati prodotti da Schlosser e collaboratori nella revisione del 2008 suggeriscono che l’intervento con CAA oltre a non comportare un declino del linguaggio parlato, correla con una modesta efficacia sulla produzione del linguaggio. Si evidenzia inoltre la possibilità che la risposta all’intervento sia modificabile a partire da alcune caratteristiche individuali, tra cui il livello delle abilità percettive, del linguaggio e del linguaggio parlato. Un ulteriore revisione sugli interventi comportamentali e di sviluppo per il DSA (Ospina et al., 2008) riconduce al training del linguaggio con i segni della C.A.A. prove di efficacia in quanto produce benefici nell’articolazione, nel linguaggio orale, nella comunicazione non verbale e nella capacità di iniziare un’interazione verbale. A partire dai dati ottenuti è stata formulata tale raccomandazione:

L’utilizzo di interventi a supporto della comunicazione nei soggetti con disturbi dello spettro autisti- co, come quelli che utilizzano un supporto visivo alla comunicazione, è indicato, sebbene le prove di efficacia di questi interventi siano ancora parziali. Il loro utilizzo dovrebbe essere circostanziato e accompagnato da una specifica valutazione di efficacia (L.G. 21, 2011)

Interventi per la comunicazione sociale e l’interazione

Le tipologie di intervento finalizzate allo sviluppo della comunicazione e l’interazione sociale sono molteplici e non utilizzano metodi comuni. Questo può essere in parte spiegato dalle molteplici abilità implicate nell’interazione con l’altro quali le abilità di gioco- play skills (accettare la turnazione, la condivisione e la cooperazione con l’altro); le abilità di dialogo- conversation skills (l’utilizzo del linguaggio verbale e quello del corpo, avere dei contenuti da raccontare); le abilità emotive- emotional skills (saper riconoscere e gestire i propri sentimenti e comprendere quelli altrui); ed infine la capacità di risoluzione dei problemi – problem solving (saper leggere e comprendere il contesto, prendere decisioni per affrontare le situazioni sociali, gestire i conflitti con gli altri). I dati scientifici sugli interventi a supporto della comunicazione sociale e dell’interazione non sono definitivi né univoci. Le Linee Guida suggeriscono che l’utilizzo di tali interventi non è supportato da una raccomandazione forte a causa della mancanza di prove che dovranno essere individuate in futuro. Le tipologie di intervento prese in considerazione sono molto eterogenee e includono social stories, interventi che utilizzano nuove tecnologie, mediati dai coetanei e basati sull’imitazione.

Per quanto concerne le social stories emergono prove limitate sulla loro efficacia nella stessa revisione sistematica di Ospina e collaboratori del 2008. L’intervento si considera promettente in quanto apporta un miglioramento nel breve termine dei deficit sociali associati al DSA in bambini di età scolare. La stessa revisione ha indagato alcuni degli interventi che utilizzano nuove tecnologie quali gli interventi erogati attraverso software e quelli attraverso filmati video. I primi correlano positivamente con l’apprendimento interattivo, attraverso l’utilizzo di software in autonomia, di abilità quali il riconoscimento delle emozioni, la capacità di generalizzazione di quanto appreso, l’attenzione e la motivazione. I secondi, al contrario, non prevedono interventi interattivi bensì si affidano alle capacità imitative del bambino e all’apprendimento visivo dell’informazione. Al bambino sono proposti filmati basati sul video modelling (suggerimento attraverso il video) in cui l’attore o il cartone animato esegue il compito o riproduce il comportamento adeguato da imitare; talvolta invece, il filmato presenta il punto di vista del bambino e sono presenti suggerimenti per affrontare la situazione proposta. I dati scientifici degli studi indagati (Kagohara et al., 2010) riportano risultati favorevoli all’intervento sperimentale e questo consente di produrre un’ipotesi di efficacia da accertare in ricerche future. Sono stati analizzati anche gli interventi erogati attraverso gli speech-generating device, strumenti che generano messaggi vocali individuati dal bambino attraverso simboli e selezionati manualmente, i quali correlano positivamente con il miglioramento delle abilità comunicative. Per quanto concerne l’intervento tramite gioco al computer, è stato analizzato l’utilizzo del software Let’s face it (LFI) che comprende sette giochi interattivi riguardanti i deficit sul processamento delle espressioni facciali. Emergono solo dati di efficacia nel miglioramento della capacità di riconoscere isolatamente la bocca e nel contesto del volto, gli occhi (Tanaka et al., 2010).

Proseguendo con gli interventi mediati dai coetanei, sono stati indagati gli interventi Peer Mediated Interventions (PMI), somministrati da pari formati che agiscono attivamente attraverso diverse modalità, tra cui l’avvio dell’interazione con il bambino affetto da DSA, la stimolazione del bambino con DSA a potenziare alcune abilità, l’utilizzo di rinforzi positivi in caso di comportamenti adeguati. I risultati emersi dallo studio di Chan e collaboratori del 2009, evidenziano effetti positivi nel 91% dei casi e nessun caso negativo. Tali dati, tuttavia, non sono conclusivi poiché negli studi non vi è la conferma di una fedele applicazione del modello di trattamento PMI.

Infine, gli interventi basati sull’imitazione indagati nella revisione con metanalisi di Ospina analizzano gli approcci basati sul developmenal approach. In particolare, quelli fondati sull’interazione imitativa sono correlati con miglioramenti significativi. Un RCT di Ingersoll e collaboratori del 2010, suggerisce l’efficacia del reciprocal imitation training (RIT), un intervento basato sull’imitazione reciproca in un contesto naturalistico, nel miglioramento delle abilità imitative.

La raccomandazione elaborata sulla base dei dati emersi sostiene:

Gli interventi a supporto della comunicazione sociale vanno presi in considerazione per i bambini e gli adolescenti con disturbi dello spettro autistico; la scelta di quale sia l’intervento più appropriato da erogare deve essere formulata sulla base di una valutazione delle caratteristiche individuali del soggetto. Secondo il parere degli esperti, è consigliabile adattare l’ambiente comunicativo, sociale e fisico di bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico: le possibilità comprendono fornire suggerimenti visivi, ridurre le richieste di interazioni sociali complesse, seguire una routine, un programma prevedibile e utilizzare dei suggerimenti, minimizzare le stimolazioni sensoriali disturbanti.” (L.G. 21, 2011)

Programmi educativi

Il principale intervento indagato è il TEACCH (Treatment and education of autistic and related communication handicapped children) programma di educazione strutturata per i bambini con DSA. Tale programma è stato sviluppato nel 1960 dal professor Eric Schopler con un gruppo di ricercatori nell’Università del Nord Carolina (USA) e si fonda sul concetto di “cultura dell’autismo”. L’obiettivo del programma si esplica nella proposta di strategie volte a modificare e strutturare l’ambiente adattandolo ai deficit del DSA. (Sanz-Cervera et al., 2018). Gli elementi cardine dell’educazione strutturata sono:

  1. L’organizzazione fisica del setting con la riduzione minimale di distrazioni e l’introduzione di barriere visive;
  2. L’introduzione di palinsesti visivi finalizzati alla comprensione e alla previsione degli eventi futuri;
  3. L’utilizzo di sistemi di lavoro dotati di una presentazione sequenziale dell’attività da svolgere volti al raggiungimento della massima autonomia del soggetto
  4. L’utilizzo di una struttura visiva che suddivida i vari passaggi dell’attività da svolgere e di istruzioni visive che facilitino il completamento del compito.

