Inquadramento teorico: Il comportamento adattivo; Il flusso migratorio negli ultimi anni; La paralisi cerebrale infantile
Il comportamento adattivo
Il costrutto teorico del Comportamento Adattivo esprime l’interazione dell’individuo con il proprio ambiente. Esso riguarda le attività che un soggetto deve quotidianamente compiere per essere sufficientemente autonomo e per svolgere in modo adeguato i compiti conseguenti al proprio ruolo sociale, così da soddisfare le attese dell’ambiente per un individuo di pari età e contesto culturale.
Il comportamento adattivo è età specifico, nel senso che si sviluppa durante l’età evolutiva e declina in età avanzata; è contesto specifico, poiché per ciascuna classe di età i livelli di comportamento adattivo adeguati non sono definibili in assoluto poiché dipendono dalle aspettative dell’ambiente.
Il comportamento adattivo viene considerato un costrutto multidimensionale; empiricamente esso viene diviso in quattro aree principali di abilità in relazione tra loro: comunicazione (espressione e ricezione del linguaggio scritto e orale), abilità quotidiane (cura di sé, attività domestiche, uso dei servizi della comunità e attività lavorative-professionali), socializzazione (sviluppo di relazioni interpersonali, sensibilità, comprensione e problem- solving sociale, attività ludiche e di tempo libero, autocontrollo e rispetto delle regole sociali) e abilità motorie (grossolane e fini).
Il comportamento adattivo è un costrutto distinto ma in relazione a quello dell’intelligenza (QI). Infatti i soli indici QI non sono in grado di prevedere la riuscita nella vita ed il grado di adattamento sociale degli individui. Nonostante il successo personale ed il grado di adattamento sociale siano in buona parte condizionati dall’intelligenza, altri fattori, come il tipo di famiglia, di educazione ricevuta, di opportunità incontrate, devono essere attentamente considerati. La scala di valutazione del comportamento adattivo attualmente più utilizzata in ambito clinico e di ricerca è la Vineland Adaptive Behaviour Scale (VABS) 4.
La capacità di integrazione tra proprie capacità personali e le richieste poste dall’ambiente di vita, secondo le aspettative del soggetto, e quelle definite dalle regole sociali della propria comunità, può essere definita come “intelligenza pratica” (gestione autonoma della vita quotidiana da parte di un singolo individuo: igiene personale, cura della casa, tutela della propria incolumità, ecc.) ed “intelligenza sociale” (competenze richieste per stabilire in modo appropriato le relazioni sociali: comunicazione, controllo delle emozioni, percezione delle emozioni degli altri, assunzione di ruolo nella comunicazione, comportamenti sessuali adeguati, gestione del tempo libero, ecc.). Queste due manifestazioni dell’intelligenza sono alla base della capacità adattiva, e da esse dipende la possibilità di avere una vita autonoma, lavorare, avere degli scopi e poterli modificare, stabilire relazioni affettive, costruirsi una famiglia, svolgere attività gratificanti, assumere ruoli codificati nella società 5.
In ambito abilitativo-riabilitativo infantile l’acquisizione delle funzioni adattive è un aspetto di fondamentale importanza, questa abilità conferma la capacità del soggetto di utilizzare gli strumenti a sua disposizione in modo funzionale, come “mezzo per”. Lo sviluppo delle capacità adattive segna l’avvenuto passaggio dal parlare al comunicare, dal vedere al guardare, dal camminare all’andare verso.
Questi aspetti appaiono molto significativi nei pazienti con diagnosi di Paralisi Cerebrale Infantile. Molto spesso, infatti, il disturbo prevalente di tipo motorio è correlato a deficit cognitivi e disturbi emotivo-comportamentali, che pregiudicano le capacità adattive in funzione di un percorso di vita autonomo.
Il flusso migratorio negli ultimi anni
Un migrante, secondo la definizione dell’Unesco, è: colui che vive temporaneamente o in modo permanente in un paese in cui non è nato, ma con cui ha acquisito dei legami sociali significativi 6.
