Il Gioioso Mondo dei Giocattoli. Eccoci qui anche quest’anno! Gli esperti di Amazon hanno selezionato* i migliori giocattoli da aggiungere alla tua lista dei desideri per le festività.

Approcci riabilitativi di tipo evolutivo

Intervento di sviluppo relazionale

RDI è un acronimo per Relationship Development Intervention, che, tradotto, significa Intervento per lo Sviluppo Relazionale.

Questa terapia è stata sviluppata dal Dr. Steven Gutstein e mira a risolvere i problemi di tipo relazionale e sociale presenti nelle persone ASD (= con un disturbo dello spettro autistico).

L’intervento si basa innanzi tutto sul 'training parentale', cioè si vuole insegnare ai genitori innanzi tutto (e poi si generalizzerà con altri adulti di riferimento) un modello di stile di vita in cui la persona ASD riesca a sviluppare quelle caratteristiche che mancano nei disturbi dello spettro autistico: pensiero dinamico, flessibilità, scambio di emozioni, memoria episodica, etc.

La qualità di vita degli adulti autistici è molto carente nei contatti con gli altri, in base a diverse ricerche (National Autistic Society, Patricia Howlin, etc.). E anche se si guardano gli esiti di altri sondaggi su adulti nello spettro autistico con quoziente di intelligenza e linguaggio nella norma, il contatto sociale rimane basso (ca. 15-20%).

Ma perché nonostante ci siano persone ASD più intelligenti, con un linguaggio normale, queste non riescono a farsi e a mantenere delle amicizie. Il problema è che nella vita di tutti i giorni è necessario saper stare insieme agli altri, saper comunicare, proporre le proprie idee davanti agli altri, bisogna saper risolvere i problemi che si presentano ed essere creativi ed innovativi. E per farsi delle amicizie, bisogna essere flessibili e ricettivi verso gli altri, è necessario sapere far sentire gli altri apprezzati, trovare comunanze di esperienze e di interessi, apprezzare sentimenti, immaginazione ed idee altrui, mantenere e riparare relazioni, avere fiducia, accettazione e capacità empatica. Invece in base ai risultati di diverse ricerche, le persone ASD hanno grosse difficoltà a: spostare l’attenzione, avere creatività, comprendere in modo più profondo il significato di ciò che si legge, avere memoria episodica, avere comunicazione dichiarativa, 'riparare' una comunicazione, usare e capire i gesti e i linguaggio del corpo, capire i desideri e le intenzioni degli altri, esprimere le emozioni in un contesto appropriato, etc.

Le persone con ASD sanno riconoscere le emozioni, ma non fanno riferimento a questa abilità per comportarsi o non comportarsi in una certa maniera; possono arrivare ad avere discrete abilità di interazione sociale, ma non hanno flessibilità e co-regolazione, cioè non si adattano agli altri e non regolano il proprio comportamento in base agli altri; hanno una comunicazione diretta, che serve ad ottenere ciò che vogliono, ma non riescono a condividere esperienze; hanno una memoria procedurale (cioè ricordano le cose come sono) ma non episodica (in cui ricordano anche le emozioni di un determinato avvenimento e le condividono); imparano fatti e procedure, sanno come applicare le regole e usano concetti, ma per loro è tutto vero-falso o bianco-nero, non si adattano, non riescono a costruire delle strategie, non riescono a capire cosa è importante e cosa non lo è. Alle persone con ASD mancano le abilità necessarie per avere successo nel mondo 'reale', che è un mondo che cambia costantemente, un mondo dinamico.

Basandosi su ricerche nel settore dello sviluppo neurotipico e dello sviluppo nei soggetti ASD, il Dr. Gutstein ha appurato che sono sei le abilità necessarie per avere successo nei sistemi dinamici:

  • Riferimento emozionale: la capacità di usare le emozioni degli altri per imparare come gestire le diverse situazioni.
  • Coordinazione sociale: l’abilità di osservare e regolare continuamente il proprio comportamento per partecipare a relazioni spontanee basate sulla collaborazione e lo scambio di emozioni.
  • Linguaggio dichiarativo: saper usare il linguaggio e la comunicazione non verbale per esprimere curiosità, invitare gli altri ad interagire, condividere idee e sentimenti e coordinare le proprie azioni con quelle degli altri.
  • Pensiero flessibile: l’abilità di adattarsi rapidamente, cambiare strategie e programmi in base al cambiamento delle circostanze. 
  • Elaborazione delle informazioni relazionali: l’abilità di capire tenendo conto di un contesto ampio, risolvere problemi che non hanno soluzioni giuste o sbagliate.
  • Previsione: l’abilità di riflettere sulle esperienze passate e anticipare possibili scenari futuri in modo produttivo.

Anche se ogni soggetto con disturbo dello spettro autistico presenta una serie di sintomi unici, tutti hanno difficoltà più o meno gravi in queste sei aree. 

Qui si inserisce l’RDI: l’RDI è una terapia basata sul training dei genitori, con l’obiettivo di accrescere l’intelligenza relazionale, è un approccio sistematico basato sullo sviluppo normale della crescita sociale ed emozionale.

L’RDI si sviluppa attraverso obiettivi: in base al nuovo sistema operativo, ne sono stati creati più di 1000 (una piccola parte anche per i genitori) e vuole anche creare nelle persone ASD motivazione, fiducia in se stessi e fiducia nelle 'guide'.

Uno degli aspetti fondamentali dell’RDI (probabilmente il primo) è quello infatti di creare una relazione Guida/Apprendista in cui il genitore è la guida e il bambino è l’apprendista. Si è visto che questa è una cosa molto difficile da imparare per i genitori, perché spesso non sono mai stati “maestri”, nel senso che spesso la vita delle famiglie con persone ASD si è adattata a queste persone e non sono mai state queste persone a fare il contrario. I genitori invece devono diventare la guida principale, il punto di riferimento per il bambino che a sua volta deve interpretare e valutare nuove esperienze attraverso loro. Questo processo è stato chiamato Partecipazione Guidata da Barbara Rogoff, psicopedagogista all’università della California.