Il TEACCH intende lavorare sulle abilità visuospaziali dei bambini con DSA in quanto sono maggiormente funzionali rispetto a quelle uditive; sulla base dei punti di forza e degli interessi del bambino viene favorito l’apprendimento. I risultati emersi dagli studi analizzati riportano l’efficacia del TEACCH nel miglioramento di vari aspetti, tra cui abilità motorie, intellettive, del funzionamento sociale e della comunicazione. È stata dunque elaborata la raccomandazione seguente:

“Il programma TEACCH ha mostrato, in alcuni studi di coorte, di produrre miglioramenti sulle abilità motorie, le performance cognitive, il funzionamento sociale e la comunicazione in bambini con disturbi dello spettro autistico, per cui è possibile ipotizzare un profilo di efficacia a favore di tale intervento, che merita di essere approfondito in ulteriori studi.” (L.G. 21, 2011)

Interventi comportamentali e psicologici strutturati

Interventi per comportamenti specifici

La ricerca della letteratura ha individuato molteplici modalità di intervento per bambini con DSA, tutte limitate all’intervento focale sul miglioramento delle abilità sociali. Tra gli studi inclusi emerge globalmente un’efficacia a favore degli interventi comportamentali specifici nel miglioramento di vari ambiti quali i comportamenti disfunzionali, l’abilità di linguaggio e di vita quotidiana, le abilità richieste per l’autonomia sociale e quelle accademiche. Tra gli interventi analizzati, i programmi sulle abilità sociali (social skills program) prevedono un intervento di insegnamento diretto nel quale il bambino visiona un video contenente l’abilita da apprendere e poi generalizzare, ma anche un’attività di gioco libero sotto supervisione. (Kroeger et al., 2007). Oggetto di indagine è anche la Lego therapy, un programma ideato da LeGoff nel quale i bambini giocano insieme per un’ora nella stanza dei lego personificando alcuni ruoli sotto la supervisione del terapista che li guida nella risoluzione di situazioni sociali (Owens et al., 2008). Infine, è stato considerato il Junior detective training program, un intervento della durata di sette settimane con due ore settimanali nel quale sono previsti training sulla socialità e sul riconoscimento delle emozioni, terapia di gruppo genitori-bambini, compiti da eseguire a domicilio e attività per gli insegnanti da somministrare a scuola al bambino. Sebbene non vi siano prove di efficacia certe sui programmi sulle abilità sociali (social skill program), sulla lego therapy e sul Junior detective training program, è possibile sostenere un’ipotesi di efficacia. Le raccomandazioni elaborate dalle Linee Guida 21 sono le seguenti:

“Gli interventi comportamentali dovrebbero essere presi in considerazione in presenza di un ampio numero di comportamenti specifici di bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico, con la finalità sia di ridurre la frequenza e la gravità del comportamento specifico sia di incrementare lo sviluppo di capacità adattative.

Secondo il parere degli esperti i professionisti dovrebbero essere a conoscenza del fatto che alcuni comportamenti disfunzionali possono essere causati da una sottostante carenza di abilità, per cui rap- presentano una strategia del soggetto per far fronte alle proprie difficoltà individuali e all’ambiente.” (L.G. 21, 2011)

Terapia cognitivo comportamentale

La terapia cognitivo comportamentale (Cognitive, behavior therapy, CBT) si basa sulla concezione che vi sia una relazione complessa tra emozioni, pensieri e comportamenti. L’obbiettivo della CBT è volto a guidare i soggetti al riconoscimento dei pensieri ricorrenti, degli schemi di ragionamento disfunzionali e di comprensione della realtà al fine di sostituirli con convinzioni maggiormente funzionali e adeguate. Attualmente è il trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia ma è stata utilizzata fino agli anni 90’ per il trattamento del DSA in quanto è in grado di fornire una spiegazione scientifica delle emozioni e strategie di controllo cognitivo emozionale. È rivolta al sottogruppo di soggetti con DSA ad alto funzionamento o Sindrome di Asperger, che possiedono un discreto livello di sviluppo cognitivo e verbale. In una revisione sistematica è stato quantificato il QI verbale minimo richiesto, pari a 69 (White et al., 2004). In una revisione sistematica di Lang e collaboratori del 2010, viene indagata l’efficacia della CBT per il trattamento di crisi di ansia. L’intervento viene somministrato da terapeuti formati in 12 sessioni di 1-2 ore l’una. I risultati mostrano un miglioramento significativo della sintomatologia ansiogena nel gruppo che riceve l’intervento. Un RCT invece che indaga l’efficacia dell’intervento nel trattamento delle crisi di rabbia riporta risultati positivi nella capacità gestionale della rabbia. (Sofronoff et al., 2007). Le raccomandazioni individuate riportate sono le seguenti:

“È consigliato l’uso della terapia cognitivo comportamentale (Cognitive behavior therapy, CBT) per il trattamento della comorbidità̀ con i disturbi d’ansia nei bambini con sindrome di Asperger o autismo ad alto funzionamento.

La terapia cognitivo comportamentale, rivolta a bambini e genitori, può essere utile nel migliorare le capacità di gestione della rabbia in bambini con sindrome di Asperger.” (L.G. 21, 2011)

Per quanto concerne gli interventi non farmacologici di Auditory integration training, Comunicazione facilitata, interventi biomedici nutrizionali tra cui la terapia con ossigeno iperbarico non sono stati raccomandati nel trattamento di soggetti con disturbo dello spettro autistico. Al contrario, la Musicoterapia ed interventi biomedici nutrizionali tra cui diete di eliminazione di caseina e/o glutine non sono stati raccomandati a causa di insufficienza di prove disponibili.

