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Perché il termine “NEUROPSICOMOTRICISTA” viene associato al "Terapista della NEURO e PSICOMOTRICITÀ dell’Età Evolutiva" ?

Storia e basi teoriche della "Clinica Transculturale"

Il fenomeno della globalizzazione culturale

Il fenomeno della globalizzazione, associato ai vari processi di produzione di beni e servizi su scala mondiale, porta ad una ineguale e talvolta irrazionale distribuzione delle ricchezze; questo fenomeno ha contribuito in maniera decisiva nella nascita e sviluppo del fenomeno più macroscopico dell'epoca moderna: la migrazione dai Paesi del Sud del mondo, verso quelli del Nord. A causa di diverse dinamiche personali o nazionali (povertà, guerre, ricerca di qualità di vita migliore...), centinaia di migliaia di persone si sono spostate dapprima all'interno del proprio Stato, nella speranza di trovare situazioni maggiormente favorevoli. La maggior parte delle volte però, questi stessi soggetti sono stati costretti ad abbandonare la Terra nativa e cimentarsi nell'impervio e tortuoso viaggio verso nazioni lontane. Diverse ricerche sono state effettuate riguardo al fenomeno dell'immigrazione; analizzando la situazione riguardante il bacino mediterraneo, si è notato come le grandi città si siano pian piano andate a "multiculturalizzare". A cambiare però non è soltanto la nazionalità dei cittadini presenti nei grossi centri urbani, ma la fisionomia stessa della Città; si pensi ad esempio alla nascita di vere e proprie piccole "China – town" in centri urbani densamente popolati. Altro esempio potrebbe essere l'introduzione di nuovi tipi di alimenti/cucine o oggettistica tipica di un particolare gruppo culturale (esempio eclatante in ambito culinario è l'elevata presenza di chioschi dove si consuma kebab). La "multiculturizzazione" non riguarda solo la diffusione ed il consumo di beni, ma anche la stessa cultura della persona e forse, addirittura l'idea di sviluppo e benessere del proprio corpo e della mente. A tale proposito si può osservare come in diverse strutture (ad esempio palestre), siano presenti dei corsi di yoga, meditazione ed altre pratiche diffuse nel mondo Orientale. In Italia, così come in tutto il mondo, le infrastrutture stanno progressivamente cambiando conformazione; tale processo risulta essere in qualche modo naturale, in quanto nell'inter – scambio, le persone tendono ad adattarsi vicendevolmente. Risulta quindi necessario porsi il problema di come rispondere nel modo più corretto possibile, alle diverse esigenze di cura e salute di questi nuovi cittadini. Bisogna infatti entrare nell'ottica che gli immigrati stessi, col passare del tempo, entreranno a lavorare in servizi e infrastrutture dei "Paesi ospiti". In ambito clinico e Medico, i vari servizi del Sistema Sanitario Nazionale, si stanno ri - organizzando in senso trans – culturale, in modo da rendere più facili le consultazioni e le prestazioni di cui il soggetto immigrato necessita. Così come la scienza medica è andata ad approfondire e a riorganizzarsi in ambito interculturale, anche la Psicomotricità (o Neuropsicomotricità), ha il dovere deontologico e scientifico di porre la propria attenzione su tale dinamica clinica. Si parla quindi di "psicomotricità interculturale", termine di derivazione psicoanalitica (si parla di psicologia trans - culturale), le cui basi teoriche sono state formulate da Devereux e Nathan. Avendo osservato come sia la società stessa a mutare e a divenire sempre più multi – culturale, risulta una naturale conseguenza il fatto che l'educazione o (come nel caso della pratica Neuropsicomotoria), la percezione del proprio corpo da parte di ciascun soggetto, stia cambiando in senso interculturale. Risulta quindi particolarmente evidente come la percezione della propria corporeità (elemento principe e fondante della pratica psicomotoria), abbia risentito in questi ultimi decenni, dell'influenza interculturale che le varie migrazioni hanno comportato e come queste abbiano modificato l'esperienza stessa della corporeità di ciascun soggetto. Secondo l'opinione di un ampio gruppo di clinici, le pratiche della Psicomotricità necessitano di una revisione  e vanno in qualche modo ri – pensate poiché la percezione stessa del corpo, classificata come normale, che ogni cittadino sviluppa, risente in maniera importante del clima interculturale della società in cui attualmente si vive. Per il terapista della Neuro e Psicomotricità interessato a comprendere come venire incontro nel modo più rispettoso possibile allo specifico bisogno di salute espresso dal cittadino moderno (multiculturalizzato), l'interscambio culturale che si verifica quotidianamente all'interno della società, non deve essere assunto come uno "sfondo" della propria indagine, ma dovrà concentrarsi sulla figura che si potrebbe cominciare a definire "mutamento propriocettivo del corpo in senso interculturale". Un importante assunto teorico consiste nel ritenere necessario un cambiamento di base nel modo di vivere il proprio corpo, non solo per quanto riguarda i cittadini migrati, ma anche nei cittadini delle società ospiti. Si vuole quindi introdurre una novità nel panorama terapeutico: non si tratta più di conoscere "accademicamente " quali e quanti siano le culture del corpo degli "altri", bensì interrogarsi su come sta cambiando per ciascun individuo, la percezione del proprio corpo sotto la spinta della nuova costituzione simbolica e materiale della società "interculturale". Nel campo della Neuro e Psicomotricità il problema dell'intercultura è stato avvertito da più parti e si osserva come le diverse scuole cerchino di affrontare le problematiche legate a tale tema, andando così a delineare un certo pluralismo dalla sfumatura multiculturale. Per poter giungere ad una definizione di "Psicomotricità interculturale" è necessario ripercorrere le fasi salienti della nascita e dello sviluppo della disciplina Psicomotoria.