Studiando varie culture nel mondo, Barbara Rogoff ha evidenziato il fatto che i bambini imparano piano piano dai genitori, dagli adulti di riferimento. Attraverso il fare le cose insieme, i bambini acquistano sempre maggior competenza e gradualmente diventano sempre più responsabili nelle co-regolazioni, diventano veri “partners” in rapporto alle loro crescenti competenze. Dovranno essere i genitori ad imparare come modificare lo stile e il passo dell’insegnamento e delle richieste in base ai bisogni particolari del bambino, così che questo possa sempre raggiungere il successo.

Gli obiettivi si possono raggiungere anche strutturando diverse attività, ma soprattutto con l’RDI si cerca di aiutare i genitori a cambiare il proprio stile di vita, in modo da avere sempre in mente l’obiettivo da raggiungere e cercare di usare qualsiasi attività quotidiana per questo scopo.

In uno stile di vita RDI si usano le attività giornaliere per creare occasioni di incertezza, cioè piccoli momenti basati sugli obiettivi attuali da raggiungere. Ci sono molte occasioni per usare comunicazione dichiarativa e condividere le esperienze. Condividete il procedimento di fare qualcosa insieme, in modo da far diventare il bambino sempre più competente. Cercate di stabilire l’ordine delle priorità e semplificare: eliminate eventi che non sono essenziali e date invece più spazio ad attività, nuove o già conosciute, che possono diventare ottimi momenti RDI.

L’RDI lavora quindi partendo dal livello del bambino per migliorare le sue abilità sociali ed emozionali, la sua intelligenza dinamica, la sua flessibilità, il coinvolgimento mentale, il senso di competenza, la sua motivazione per affrontare sistemi dinamici sempre più complessi. L’obiettivo è quello di insegnare ai soggetti ASD a vivere la vita di tutti i giorni.

 

La Terapia Psicomotoria

Le basi teoriche della terapia psicomotoria risalgono agli studi di Piaget e Wallon. Essa considera il bambino come un'unità globale e il movimento come il motore della vita mentale e sociale. Le recenti ricerche nelle neurocoscienze confermano questa visione. La terapia psicomotoria distingue fra movimento e azione: il movimento è un evento corporeo dipendente da cause fisiche, mentre l'azione è connessa alle intenzioni, scopi, regole sociali.

Lo stesso evento corporeo può essere visto come movimento da un neurologo o come azione da uno psicomotricista.

Perciò la terapia psicomotoria è una terapia dell'azione attraverso l'azione essa mira alla ricomposizione e connessione delle azioni del bambino tramite quelle del terapista.

L'azione ha sempre un aspetto intersoggettivo, per avere un significato necessita di qualcuno che la riconosca come tale, Ne consegue che, al contempo, è una terapia dell'interazione.

La connessione delle azioni avviene nella cornice di gioco, ma la terapia psicomotoria non utilizza il gioco per raggiungere qualcosa d’altro, bensì è la costruzione del gioco e della sua cornice.

Il Decreto legislativo del 19 giugno 1999, conosciuto come Riforma ter del Servizio Sanitario”, all’ art. 1 comma 7, indica in modo perentorio quali tipologie di assistenza, di servizi e di prestazioni sono da escludere dai livelli di assistenza erogati a carico dello Stato. In particolare sono escluse quelle che “non soddisfano il principio dell’efficacia e della appropriatezza ovvero la cui efficacia non è dimostrabile in base alle evidenze scientifiche disponibili o sono utilizzate per soggetti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccomandate”.

Questi principi valgono naturalmente per tutta la riabilitazione in genere, ma in particolare per le tipologie di riabilitazione che cercano un riconoscimento.

L’impiego della terapia psicomotoria è ampiamente diffuso nella pratica riabilitativa degli ambulatori di NPI o nei servizi territoriali o ancora nei centri di riabilitazione, ed è richiesto e sostenuto dai neuropsichiatri che operano sul territorio. Questo richiamo ministeriale implica però la necessità di riaffermare e approfondire i supporti teorici cui fa riferimento, chiarire e specificare le metodologie di trattamento, definire le tipologie di "menomazione" alle quali può essere applicata con efficacia e quali "disabilità" può concorrere a ridurre all'interno di un progetto riabilitativo individualizzato.

Il principio della “globalità del bambino” non significa che l’approccio psicomotorio sia generico,

anzi la via d’accesso è ben precisa e può essere denominata “la via del corpo” Lo scopo del presente lavoro è di cercare di specificare meglio i riferimenti scientifici di questo approccio.

Gli assunti su cui si basa la terapia psicomotoria si riconoscono principalmente negli studi di Wallon e Piaget. Grazie ai loro lavori è emersa la nozione di un’unità biologica dell' individuo:

l'attività motoria e la psiche non costituiscono cioè due campi distinti o giustapposti, ma rappresentano l'espressione unitaria della relazione fra l'individuo e l'ambiente.  Questi autori sottolineano con forza il ruolo centrale che il movimento esercita nello sviluppo del bambino. Nel movimento, e in particolare nel suo aspetto tonico, Wallon intravede i fondamenti della comunicazione con l’altro e Piaget, nella logica e coordinazione delle azioni, la strutturazione dell’intelligenza.

La teoria psicoanalitica poi ha fatto compiere un notevole salto epistemologico introducendo il concetto di conversione che, essenzialmente, consiste nel tentativo di risolvere il conflitto psichico in sintomi somatici, sensoriali, motori. Forse seguendo proprio queste piste teoriche,

Ajuriaguerra e Diatkin individuano in ambito neuropsichiatrico le turbe psicomotorie caratterizzate da profonde difficoltà o incapacità del bambino a modulare le proprie reazioni tonicoemozionali nel rapporto con il mondo esterno. Ora le ricerche nelle neuroscienze, mettendo le mani direttamente nella “scatola nera” del cervello, hanno confermato le inferenze teoriche che questi grandi ricercatori hanno compiuto a partire dall’osservazione del comportamento manifesto del bambino, dimostrando la funzione centrale del movimento nella nascita e organizzazione delle funzioni mentali e della vita psichica.