L’Italia è uno dei grandi paesi europei di immigrazione, con una percentuale di stranieri residenti di 8,2% della popolazione totale, a inizio 2015.
Alla data del 1º gennaio 2015, risultavano regolarmente residenti in Italia 5.014.437 cittadini stranieri, di cui il 24% minori. 7
Sono circa 200 le diverse nazionalità presenti nel nostro Paese.
Le prime cinque cittadinanze in ordine di importanza numerica da sole raggruppano oltre il 50% degli stranieri in Italia. A livello nazionale la collettività più numerosa è quella rumena con il 22,6% del totale. Seguono i cittadini dell’Albania (9,8%), del Marocco (9,0%), della Cina (5,3%) e dell’Ucraina (4,5%).
La Lombardia rappresenta la regione preferita dagli stranieri non comunitari regolarmente residenti (26,5%).
Ciò si verifica, soprattutto, per le comunità marocchine, albanesi, cinesi, ucraine, filippine, indiane ed egiziane. 8
L’immigrazione straniera in Italia sta assumendo caratteristiche sempre più definite: da immigrazione a carattere temporaneo, per rispondere a necessità e motivazioni individuali, si è andato affermando come fenomeno migratorio di permanenza e di stabilizzazione nel medio-lungo periodo.
Per il migrante il Paese di destinazione può diventare un luogo dove è possibile progettare un futuro per sé e per propri figli e non più solamente un luogo di transito o caratterizzato dalla provvisorietà e dalla precarietà, in cui è difficile manifestare la propria identità ed appartenenza culturale.
Avere e/o crescere figli nel Paese di accoglienza modifica profondamente la storia personale e familiare, determinando la ricerca di nuovi e dinamici equilibri. Inoltre, la presenza di figli comporta un maggior accesso ai servizi pubblici, soprattutto educativi e sanitari, e quindi una maggior visibilità non solo sociale ma anche del progetto di vita che ha condotto nel nuovo Paese. La percentuale di famiglie straniere con minori è pari al 29,8% rispetto al 26,1 % delle famiglie italiane.
La famiglia straniera è più giovane, con un maggior numero di figli: il tasso di fecondità totale degli stranieri (numero medio di figli per donna) è pari a 2,01 rispetto all'1,30 delle donne italiane. 9
Nonostante l’estrema eterogeneità e complessità del fenomeno, è possibile, individuare differenti tipologie di soggetti migranti e di modelli familiari sottostanti, caratterizzati da diversi progetti e percorsi migratori.
In uno studio di Favaro e Colombo10, condotto per il comune di Milano, vengono individuati sei modelli di tipologia di migrazione.
- Il percorso di tipo tradizionale al “maschile”: nella realtà europea è la modalità più diffusa di ricomposizione del nucleo familiare in una situazione di migrazione. In questo caso il capofamiglia è colui che parte ed il ricongiungimento familiare avviene dopo un periodo di separazione, a seguito dell’avverarsi di alcune condizioni. La ricomposizione della famiglia nel Paese ospite comporta necessariamente un assestamento, la ricerca di un nuovo equilibrio in un contesto profondamente mutato sia rispetto alla realtà familiare sia rispetto all’ambiente esterno.
- Il percorso di ricongiungimento al “femminile”: è il percorso intrapreso da donne straniere lavoratrici attive che hanno vissuto in prima persona la migrazione e che, in un secondo momento, organizzano l’arrivo nel paese d’accoglienza dei familiari, preoccupandosi d’individuare quelle strutture e servizi pubblici che possono rispondere ai futuri bisogni, non ultimo quello dell’apprendimento della nuova lingua.
- Il percorso “neo-costitutivo” e la creazione di un nucleo familiare nel paese d’emigrazione: è il percorso intrapreso da giovani immigrati partiti con l’idea di fermarsi nel Paese di destinazione per un arco di tempo limitato. Il cambiamento di determinate condizioni li porta a rivedere il progetto iniziale e ad intraprendere la costruzione di una famiglia nel paese d’immigrazione, tra immigrati dello stesso paese e/o di Paesi diversi.
