Le famiglie, protagoniste dell’intervento
In passato il ruolo delle famiglie nel rapporto con i servizi era considerato in modo spesso ambiguo. Kershow, nel 1965, scriveva che la collaborazione dei genitori nei confronti del percorso riabilitativo del proprio bambino poteva consistere in un impegno concreto, finalizzato a facilitare lo sviluppo armonico del piccolo, ma anche in una semplice acquiescenza alle proposte degli operatori: “A un livello minimo [la cooperazione] implica che i genitori non si oppongano attivamente a ciò che noi e i nostri colleghi stiamo cercando di fare, mentre a un livello massimo essa consiste nel fatto che tutta la famiglia lavori volontariamente per fornire al bambino disabile il migliore ambiente possibile e, nei fatti, dia un contributo alla terapia educativa, emotiva, sociale e anche fisica di cui [il bambino] ha bisogno.”
Da circa vent’anni si è iniziato a porre l’accento sull’importanza del contributo dei genitori di bambini disabili alle attività terapeutiche ed educative proposte dagli operatori.
Molte ricerche, infatti, già negli anni ’70, dimostravano la maggiore efficacia dei programmi a cui la famiglia prendeva parte attivamente. Da allora, gli studi sul ruolo della famiglia si sono moltiplicati, sviluppandosi in direzioni diverse che hanno modificato gradualmente la posizione dei genitori nella collaborazione con gli operatori.
Il modello ecosistemico proposto da Brofenbrenner ha rivestito un’importanza fondamentale per la riorganzzazione delle ricerche e dei modelli d’intervento sulla disabilità. Esso metteva in rilievo l’influenza che i differenti sottosistemi sociali esercitano sul bambino. La famiglia in cui egli cresce e si sviluppa è uno di questi microsistemi. A loro volta, bambino e famiglia agiscono e reagiscono in funzione di altri sottosistemi più lontani, ma altrettanto detreminanti.
Applicando questo quadro teorico all’educazione speciale, risulta che né la natura del deficit, né gli interventi volti a ridurlo, possono essere considerati a prescindere dall’ecosistema familiare. Il benessere del bambino e le sue capacità di sviluppo sono legati alla crescita della famiglia nel suo insieme; le risorse professionali dovranno quindi unirsi a quelle familiari per poter proporre un progetto coerente. Ciò premesso, sarà necessario comprendere la situazione specifica di ciascuna famiglia, accordarle fiducia, restituirle responsabilità e competenze.
La comparsa di progetti educativi e piani individualizzati (PEI) nella pratica dei servizi specializzati offre oggi un valido modello per realizzare questa indispensabile integrazione di risorse. Permettere ai genitori di partecipare all’elaborazione di un progetto educativo significa, da un lato, realizzare i principi di appropriazione (enabling) e autodeterminazione (empowering) (Dunst et al., 1988), dall’altro, apprendere a lavorare insieme, chiarendo ciascuno il proprio ruolo e le proprie aspettative e affrontando gli inevitabili contrasti in modo costruttivo.
Nella pratica, però, non sempre (o, forse, quasi mai) si riscontra l’effettiva messa in atto di tali propositi e i rapporti tra genitori e professionisti restano, il più delle volte, difficili, conflittuali e poco articolati. Infatti, nonostante, nel nostro Paese, la legge 104/92 sancisca chiaramente il dovere da parte degli operatori di coinvolgere le famiglie nell’iter diagnostico, riabilitativo ed educativo dei bambini, spesso si presentano vari problemi che mettono in contrasto o fanno allontanare operatori e famiglie.
Uno dei problemi più frequenti, in questo senso, è quello della segmentazione dei servizi: i bambini disabili e le loro famiglie hanno spesso bisogno di essere seguiti da team multidisciplinari e, talvolta, la moltitudine dei professionisti e delle agenzie coinvolte costituisce un quadro frammentario che non favorisce la necessaria coordinazione fra gli interventi.