«Molto probabilmente è giunto il tempo di abbandonare la vecchia idea del movimento inteso come semplice operazione dettata “dall’alto”, dalla mente, per abbracciare una concezione diversa in cui il movimento occupi un ruolo centrale e costituisca esso stesso il punto di partenza per la crescita delle funzioni mentali.   In realtà dovremmo riformulare la sequenza in senso inverso, attraverso uno schema in cui si parte dal passo iniziale, il movimento, per poi considerare le conseguenze che questo esercita sull’ambiente circostante, la percezione di queste conseguenze e le modifiche che questa percezione esercita su movimenti successivi».

Da questo capovolgimento consegue che «il movimento non è più il mezzo per soddisfare le necessità dei centri cerebrali superiori, la mente, ma è invece l’attività mentale ad essere il mezzo per eseguire le azioni» .

Posizione questa confermata da altri neuroscienziati: «Le nostre azioni emergono attraverso un ciclo continuo che si può dividere in tre stadi: nel primo stadio, nel nostro cervello emergono e vengono elaborati obiettivi che riguardano gli stadi futuri, verso i quali indirizzeremo le nostre azioni. 

Durante il secondo stadio del ciclo, agiamo, riceviamo le conseguenze sensoriali delle azioni e costruiamo i significati. Nel terzo stadio, modifichiamo il nostro cervello con l’apprendimento che guida tutte le configurazioni che emergeranno successivamente»

Anche la concezione della memoria, funzione eminentemente psichica, subisce questo rovesciamento perché non è più considerata «soltanto un fatto mentale ma anche corporeo, nel senso che comporta procedure o memorie “tacite”, non esplicitabili…: l’azione racchiude in sé un sapere del corpo che può essere soltanto acquisito attraverso l’imitazione e la pratica. Saranno queste memorie motorie a costituire il nucleo iniziale intorno a cui si addenseranno le memorie successive, come una specie di ordito che man mano verrà “lavorato” dalle esperienze e dalle attività della mente, consce e inconsce» .

In genere si utilizzano i termini “movimento” ed “azione” come sinonimi. Invece le recenti acquisizioni della psicomotricità confermino come i due concetti vadano distinti perché è su questa distinzione che si fonda la peculiarità della terapia psicomotoria. Fra l’altro, la riflessione sull’azione è carente nella psicologia dell’età evolutiva, forse per il suo retaggio mentalistico, mentre è abbastanza avanzata in psicologia sociale, sociologia, filosofia.

È importante confrontare azione e movimento perché, quasi sempre, l'azione consiste in movimenti.

Con una prima distinzione molto sintetica, il movimento ha che fare con le cause, l'azione ha a che fare con le ragioni. Un movimento è un evento corporeo retto da cause fisiche in un sistema neurofisiologico, mentre l'azione concerne le intenzioni, i rapporti mezzo-fine, il riconoscimento, le regole sociali e i rapporti intersoggettivi. Se si flette un braccio, la contrazione di un muscolo causa necessariamente la distensione di un altro. Ma la flessione del braccio non è l'effetto di una causa fisica, bensì, la risposta, ad esempio, ad un ordine, ad uno scopo, ad un'altra azione.

Questo non significa affermare che si tratti necessariamente di due “oggetti” diversi, bensì di due sguardi diversi. Lo stesso evento corporeo può essere descritto come movimento da un neurologo interessato all'attività elettrica dei fasci muscolari o come azione da un terapeuta interessato alle competenze e all'attività comunicativa del soggetto.

Le due descrizioni sono alternative poiché si riferiscono a due campi di ricerca diversi, ma non sono totalizzanti, cioè non possono pretendere di essere l'unica descrizione corretta e possibile. Quindi la distinzione fra azione e movimento «è una distinzione di ordine sociale che dipende dal modo di trattare il comportamento nel contesto in cui ha luogo e non da qualche proprietà intrinseca dell'evento » (Sparti 1992, p. 106).

Ciò permette di distinguere la fisiokinesiterapia dalla psicomotricità: la prima è una terapia del movimento, la seconda una terapia dell’azione. Infatti, molti bambini in terapia psicomotoria non hanno problemi nell’organizzazione del movimento, mentre ne hanno molti nell’organizzazione delle azioni.   La terapia psicomotoria non ha dunque come scopo primario quello di sviluppare l'efficienza motoria o favorire specifici apprendimenti, né di riconoscere particolari deficienze motorie.   Essa, tramite le azioni del terapista, cerca piuttosto di integrare le capacità motorie, espressive e comunicative di un bambino per costituirlo innanzitutto come sé agente cioè come essere capace di volere, sapere e potere effettuare trasformazioni sull’ambiente.

«La scoperta della propria efficacia causale è il fondamento della percezione di sé come agente; è, per usare un termine tradizionale, il fondamento della “volontà”.  Il comportamento, compresa la percezione, è intenzionale; non è la risposta ad uno stimolo, ma è originato da un percettore-attore».

Quindi la terapia psicomotoria è un terapia dell’azione attraverso l’azione. Già Ajuriaguerra ricordava che «L’azione non è una semplice attività motoria, ma sul piano delle strutture essa è un circolo sensitivo-motorio e, nel corso della sua realizzazione, è un’attività con uno scopo definito in uno spazio orientato rispetto al corpo».

Per meglio definire il concetto di azione proponiamo qualche  altra definizione:

«L'azione è ciò che le persone fanno, in opposizione a ciò che ad esse accade»);

«l'azione è un evento causato da un essere umano» ; una sequenza comportamentale è un'azione quando è «un processo orientato verso un termine finale, un risultato, e comprende diverse fasi di preparazione e di realizzazione» .

Tutte le definizioni citate sottolineano il carattere attivo, l’intenzionalità e il rapporto mezzi-scopo dell’azione. Allora l'azione del/della psicomotricista mira a connettere e rendere più coerenti le porzioni di realtà che il bambino si è costruito.

La definizione di terapia psicomotoria può essere allora ulteriormente precisata: essa è la ricomposizione e la connessione di azioni o di frammenti di azioni attraverso l'interazione di gioco, ossia la costruzione di un senso condiviso, passando dal "essere un corpo al riconoscersi un corpo. È una terapia che privilegia la qualità dell’azione, cioè i modi con cui viene realizzata, che sono una miscela delle categorie psicomotorie, strumenti operativi e di analisi specifici di questo approccio terapeutico.