Nel caso di disturbi del sonno sono raccomandati interventi comportamentali e l’utilizzo di melatonina. Sono stati analizzati altri trattamenti, tra cui l’equitazione assistita, il massaggio tradizionale tailandese ed i programmi di esercizio fisico; tuttavia, non hanno prodotto prove sufficienti a valutarne l’efficacia.

Programmi intensivi comportamentali

La maggioranza degli interventi comportamentali per i DSA si fondano sui principi della modificabilità del comportamento attraverso l’utilizzo dell’analisi comportamentale applicata (Applied behaviour intervention, ABA). Si tratta di programmi intensivi di 20-40 ore settimanali il cui obbiettivo principale è la precocità dell’intervento mediato dalla figura genitoriale con supporto di professionisti esperti, in bambini di età prescolare. Sono stati analizzate diverse revisioni dalle quali sono emersi fattori positivi a favore dell’intervento ABA rispetto ad interventi standard o scolastici per quanto concerne le abilità intellettive, la comprensione del linguaggio e le abilità sociali. Inoltre, risulta essere maggiormente efficace l’utilizzo di ABA ad alta intensità per il miglioramento degli aspetti precedentemente esposti e del quadro globale. I dati riportano anche la superiorità dell’intervento ABA ai programmi di educazione speciale nel medio termine. (Ospina et al., 2008). La revisione di Spreckley e collaboratori, invece, non mostra differenze di efficacia tra il metodo ABA ed altri modelli di intervento strutturati quale, ad esempio, il DIR (Developmental individual-difference relationship based intervention). Tra le variabili indagate che possono modulate l’efficacia dei programmi intensivi comportamentali sono emerse la durata e l’intensità come modificatori di effetto. Le raccomandazioni in merito a questo ambito sono qui sotto riportate:

“Tra i programmi intensivi comportamentali il modello più studiato è l’analisi comportamentale applicata (Applied behaviour intervention, ABA): gli studi sostengono una sua efficacia nel migliorare le abilità intellettive (QI), il linguaggio e i comportamenti adattativi nei bambini con disturbi dello spettro autistico. Le prove a disposizione, anche se non definitive, consentono di consigliare l’utilizzo del modello ABA nel trattamento dei bambini con disturbi dello spettro autistico.

Dai pochi studi finora disponibili emerge comunque un trend di efficacia a favore anche di altri programmi intensivi altrettanto strutturati, che la ricerca dovrebbe approfondire con studi randomizza- ti controllati (RCT) finalizzati ad accertare, attraverso un confronto diretto con il modello ABA, quale tra i vari programmi sia il più efficace.

È presente un’ampia variabilità a livello individuale negli esiti ottenuti dai programmi intensivi comportamentali ABA; è quindi necessario che venga effettuata una valutazione clinica caso-specifica per monitorare nel singolo bambino l’efficacia dell’intervento, ossia se e quanto questo produca i risultati attesi.” (L.G. 21, 2011)

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Intervento precoce

Un paragrafo finale delle Linee Guida 21 è stato dedicato all'intervento precoce. Il focus dell’’indagine è stato la valutazione dell'efficacia degli effetti precoci e la quantificazione del vantaggio ottenuto. Il concetto di precocità si riferisce sia ai soggetti in condizione di rischio di sviluppo del disturbo sia per coloro che hanno sviluppato il disturbo e hanno ricevuto la diagnosi. Un RCT analizzato prende in considerazione un intervento applicato a bambini con diagnosi di DSA che si fonda sulla precocità, L’Early Start Denver Model (ESDM) (Dawson et al., 2010), il quale viene messo a confronto con un intervento standard. I risultati riportano come l'utilizzo dell’ESDM contribuisca nel miglioramento delle abilità cognitive e riduca la presenza ed il peggioramento dei comportamenti adattivi entro due anni dal follow up. Sulla base di quanto emerso è possibile supportare l'efficacia del modello. Tuttavia, gli autori concludono con la raccomandazione che saranno necessarie ulteriori conferme sulla base di studi futuri; studi che sono stati condotti da Vismara, Dawson ed altri colleghi e ricercatori come si vedrà nel seguente paragrafo.

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Early Start Denver Model (ESDM)

Basi del modello ESDM

L’Early Start Denver Model (ESDM) è un modello di intervento precoce, intensivo e globale creato per i bambini con DSA di età compresa tra i 12 e i 36 mesi ma può estendersi fino ai 48-60 mesi. Tale modello si fonda su alcuni approcci complementari, tra cui il modello Denver, sviluppato da Rogers e colleghi negli anni ’80 e rivolto a bambini con DSA di età compresa tra 24 e 60 mesi. L’autismo era inteso come un disturbo dello sviluppo sociocomunicativo, dunque, il programma supportava la creazione di dinamiche e interazioni sociali vivaci attraverso l'uso dell'amplificazione al fine di spostare l'attenzione del bambino sulla relazione. Il modello Denver introdusse la tecnica delle routine socio sensoriali, ovvero scambi diadici di grande coinvolgimento per il bambino nei quali egli appare maggiormente disposto all'interazione, utilizzando dapprima la comunicazione non verbale e in seguito quella verbale. Tale tecnica è stata mantenuta anche all'interno dell’ESDM. Tra le nozioni acquisite e riportate dal modello Denver vi sono anche la necessità di un'equipe multidisciplinare, dato il coinvolgimento del disturbo nello sviluppo di tutti i domini di funzionamento del bambino; l'importanza nello sviluppare gli aspetti cognitivi attraverso il gioco; la collaborazione con la famiglia ed infine la necessità di favorire lo sviluppo dell'imitazione di espressioni, gesti e di modalità d’uso degli oggetti. Alcune pubblicazioni di quel periodo sostenevano, in modo convincente, l’importanza del ruolo centrale dell’imitazione nelle prime fasi dello sviluppo infantile (Daniel Stern, 1985; Meltzoff e Moore, 1977). Tali considerazioni hanno portato alla creazione di un nuovo modello da parte di Rogers e Pennington nel 1991: il modello dello sviluppo interpersonale dell'autismo. Gli autori ipotizzarono che alla base dell'autismo ci fosse un deficit precoce nell'imitazione e che questo influisse sullo sviluppo della sincronia corporea e della coordinazione tra caregiver e bambino. Di conseguenza, un deficit a questo livello influiva sulla coordinazione reciproca delle emozioni ed inficiava negativamente sulla comprensione dei sentimenti e degli stati mentali dell'altro. Tale condizione incideva a sua volta sul raggiungimento delle tappe fondamentali dello sviluppo intersoggettivo causando un ritardo nello sviluppo dell’imitazione, dell’attenzione condivisa, della comunicazione intenzionale e dell’espressione e condivisione emotiva. Parte fondamentale del modello ESDM è volta a considerare la crucialità dell’ambiente emotivo del bambino, è infatti necessario che il genitore o l’interlocutore sia sensibile e responsivo al fine di permetterne lo sviluppo sociale, emotivo e comunicativo del bambino. Un ulteriore base all’ESDM è data dall’ipotesi dell’autismo come disturbo della motivazione sociale elaborata da Dawson e colleghi nel 2004. Essi ipotizzarono che, a livello biologico, l’autismo comportasse una carenza della motivazione sociale causata da una difficoltà nell’attribuire alle relazioni sociali una valenza positiva. La manifestazione di tale condizione era osservabile nel bambino attraverso uno scarso interesse per gli stimoli sociali dell’ambiente (volti, voci, gesti, interazioni di tipo verbale) e, di conseguenza, per l’interazione con l’altro. Questo comportava una difficoltà ad accedere al mondo sociale e alle opportunità di apprendimento in esso presenti; come riportato da Dawson e collaboratori, tale condizione alterava non solo lo sviluppo comportamentale del bambino ma anche lo sviluppo e organizzazione di sistemi neurali legati alla percezione e alla rappresentazione dell’informazione sociale e linguistica. Il modello ESDM utilizza alcune strategie al fine di incrementare l’attenzione e la motivazione sociale nonché lo sviluppo della valenza positiva delle interazioni. Un ultimo modello di grande considerazione è la Pivotal Response Training (PRT) elaborato negli anni ‘80 da Laura Schreibman e Robert e Lynn Koegel; si trattava di un metodo di insegnamento basato sui principi dell’analisi applicata del comportamento (ABA). Gli autori proposero un modello di intervento comportamentale maggiormente naturale e interattivo per il bambino che non prevedeva la somministrazione di prove strutturate sotto la guida dell'adulto. In seguito all'applicazione di tale modello i risultati mostrano un miglioramento a livello della motivazione, delle risposte spontanee, del comportamento (riduzione dei comportamenti problematici) e della generalizzazione delle abilità. (Ingersoll et Schreibman, 2006; Losardo e Bricker, 1994). Le tecniche PRT consistevano in strategie motivazionali finalizzate a favorire il coinvolgimento spontaneo del bambino nelle interazioni con l’adulto; tra queste troviamo: l’utilizzo di rinforzi legati al comportamento del bambino, la proposta di attività altamente motivanti per lui con alternanza di compiti di mantenimento (abilità già acquisite) e compiti nuovi ed infine la condivisione dei materiali di gioco.