- Il percorso “simultaneo”: questo tipo di percorso è poco frequente, poiché l’arrivo contemporaneo, o molto ravvicinato nel tempo, di coppie o di interi nuclei familiari è molto ridotto a causa della provvisorietà iniziale del progetto migratorio e delle difficoltà enormi che la migrazione pone.
- La presenza di un solo genitore: le famiglie immigrate monoparentali sono generalmente costituite dalla madre e dai figli e sono maggiormente riscontrabili per le etnie africane e latino-americana. L’assenza del padre è riconducibile a fattori diversi: alcune donne erano già separate o divorziate prima di partire, altre sono madri nubili, in altri casi la diaspora di alcuni popoli ha portato i membri di una stessa famiglia a stabilirsi in Paesi diversi.
- La famiglia mista: si origina dal matrimonio tra coniugi di nazionalità diversa, una realtà questa che è in continuo aumento, nella quale possono insorgere più facilmente problemi e conflitti, in quanto in alcune culture il padre vive con preoccupazione il fatto che la prole non aderisca alla sua cultura d’origine, alla sua religione e non parli la sua stessa lingua. In questo caso l’acculturazione dei figli viene avvertita come una frattura con le origini patrilineari.
- La coppia mista con madre straniera: si origina dall’unione fra il coniuge originario del paese in cui la coppia si stabilisce, e la figura femminile di nazionalità differente. La mancanza di una rete di supporto sociale e culturale durante la maternità e nel periodo post- natale, può influenzare la condizione psico-fisica dalla donna, con maggior rischio di isolamento e di insorgenza di depressione post-partum, per le grandi differenze culturali vissute nel nuovo paese di adozione. 11
I bambini hanno maggiori capacità adattive rispetto all’adulto, sono maggiormente disponibili a creare legami, ad apprendere, a modificarsi sulla base delle esperienze, ma sono per definizione anche più fragili poiché impegnati nel processo di crescita: possono quindi vivere una condizione di spaesamento e/o manifestare disturbi delle emozioni e del comportamento, quali segnali di disagio.
Le capacità d’adattamento, di apprendimento, di mettersi in relazione, la riuscita scolastica e più in generale sul piano sociale dipendono non solo dalle risorse cognitive del bambino ed adolescente, ma anche e soprattutto dagli aspetti emotivi ad essi strettamente collegati e dall’equilibrio relazionale interno alla famiglia 12.
Le richieste di sviluppo di capacità adattive ai differenti spazi man mano si moltiplicano per ogni singolo soggetto umano, ma all’interno di questa complessità è più frequente per il minore straniero sperimentare maggiori difficoltà quando l’ambiente circostante non è in grado di fornirgli degli strumenti adeguati allo scopo.
Secondo Marie Rose Moro13, quando la migrazione coinvolge un minore, ciò può portare sia a una regressione che a un potenziamento delle capacità del soggetto.
A questo proposito, individua tre momenti in cui la vulnerabilità è maggiormente evidente:
- Al momento delle interazioni precoci
- Nella prima infanzia, nel momento di contatto con il mondo esterno (es. l'istituzione scolastica)
- Nell'adolescenza
In questi tre momenti il bambino è maggiormente “esposto” al rischio transculturale.
In particolare, i minori affetti da disabilità psicofisiche, con difficoltà nello sviluppo delle capacità adattive relative alla propria diagnosi di PCI, andranno più facilmente incontro ad un’ulteriore riduzione dell’adattamento all’ambiente esterno a causa dell’assommarsi della complessità del processo di integrazione psicosociale, che caratterizza la condizione del migrante.