I modi dell’azione riguardano il tempo (durata, velocità, lentezza, accelerazioni, rallentamenti, pause, sincronie, alternanze...), le posture (tipi, variazioni posturali, sguardo, posizione di certi segmenti corporei, simmetrie, asimmetrie...), il tono muscolare (grado di tensione, presenza o assenza di modulazioni toniche, differenze di tono fra un segmento corporeo e l’altro...), lo spazio (lo spazio occupato dall’azione, lo spazio in cui essa avviene, lo spazio interpersonale e le sue variazioni), la voce (timbro, tono, volume, coloritura, prosodia...), le modalità d’uso degli oggetti, il tutto sintetizzato nelle qualità del movimento.

E’ parere che l’azione non può essere separata in una componente interna (intenzione) ed in una esterna (realizzazione) altrimenti si cadrebbe nella situazione paradossale per cui, da un lato, solo l’attore sarebbe il garante del significato della propria azione o potrebbe dire se ha compiuto un’azione o meno; dall’altro il riconoscimento di un’azione e del suo significato dipenderebbe dal fatto che si attribuisca o no all’attore la competenza.

Preferiamo invece focalizzare la realizzazione dell'azione e il suo riconoscimento intersoggettivo, in quanto «L'agire è sempre provvisto di significato perché l'azione deve essere organizzata e compresa in modi che costituiscono delle condizioni di identità riconosciute dalla comunità o vigenti nella situazione».

Quasi sempre le azioni avvengono in un contesto interpersonale e sociale, e le ricerche sullo sviluppo infantile (ad. es. cfr. Stern 1985, 1995) dimostrano come sia l’interazione con la madre che trasforma i movimenti del bambino in azioni, che gli fa apprendere di avere degli stati mentali come le intenzioni, le credenze, gli scopi, i desideri e anche le emozioni. È la continua attribuzione di significati ai suoi comportamenti che lo porta alla rappresentazione mentale e va a costituire la sua soggettività, quella che Stern chiama i vari Sé (Stern 1985), primo fra tutti il Sé agente, cioè il senso di essere l’autore delle proprie azioni.

La soggettività è quindi il frutto dell’intersoggettività e l'azione è sempre azione-in-uncontesto e che crea un contesto, azione con e/o per qualcuno. Si ha azione quando un evento viene ascritto a qualcuno, gliene si attribuisce la responsabilità. Ne deriva che l'azione ha sempre un aspetto intersoggettivo per cui la comunità, il destinatario o l'osservatore dell'azione si prendono la responsabilità di riconoscerla o meno come tale.

«L'azione è già un'interazione in quanto necessita di qualcuno (individuo singolo o collettivo) che la riconosca come tale. Questo vale anche per le azioni in cui sia fisicamente presente solo l'agente delle stesse. È il medesimo agente che svolge due ruoli: quello del soggetto attore e quello di chi opera il riconoscimento. Cioè si autoriconosce la competenza e la responsabilità».

Se l'azione è già un'interazione, «comprendere un'azione significa essere in grado di continuare una serie di eventi in un modo che viene riconosciuto come appropriato». Allora, la terapia psicomotoria, in quanto terapia dell'azione attraverso l'azione, è, ipso facto, una terapia dell'interazione.

Non si deve pensare che il tema dell’azione riguardi solo l’aspetto cognitivo, perché è proprio tramite i tipi di azione, la loro organizzazione, concatenazione e modalità di realizzazione che meglio si manifestano gli stati emotivo-affettivi. Sono il blocco dell’azione, la sua interruzione, frammentazione, fluidità, variazione, ripetitività, complessità, semplicità, adeguatezza o meno allo scopo o all’azione dell’altro che evidenziano le regole della relazione terapeutica, le difficoltà, le rappresentazioni degli attori.

La ricomposizione e la connessione delle azioni del bambino tramite quelle del/della psicomotricista avvengono entro la cornice del gioco. Bateson afferma che «gioco non è il nome di un atto o di un'azione, è il nome di una cornice per l'azione» Quindi, di per sé, non esistono azioni di gioco e azioni di non-gioco, ma una stessa sequenza di azioni può essere gioco o no a seconda se è incorniciata o meno. La cornice costruisce un contesto che dice: «le azioni che in questo momento stiamo compiendo non denotano ciò che normalmente esse vogliono significare, ma stanno per qualcosa d'altro».

È la premessa "questo è un gioco" che qualifica le azioni come gioco. Ma il messaggio "questo è un gioco" non è necessariamente esplicito ed emesso prima della sequenza di gioco. Molto spesso è implicito ed emerge dal complesso delle azioni  stesse, ossia è una componente del gioco, che, al contempo, lo identifica come tale.

È bene chiarire che la terapia psicomotoria non utilizza il gioco come strumento per raggiungere qualcosa, né ha come scopo il gioco, bensì è la costruzione del gioco.

Il gioco intesse tutta la relazione abilitativa con gli insufficienti mentali gravi, costruendo frammenti di mondo, cioè di azioni e di significati condivisi. In presenza di altre disabilità, connette e condivide le isole di realtà che il bambino si è già costruito e, facendo questo, istituisce un livello superiore di realtà dove le azioni non stanno più solo per se stesse, ma anche per qualcosa d'altro. In altre parole, costruisce un mondo possibile.

Cerchiamo di chiarire quanto appena affermato con due micro-esempi diversi: Cristina, bambina microcefala con insufficienza mentale profonda, è seduta a terra, inclina continuamente il capo a destra e a sinistra, mette e toglie continuamente dalla bocca un ovetto, lo manipola davanti alla bocca, ne raccoglie un altro da terra e manipola anche questo.

È molto dubbio che qualcuno di questi movimenti, per la frequenza, concomitanza, frammentazione e indifferenziazione, possa essere riconosciuto come un'azione. Ma la terapia psicomotoria assume metodologicamente lo sguardo ottimistico per cui, «prima di essere una prerogativa dell’apparato psichico, l’intenzionalità è già iscritta nel più elementare atto motorio, che è comunque sempre orientato anche quando non è nota la sua attesa anticipatrice».