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Presentazione del modello ESDM

Secondo il modello ESDM, l’autismo può ostacolare l’accesso alle prime esperienze del bambino con il mondo circostante creando limitazioni che impediscono il corretto sviluppo comunicativo e sociale. La carenza di opportunità di apprendimento nel mondo sociale comporterebbe deficit gradualmente maggiori. A partire da tali considerazioni, il modello intende ridurre questa sequenzialità di eventi negativa ed incrementare le opportunità di apprendimento sociale attraverso due modalità principali:

  • “coinvolgendo il bambino in relazioni sociali coordinate e interattive per la maggior parte delle ore di veglia, volte a sviluppare la comunicazione interpersonale e simbolica e l'apprendimento sociale”
  • “attraverso un insegnamento intensivo per colmare i deficit sociali determinati dal mancato accesso al mondo sociale” (Rogers et al., 2000)

Il programma educativo è stato elaborato a partire da una ricerca sullo sviluppo di tutte le aree di funzionamento del bambino nella prima infanzia; alla creazione hanno dunque partecipato diverse figure professionali con competenze specifiche in merito agli ambiti individuati inclusa la psicologia dello sviluppo, la psicologia clinica, l'analisi applicata del comportamento, la logopedia, l'educazione speciale della prima infanzia e la terapia occupazionale. L’équipe multidisciplinare permette un'adeguata somministrazione e monitoraggio dell’ESDM, il confronto sui progressi ottenuti nelle varie dimensioni nonché il contributo delle singole competenze di ciascun professionista in termini di supervisione e consulenza in merito al piano di intervento. Unitamente ai professionisti precedentemente citati viene incluso nel team anche il medico curante del bambino e l'educatore in ambito di programmi di gruppo o di intervento in ambiente domestico. In linea con i principi della Family Centered Care, un ruolo importante è occupato dalla famiglia, elemento essenziale per la creazione e l’attuazione dell'intervento. Il modello prevede che i genitori intervengano nella definizione delle priorità dell'intervento, portando i loro bisogni e le loro necessità, e che partecipino attivamente nell'attuazione del piano educativo individuando opportunità o routine sociosensoriali che permettano la generalizzazione delle abilità in via di sviluppo. La loro valutazione funzionale completa del comportamento del bambino appare necessaria al fine di elaborare un piano per la strutturazione di comportamenti adeguati che saranno da guida ai genitori nell’interazione col bambino nella pratica quotidiana. Rogers e Dawson, nel manuale “Early Start Denver model. Intervento precoce per l'autismo. Linguaggio, apprendimento e reciprocità sociale” pubblicato nel 2010, riportano, inoltre, la necessità di supportare, orientare e sostenere i genitori ad avviare le tecniche del trattamento anche nella pratica della vita quotidiana. Un ulteriore aspetto fondamentale del programma riguarda l'individualizzazione. In primo luogo, è stato creato un programma di sviluppo individuale a partire dai bisogni evolutivi di ciascun bambino per ogni dominio valutato. Particolare importanza è data agli interessi e alle preferenze del bambino che guidano la strutturazione dei materiali utilizzati e delle attività proposte. Inoltre, la creazione del modello di intervento ha tenuto conto dei valori e dei bisogni famigliari integrandoli all'interno degli obiettivi da perseguire e ha previsto l'utilizzo del modello ESDM anche in ambito domiciliare e sociale. Infine, nonostante il modello si basi su procedure di insegnamento definite, a partire dal livello di modificabilità del soggetto il terapista è autorizzato ad apportare cambiamenti sulle modalità educative in caso in cui il progresso avvenga in modo limitato. La necessità di elaborare un programma di insegnamento intensivo si fonda sulla concezione degli autori che il ritardo nello sviluppo nei bambini con DSA sia in parte causato da una carenza di opportunità di apprendimento; l'intensività del programma, dunque, mira a colmare tale mancanza. Questa tipologia di insegnamento si basa sullo sviluppo fisiologico del bambino: se esposto a un'interazione incisiva con adulti responsivi e sensibili che utilizzano un linguaggio ricco, il bambino sviluppa migliore abilità linguistiche, relazioni sociali sicure con gli adulti e i coetanei nonché maggiore iniziativa sociale. Inoltre, gli studi di psicologia dello sviluppo, indicano che la privazione dell'interazione sociale comunicativa con l’altro influisce negativamente sulle abilità cognitive, linguistiche, sociali e di gioco simbolico, causa un incremento di comportamenti ripetitivi e stereotipati e, più in generale, influisce sullo sviluppo nei primi cinque anni di vita. (Rogers & Dawson, 2010) In tal senso, i bambini con DSA, richiedono un livello di interazione sociale quantomeno pari a quello a cui sono esposti i bambini a sviluppo “tipico”.

