Genitorialità, famiglia e disabilità
La nascita di un bambino e, di conseguenza, la trasformazione della coppia coniugale a quella genitoriale, comporta quasi sempre un periodo di crisi, poiché questo evento richiede di mettere in gioco le capacità di adattamento dei singoli individui e della precedente relazione.
Il modo in cui la coppia affronta tale cambiamento e riesce a riorganizzarsi, includendo nel proprio mondo affettivo anche il figlio appena nato, avrà una forte incidenza sia sulle modalità con cui i due coniugi si assesteranno nel nuovo ruolo genitoriale, sia sull’interazione padre/madre-bambino, fondamentale per la determinazione della struttura psichica del piccolo. Il bambino, da parte sua, avrà, sin dai primi giorni di vita, un ruolo molto attivo e, a seconda delle sue caratteristiche personali, contribuirà ad orientare e a selezionare i modelli interpretativi genitoriali che definiranno la qualità della relazione.
Pur nella consapevolezza di non dover raggiungere la perfezione, un “genitore quasi perfetto” (come lo definisce Bettelheim) ha bisogno di coltivare approfonditamente e sistematicamente la sua formazione personale, per riuscire a rispondere in modo adeguato ai bisogni del figlio.
Educare, infatti, non significa solo accudire, assistere, assicurare la sopravvivenza del bambino, ma vuol dire anche facilitare lo sviluppo delle potenzialità insite nella persona, favorirne la piena realizzazione, seguirne la crescita e le trasformazioni, al fine di pervenire ad una formazione armoniosa ed integrale.
La relazione è la base indispensabile per realizzare un processo educativo: entrare in relazione educativa significa coinvolgersi completamente, giocarsi al cento per cento e costruire con il figlio un legame di fiducia reciproca.
Il ruolo del genitore nella crescita del bambino è quello di “fornire una base sicura da cui [il piccolo] possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato. In sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibli, pronti a rispondere quando chiamati in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente necessario” (J. Bowlby, 1989).
Il bisogno di “educazione” da parte dei genitori è reso evidente da una molteplicità di motivazioni. Esso, infatti, si giustifica oggi per diverse ragioni, a cominciare dal desiderio, che i genitori esprimono esplicitamente, di essere informati sullo sviluppo dei figli e sul ruolo educativo che sono chiamati a svolgere. Allo stesso modo, è evidente che esistono informazioni e competenze adatte per rispondere ad un tale bisogno, così come altrettanto chiaro è che la maggiore consapevolezza dei genitori riguardo al carattere educativo del loro ruolo arricchisce la qualità delle relazioni all’interno di una comunità (Pourtois-Desmet, 1989). Le attività di educazione familiare, infatti, concorrono a promuovere il benessere psicologico delle persone, mettendole in condizione di gestire al meglio le relazioni con i figli e, più in generale, con gli altri. Gli interventi di educazione familiare vanno quindi realizzati in una prospettiva “sistemica”, partendo, cioè, dal presupposto che lo sviluppo degli individui è frutto della molteplicità delle relazioni e delle situazioni che essi si trovano a vivere.
Nel momento in cui si acquista la consapevolezza che lo sviluppo del bambino non è solo frutto del patrimonio biologico, ma è influenzato dalle sue relazioni con gli adulti e l’ambiente sociale in cui egli nasce e cresce, ecco che diviene chiara la necessità di un intervento itegrato e complessivo.
La prospettiva di educazione familiare che dovremmo adottare non è quella “riparativa”, che si impegna a recuperare il danno, bensì quella “promozionale”, che valorizza le risorse familiari esistenti e mette i genitori in grado di dare il meglio di sé e di costruire autonomamente uno stile genitoriale denso di “razionalità riflessiva”.
Occorre promuovere la cultura della genitorialità, coinvolgendo in questo processo tutti i genitori, nel rispetto della specificità dei bisogni, con impegno particolare verso coloro che hanno figli disabili. L’educazione dei genitori non può essere intesa secondo una tradizionale logica trasmissiva del sapere, ma deve partire dagli stili educativi messi in atto, per discuterli e confrontarli, in maniera da migliorarli e da rispondere sempre più precisamente alle esigenze dei figli.
La famiglia nei confronti della disabilità
La vita delle famiglie con figli disabili è un fenomeno complesso, difficilmente ed ingiustamente riconducibile a modelli interpretativi unidirezionali, che talvolta hanno come effetto l’esclusione dei familiari da importanti processi decisionali ed educativi.