La psicomotricista è in posizione quadrupedica di fronte alla bambina, con il viso proteso verso di lei e tiene un ovetto ben visibile in bocca. Quindi, fra tutti i confusi comportamenti della bambina, ne seleziona e ne rende pertinente uno: "Tenere l'ovetto in bocca". L'intero assetto posturale rende poi la sua azione molto evidente ed enfatizzata.

Banalmente si può dire che la imita, ma è un'imitazione molto selettiva e parziale. In realtà, così facendo, la sua azione diventa la risposta al movimento di Cristina. Operando la connessione, la psicomotricista attribuisce al movimento della bambina lo statuto di azione, cioè un evento corporeo dotato di significato.

La psicomotricista sputa l'ovetto: anche questa è un'imitazione molto parziale del movimento della bambina di togliere l'ovetto dalla bocca perché è un'imitazione solo dell'effetto (far uscire l'ovetto dalla bocca), ed è anche un'azione molto enfatizzata. Cristina lascia cadere l'ovetto che manipola davanti alla bocca e lo sostituisce con quello appena sputato. La sua azione diventa

così il conseguente dell'azione della psicomotricista,  indipendentemente da quali fossero le sue intenzioni, se mai ce n'erano. Anche a livelli così minimi abbiamo già una doppia connessione che costituisce un primo isolotto di coerenza nel fare caotico di Cristina.

Il modo, dato dall'insieme posturale, con cui la psicomotricista mostra l'ovetto, non costituisce solo l’azione "mostrare l'ovetto", ma anche "giocare a mostrare l'ovetto" e probabilmente ancora qualcosa d'altro. E l'azione di sputare l'ovetto non ha il significato che l'azione "sputare" avrebbe. Anche a livelli così primitivi, il gioco costruisce frammenti di realtà condivisa incorniciando gli accadimenti che così stanno per altro oltre che per se stessi.

Dipende dal/dalla psicomotricista «fissare i limiti ed i segnali che marcano la cornice del gioco, a seconda del tipo e del livello ella patologia. In tal modo le azioni che avvengono all’interno della seduta non sono più considerate segni di ‘umore’ e vengono sottratte all’etichetta di risposte comportamentali obbligate, annoverabili fra i sintomi».   In terapia psicomotoria, spesso, il gioco si realizza non tanto entro la premessa "Questo è un gioco", quanto attorno alla domanda "Questo è un gioco?" Ossia, la cornice deve essere continuamente ridefinita e ricontrattata, per cui la sua stabilizzazione, cioè la distinzione permanente fra finzione e realtà, mondo reale e mondo possibile, diventa un obiettivo della terapia stessa.

Il secondo micro-esempio riguarda una patologia molto diversa: Roberto, bambino con disturbo generalizzato dello sviluppo, e lo psicomotricista stanno facendo rimbalzare un pallone ciascuno. Per la distanza che mantiene rispetto all’adulto e per il modo con cui va a riprendersi il pallone caduto vicino a questi, si capisce chiaramente che Roberto considera l'adulto come pericoloso e che forse questo è uno dei nodi del suo problema. Lo psicomotricista aspetta proprio che sia vicino a lui per far rimbalzare con ancora più forza ed ampiezza il proprio pallone, tenendolo alto sopra la testa. Questa azione può essere connotata come aggressiva per cui l'adulto si propone nel ruolo di aggressore all'interno di un gioco di cooperazione. Il bambino però si allontana di corsa, gettandosi su un materassone.

Ciò infrange la cornice "questo è un gioco" ed interrompe  l'interazione perché la paura di Roberto è reale. Ma il suo assetto posturale, disteso sul materassone e rivolto verso l'adulto, con una gamba flessa come pronta a respingere il pallone, e i gridolini che emette sono letti dall'adulto come una proposta/richiesta di lanciargli il pallone contro. Forse qui si ha una vera e propria commutazione di codice con la costituzione questa volta della cornice "questo è un gioco?".

Il copione "adulto che gioca ad aggredire il bambino" è una finzione, cioè non appartiene al mondo reale, ma ad un mondo possibile in cui Roberto propone e/o accetta di essere aggredito.

Nel mondo possibile del gioco di finzione si può mettere a distanza le difficoltà. Il passaggio dal mondo reale della relazione Roberto-adulto al mondo possibile avviene tramite la costruzione di una cornice composta da segnali verbali e corporei. Segnali verbali sono: «Lo vuoi? Sì! Addosso? Sì! Aaah! Allora, toh!». Segnali corporei sono la postura e la gestualità che veicolano ancora una volta un significato di esagerazione. Il bambino accetta la proposta di gioco.

Il gioco dell'aggressione diventerà via via più complesso, in cui i ruoli si rovesceranno, passando per l'aggressione simbolica ad un corpo reale e l'aggressione reale ad un corpo simbolico, ma per il presente scopo l'esemplificazione può terminare qui. Ci preme far notare che così gli attori della relazione nel mondo reale hanno tratti identificativi diversi dagli attori nel mondo del gioco di aggressione:

  • nella relazione reale Roberto ha paura dell'adulto;
  • nella relazione di gioco Roberto non ha paura dell'adulto;
  • nella relazione reale l'adulto non aggredisce Roberto;
  • nella relazione di gioco l'adulto aggredisce Roberto.

Ma la scommessa terapeutica è proprio che, accettando e costruendo cornici di gioco in cui può assumere ed attribuire ruoli diversi, il bambino impari che così può essere anche nella realtà. Ancora una volta, come nelle interazioni sociali precoci, la realtà è costruita e trasformata grazie alla finzione del gioco.

 

La terapia di attivazione emotiva e di reciprocità corporea

 È sulla base del Metodo Etodinamico che parte dall'osservazione etologica del comportamento sia del soggetto con Disturbo Autistico che delle persone con il quale interagisce che si fonda l'intervento denominato Terapia di Attivazione Emotiva e Reciprocità Corporea (AERC) proposto da Michele Zappella . 