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Strategie di insegnamento dell’ESDM

Come precedentemente riportato, l’Early Start Denver Model si fonda su alcuni modelli di intervento, tra cui ABA, PRT e Modello Denver, dai quali ha tratto e adottato alcune pratiche e procedure di insegnamento. Secondo i principi dell'analisi applicata del comportamento (ABA) sviluppata da Lovaas nel 2002, gli elementi necessari all'apprendimento sono la presentazione di uno stimolo al quale il bambino deve prestare attenzione, la successiva produzione di un comportamento in risposta allo stimolo e la presenza di feedback che permetta al bambino di comprendere l'adeguatezza della performance esibita. Tra le pratiche ABA che permettono un insegnamento efficace vi sono:

  • Catturare l'attenzione ossia la necessità di conquistare l'attenzione del bambino;
  • Antecedente-Comportamento-Conseguenza, il bambino di fronte allo stimolo (antecedente) elabora un comportamento; la relazione tra lo stimolo e il comportamento è determinata dalla natura della conseguenza;
  • Sollecitare i comportamenti desiderati (Prompting) attraverso la proposta di istruzioni, gesti o materiali che agiscano da stimolo per il comportamento;
  • Gestire le conseguenze, la manipolazione delle conseguenze in termini di forza, tempi e frequenza del rinforzo;
  • Riduzione delle sollecitazioni (Fading) al fine di favorire una generalizzazione delle abilità acquisite nei vari contesti;
  • Modellare comportamenti (shaping);
  • Concatenare i comportamenti (Chaining), ovvero costruire sequenze comportamentali maggiormente complesse quali parlare, leggere, vestirsi, giocare ecc.
  • Valutazione funzionale del comportamento, al fine di sostituire il comportamento inadeguato con uno maggiormente funzionale.

Basato sui principi dell'ABA vi è inoltre la Pivotal Response Training (PRT). I principi del PRT permettono un incremento della motivazione del bambino e l'insegnamento di strategie che aiutano il bambino a rispondere a sollecitazioni differenti tramite la proposta di una grande variabilità di antecedenti. Vi sono evidenze che correlano positivamente l'utilizzo della PRT con interventi mirati allo sviluppo delle abilità linguistiche, di gioco, di imitazione e di gesti e comportamenti sociali in bambini con DSA. (Koegel & Koegel, 1987, Koegel et al, 1988, Schreibman & Koegel, 2005). Tra i principi PRT utilizzati anche nell’ESDM fondamentali vi sono il Rinforzo dei tentativi del bambino (1) e l’alternanza di richieste relative ai comportamenti nuovi con richieste relative ad abilità già apprese (2) utili ad incrementare la motivazione e a diminuire la frustrazione. Un ulteriore principio prevede che vi sia una relazione diretta dei rinforzi con le risposte e il comportamento del bambino (3). Ad esempio, se il bambino ricerca il contatto con il terapista per richiedere un gioco, al termine del suo comportamento sarà necessario porgergli il gioco desiderato. L’alternanza dei turni nelle attività (4) permette la creazione di un'interazione bilanciata tra il terapista ed il bambino nella quale ognuno ha la possibilità di guidare l'interazione e alternativamente seguire quella proposta. Nell'interazione con il bambino l'adulto deve garantire una presentazione chiara delle istruzioni o degli stimoli (5) che devono essere adeguati al compito o all'attività. Infine, con l’obbiettivo di incrementare la motivazione, rinforzare i comportamenti spontanei e l’iniziativa, è indicato dare al bambino la possibilità di scegliere l’attività e seguire la sua guida (6). Un’ultima componente del modello ESDM riguardante la dimensione affettivo-relazionale si deve al Modello Denver che focalizza l’attenzione su interventi provenienti dalle scienze della comunicazione e sullo sviluppo delle abilità di gioco. (Rogers et al., 1986; Rogers & Lewis, 1989; Rogers et al., 2000). Le pratiche educative utilizzate nell’ESDM mirano a:

  • modulare e ottimizzare gli stati emotivi, il livello di attivazione e l'attenzione del bambino al fine di creare una condizione ottimale per l'apprendimento
  • utilizzare emozioni positive in maniera chiara genuina e naturale
  • alternare il turno e l'interazione diadica durante tutto l'insegnamento
  • rispondere attivamente e in modo sensibile agli spunti comunicativi offerti dal bambino
  • strutturare numerose e differenti opportunità comunicative
  • elaborare attività con d'utilizzo di materiali, schemi e variabili differenti
  • utilizzare un linguaggio appropriato da un punto di vista evolutivo e pragmatico rispetto alle intenzioni e alle abilità comunicative del bambino
  • gestire in maniera efficace le transizioni tra un'attività e quella successiva

Citando Rogers e Dawson nel manuale “Early Start Denver model. Intervento precoce per l'autismo. Linguaggio, apprendimento e reciprocità sociale”, la combinazione di queste pratiche di insegnamento è stata studiata al fine di “coinvolgere il bambino In esperienze emotive positive con un'altra persona, portare l'attenzione del bambino verso gli stimoli sociali e rendere questi stimoli gratificanti virgola e per rafforzare la motivazione del bambino a continuare tali attività”.