La relazione con i genitori costituisce un valido supporto per la crescita di un figlio, anche quando (come accade nella maggior parte dei casi) essa non risponde perfettamente a tutte le sue esigenze.
L’interesse scientifico per le famiglie dei disabili è relativamente recente (Dell’Aglio, 1994). Già intorno agli anni Cinquanta, però, hanno iniziato a svilupparsi filoni di studio incentrati su questa problematica che affrontavano principalmente il ritardo mentale e le difficoltà che incontravano le famiglie dei bambini con questa patologia.
I quesiti che maggiormente hanno stimolato l’interesse dei ricercatori in quegli anni riguardavano i risvolti psicologici della disabilità, il modo in cui la disabilità mentale di un bambino condizionava le relazioni sociali e il benessere generale della famiglia, e le possibilità di soluzione che la società offriva.
Un primo importante tentativo di rispondere a questi interrogativi fu quello del sociologo Bernard Farber che, all’inizio degli anni ’60, pubblicò tre volumi che trattavano questo argomento. Le sue ricerche, fatte su un campione di circa 230 famiglie, si basavano sull’assunto che la presenza di un bambino con ritardo mentale grave determina un arresto nel ciclo di vita della famiglia; l’obiettivo della ricerca era quello di individuare gli stili e le strategie più funzionali al mantenimento dell’integrità familiare, tenendo sempre presente l’interazione di numerose variabili che spesso portavano ad osservare esiti profondamente diversi in seguito a scelte pressochè analoghe.
L’approccio della scuola psicoanalitica sul tema della relazione genitore-figlio disabile è caratterizzato da una rappresentazione necessariamente patologica delle famiglie con bambini handicappati e da una “lettura univoca dei processi familiari, dove la madre comunque, sia essa normale o patogena, è portata a costruire con il figlio una relazione anomala” perché la nascita di un bambino disabile, quindi non rispondente alle aspettative della madre, provoca inevitabilmente una ferita narcisistica (Zanobini, Manetti, Usai, 2002).
Proprio questa fase iniziale, in cui i genitori vengono posti di fronte ad una, tanto inaspettata quanto temuta, dichiarazione di disabilità del loro bambino, ha suscitato l’interesse di molti studiosi che si sono quindi dedicati all’analisi e alla descrizione delle reazioni possibili delle famiglie di fronte all’evento disabilità.
Bicknell, nel 1983, propose un modello di funzionamento familiare secondo il quale, per raggiungere un buon adattamento, è necessario che la famiglia attraversi e superi alcune fasi obbligatorie, simili a quelle che si manifestano normalmente in una situazione di lutto: shock iniziale, negazione dell’evento, ambivalenza e senso di colpa, patteggiamento, accettazione e riorganizzazione.
Il primo periodo dopo la nascita di un bambino disabile è sempre molto critico perché i genitori tendono a mettere in atto comportamenti di difesa che possono portare al misconoscimento delle anomalie del figlio, al rifiuto della diagnosi, all’allontanamento dalle strutture sanitarie e riabilitative e alla sfiducia verso qualsiasi tipo di trattamento, con ovvie negative ripercussioni sullo sviluppo del piccolo.
Nonostante questa descrizione corrisponda, il più delle volte, ad una rappresentazione realistica dell’ambiente e del clima che circondano un bambino disabile, gli operatori, da parte loro, dovrebbero fare attenzione a non cadere in atteggiamenti di colpevolizzazione delle famiglie e a non interpretare tutti i comportamenti dei genitori alla luce del preconcetto della non accettazione. Scrive, a tal proposito, Dell’Aglio (1994): “Per molti anni l’handicap, nel suo impatto psicologico sulla famiglia, è stato visto per lo più […] come uno stress, e gli atteggiamenti genitoriali sono stati per lo più inquadrati come una reazione allo stress”.
Per stress, nell’accezione comune, si intende una condizione in cui l’individuo è sottoposto, per un certo periodo di tempo, ad un dispendio di energie (fisiche, intellettive, emozionali, ecc.) superiore al livello da lui considerato accettabile e si indentifica quindi con una condizione negativa e indesiderabile.
La definizione scientifica, invece, comprende due componenti antitetiche che fanno dello stress una “medaglia a due facce” (Farnè, 1999) :
- eustress - condizione positiva che può contribuire a migliorare la salute rendendo gli individui meno sensibili alla monotonia e mantenendo alte le capacità di attenzione, memoria, apprendimento, ecc.;
- distress - accumulo di stimoli stressori che genera nell’organismo una risposta eccessiva a livello sia fisiologico che psichico; tale condizione può determinare la comparsa di fenomeni di ansia, tensione, depressione ed altri disturbi.