Michele Zappella ha presentato l’AERC, dopo un lungo periodo di esperienze e di studi, nel 1996 col testo Autismo nfantileE. Studi sull’affettività e le emozioni, edito allora da La Nuova Italia- Roma  ed attualmente da Carrocci. Si tratta di un ampio settore di ricerca, iniziato nel 1989 e svolto soprattutto nell’ambito del Reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale di Siena, che ha permesso tra l’altro  la delineazione della cosiddetta “sindrome dismaturativa” in una zona di confine tra autismo,  iperattività e  sindrome di Rett.

Il programma è rivolto ai bambini con autismo o che comunque rientrano nello spettro autistico e, naturalmente, ai loro genitori.

Si tratta di un modo di intervento nei confronti del bambino con autismo o, comunque, appartenente allo spettro autistico, che si propone di creare un canale comunicativo altamente significativo sul piano emozionale, in modo da poter attivare il bimbo su diversi livelli interattivi (motorio, percettivo, ecc..) così da  favorire successivamente una rapida crescita delle sue capacità  e, quindi, un sostanziale miglioramento della sua situazione.   Si basa soprattutto sulla ricerca della motivazione nell’ambiente naturale, usando dei modi che rendano il bambino autistico curioso, in quanto il piccolo dell’uomo necessita per crescere di particolari modalità relazionali con la madre e, comunque, con l’adulto che si occupa di lui. A questo proposito giocano un ruolo fondamentale le variazioni messe in atto dal genitore (della voce, dello sguardo ) sin dai primi giorni di vita del figlio, mentre si pone in sintonia con lui. Il piccolo, allora, come è dimostrato dagli studi di Trevarthen, risponde con  il movimento degli occhi o con i gorgheggi, dando vita ad una sequenza ricca di enormi sviluppi, come l’emergere della intersoggettività primaria e di quella secondaria. Aspetti, questi, spesso carenti o assenti nel bimbo con autismo e che devono poter essere da lui raggiunti  attraverso la creazione di sempre nuove modalità di scambio (reciprocità) da parte dell’adulto che, inizialmente è rappresentato dal terapeuta ma poi, anche, dal genitore.

Il trattamento vero e proprio implica la messa in atto, da parte del terapeuta, di un processo interattivo molto intenso col bambino, cui devono assistere e partecipare i genitori stessi, basato  sulla Attivazione Emotiva. Questa modalità consiste nel creare un aumento quantitativo di stimoli specifici, creando in tal modo una instabilità’ del Sistema Nervoso  e poi esponendolo a una situazione per lui nuova e quindi ridirezionandolo (Zappella). A tal proposito sono significativi gli studi di Bateson e Dudine (1994) con alcuni tipi di animali ma, quello che è determinante nell’autismo è la capacità del terapeuta di modulare il rapporto col bimbo e creare una relazione talmente intensa da rappresentare la base di un progressivo processo evolutivo.  Ciò deve poter essere portato avanti anche dai genitori a casa secondo un percorso organizzativo comprendente periodiche occasioni di incontro tra i genitori, il bambino con autismo ed il terapeuta. Analogamente deve essere attuato un intervento pedagogico strutturato a scuola integrando le migliori metodologie possibili, in riferimento alle specifiche esigenze e alle particolari  caratteristiche del soggetto.

Il terapeuta è colui che svolge una funzione centrale in un tipo di intervento che utilizza fondamentali momenti valutativi rispetto ai sistemi di comportamento che, in un’ottica etologica sono definiti rispetto ai loro scopi (avvicinarsi, allontanarsi, esplorare), in una prospettiva motivazionale (etodinamica) e, quindi, interattiva. Per cui considera sia i modi di risposta del bimbo autistico, che può trovarsi in una situazione di conflitto motivazionale, sia le caratteristiche delle relazioni intrafamiliari, onde favorire adeguati processi collaborativi che richiedono, talvolta, modi di tipo intrusivo, come ad esempio quando si tratta di facilitare nel bambino un tipo di risposta che egli non è ancora capace di esprimere. A questo punto i genitori divengono dei co-terapeuti, in quanto conducono a casa interventi di circa un’ora al giorno.  In conclusione, si tratta di divenire una guida attiva per il bambino, dato che la sua mente ha bisogno di una mente più grande per funzionare, che ne condivida i significati e le dia un senso, utilizzando prima di tutto stimolazioni del tipo “baby talk” (sintonia emotiva), fino a vere e proprie “activities for fun” (divertirsi insieme) per poi determinare le prime esplorazioni della realtà da parte del bimbo. In modo da raggiungere progressivamente i seguenti obiettivi:

  • la intersoggettività primaria
  • la intersoggettività secondaria
  • la spinta all’autonomia motoria
  • l’attenzione alle intenzioni degli altri (teoria della mente)
  • il gioco simbolico
  • la narrazione

Si tratta di un approccio terapeutico ed educativo basato sulla intersoggettività primaria e secondaria. Lo strumento principale è il genitore o il terapeuta che, in un luogo adeguatamente strutturato (ampia stanza dotata di specchio unidirezionale, tappeto, sedie, tavolo, molti giochi), stabilisce una relazione con il bambino attraverso attività ludiche o grafico-pittoriche, mentre l’altro genitore, che poi prenderà il suo posto, guarda dietro uno specchio insieme ad un altro terapeuta cercando di capire quello che sta avvenendo. Questa attività è utile ai genitori per recuperare un rapporto con il figlio spesso fallimentare.

L’AERC prevede una seduta ogni due o tre settimane. Nell’arco di tempo che intercorre tra una seduta e l’altra i genitori a casa provano a ripetere il tentativo di collaborazione con il figlio con l’aggiunta delle variabili derivanti dalla loro fantasia e creatività. Questo approccio ha lo scopo di creare un aumento quantitativo di stimoli specifici creando una instabilità del sistema nervoso perché espone il bambino ad una situazione nuova utile a ridirezionare il comportamento. Lo scopo principale dell’AERC, particolarmente utile per i bambini fino ai sei o sette anni, è quello di promuovere la collaborazione diretta tra genitori ed il bambino affinché egli possa beneficiare di una mente più esperta e più matura.