Un altro problema che si riscontra frequentemente (Sloper, 1999) è come l’attività dei servizi spesso si basi esclusivamente sulla gravità della menomazione, trascurando completamente altri fattori che possono essere fortemente correlati al benessere della famiglia, seppure indipendenti dal livello di gravità: ad esempio, il livello socioculturale, lo status occupazionale della madre, la quantità di cure e di assistenza richieste dal bambino, l’estensione e la qualità della rete di supporto sociale.
La ricerca condotta da Zanobni, Manetti e Usai (2002) ha dimostrato che tutti questi elementi incidono sulla percezione della situazione e sulle strategie di risposta attivate.
Secondo Cunnigham (1996) interventi specifici dovrebbero essere rivolti al potenziamento del supporto sociale e dei meccanismi di attivazione dei membri della famiglia di un bambino disabile, poiché questi sono gli elementi predittivi di una situazione di benessere delle persone coinvolte: “gli interventi dovrebbero focalizzarsi sull’aiuto di quelle famiglie a rischio per la presenza di meccanismi di coping negativi, che facilmente mostrano scarse risorse psicologiche, locus of control esterno e tratti nevrotici.”
Centrare l’intervento sui bisogni della famiglia è, secondo Baxter e Kahn (1999), una condizione irrinunciabile per i programmi di intervento precoce rivolti alle famiglie di bambini con handicap. Le famiglie esprimono il bisogno di essere coinvolte nella pianificazione degli interventi ed i servizi sembrano rispondere in modo non sempre congruente con le richieste; è da più fonti sottolineato come le informazioni siano tra i bisogni più comunemente espressi (studio di Bailey, Skinner e Correa, 1999): informazioni sui servizi per il proprio figlio, sulla sua disabilità, su come insegnare al proprio figlio e su come reagire ad alcuni comportamenti problema.
La carenza della comunicazione e il connesso bisogno di ottenere informazioni si può applicare in modo pertinente anche agli interventi di riabilitazione.
Ancora oggi, infatti, sembra essere diffuso fra gli operatori il malcostume di tenere la famiglia all’oscuro sul percorso riabilitativo: la famiglia non solo, spesso, non conosce le attività svolte dal proprio figlio, ma talvolta non ha la minima idea degli obiettivi che il servizio intende raggiungere o che ha raggiunto. In modo un po’ provocatorio si può pensare che, in alcuni casi, questa lacuna nella comunicazione nasconda una carenza di programmazione e pianificazione a sua volta collegata a una mancanza di consapevolezza da parte degli stessi operatori su dove si voglia andare. È ben noto come sia difficile valutare con stretti criteri di scientificità l’efficacia di alcuni percorsi riabilitativi, tuttavia occore fare uno sforzo nella direzione di una puntuale progettazione, di una verifica e una comunicazione del proprio operato, sia per migliorare l’efficacia dell’intervento rivolto al bambino, sia per garantirsi la collaborazione attiva della famiglia.
Dai dati raccolti dalla ricerca di Zanobini, Manetti e Usai sulle famiglie di bambini disabili emerge come la partecipazione diretta all’attività di riabilitazione sia associata a stili di coping orientati alla rivalutazione positiva dell’evento. Occorre perciò sottolineare che il fatto di credere nell’efficacia di un intervento previene i rischi connessi all’assunzione di un atteggiamento pessimistico e di strategie di attivazione passive (Hastings e Johnson, 2001). Questo porta a fare una breve considerazione sull’equilibrio di potere nella relazione tra professionisti e famiglia: ai fini del giudizio sull’efficacia dell’intervento, viene evidenziata l’importanza di creare un clima collaborativo, con trattamento paritario dei genitori e attraverso il loro coinvolgimento nei processi decisionali, contro la messa in atto di un rapporto di dominanza sulla famiglia, che si manifesta con l’utilizzo eccessivo del gergo tecnico, con la tendenza a “inquisire” i genitori e con la scarsa disponibilità all’ascolto.
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CONCLUSIONI |
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BIBLIOGRAFIA |
Ringraziamenti |
Tesi di Laurea di: Rachele SFORZI |