 

Storia e principi della Psicomotricità

Scienza e pratica relativamente giovane, la Psicomotricità affonda le proprie radici nella Fenomenologia del '900, così come nella medicina Occidentale e nella psicanalisi Freudiana. Grazie all'opera pionieristica di autori come Wallon, Duprè e Schilder, la Psicomotricità già prima dei grandi conflitti del secolo scorso, crea un proprio repertorio teorico di concetti fondanti e prassi (tono, schema corporeo, propriocezione, disturbi psicomotori, immagine corporea, organizzazione tonica e coscienza corporea), che hanno influenzato anche le altre scienze umane con cui la disciplina Psicomotoria si è sviluppata per mezzo di un dialogo inter e trans – disciplinare. La generazione di studiosi successiva al secondo conflitto mondiale (tra cui Ajuriaguerra, Lapierre, Le Boulch, Acouturier, Picq e Vayer), hanno ripreso in maniera originale, gli spunti forniti dagli autori della "prima" generazione, sviluppando delle vere e proprie scuole con tecniche e fondamenti teorici differenti, ma tutti concentrati a valorizzare la "cultura del corpo". Picq e Vayer hanno sviluppato un tipo di Psicomotricità con approccio olistico all'educazione, mentre la Fenomenologia di stampo husserliano rivive in Le Boulch; Acouturier invece si ispira alla Psicoanalisi Freudiana (aggiungendo però alcuni concetti originali come ad esempio il "fantasma d'azione, mutandolo da Winnicott). Ajuriaguerra e Soubiran sviluppano un approccio fondato sull'aspetto neuro – psicologico; nonostante questi due autori abbiano sviluppato teorie e pratiche differenti, entrambi considerano fondamentale la questione legata all'esperienza personale nella formazione dello psicomotricista. Ciascuna di queste scuole ha sviluppato pratiche e teorie che tengono sempre conto della pluralità delle civiltà di cui la società si compone; vengono quindi forniti agli alunni i principi e le tecniche fondamentali della Psicomotricità, ma starà poi a ciascuno di essi adattare ed eventualmente apportare il "sapore" delle loro culture e civiltà di provenienza. L'obiettivo principale è quello di fornire e identificare quei concetti irrinunciabili della Psicomotricità a partire dai quali, sia possibile mettere in contatto attraverso un dialogo scientifico – epistemologico e culturale con altre scienze umane, sia con altre civiltà nelle quali sono presenti specifiche "culture del corpo". In altre parole si vuole puntualizzare come la "Psicomotricità interculturale" si vada a costituire di "diverse culture del corpo", che sono però compresenti sullo stesso territorio nazionale.