La triade educativa su cui si fonda l’AERC è dunque la seguente: la capacità genitoriale, le risorse dei bambini e le competenze metodologiche degli operatori. Il metodo punta a rendere protagonisti i genitori e promuovere la loro capacità genitoriale attraverso un percorso di implementazione e sviluppo della loro consapevolezza nel gestire relazioni emotive via via più intense. Il trattamento parte da un evento positivo per la ridefinizione in positivo delle risorse dei bambini e le risorse dei genitori a lungo accantonate. Con l’AERC viene sollecitata e promossa la reciprocità sociale attraverso la collaborazione immediata e diretta tra i genitori ed il bambino. L’approccio è dunque ecologico, di presa in carico globale del soggetto portatore di bisogni e risorse.

Il metodo prevede una serie di fasi attuative: i colloqui con i genitori, la ridefinizione delle abilità presenti nel bambino, la ridefinizione in positivo delle capacità genitoriali, la modulazione della voce per catturare l’attenzione del bambino, la presenza di due terapeuti-educatori, l’uso dello specchio direzionale, l’esposizione a situazioni emozionali intense, l’attivazione motoria e corporea, i tempi brevi di relazione diretta.

Va precisato che, prima di intraprendere un trattamento educativo e terapeutico, l’AERC prevede l’osservazione clinica e una valutazione multifattoriale, medica, psicologica, pedagogica, rivolta alla totalità della persona.

L’AERC è utile nella scuola dell’infanzia e rappresenta l’approccio-base sia per migliorare la qualità della collaborazione del bambino sia per introdurre gradualmente insegnamenti più strutturati.
Spesso capita che il bambino si butti a terra gridando e rifiutando ogni proposta di attività. In questo caso l’educatore prenderà per mano il bambino e correrà con lui coinvolgendo qualche altro bambino. Il bambino con il disturbo autistico si troverà disorientato, incapace di reagire e questa situazione sarà l’occasione per stabilire un contatto corporeo, la reciprocità dello sguardo e l’insegnamento di una semplice attività. Si può anche accettare inizialmente il copione del bambino caratterizzato da comportamenti negativi per modificarlo gradualmente verso comportamenti più accettabili.

L’AERC in famiglia ha lo scopo di ridefinire in positivo le capacità educative dei genitori e delle risorse del bambino mediante la realizzazione di semplici attività per far ripartire una relazione educativa che aveva subito una battuta di arresto. Il gioco rappresenta un bisogno fondamentale di tutti i bambini con o senza autismo, esso si evolve in base agli interessi, allo stadio evolutivo raggiunto. Il bambino autistico trova difficoltà nella reciprocità sociale e nel pensiero immaginativo, competenze indispensabili per lo sviluppo del gioco, ma grazie ad un approccio precoce a valenza AERC si possono favorire la disponibilità, la reciprocità e l’esplorazione, abilità utili allo sviluppo delle prime fasi del gioco. 

L’AERC, per le sue peculiarità, ossia per il fatto di essere un approccio e non un vero e proprio metodo, può essere utilmente integrato con altri modelli di intervento terapeutico ed educativo come, ad esempio, la Musicoterapica e la Terapia Psicomotoria.

L’AERC raggiunge la massima efficacia terapeutica nel periodo di vita che arriva fino ai 7 anni. Tuttavia i processi operativi che permettono all’AERC di integrarsi facilmente con altre metodologie particolarmente attivanti l’autonomia del soggetto, quali IL TEACCH, la TED, la COMUNICAZIONE AUMENTATIVA ALTERNATIVA, i GIOCHI DI MICHELI, le STORIE SOCIALI, le simulate di GUTSTEIN e SHEELY, stanno permettendo il realizzarsi di ottimi risultati anche con ragazzini più grandi e gli adolescenti.

La valutazione degli effetti è specificamente documentata  nel testo di Zappella riguardo ad una ricerca riguardante 50 casi (38 maschi e 12 femmine) ed emergono chiaramente i miglioramenti nella sintonia emotiva, nella dimensione collaborativa, in quella simbolica e della reciprocità. Per ben 7 casi si può parlare di guarigione. Più recentemente (2004, AUTISMO, ed. Erickson) una ricerca di Zanobini - Scopesi - Solari (Università di Genova) ha evidenziato i miglioramenti nel linguaggio spontaneo di 6 bambini trattati con l’AERC.

Aspetto estremamente positivo per questo metodo sono i costi limitati, proprio per il coinvolgimento dei genitori nella terapia. Questi ultimi, comunque, devono poter essere seguiti costantemente dai servizi che attuano l’AERC.

La critica più frequente riguarda la considerazione che l’AERC non sarebbe un vero e proprio metodo strutturato. In effetti, in questo caso, si tratta di un vantaggio poiché l’AERC, presentandosi come un approccio di base all’autismo, da un lato si integra facilmente con le parti migliori di altri metodi strutturati e, d’altra parte, si pone in una continua revisione al fine di sempre meglio  rispondere alle esigenze dei bambini con autismo, anche in riferimento all’evoluzione delle ricerche in atto. A questo proposito, un grande contributo agli interventi AERC sta per evidenziarsi sulla base degli studi  recenti sui NEURONI MIRROR.

 

La Terapia Sensomotoria

Le linee guida per attuare un intervento senso motorio e  per lavorare con questi bambini è importante tener presente la multifattorietà del disturbo e l’età mentale e non quella cronologica del piccolo; la terapia deve avvenire in un arco di tempo abbastanza lungo per favorire l’adattamento all’ambiente, e bisogna agire tramite un approccio globale, che favorisca l’integrazione delle varie competenze che in tali soggetti sono fortemente dissociate; infine, l’intervento deve essere condiviso con i genitori affinché il lavoro venga continuato anche al di fuori del setting terapeutico.