La paralisi cerebrale infantile
Il termine Paralisi Cerebrale (ICD-10: G80)14 fu utilizzato per la prima volta da Burgess nel 1888, per definire un disordine del movimento dovuto a una lesione cerebrale, e quindi diverso in termini eziopatogenetici da una paralisi periferica, anche se, nel 1861 Little documentò per primo la correlazione tra emorragie cerebrali secondarie a traumi da parto o a prematurità, e successivo sviluppo di spasticità e deficit motorio. Nel 1891 Freud sottolineò l’importanza delle anomalie dello sviluppo intrauterino nella patogenesi della paralisi cerebrale infantile. Grazie al contributo di Ingram nel 1955 si giunse a una definizione più specifica della Paralisi Cerebrale Infantile, vista come “un termine inclusivo per descrivere un gruppo di disordini non progressivi del bambino, nei quali una lesione del cervello causa un disordine della funzionalità motoria. Il disordine motorio può essere dovuto a paresi, movimenti involontari o incoordinazione, mentre vengono esclusi i disordini motori transitori, dovuti a malattie progressive o ad anomalie del midollo spinale”.15 Negli anni successivi, Bax definì la Paralisi Cerebrale Infantile come: “Turba persistente ma non immutabile della postura e del movimento, dovuta ad una alterazione organica e non progressiva della funzione cerebrale, per cause pre, peri o post natali, prima che se ne completi la crescita e lo sviluppo”16. Con il termine turba, ci si riferisce ad una condizione, ovvero ad uno stato finale e non ad una malattia, che invece rappresenta una realtà capace di migliorare, peggiorare, e, ipoteticamente, risolversi completamente. Gli aggettivi “persistente” e “non immutabile” conferiscono, rispettivamente, la connotazione di stabilità e di modificabilità del termine “turba”. Il termine “postura” definisce la relazione reciproca tra i segmenti del corpo valutata in relazione alle coordinate dello spazio circostante. “Movimento” indica, invece, lo spostamento nello spazio e nel tempo di uno o più segmenti corporei o del corpo stesso nel suo insieme, in altre parole il passaggio da una postura all’altra. “Alterazione della funzione cerebrale” sottolinea che tale affezione colpisce un intero sistema, rendendo quindi possibile una diversa modalità di funzionamento dello stesso, a differenza di una lesione d’organo, dove le possibilità di funzionamento alternativo sono teoricamente impossibili.
“Crescita e sviluppo” evidenziano che la Paralisi Cerebrale Infantile si differenzia dalla paralisi dell’adulto poiché nel bambino le funzioni devono ancora essere acquisite, mentre nell’adulto la paralisi comporta la perdita di funzioni già acquisite. Pertanto in condizioni patologiche che disturbano il processo di maturazione il termine di abilitazione si riferisce agli interventi finalizzati a sviluppare una abilità non presente in precedenza di cui la lesione ritarda la comparsa o ne minaccia l’evoluzione. Nell’ultimo decennio, grazie ai notevoli miglioramenti in ambito genetico e delle neuro immagini, è stato possibile identificare precocemente in molti casi le caratteristiche, l’eziologia ed il timing delle lesioni pre – peri – post natali. Le nuove conoscenze hanno portato a considerare nella Paralisi Cerebrale Infantile anche l’impatto sulle capacità adattive dei deficit correlati: cognitivi, comportamentali, linguistici, visivi. Negli ultimi anni è stata formulata una nuova definizione del termine Paralisi Cerebrale che descrive “un gruppo di disordini permanenti dello sviluppo del movimento e della postura, che causano una limitazione dell’attività, e che sono da attribuirsi a disturbi non progressivi verificatisi nel cervello fetale e infantile, nel corso dello sviluppo; i disordini motori della Paralisi Cerebrale sono spesso accompagnati da disturbi della sensibilità, della percezione, dell’intelligenza, della comunicazione, del comportamento, da epilessia, da problemi muscolo – scheletrici secondari”17.