La pratica psicomotoria incontra la Psichiatria transculturale

I concetti chiave della Psicomotricità, comuni a tutti i diversi approcci sono lo schema corporeo, l'immagine corporea, il tono muscolare, il dialogo tonico, il vissuto tonico – emozionale e il vissuto fantasmatico. Nella storia della Psicomotricità, già a partire dal periodo dei pionieri, questi concetti sono stati forgiati negli stessi anni in cui altre scienze andavano avanti come nei campi della Psichiatria (Nathan e Devereux) e della Psicoanalisi (Winnicott, Dolto), ma anche nella Psicologia culturale e dell'intelligenza (Bruner e Gardner). In seguito, il panorama delle discipline scientifiche si è arricchito ancora di più con l'ingresso delle Neuroscienze a partire dagli anni '80. Andando ad analizzare ogni singolo campo sviluppatosi contemporaneamente alle principali scuole di Psicomotricità, risulta doveroso soffermarsi sul contributo di George Devereux. Psichiatra di origine Rumena, Devereux ha più volte esplicitato il proprio debito nei confronti dell'Antropologia, in particolare nei confronti di Marcel Mauss. Egli in uno dei suoi scritti (Les Techniques du corp, 1936), sottolineò come gli uomini siano in grado di servirsi del proprio corpo in base alle tradizioni della società da cui provengono. Mauss sottolineava l'esistenza di modi differenti che l'individuo mette in essere per accomodarsiall'ambiente, ovvero alle diverse manifestazioni culturali che sono proprie di una determinata società. In seguito a diversi studi, Mauss arrivò a considerare l'idea dell'esistenza di una pluralità di culture. Partendo da queste basi teoriche, il medico e psichiatra George Devereux, iniziò ad operare quel lungo lavoro di rielaborazione del concetto di cultura e di malattia mentale che lo portò a definire una nuova branca scientifica: l'Etnopsichiatria, in cui si vanno ad analizzare le possibili relazioni tra psiche e cultura. Come ci ricorda il suo più grande allievo Tobie Nathan, Devereux sosteneva che l'Etnopsichiatria dovesse studiare principalmente le perturbazioni generate dal contatto interculturale; essa, cioè, "studia la configurazione fenomenica degli stati di disordine emotivo, cognitivo, comportamentale e somatico nelle varie culture; le strategie culturali di individuazione, denominazione e interpretazione di tali fenomeni; le operazioni mentali, culturalmente codificate, di adattamento e manipolazione di questo disordine. L'Etnopsichiatria si avvale della metodologia complementare che sta costruendo il proprio oggetto su un piano antropologico e psicopatologico. Le culture, infatti, forniscono sempre un modello sintomatologico, una classificazione nosografica, una teoria eziologica specifica, una tecnica terapeutica codificata" (Devereux, citato in Nathan, 1996).

 

George Devereux: principi e nascita della Psichiatria transculturale

L'esistenza di George Devereux – il cui vero nome era Gyorgi Dobo – è impregnata e caratterizzata dall'idea di fondo delle sue teorie: solo l'intima correlazione tra fattori mentali e culturali, può spiegare lo sviluppo di processi psichici consci e inconsci; inoltre egli sosteneva che per comprendere a fondo i fatti reali e le diverse dinamiche comportamentali, era necessario l'apporto di diversi punti di vista disciplinari differenti, multipli e complementari tra loro.

Devereux ebbe infatti una vita all'insegna della tranculturalità; nato nel 1908 da una famiglia ebrea in una località della Transilvania, cambia il suo nome in Gheorghe una volta terminata la prima guerra mondiale, in seguito all'annessione della provincia natia da parte della Romania. In seguito al suicidio del fratello davanti ai suoi occhi, Devereux decide di trasferirsi a Parigi nel 1925, dove studia chimica e fisica con Marie Curie. Decide in seguito di studiare lingue orientali  e successivamente etnologia; fu nel 1933 che egli iniziò le proprie ricerche sul campo, recandosi in un primo tempo tra gli hopi (popolazione Amerinda), per poi approdare in Colorado presso i Mohave. Fu sempre in questi anni che Gheorghe Dobo decide di convertirsi al cattolicesimo e cambia il suo nome in George Devereux. Negli anni successivi, grazie ad una borsa di studio, si trasferì negli Stati Uniti e nel giro di qualche anno, diventa cittadino Americano. Negli anni si susseguirono diversi spostamenti dagli USA a Parigi, dove nel 1964 si stabilisce definitivamente e viene nominato direttore dell'Ecole Pratique des Hautes Etudes. L'ultima parentesi Parigina fu caratterizzata da un fertile periodo di sviluppo teorico in cui Devereux riconosce il debito intellettuale dovuto ad antropologi come Lévi – Strauss e Balandier. Continuerà fino al termine della sua vita (1985) a svolgere ricerche sul campo presso i Mohave; le sue ceneri furono disperse proprio in quei territori (nel Sud – Ovest degli Stati Uniti), che lui ha sempre amato.