Al fine di lavorare Con questi bambini sui processi simbolici bisogna innanzi tutto aiutarli ad esprimere le loro emozioni, motivandoli, attraverso l’evocazione dei fantasmi d’azione: la rappresentazione inconscia di un’azione, il desiderio e il piacere di ricreare l’oggetto e di agire su di lui (Aucouturier, 2005). Infatti, attraverso la sperimentazione senso-motoria, in particolare l'esperienza del piacere legato al movimento e alla stimolazione sensoriale a livello propriocettivo, enterocettivo e labirintico è possibile sollecitare e far eseguire i salti da diverse altezze, giochi di equilibrio/disequilibrio, salite e discese, scivolamenti, rotolamenti, trascinamenti, permettendo, così, la rievocazione di angosce arcaiche. Il piacere di esistere e di pensare è strettamente collegato con il piacere di agire. La motricità è supporto dell’azione ed è compresa all’interno di un processo evolutivo. Agire è esistere. Attraverso queste azioni il bambino comunica le sue emozioni, le esperisce e le manifesta attraverso un gioco senso-motorio che assume una funzione rassicurante (giochi di rassicurazione profonda), (Aucouturier, 2005).

Dunque, facciamo emergere le emozioni di questi bambini, che in un contesto normale rimarrebbero del tutto amimici e poco recettivi.

Ad esempio, dopo aver rievocato con il bambino la sensazione della caduta attraverso una serie di equilibri e squilibri sulla palla gli permetteremo di rivivere questa sensazione trasferendola sugli oggetti: prenderemo tutti i cuscini e li metteremo uno sopra l’altro in modo da creare una torre, che il bambino potrà buttare giù. La ripetizione dell’evento più volte eseguita permette di creare successivamente una suspance comunicativa, mediante pause tra un’attività e l’altra, in modo tale da indurre il bambino a comunicare perché possa ottenere il piacere dell’evento che è stato opportunamente interrotto e condividere l’attenzione e le emozioni con l’altro. Ciò aiuterà il piccolo a comprendere le intenzioni altrui. In seguito, potremmo variare il gioco, buttando noi stessi la torre addosso al piccolo sottolineando l’azione con affermazioni del tipo: “attento cade!”.

Quando il bambino riuscirà a capire le intenzioni dell’altro attenderà che la torre gli cada in testa; è solo allora che potremmo prolungare i tempi di gioco, caricando emotivamente la situazione, in modo tale che il bambino, assorbito dalla situazione stessa, condivida il gioco.

Così facendo, possiamo aiutarlo ad entrare in un contesto simbolico mediato dagli oggetti, sostenere la comprensione del contesto e la condivisione con l’altro. Difatti, mentre il bambino è sommerso dai cuscini ci avvicineremo a lui e, mediante i cuscini stessi, potremmo costruire un ponte dove passare sotto o una casa dove entrare, permettendo al bambino di comprendere che quelli non sono più i cuscini del gioco precedente, ma in quel contesto si sono trasformati in una casa dove ci si ripara, o in un ponte dove passare sotto con la macchina. L’azione verrà sostenuta dal terapista attraverso verbalizzazioni come:

“Entriamo in casa!” o “Passiamo sotto il ponte!”. Una volta che il bambino si sarà inserito nel contesto (la casa) e saprà condividerlo con l’adulto (stando dentro insieme), si potrà lavorare sull’assunzione dei ruoli e sulla comprensione degli stessi.

Per esempio, il terapista fingerà di essere il lupo che vuole distruggere quella casa. Assumendo con la postura le fattezze dell’animale in modo goffo e buffo, affinché il bambino non si spaventi si avvicinerà lentamente dicendo: “Attenzione crolla tutto!” L’anticipazione emotiva attraverso la verbalizzazione prima dell’evento stesso permette al bambino di reagire e di entrare nel ruolo che è opportuno per quel contesto e cioè fuggire via o restare per essere “mangiati” dal lupo. In ogni caso il bambino è inserito in un ruolo che non può eludere sia nel caso che agisca sia che resti passivo. A questo punto dell’attività il terapista proporrà al bambino lo scambio di ruoli accordandosi con quest’ultimo sul copione che devono mantenere. Al termine il gioco si conclude con l’integrazione ovvero sulla capacità del bambino di rappresentare e organizzare una problematica narrativa: egli dovrà rappresentare un episodio con un problema iniziale, un corso di azioni mirate a risolverlo e un lieto fine.

All’inizio si potrà lavorare attraverso il racconto di una storia analoga a quella accaduta al bambino nel setting terapeutico, i tre porcellini, narrata ovviamente dal terapista: ciò permetterà al bambino di prendere le distanze dalle sue emozioni e comprendere il gioco. Quindi, si porterà  il piccolo a prendere ulteriori distanze dal vissuto emotivo, mediante l’attività grafica. Difatti il disegno permette al bambino di proiettare la sua storia affettiva vissuta attraverso il gioco simbolico anche soltanto con la traccia grafica quale mezzo di espressione della propria pulsionalità (Aucouturier, 2005).

A questo punto, sarà il terapista a disegnare, rappresentando la storia dei tre porcellini, per consentire al bambino di comprendere le sequenze spazio temporali della vicenda. In un secondo tempo, invece, il bambino potrà egli stesso rappresentare graficamente, o attraverso l’attività plastica, quello che gli è accaduto. Sotto proposta dell’operatore il piccolo, infine, racconterà la sua rappresentazione, esprimendo quello che ha provato e dimostrando di avere compreso la consequenzialità della storia ed il gioco dei ruoli. È utile, però, che il terapista scriva le parole del bambino: ciò permetterà ad entrambi di ripercorrere insieme la storia, attraverso le parole e le immagini prodotte dal piccolo.

Al fine di suscitare la consapevolezza di sé e dell’interazione con l’altro.

In conclusione possiamo affermare che un intervento riabilitativo psicomotorio, incentrato sullo sviluppo senso motorio e sull’integrazione dell’attività ludico-simbolica, favorisce un cambiamento positivo in tutte le aree di sviluppo. L’evoluzione dei processi simbolici, infatti, và ad influire sulle capacità affettivo-relazionali del bambino stesso e sulle abilità comunicative e narrative di quest’ultimo.

 

Image
Image
Image
Image
Image
Image
Image
Image

Accedi / Crea il tuo account