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Organizzazione del modello

Il modello ESDM è un intervento realizzato per bambini con DSA a partire dall’età di 1-3 anni fino ai 4-5 anni e, fondandosi su procedure naturalistiche, può essere applicato a diversi contesti quali il nido, la scuola dell’infanzia e in ambito domestico. La somministrazione può essere effettuata sia dal professionista che dai genitori: la competenza del professionista nell'uso delle pratiche educative del modello richiede una formazione didattica e pratica da parte di un professionista esperto. Il programma prevede una valutazione iniziale del livello delle abilità del bambino attraverso l'utilizzo di una scheda di valutazione organizzata in quattro livelli di abilità corrispondenti a età differenti di sviluppo: 12-18 mesi (livello 1), 18-24 mesi (livello 2), 24-36 mesi (livello 3) e 36-48 mesi (livello 4). Essa indaga molteplici aree del funzionamento del soggetto, tra cui la comunicazione ricettiva, la comunicazione espressiva, le abilità sociali, l’imitazione, le abilità cognitive, di gioco, la motricità fine e grossolana, il comportamento e le autonomie personali quali mangiare, vestirsi, lavarsi e le autonomie domestiche. La scheda presenta per ciascuna area individuata un elenco di abilità specifiche che seguono l'andamento evolutivo. Partendo dal livello più basso, il valutatore somministra la scheda all’interno di un contesto di gioco, mirando a coinvolgere il bambino nelle attività proposte e a condurre insieme le dinamiche del gioco fino al suo completamento naturale o fino alla comparsa di comportamenti nuovi. L'operatore, quindi, interrompe l'attività e annota sulla scheda di valutazione del programma educativo quali comportamenti sono stati messi in atto e quali invece non lo sono stati. Per l'attribuzione del punteggio sono presenti quattro colonne: osservata dal terapista, riferita dai genitori, riferita dall'insegnante o altri e la sezione per il codice di codifica. Il valutatore dovrà identificare per ogni dominio le abilità consolidate, emergenti e quelle non ancora acquisite che si raggrupperanno generalmente in uno dei quattro livelli. In base ai risultati ottenuti è necessario stabilire gli obiettivi di apprendimento che ci si aspetta il bambino possa padroneggiare in un periodo di 12 settimane. Il manuale ESDM prevede che, tramite un processo di analisi del compito (task analysis), ciascuna abilità da insegnare venga suddivisa in una sequenza di passaggi evolutivi, i quali rappresentano dei livelli intermedi di insegnamento che conducono gradualmente alla totale padronanza dell’obbiettivo. A partire dall’acquisizione dei vari passaggi intermedi si possono creare obiettivi di graduale difficoltà. I livelli intermedi sono utili non solo per il bambino ma anche per l’operatore in quanto permettono di orientare l'insegnamento in ogni incontro. Sulla base dei principi dell’ESDM all'interno di una singola sessione si lavora sia all'acquisizione del passaggio da apprendere sia al mantenimento delle abilità già consolidate. Ciascun bambino è dotato di un quaderno di trattamento che include gli obiettivi del piano educativo, l'analisi del compito e i fogli di raccolta dei dati giornalieri. Al termine dei tre mesi verrà effettuata un'ulteriore valutazione utilizzando la stessa scheda. Successivamente verranno sviluppati nuovi obiettivi di apprendimento e verranno riesaminati quelli precedenti per impostare il piano di intervento del successivo ciclo.

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Strategie per l’evoluzione dello sviluppo

Il manuale ESDM fornisce una guida pratica per l’operatore in merito alle strategie da utilizzare per la creazione di attività di apprendimento. In primo luogo, definisce gli elementi cardine delle interazioni di insegnamento:

  1. L'attività inizia seguendo l'interesse del bambino;
  2. L'operatore segue la guida del bambino e sostiene le dinamiche importanti attraverso il linguaggio e l'uso di emozioni positive;
  3. Compito dell'adulto è rendere l'attività stimolante al fine di sostenere l'attenzione e la motivazione del bambino;
  4. Ognuno dei partecipanti contribuisce alla creazione del gioco condiviso;
  5. L’adulto inserisce variazioni e amplificazioni del gioco per favorire l'acquisizione di nuove abilità;
  6. L'adulto stimola lo sviluppo dell'imitazione nel bambino all'interno di una relazione di scambio reciproco;
  7. La comunicazione del bambino si alterna in modo bilanciato con quella dell'adulto;
  8. L'operatore contribuisce alla modulazione dell'attività promuovendo lo sviluppo di un gioco sociale e simbolico

Diventare un compagno per il bambino

Al fine di creare il tipo di interazione sopra indicata, appare fondamentale diventare un compagno di giochi per il bambino. I bambini sono maggiormente disponibili all'interazione con l'altro se viene proposto un oggetto particolarmente motivante che li porta ad osservare il suo funzionamento ed in seguito ad utilizzarlo all'interno di un gioco condiviso. Per comprendere quale elemento o attività risulta interessante e/o gratificante per il bambino bisogna osservare il suo comportamento all'interno di un setting costituito da giochi adeguati alla sua età che siano accessibili ed organizzati. Se i bambini non sono motivati sufficientemente dai giocattoli è possibile proporre “giocattoli sociali sensoriali” quali bolle, palloncini o pompon che possano generare un'energia positiva nel bambino e un atteggiamento di disponibilità. Una volta compreso l'elemento di interesse è necessario attirare l'attenzione del bambino su sé stessi, elemento fondamentale per la possibilità di apprendimento. Un fattore che contribuisce a tale finalità è l'eliminazione dei distrattori all'interno del setting occultando tutto ciò che può rappresentare uno stimolo per il bambino. Inoltre, il manuale indica che l'operatore deve assumere un ruolo centrale posizionandosi di fronte al bambino a una distanza adeguata e comunicando con lui “attraverso gli occhi e il volto” (Contatto di sguardo, espressioni nella mimica facciale). Quando i bambini iniziano a sentirsi a proprio agio rispetto alla presenza dell'operatore è possibile procedere nell'interazione e assumere un ruolo all'interno del gioco. In questa fase l'operatore può partecipare in maniera attiva iniziando ad imitare le modalità di gioco del bambino all'interno di un gioco parallelo. È possibile unirsi al gioco del bambino imitando, ampliando e variando le modalità di gioco al fine di raggiungere nuovi obiettivi. Infine, l’adulto, partendo dalla definizione del proprio ruolo nell’attività, può procedere con l’utilizzo di tecniche che gli permettono di ottenere gradualmente il controllo necessario all’apprendimento attraverso il gioco. Tra queste, il controllo del materiale da parte del terapista e l’alternanza dei turni sono di grande importanza.