Per quanto riguarda i criteri di classificazione della PCI, il primo fu proposto da Freud nel 1897, basato sulla descrizione dei sintomi neurologici e sulla loro distribuzione topografica. La classificazione topografica più utilizzata a livello internazionale fu quella proposta da Hagberg nel 1975, nella quale differenziò le PCI in tre raggruppamenti in base al sintomo prevalente (forme spastiche, atassiche, discinetiche). I quadri clinici vennero definiti anche in relazione alla distribuzione topografica: emiplegia, diplegia, tetraplegia, diplegia atassica, atassia congenita, coreo atetosi, forma distonica. Una modificazione della classificazione di Hagberg, fu proposta da Michaelis nel 1989, con una descrizione più dettagliata nella distribuzione dei sintomi. Le forme spastiche di PCI vennero così suddivise: leg dominated tetraparesis, three limb tetraparesis, four limb tetraparesis, crossed dominated tetraparesis. Nel 1997 un gruppo di ricercatori americani e canadesi (Rosenbaum P., Palisano R.) idearono un sistema di classificazione delle funzioni motorie delle paralisi cerebrali infantili basato sui concetti di disabilità e limitazione funzionale: la Gross Motor Function Classification System (GMFCS). Con tale sistema di classificazione è possibile definire il livello di disabilità del bambino, e determinare quali siano i suoi bisogni e, di conseguenza, decidere gli interventi terapeutici più adatti. Nel 2005 è stato introdotto, inoltre, un sistema di classificazione funzionale degli arti superiori, da un gruppo di ricercatori svedesi coordinato da Eliasson: la Manual Ability Classification System (MACS). Un gruppo internazionale di ricercatori si è riunito a un workshop a Bethesda (USA) nel 2004, costituendo un Comitato Esecutivo con l’intento di ridefinire il concetto e la classificazione delle Paralisi Cerebrali Infantili. Nel 2007 il Comitato Esecutivo pubblicò il nuovo sistema di classificazione, basato su quattro dimensioni: le anomalie motorie, i disordini concomitanti, gli aspetti anatomici e delle neuro immagini, ed i fattori eziologici del periodo in cui hanno causato il danno18.
Un sistema notevolmente efficace per classificare le diverse forme di PCI, è stato fornito da un gruppo di ricercatori italiani (Ferrari A., Cioni G.) e prevede l’analisi di tre funzioni adattive fondamentali: l’organizzazione antigravitaria, la deambulazione e la manipolazione. La prima permette di differenziare tra loro le forme tetraplegiche, la seconda consente di distinguere le forme diplegiche e infine la terza favorisce un inquadramento delle varie forme di emiplegia.
Le forme tetraplegiche si dividono in: aposturale; acinetica (o con difesa primitiva in flessione); con antigravità a tronco orizzontale; con antigravità a tronco verticale; con automatismi della marcia.
Le forme diplegiche possono essere suddivise in: 1° forma o “propulsivi”; 2° forma o “gonna stretta”; 3° forma o “funamboli”; 4° o “temerari”; doppia emiplegia, che rappresenta una diplegia con maggiore compromissione di un emilato rispetto al controlaterale.
Le emiplegie sono classificate in base alle caratteristiche cinesiologiche dell’arto superiore compromesso, con distinzione in: mano integrata (funzionalmente migliore); mano semifunzionale; mano sinergica; mano prigioniera; mano esclusa (arto superiore non rappresentato come organo prassico). Un ulteriore criterio per inquadrare le diverse forme di emiplegia è fare riferimento all’epoca in cui è accaduto l’evento morboso. In tale modo si delineano quattro quadri clinici:
- forma 1 o malformativa precoce, con danni nel primo – secondo trimestre di gestazione,
- forma 2 o prenatale, frequentemente con lesioni ipossico – ischemiche prima del termine della gravidanza,
- forma 3 o connatale, con danni di natura ipossico – ischemica avvenuti in utero al termine della gravidanza, o nel periodo perinatale,
- forma 4 o infantile, con danni generalmente di natura vascolare, che si verificano tra il primo ed il terzo mese di vita.
Questo tipo di classificazione chiarisce in maniera esaustiva la prognosi del bambino affetto da PCI, evidenziando i suoi bisogni a partire dalla sua “storia naturale”, intesa come “il percorso adottato e le strategie utilizzate nella costruzione delle sue soluzioni adattive”19.