Inconscio della personalità etnica & Inconscio idiosincratico

Devereux fonda il proprio pensiero dall'idea psicoanalitica che l'inconscio sia formato da due componenti: ciò che è stato rimosso dalla coscienza, meccanismi di difesa e parte del Super – Io e ciò che non è mai stato cosciente. A sua volta, la componente rimossa può essere suddivisa in altre due categorie: il segmento inconscio della personalità etnica e l'inconscio idiosincratico. La prima è quella porzione dell'inconscio che ciascun individuo ha in comune con la maggior parte dei membri della sua cultura: tutte le generazioni, attraverso il funzionamento delle diverse istituzioni (famiglia, scuola...), impara a rimuovere, attraverso meccanismi di difesa ben definiti, alcune fantasie e pulsioni. Questo è quindi un processo strettamente di tipo culturale, realizzabile per mezzo di pratiche educative senza che vi sia una base innata e di tipo biologico come sostenuto da Jung. La seconda categoria (l'inconscio idiosincratico), composta da elementi rimossi a causa di stress o traumi, può essere a sua volta suddivisa in due tipi: situazioni rare nella cultura oppure situazioni abbastanza frequenti che possono quindi essere riformulate dal soggetto con modalità legate alla cultura di appartenenza. Partendo da questa ipotesi, ne consegue che i sintomi della patologia psichica sono in qualche modo, inevitabilmente declinati culturalmente. Devereux propone come esempio un soggetto in cui siano manifeste eventuali difficoltà edipiche; queste dipendono sia da problematiche edipiche soggettive, ma trovano inevitabilmente elementi della cultura d'appartenenza che permettono di esprimere i sintomi in modo "culturale". E' proprio questo il punto centrale di tutto il pensiero di Devereux: sicuramente la matrice culturale ha un ruolo importante, ma è l'individuo, nella sua unicità intrapsichica, il soggetto fondante ed irripetibile la cui azione non è mai vista in maniera deterministica. Viene quindi a crearsi il concetto di universalità psichica: un funzionamento psichico comune a tutti gli individui, in cui l'inconscio svolge un ruolo fondamentale, che va però ad articolarsi con la matrice culturale e la lingua. In termini generali, si può dire che i disturbi psichici debbano essere interpretati come culturali. Bisogna però porre la propria attenzione sul significato che il clinico (ma più in generale la comunità scientifica), tende a dare alla sintomatologia del paziente. In passato per esempio, i tratti che caratterizzavano un paziente schizofrenico erano elementi tipici e spesso valorizzanti della società occidentale. L'azione della cultura sul sintomo si palesa anche sull'interpretazione che la medicina del tempo dava a quelle determinate manifestazioni cliniche da parte del malato. Ai tempi di Freud il prototipo del paziente nevrotico presentava un comportamento tipicamente "isterico"; oggi invece esistono altri tipologie di sintomi, come ad esempio quelli schizoidi, borderline che vengono quindi definite come "sindromi legate alla cultura".

L'influenza dell'osservatore sull'oggetto osservato & il principio di complementarità

Le nuove scoperte scientifiche in ambito fisico, hanno ispirato Devereux nell'ideare altri due principi fondamentali della propria teoria: l'influenza dell'osservatore sull'oggetto e il principio di complementarità. Devereux sviluppa questi due punti teorici partendo dal principio di indeterminazione di Heisenberg e dal principio di complementarità di Bohr. Secondo il primo, per potere comprendere il comportamento delle particelle di luce, è necessario tenere conto di due differenti interpretazioni: la prima legata alla massa e alla posizione della particella, l'altra alla sua velocità. E' stato stabilito che è impossibile definire (contemporaneamente), il comportamento della particella di luce in assoluto, ma lo si può definire andando ad analizzare le singole componenti che caratterizzano il fenomeno osservato. In altre parole, le procedure di osservazione, modificano le caratteristiche dell'evento in questione; inoltre entrambe le spiegazioni fornite risultano essere valide e sufficienti a spiegare il comportamento partendo dalla dimensione presa in considerazione (in questo caso massa e velocità). Trasferendo tali principi nelle scienze del comportamento, Devereux sostiene che i comportamenti umani, in quanto fenomeni complessi e derivanti da più cause (equivalenti alle particelle luminose di Heisenberg), possono essere spiegati per mezzo di categorie totalmente distinte. Ognuna di queste è in grado di fornire spiegazioni nell'ambito del proprio sistema concettuale di riferimento, non andando però a sconfinare in altri domini conoscitivi che esulano dalle proprie conoscenze. I due sistemi esplicativi vengono quindi definiti come complementari. Devereux sottolinea come si vada a spiegare solamente un determinato comportamento umano, non della sua esperienza da parte del soggetto. Un comportamento può essere interpretato in maniera differente dall'osservatore (che quindi influenza l'oggetto di studio), nel caso in cui utilizzi la dimensione esterna, culturale (attingendo dalla disciplina antropologica), oppure quella intrapsichica (utilizzando la psicologia). L'esperienza della persona tende ad unire le due componenti, andando così a formare il vissuto soggettivo del comportamento analizzato. In questo passaggio si nota come Devereux sia strettamente legato e influenzato dalla Psicoanalisi di Freud; egli sostiene che le scelte e le azioni dell'osservatore siano essenzialmente inconsce. Viene quindi spontaneo il riferimento al controtransfert: il comportamento di un paziente genera una reazione circolare in cui l'osservatore risponde con le proprie reazioni affettive inconsce, ovvero con il suo controtransfert. Le conseguenze importanti che si vengono a creare da queste dinamiche sono essenzialmente due. Per prima cosa, la comprensione di un fenomeno può avvenire solo attraverso la relazione tra osservatore e osservato, considerata nel suo insieme. Per di più, il "soggettivo" non risulta essere fonte di errore, bensì è la fonte stessa della conoscenza del fenomeno considerato. Poiché tale reazione/relazione è quasi totalmente inconscia, e dato che l'inconscio è in parte etnico, ne consegue che la stessa relazione tra osservatore (terapeuta) e osservato (paziente) è caratterizzata dalla reciproca appartenenza culturale. Assumendo queste basi teoriche Devereux arriva ad ipotizzare il cosiddetto controtransfert culturale.