Fino agli anni Ottanta la letteratura ha associato all’evento disabilità solo la dimensione negativa dello stress, dando una visione univoca e semplicistica delle famiglie di persone disabili, che trascurava totalmente i fattori di positività; il quadro, piuttosto omogeneo, che veniva a delinearsi, si basava sull’ipotesi di reazione disadattiva allo stress, la quale prevedeva, in modo quasi inevitabile, una risposta patologica da parte della famiglia che trovava frequentemente espressione nella comparsa di disturbi della personalità nei genitori, problematiche relazionali e condotte non adeguate alla cura e alla crescita armonica dei figli.
Questa prospettiva è stata in seguito ampiamente criticata sotto molti aspetti, discutendo anche l’opportunità stessa di studiare le modalità di adattamento ad un evento stressante da parte di una famiglia, per la difficoltà oggettiva di progettare disegni di ricerca che tengano conto delle realtà familiari come si presentavano prima dell’insorgenza della disabilità.
Bisogna comunque considerare che, in effetti, il distress genitoriale è un elemento spesso presente nelle famiglie con bambini portatori di handicap ed è assolutamente importante non sottovalutarlo; esso, infatti, può avere conseguenze su molti aspetti della vita della persona: può avere effetti psicosomatici (cefalee, tachicardie, ulcere, gastriti, ecc.), effetti psicologici (depressione, irritabilità, ecc.), effetti sulla vita di coppia (crisi, incomprensione, separazione, ecc.), effetti sulla relazione con i figli (assenza di dialogo, atteggiamenti autoritari o permissivi, introversione, ecc.), effetti sulla funzione genitoriale (deresponsabilizzazione, delega, fuga, ecc.), effetti sull’attività professionale (perdita di concentrazione, minore produttività, ecc.) ed effetti sulle relazioni extra-familiari (isolamento, perdita di amicizie, ecc.).
Ogni genitore, inevitabilmente sottoposto a situazioni distressogene, mette in atto diverse strategie per riuscire a non soccombere nei momenti di maggiore difficoltà ed a riadattarsi all’ambiente circostante, al fine di ristabilire il proprio equilibrio psicofisico. Si può dire che ogni genitore utilizza strategie di coping, ovvero strategie cognitive, comportamentali, emotive e sociali, per misurarsi con situazioni percepite soggettivamente come stressanti, mobilitando a tal fine le risorse e i mezzi a propria disposizione. Possono essere strategie ad azione diretta, cioè che mirano all’eliminazione o disattivazione della fonte di stress (laddove è possibile) o ad azione indiretta, cioè strategie palliative, finalizzate a ridurre l’intensità di un distress ineliminabile. Talvolta i fattori distressogeni non possono essere modificati, per cui sarà necessario modificare il modo di affrontarli. Un genitore che è in armonia con se stesso più probabilmente sarà disposto a tollerare gli eventi distressogeni e, nel contempo, contribuirà a creare intorno a sé un clima sereno e facilitante.
Le strategie di coping sono molte e ognuno di noi, in base alla propria personalità e al proprio vissuto, sceglierà quale utilizzare per affrontare una determinata situazione stressante: recuperare il potere personale, riconoscere i propri punti di forza e di debolezza, esprimere i propri sentimenti, ritagliarsi dei momenti di riposo, migliorare l’aspetto organizzativo, chiedere aiuto, ecc. È importante che i genitori acquisiscano la consapevolezza che il sostegno del partner, di un amico o, a volte, di un consulente, può risultare molto vantaggioso: è solo il genitore a poter gestire le inevitabili situazioni stressogene intrinseche al suo ruolo, sviluppando tutte le sue potenzialità, ma, allo stesso tempo, può essere utile la presenza di qualcuno che sappia sostenerlo, confortarlo, orientarlo e accompagnarlo in questo percorso. Quindi è fondamentale che il genitore costruisca attorno a sé una rete sociale di sostegno che sappia ammortizzare e contenere i mille vissuti legati al ruolo parentale, individuando un numero più elevato possibile di persone disponibili a fornire un aiuto di tipo tecnico, affettivo o anche solo in grado di ascoltare, offrire conforto e incoraggiamento nei momenti di maggiore difficoltà.
Indice |
INTRODUZIONE |
Presentazione del Centro |
|
CONCLUSIONI |
COMMENTO AL VIDEO |
BIBLIOGRAFIA |
Ringraziamenti |
Tesi di Laurea di: Rachele SFORZI |