La prevalenza delle PCI nei paesi occidentali è compresa tra il 2 e il 3 per mille nati vivi. Gli studi epidemiologici di maggiore rilevanza sono quelli condotti negli ultimi venti anni in Svezia da Hagberg, che ha evidenziato un aumento delle incidenze di PCI in bambini con peso inferiore a 1500 grammi (Very Low Born Weight Infants) ed età gestazionale inferiore a 31 (alta prematurità), conseguenza di un’aumentata sopravvivenza neonatale negli ultimi anni. Secondo Hagberg (1993) la diplegia spastica rappresenta il 45 % di tutte le forme di PCI, ed è la forma caratteristica del neonato pretermine. La differenza che determina l’eziologia della PCI è data dall’epoca d’insorgenza della noxa patogena. Nel primo – secondo trimestre di gestazione, ad esempio, la patologia cerebrale è caratterizzata da anomalie dello sviluppo quali anencefalia e polimicrogiria, che sono dovute ad alterazioni della migrazione neuronale. Nel corso degli anni è comparsa la necessità di trovare un’impostazione teorica e terapeutica preventiva della PCI. Sono state ideate numerose tecniche di facilitazione neuromotoria (Vojta - Castagnini, Bobath, Doman - Delacato, Perfetti) che hanno come assunto teorico comune la possibilità per il bambino con PCI di raggiungere con il tempo, livelli di sviluppo simili a quelli dei bambini senza patologie. In realtà, in età evolutiva l’intervento abilitativo non deve configurarsi solo come l’insieme di procedure tecniche, finalizzate allo sviluppo di determinate abilità, ma deve mirare allo svolgimento di una più generale funzione, cioè quella di permettere al bambino di conoscere il mondo, agire su di esso e comunicare con gli altri. Riabilitare un bambino affetto da PCI è un processo complesso che considera il bambino nella sua globalità (fisica, mentale, affettiva, comunicativa e relazionale) e unicità e che si compone d’interventi integrati coinvolgendo e adattando il suo contesto familiare, sociale e ambientale, attribuendo a questi ultimi un ruolo di cruciale importanza per il successo terapeutico. La riabilitazione rappresenta un processo continuo ma limitato nel tempo, che deve necessariamente concludersi quando, in relazione alle conoscenze più aggiornate delle neuroscienze e sui processi biologici del recupero, per un tempo ragionevole non si verifichino cambiamenti significativi né nello sviluppo né nell’utilizzo delle funzioni adattive. La Cura ha come obiettivo il benessere del bambino e della sua famiglia, è necessario accompagnarli con continuità sin dalla diagnosi di disabilità.
Ferrari introduce il concetto di esercizio terapeutico, rivalutando il ruolo attivo del paziente in terapia, considerato come un mezzo per migliorare il risultato di una prestazione motoria intrapresa volontariamente dal soggetto, per realizzare un determinato compito. L’esercizio terapeutico deve essere quindi un’esperienza, significativa, guidata. “Esperienza” indica la partecipazione attiva del paziente, con facilitazioni del terapista, volta al raggiungimento di un risultato definito, realizzata adattando se stesso al contesto e al compito, interagendo con l’ambiente fisico e sociale e utilizzando nel modo più opportuno le risorse disponibili. Con “significativa” si intende che tale esperienza deve destare nel soggetto attenzione, interesse, partecipazione emotiva ed interesse cognitivo. “Guidata”, indica che sono necessarie delle facilitazioni del terapista in modo che il paziente possa scegliere, tra le possibili soluzioni, quella più idonea allo scopo. Attraverso l’esercizio terapeutico, il paziente non raggiungerà tappe del repertorio di sviluppo del bambino sano, bensì giungerà al proprio “good enough”, ovvero quel buono abbastanza che ciascun individuo stabilisce per sé stesso, per i risultati a cui ambisce, per la soddisfazione che prova e per le difficoltà che incontra. I prerequisiti