Il complementarismo

In secondo luogo lo psichiatra di origini Rumene, è giunto alla conclusione che l'approccio psicologico e quello sociologico (o antropologico), non devono essere interpretati in un'ottica interdisciplinare: i due sistemi interpretativi non devono essere sommati in modo da fornire una spiegazione più ampia o migliore. Ci si trova invece di fronte ad una pluridisciplinarità, ovvero ad un doppio discorso in cui ogni disciplina fornisce il proprio contributo che risulta valido se non sconfina dal proprio campo di interesse e competenza. Un reale aumento della conoscenza di un fenomeno comportamentale, si ha quando molteplici interpretazioni, differenti tra loro, convergono verso un unico quadro; in altre parole quando le conseguenze comportamentali delle due diverse spiegazioni sono le stesse. In una delle sue ultime opere Devereux presenta un importante modificazione della tecnica psicoanalitica che risulta necessaria nel momento in cui si lavora con soggetti provenienti da altre culture. Il punto di partenza del lavoro clinico è l'analisi dei significati tradizionali (oggetti del quotidiano, artefatti, abitudini sociali...); secondariamente bisogna anche porre attenzione alla posizione e alla postura che il terapeuta assume nel corso delle sedute, il quale dovrebbe assumere un'attitudine affine a quella del guaritore tradizionale, o addirittura dello sciamano, a seconda della cultura di appartenenza del soggetto. I principi di Devereux e la clinica transculturale vanno a riprendere le idee di Michel Foucault, il quale afferma che psicoanalisi ed etnologia sono due discipline molto vicine che operano su un campo comune che è quello dell'inconscio. Il punto che maggiormente le unisce è l'esperienza soggettiva individuale che si realizza in un numero limitato di scelte possibili, definite dalla cultura in cui si vive e dai suoi significati.

 

Tobie Nathan e l'Etnopsicoanalisi

Il passaggio fondamentale tra le teorie di Devereux e quelle elaborate dal suo più celebre allievo Tobie Nathan, è stato l'avvento della società multiculturale a partire dagli anni '70 in poi. Si apre quindi un periodo di "ibridazione" delle società che porta con sé un naturale interscambio di idee, credenze e costrutti culturali tra i nuovi cittadini e quelli residenti. Nathan si trova quindi davanti ad un nuovo scenario sociale, in cui la nuova utenza immigrata chiede aiuto alle istituzioni di igiene mentale e servizi Psichiatrici. In questa nuova cornice sociale, si è osservato come i rapporti tra cultura e psicoanalisi si siano col tempo spostati dall'obiettivo di verificare ed applicare la teoria di Freud in differenti culture (rispetto a quella Occidentale), fino ad elaborare (sempre partendo dalla psicoanalisi), una specifica teoria mente – cultura viste nella loro complementarità. Questa ultima visione vide in Tobie Nathan (nato nel 1948), il suo più stremo sostenitore ed attuatore attraverso la propria attività clinica. Allievo di Devereux, col quale collaborerà fino al 1981, fonda diverse riviste di etnopsichiatria e porta avanti il pensiero del proprio maestro, andando però ad approfondire e a superare la psicoanalisi e focalizzando l'attenzione sulle eziologie proprie dei saperi tradizionali, in modo da comprendere lo sviluppo ed il senso sia del comportamento normale nella cultura sia di quello patologico. Una seconda differenza tra Devereux e il proprio allieva Nathan consiste nel fatto che secondo il primo, il complementarismo porta necessariamente alla clinica e trova la propria efficacia solo all'interno di determinati modelli e dispositivi di cura.

La psicoanalisi e le teorie intermedie

Nathan cerca di effettuare un ulteriore passo in avanti rispetto alle teorie del proprio maestro; egli infatti ritiene preferibile utilizzare teorie intermedie rispetto alla psicanalisi, disciplina tanto cara a Devereux. Tali teorie devono quindi risultare esplicative ed efficaci clinicamente, permettendo quindi il passaggio a nuove teorie e tecniche, evitando di rimanere ancorati ad una teoria generale in psicoanalisi. Nathan sostiene che le interpretazioni del funzionamento psichico, le terapie e le tecniche tradizionali delle culture, debbano essere integrate al sistema concettuale e tecnico occidentale, nel momento in cui si lavora con famiglie o pazienti immigrati. Egli sostiene che solo la disciplina della psicoanalisi possa andare a modificarsi e ad avvicinarsi a quelle terapie "tradizionali" e a sua volta possa ricevere dei contributi da queste. Si potrebbe quindi considerare ogni osservazione etnopsichiatrica come una variante sperimentale della situazione psicoanalitica, andandone a trarre conseguenze sia dal punto di vista teorico che clinico.