Creazione di routines di attività condivise

L’ulteriore dimensione da considerare per sviluppare interazioni di apprendimento è quella delle Routines di attività condivise. Secondo la definizione di Bruner, in un’attività congiunta due persone condividono la stessa attività di gioco che possono co-costruire ed assumono entrambe un ruolo chiave imitandosi vicendevolmente o scambiandosi alternativamente il turno. Rogers e Dawson riferiscono nel manuale come le attività condivise siano la cornice per l’insegnamento nell’ESDM, sottolineando la presenza di uno strumento di grande ricchezza in esse contenuto: la dimensione sociale. La strutturazione delle routines di attività congiunte fornita dal modello ESDM si compone di diverse fasi:

  • L’apertura (attività in parallelo, identificazione dei ruoli);
  • Lo sviluppo del tema di gioco (l’adulto ed il bambino co-costruiscono la prima attività di gioco);
  • Introduzione di variazione nell’attività
  • La chiusura, ossia il momento di riordino del materiale e di transizione verso una nuova attività

Tra le varie tipologie di routines vi sono quelle condivise con gli oggetti: attività condivise di tipo tridiadico (adulto-oggetto-bambino) nelle quali il materiale rappresenta il tema del gioco. L’attenzione di entrambi i partecipanti è rivolta agli oggetti in uso e l’elemento sociale si esplica attraverso le tecniche sopra descritte. Tali attività sono cruciali per lo sviluppo dell’attenzione condivisa nella quale i due soggetti condividono le intenzioni e le emozioni. In particolare, essa si manifesta nei bambini attraverso (Mundy et al., 1986):

  • l’esecuzione di azioni quali porgere, mostrare, indicare oggetti
  • la triangolazione dello sguardo da un oggetto all’altro
  • l’osservazione di oggetti per condividere il divertimento con l’altro

Un modello di attività diadico (bambino-adulto) è quello delle routines sociali sensoriali nelle quali l’attenzione, al contrario delle prime, si focalizza sull’adulto. Tale situazione prevede che le persone si impegnino nella stessa attività reciprocamente attraverso lo scambio di turno, l’imitazione reciproca, la comunicazione verbale o non verbale (gestuale, mimica) e la costruzione reciproca delle attività. La dimensione sociale delle routines sociali sensoriali è difatti, lo scambio sociale che tipicamente avviene in giochi quali “il cucù”, “il bubù settetè”, la produzione di canzoncine accompagnate dalla riproduzione gestuale del testo come “i due liocorni” o attraverso giochi di movimento come “il nascondino”, “spingersi sull’altalena”, “rincorrersi e prendersi”. In questa tipologia di attività l’attenzione condivisa non si focalizza su azioni parallele con gli oggetti come nel rapporto triadico, bensì sugli elementi dell’altra persona (i movimenti, il volto, il corpo, la voce e i gesti). Per la creazione delle routines sociali sensoriali è necessario che bambino e adulto si trovino l’uno di fronte all’altro; l’adulto inizia un’attività particolarmente attrattiva per il bambino e la prosegue fino all’apice del suo interesse. In seguito, interrompe l’attività in attesa che il bambino comunichi il suo desiderio di voler continuare, tale comunicazione può avvenire attraverso modalità ben chiare oppure attraverso il contatto di sguardo, la vocalizzazione, il protendersi verso l’altro. In risposta alla richiesta da parte del bambino, il turno torna all’adulto che riprende l’attività interrotta. Le routines sociali possono avere valenza differente sulla base della tipologia del contatto, del movimento o del ritmo utilizzato: i movimenti lenti e ritmici apportano una percezione di tranquillità, al contrario il rimbalzo, il solletico o il dondolio comportano la percezione opposta. È necessario che il terapista comprenda l’effetto di tali azioni sul singolo bambino e sappia utilizzarle per garantire il livello emotivo ottimale per l’apprendimento. Nonostante quanto riportato, sono previste alcune situazioni nelle quali si introduce l’utilizzo di oggetti nelle routines sociali sensoriali: alcuni bambini non tollerano di buon grado le manipolazioni o il contatto fisico, dunque, è possibile adottare alcuni oggetti come le bolle di sapone, le trottole o i palloncini in funzione di mediatori dell’attenzione del bambino sull’adulto. Il modello ESDM prevede che vi sia un’alternanza nell’utilizzo delle due tipologie di routines in quanto apportano benefici differenti: quelle con gli oggetti offrono le basi per l’insegnamento di abilità cognitive, manipolatorio-prassiche, comunicative e di linguaggio, imitative e di gioco mentre le routines sociali sensoriali permettono l’accesso al mondo sociale e l’incremento della percezione degli scambi sociali con valenza positiva. Altre tipologie di routines di attività condivise possono essere la merenda, le routines di apertura e chiusura, le transizioni e il mettere a posto. Quest’ultima riguarda la sistemazione dei giochi nella conclusione dell’attività. Inizialmente sarà il terapista ad occuparsi di questo passaggio ma gradualmente verrà richiesto il contributo da parte del bambino, prima nel sistemare un pezzo solo fino al riordino autonomo. Tale routine permette di avere sempre un setting pulito, libero da distrattori e di facilitare in tal modo la focalizzazione dell’attenzione sull’attività successiva. Inoltre, questa fase può essere intesa come un ulteriore componente del gioco che sollecita abilità cognitive e motorie (aprire e chiudere i contenitori, associare e classificare i materiali, gestire lo spazio) nonché la comprensione della comunicazione in entrata ed il rispetto della consegna (“passami le palline”, “metti dentro/fuori”). Infine, considerata la difficoltà nei bambini con DSA nell’anticipazione del tempo successivo poiché focalizzati sul presente, tale routine è un’opportunità per lavorare sulle abilità di pianificazione e di sequenze temporali, introducendo al bambino il concetto temporale di futuro (prima, dopo). Le transizioni da a un'attività all'altra iniziano con il mettere a posto: è importante che i bambini sappiano muoversi, in assenza di una guida, nello spazio del setting per iniziare attività nuove; ciò implica che essi si muovano in maniera finalizzata nello spazio e mentalmente abbiano già l'obiettivo che intendono raggiungere, essendo già pronti a partecipare all'attività ed apprendere. A guidare il ritmo delle attività è il terapista che insegna al bambino il luogo indicato per ciascun compito; ad esempio, i libri sul tappeto, i saluti vicino alla porta, le attività grafiche a tavolino.