del successo dell’esercizio terapeutico sono rappresentati dalla motivazione del soggetto, dall’apprendimento e dalla modificabilità, che insieme permettono di generalizzare schemi motori, in un primo momento, e prassie d’azione in seguito. Affinché l’esercizio, l’esperienza, il compito, siano terapeutici, è necessario che inducano nel paziente delle modificazioni stabili, oggettive e misurabili, secondo i principi dell’Evidence Based Rehabilitation. “Stabili” indica che il bambino deve essere in grado di riprodurle al di là dell’intervento terapeutico che le ha prodotte. “Oggettive”, significa che tali modificazioni devono essere evidenti a tutti. “Misurabili” indica che i cambiamenti ottenuti devono essere valutati attraverso strumenti sensibili in grado di rilevarli. La riabilitazione è, quindi, quel processo volto a guidare il bambino nella realizzazione delle sue funzioni adattive, preferendo al movimento e alla prestazione, l’azione e lo scopo, che sono dapprima pensati e solo secondariamente agiti. L’apprendimento motorio, quindi, è possibile solo se accompagnato dalla motivazione, dalla curiosità, e dalla propositività del bambino. L’ambiente terapeutico funziona, perciò, da rinforzo stimolando il bambino a muoversi e a comunicare utilizzando il suo repertorio funzionale anche quando questi non sia completamente integro, permettendo l’uso adattivo di una funzione e trasformandola in abilità. Il terapista deve sapere adattarsi e rispettare una distanza ottimale per stabilire un rapporto empatico con il bambino, in modo da poter sentire le sue stesse sensazioni di rabbia, angoscia, impotenza, ma dovrà al contempo assicurare al paziente il miglior intervento possibile. Tutto ciò implica una rivoluzione nel concetto di riabilitazione, non più vista come la semplice attuazione di tecniche precostituite, ma anche come capacità di ascolto attivo in una distanza ottimale che permetta di capire quando e com’è più opportuno fare delle richieste al bambino.
4 Sparrow S., Balla D.A., Cicchetti D.V., Vineland Adaptive Behaviour Scales (Manuale, adattamento italiano), Ed. Giunti O.S., 2003.
5 Valente D. (a cura di), Fondamenti di riabilitazione in età evolutiva, Ed. Carocci Faber, Roma, 2009.
6 UNESCO, migration and integration, www.unesco.org
7 Dossier statistico immigrazione 2015, IDOS.
8 Dossier statistico immigrazione 2015, IDOS.
9 Rielaborazione Ismu su dati Istat. Stranieri minorenni residenti. Serie storica 1997-2011.
10 Favaro G. e Colombo T., Op. cit.
11 Miszkurka M1, Goulet L, Zunzunegui MV, Contributions of immigration to depressive symptoms among pregnant women in Canada. Can J Public Health. 2010 Sep-Oct;101(5):358-64.
12 Balsamo E., Il rapporto genitori/figli nella migrazione, in Atti del Convegno “Famiglie migranti e stili genitoriali”, Bologna, Gennaio/Maggio 2006.
13 Moro,2010;Rezzoug e Moro,2010; Skandrani,2010.
14 OMS, Guida tascabile ICD-10. Classificazioni delle sindromi dei disturbi psichici e comportamentali, Ed. Elsevier, Ginevra, 1996.
15 Fedrizzi, I disordini dello sviluppo motorio. Fisiopatologia – valutazione clinica – quadri clinici – riabilitazione, Cap. 7, Piccin, Padova, 2008.
16 Bax M., Terminology and classification of cerebral palsy, in Developmental Medicine & Child Neurology 1964; 6: 295-97.
17 Bax et al. Proposed definition and classification of cerebral palsy in Developmental Medicine & Child Neurology 2005; 49, (8): 571-576.
18 Rosenbaum P., Panel M., Leviton A, Goldstein M., Bax M. A report: the definition and classification of cerebral palsy in Developmental Medicine & Child Neurology 2006; 6 (49 suppl): 109, 8-14.
19 Ferrari A., Cioni G. Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile. Guida all’esplorazione delle funzioni adattive. Springer. Milano, 2005.
Indice |
INTRODUZIONE |
CONCLUSIONI |
BIBLIOGRAFIA |
Tesi di Laurea di: Marta FIORI |