I saperi tradizionali come scienze esatte

Uno dei capi saldi della teoria di Nathan è quello riguardante la definizione dei sistemi e dei saperi di cura tradizionali, quelli degli sciamani, dei guaritori. Questi sono da considerarsi delle vere e proprie scienze esatte e rappresentano tecnologie sofisticate all'interno del funzionamento di una cultura. Egli in questa visione (simile a quella della psicologia culturale), individua una tendenza comune: i dispositivi e i saperi tradizionali, spostano il focus d'interesse dal visibile all'invisibile, dall'individuo al collettivo e da ciò che è fatale a quel che è riparabile. Ci si trova infatti ad avere a che fare con società e culture che hanno una conformazione di universi multipli che vanno a contrapporsi alla società occidentale considerata attualmente come un universo unico. Per le prime i fenomeni magici, legati allo spirito e dell'invisibile hanno altrettanta consistenza e logica della realtà fisica, lineare e concreta.

I meccanismi terapeutici

Nathan arriva a formulare una sorta di dispositivo terapeutico per il trattamento delle patologie psichiatriche di questi nuovi cittadini del mondo. Egli sostiene che il soggetto immigrato si trova inserito in due diverse realtà (anche dal punto di vista della malattia); entrambi risultano essere attivi e present, sia per quanto riguarda le rappresentazioni interne del soggetto si per quanto riguarda la possibilità di utilizzare diversi principi e tecniche di cura. Secondo Nathan non è funzionale creare un dispositivo terapeutico che produca un cambiamento basato sul percorso classico della psicoanalisi. E' necessario invece far rivivere i legami con le radici culturali del soggetto e le fratture con le origini legate al processo migratorio che sono anche l'origine della patologia. Per fare ciò, bisogna necessariamente adottare logiche e modalità tipiche delle culture tradizionali e dei loro guaritori. In primo luogo è necessario quindi andare a comprendere l'eziologia tradizionale del disturbo ed ottenere velocemente (sempre seguendo una logica tradizionale), un cambiamento e "riparazione" intrapsichici. L'etnopsicoanalisi deve utilizzare tecniche particolari che si riallaccino a dinamiche della tradizione come ad esempio l'utilizzo del gruppo, il rilassamento corporeo, la trance o gli oggetti usati come magici.

 

Marie Moro e il ritorno alla Psicanalisi Freudiana

Dopo avere illustrato i capi saldi delle teorie pionieristiche di Devereux e Nathan, risulta necessario esporre le ultime innovazioni proposte dalla Dottoressa Marie Moro, medico psichiatra membro della Società psicoanalitica di Parigi. Nonostante il pensiero e le teorie di Nathan fossero innovative e portassero nuovi metodi di lavoro in ambito transculturale, vennero comunque criticati aspramente dalla comunità scientifica. Innanzitutto viene fatto notare come la sua esperienza terapeutica sia limitata a piccole minoranze culturali presenti sul territorio Parigino. In secondo luogo, la comunità Psicoanalitica accusa Nathan di essersi discostato eccessivamente dal paradigma originario, sviluppando un approccio diverso, eterodosso e sostanzialmente relativistico. Fu però Marie Moro, che riprese il discorso iniziato da Devereux e Nathan legato alla psicoanalisi ed alle diverse esperienze transculturali.

Le ipotesi di fondo

La fase iniziale del lavoro della Moro parte da un'ipotesi fondante, ovvero che la relazione genitori – bambino può esistere solo all'interno di un sistema interattivo generalizzato: il sistema culturale a cui i genitori appartengono. Per poter curare i disturbi di bambini e adolescenti, è necessario per prima cosa, agire sull'interazione tra i genitori e la propria cultura d'origine. Tale posizione "culturale" è attuata all'interno del paradigma psicoanalitico classico e necessita di essere interpretata come una modalità per rendere più ricco e articolato tale modello, così da poterlo applicare in un mondo ormai diventato articolato e ricco. Secondo la Moro, il fatto di intervenire prima sull'interazione tra genitori e il proprio sistema culturale può valere per tutte le esperienze terapeutiche, a prescindere dal trattamento con pazienti stranieri. Una seconda base teorica è quella di accogliere e utilizzare l'approccio complementaristico di Devereux, utilizzato sia come metodo di lavoro, sia come posizione interiore del terapeuta o di chi ascolta in una situazione di cura. E' necessario quindi utilizzare insieme ma non contemporaneamente sia l'Antropologia che la Psicoanalisi, sempre che ognuna non vada ad invadere il campo di competenza dell'altra. Il terzo paradigma teorico afferma che il rapporto tra identità e cultura può essere compreso solo all'interno di legami e dinamiche presenti tra una generazione e l'altra. Anche in questo caso, tale principio teorico non riguarda solo i soggetti stranieri; Moro sostiene che ognuno di noi sia portatore di un mandato transgenerazionale e che questo affondi le proprie radici nella vita psichica infantile dei nostri genitori che a loro volta si basano sulle relazioni con la generazione dei propri genitori (ovvero dei nonni). Tale discorso vale a maggior ragione tra i figli dei soggetti migrati (la cosiddetta seconda generazione); i genitori sono infatti messi di fronte ad un "tempo significativo dell'esperienza" che è il trauma migratorio: un viaggio – percorso che conduce ad un mondo diverso e a forme inevitabili, potenzialmente problematiche ma al contempo creative di meticciamento sia di identità che di pensieri e comportamenti.