Gestione dei comportamenti problema

I comportamenti problema possono causare conseguenze sociali che influiscono negativamente sull'apprendimento e lo sviluppo del bambino; appare dunque cruciale che essi vengano sostituiti con comportamenti maggiormente accettabili e comprensibile da parte degli altri. Quando si manifestano comportamenti indesiderati il modello ESDM suggerisce di lavorare sulla loro identificazione e di raccogliere informazioni in merito alla frequenza con cui si presentano. Nel caso in cui siano comportamenti pericolosi o distruttivi gli autori raccomandano di contattare una figura specializzata nell'analisi del comportamento che sia in grado di eseguire l'analisi funzionale e di utilizzare un approccio di sostegno dei comportamenti positivi. Le linee guida in caso di comportamenti auto-aggressivi indicano l’urgenza di contattare il medico curante del bambino. Al contrario, se si manifestano comportamenti non pericolosi per l'individuo o per gli altri, l'indicazione è di lavorare sull’addestramento dei genitori e sulle modalità di trattamento. L'approccio proposto dal modello si basa sui principi del supporto dei comportamenti positivi (PBS) (Carr et al., 2002; Duda et al., 2004). La PBS è una scienza applicata dei principi ABA che utilizza strategie di rinforzo educative al fine di ampliare il repertorio comportamentale del soggetto. Essa intende insegnare al bambino modalità adattive convenzionali per rispondere ai propri bisogni, esprimere i propri sentimenti e favorire l'autonomia. Una volta identificato il comportamento problema, la PBS prevede che vi sia l'identificazione del comportamento convenzionale: chiedere una “pausa” invece di allontanarsi dall'attività, comunicare verbalmente o gestualmente “ancora” invece di afferrare direttamente l'oggetto oppure dire “no/basta” invece di manifestare frustrazione. Successivamente al bambino viene insegnato l'utilizzo del comportamento adeguato attraverso la simulazione di una situazione in cui esso viene sollecitato prima della comparsa di quello indesiderato. L’estinzione del comportamento problema, dunque, si può ottenere tramite la privazione di rinforzi positivi in risposta: l’operatore non focalizza l’attenzione né attribuisce un significato a tale comportamento, bensì sposta l’attenzione su uno stimolo nuovo o su un comportamento maggiormente adeguato. Una componente di comportamenti problema non pericolosi è rappresentata dalle stereotipie ossia comportamenti ripetitivi del corpo oppure con l’utilizzo di oggetti che sono altamente pervasivi. Una strategia per estinguerle può essere rappresentata dalla modificazione della stereotipia attraverso la proposta di azioni alternative con l’utilizzo di un rinforzo estrinseco che abbia un valore più forte rispetto alla stereotipia.

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Prove di efficacia del modello ESDM

In uno studio di Dawson e colleghi del 2010, l’ESDM è stato utilizzato con successo come trattamento intensivo di 20 o più ore settimanali in ambiente domestico; la somministrazione dell’intervento è stata effettuata da terapisti qualificati che hanno fornito una formazione anche ai genitori. Lo studio è stato svolto su un campione di 48 bambini con ASD tra i 18 e i 30 mesi, assegnati casualmente a due gruppi: uno ha ricevuto un intervento comunitario ed uno l’ESDM. La rivalutazione eseguita a due anni dall’inizio del trattamento mostra un significativo miglioramento nel gruppo ESDM, in particolare a livello del Quoziente Intellettivo, delle abilità comunicative quali linguaggio ricettivo ed espressivo e del comportamento adattivo. I ricercatori hanno mostrato inoltre, attraverso tale studio, la capacità dell’ESDM di accelerare lo sviluppo generale del bambino. L’ESDM ha avuto effetti positivi anche quando somministrato dai genitori; Vismara e collaboratori nel 2009 hanno previsto 1-2 ore settimanali nelle quali il terapista somministra il trattamento al bambino e insegna al genitore come applicare l’ESDM a casa. Dallo studio si evince che molti familiari hanno riprodotto con fedeltà il modello e hanno contribuito al cambiamento nelle abilità sociali e linguistiche dei propri figli. Un’ulteriore prova di efficacia è riportata nello studio di Rogers e colleghi del 2012 che hanno esaminato un intervento di 12 settimane a bassa intensità (1 ora con il terapista a settimana) erogato dai genitori per bambini a rischio di DSA di 14-24 mesi. I risultati suggeriscono che il miglioramento del bambino sia correlato al numero di ore di intervento ricevute e all’età del bambino: il numero di ore di intervento permetteva di predire la quantità di cambiamento che avrebbe prodotto su ogni aspetto valutato; inoltre, bambini con età vicina ai 24 mesi all’inizio del trattamento hanno mostrato un miglioramento minore rispetto ai più giovani. Lo studio dimostra che l’intervento in età precoce comporta un maggiore guadagno dello sviluppo e la riduzione dei sintomi a breve termine. Anche in merito all’intensità dell’intervento gli autori riportano che i bambini che hanno ricevuto più ore di intervento hanno ottenuto un maggiore guadagno dello sviluppo così come delle abilità verbali e non verbali. Citando gli autori: “L’approccio “aspetta e vedi” nell’DSA precoce deve essere sostituito da una mentalità “agisci ora” Quando viene diagnosticato il DSA nei bambini, i professionisti dovrebbero aiutare le famiglie indirizzandole verso i servizi territoriali che offrono interventi di alta qualità ma anche guidarli e formarli per offrire opportunità di apprendimento di alta frequenza e qualità in ambito domestico. (Rogers et al., 2012).

La revisione sistematica della letteratura più aggiornata sul modello ESDM raccoglie i risultati di ricerche che sono state pubblicate tra il 2010 ed il 2022 al fine di valutare l’efficacia del modello Early Start Denver Model implementato dai genitori (P-ESDM). (Jhuo et al., 2022). Nei 13 articoli selezionati, la maggior parte degli studi aveva un campione di bambini di età compresa tra 12 e 59 mesi con DSA ai quali era stato somministrato un intervento di 1-2 ore alla settimana per 3 mesi. Globalmente, per quanto riguarda l’efficacia dell’intervento sul bambino, la maggior parte degli studi ha riportato un miglioramento nelle abilità cognitive, linguistiche, imitative, attentive e sociali. (Jhuo et al., 2022). Sono emersi, inoltre, effetti positivi anche sui genitori in quanto l’accesso al programma di formazione ha permesso loro di contribuire ai bisogni di apprendimento del bambino, incrementando così la fiducia e la capacità personale e riducendo lo stress genitoriale. Gli autori concludono la revisione con due raccomandazioni per la somministrazione del P-ESDM: la valutazione di vantaggi e limiti nell’utilizzo della telemedicina, attualmente in uso per la formazione genitoriale in varie realtà; e l’inclusione maggiore della figura paterna nell’intervento.

Un esempio di applicazione del modello nella realtà italiana è stato offerto da uno studio condotto presso l’Ospedale Burlo di Trieste che ha indagato l’efficacia di un intervento precoce di bassa intensità (3 ore a settimana per 15 mesi) in un gruppo di bambini di età compresa tra 20 e 26 mesi. (Devescovi, et al., 2016). La somministrazione è effettuata da terapisti formati in associazione all’intervento attivo dei genitori e del sistema scolastico. In linea con i risultati della revisione precedente, sono emersi miglioramenti statisticamente significativi nelle aree linguistiche, cognitive e una riduzione dei sintomi dell’autismo. La valutazione standardizzata è stata effettuata pre e post trattamento attraverso l’uso di: Bayley Scales of Infant and Toddler Development (Bayley-III), Weschsler Preschool and Primary Scale of Itellingence (WPPSI-III), Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS-2). Da questi risultati è possibile ipotizzare l’efficacia di un intervento basato sui principi ESDM di intensità minore che coinvolge genitori ed insegnanti.

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