I Principi della Clinica Transculturale

Partendo da tali basi teoriche, la Dottoressa Moro propone un modello di clinica transculturale che pone le sue fondamenta su specifici punti. Il primo principio è quello di universalità psichica, termine già usato ed adottato da Devereux e del quale la Moro sottolinea l'importanza in quanto ne consegue la necessità di attribuire uno stesso statuto a tutti gli esseri viventi e ai loro stili di vita e tradizioni culturalmente caratterizzate. Questo non è solamente un principio strettamente teorico, ma dal punto di vista terapeutico, esso sottolinea come sia necessario comprendere dall'interno gli elementi che vanno ad influenzare il corpo, la mente e l'ambiente del soggetto. Un secondo principio concerne la necessità della continua e necessaria codifica culturale, che deve interessare sia i soggetti immigrati e i loro figli, ma anche la società che li accoglie ed i terapeuti. La codifica culturale è possibile soprattutto attraverso la lingua e le categorie di pensiero; si possono distinguere in particolare tre livelli di codifica che sono necessari per accogliere, capire e curare. Innanzitutto bisogna cogliere le rappresentazioni dell'essere bambino, genitore e via discorrendo: bisogna avere ben presente cosa sia ciascuno di questi ruoli sociali, di cosa abbia bisogno e cosa debba fare nella cultura del paziente. Il livello successivo è quello del significato e consiste nel comprendere il senso degli avvenimenti della vita del paziente (e del nucleo familiare), così come viene definito dalla loro cultura. L'ultimo passaggio è quello del fare che riguarda le aspettative del paziente nei confronti di chi si prende cura di loro. Un ultimo principio su cui si basa la clinica transculturale riguarda la necessità di inquadrare i pazienti in un panorama di modificazione della cultura. Questo si va ad intrecciare con un quarto principio (già introdotto da Nathan) che è quello riguardante le relazioni tra le generazioni.

Il dispositivo di cura

Le teorie della Dottoressa Moro si realizzano attraverso un'organizzazione terapeutica all'ospedale di Avicenne a Bobigny. Si tratta per prima cosa di un sistema di cure a geometria variabile, flessibile rispetto alle necessità cliniche o del paziente. Tale variabilità si manifesta attraverso consultazioni urgenti o programmate, individuali o in gruppi. I casi possono essere trattati con la parola e colloqui, oppure attraverso l'espressione corporea o psicodramma. In secondo luogo, l'intero sistema di cura è plurale, ovvero vi è un'équipe multidisciplinare, con personale iniziato alla clinica e alla psicoanalisi. Solitamente le consultazioni vengono svolte tra due "comunità": il gruppo dei terapisti e quello del paziente. Obiettivo fondamentale è quello di creare una zona di meticciato, cosmopolita con terapisti di formazione diverse e con pazienti delle più svariate culture. Oltre alla particolare organizzazione del dispositivo di cura, una parte rilevante del lavoro della Moro riguarda l'analisi dei processi intrapsichici dei soggetti coinvolti. Fondamentale per ricoprire il ruolo di terapeuta e curante è la capacità di decentrarsi di vedere la realtà in generale e non solo clinicamente dal punto di vista dell'altro. Secondo la Moro il transfert del paziente ed il controtransfert del terapeuta non hanno origine semplicemente da affetti più privati e legati alle figure familiari più strette, bensì anche affetti e cognizioni connessi alla storia, alla politica e ai vari elementi della cultura di appartenenza.

 

Indice

 
RIASSUNTO
 
PREMESSA

 

CAPITOLO 1: Storia e basi teoriche della "Clinica Transculturale"Il fenomeno della globalizzazione culturale; Storia e principi della Psicomotricità - La pratica psicomotoria incontra la Psichiatria transculturale; George Devereux: principi e nascita della Psichiatria transculturale - Inconscio della personalità etnica & Inconscio idiosincratico - L'influenza dell'osservatore sull'oggetto osservato & il principio di complementarità - Il complementarismo; Tobie Nathan e l'Etnopsicoanalisi - La psicoanalisi e le teorie intermedie - I saperi tradizionali come scienze esatte - I meccanismi terapeutici; Marie Moro e il ritorno alla Psicanalisi Freudiana - Le ipotesi di fondo - I Principi della Clinica Transculturale - Il dispositivo di cura.

CAPITOLO 2: Approcci terapeutici e sviluppo del bambino stranieroVerso un dispositivo di metissage e cosmopolita - Approccio Psicoanalitico di Acouturier e Lapierre - I contributi di Jerome Bruner e Howard Gardner; I genitori e il trauma migratorio - Figli di immigrati ed il meticciato - La costruzione di una propria identità in situazioni di metissage - Neonati e bambini di qui - Vulnerabilità nello sviluppo dell'infanzia, Presentare il mondo, Pensare il mondo; Il bambino esposto - Competenza, resilienza e creatività - La cultura dall'interno - L'essere, il senso, il fare.

CAPITOLO 3: Il caso clinico di G.Presentazione del caso clinico; Storia personale di G, Aspetti socio culturali salienti; La presa in carico - Valutazione psicomotoria - Diagnosi e stesura del progetto riabilitativo - Presa in carico e sviluppi terapeutici; Modificazione della terapia e del progetto - La questione del “segreto” - L'importanza della “storia” - Un innovativo esperimento terapeutico; Risultati, sviluppo e progressione della terapia.

CAPITOLO 4: Contenuti della ricerca; 

  • Materiali e metodi(1); Costruzione e progettazione del questionario - Da quanti anni svolge tale professione - Numero di pazienti attualmente in carico - Con quali patologie lavora prevalentemente - Elencare il numero di pazienti stranieri - Elenco di nazionalità e il numero di soggetti immigrati in terapia - Quali patologie presentano maggiormente i pazienti stranieri - Con quale tipo di utenza riscontra maggiori difficoltà - Quali fattori influenzano maggiormente la terapia. Casistica(1)Rilevamento dati - Anni di lavoro nell'ambito della riabilitazione psicomotoria - Numero di pazienti in carico - Quadro patologico generale - Numero di pazienti stranieri in carico - Nazionalità e numero corrispondente di pazienti - Quadro patologico nell'utenza straniera - Con quali pazienti trova maggiori difficoltà - Quali sono i fattori che influenzano maggiormente la terapia.
  • Materiali e metodi(2); Presentazione di un servizio di NPI aderente al “Progetto Migranti”; Griglia di rilevamento dati dei genitori e bambini immigrati - Paese di provenienza dei genitori del bambino - Diagnosi del paziente straniero (ICD – 10). Casistica(2); Rilevamento dei dati; Dati relativi all'anno 2011 - Paese di provenienza dei genitori del paziente straniero - Diagnosi del paziente straniero tramite classificazione ICD – 10; Dati relativi all'anno 2012 - Paese di provenienza dei genitori del paziente straniero - Diagnosi del paziente straniero tramite classificazione ICD; Dati relativi da Gennaio a Maggio 2013 - Paese di provenienza dei genitori del paziente straniero - Diagnosi del paziente straniero tramite classificazione ICD – 10; Sintesi della rilevazione dei dati - Paesi di provenienza dei genitori del bambino straniero - Diagnosi del paziente straniero tramite classificazione ICD – 10 87
  • Materilai e metodi(3)La griglia anamnestica per la rilevazione. Casistica(3)Numero totale di  pazienti stranieri presenti nei Servizi di NPI; Altri dati interessanti

CAPITOLO 5: DiscussioniDiscussioni e riflessioni sui dati dei questionari Neuropsicomotori - Esperienza lavorativa & difficoltà terapeutiche con pazienti stranieri - Confronto tra flussi migratori ed accesso a servizi di NPI in Lombardia - I due quadri patologici a confronto - Parametri che influenzano la terapia; Discussione sulla casistica della UONPIA in via Aldini - Le due utenza a confronto - Confronto tra i due quadri patologici; Discussioni su Servizi di NPI partecipanti al “Progetto Migranti” - Servizi di Neuropsichiatria Infantile a confronto. 

CAPITOLO 6: CONCLUSIONIIl “Progetto Migranti” come risposta ai bisogni della nuova utenza; “Progetto Migranti”: Migrazione e disagio psichico in età evolutiva - Perchè è nato il “Progetto Migranti” - Principali obiettivi del “Progetto Migranti” - Il lavoro di rete - Formazione degli operatori, Servizi inclusivi e di comunità, Wrap Around, La Clinica Transculturale - Il ruolo dell'Equipe multidisciplinare - Primi risultati relativi al “Progetto Migranti”; Alcuni spunti per possibili ricerche future; L'utenza straniera e le nuove prospettive in ambito Neuropsicomotorio

 

 ALLEGATI

 BIBLIOGRAFIA
 
Tesi di Laurea di: Livio Giuseppe CAIANIELLO

 

 

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