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Descrizione dello sviluppo e dell’acquisizione delle competenze prescolari raggiunte nei bambini di età compresa tra 5 e 6 anni con particolare riferimento agli indicatori di rischio per una difficoltà di apprendimento scolastico

  Competenze linguistiche

Nel bambino normale l’acquisizione del linguaggio si sviluppa secondo tappe regolari, sulle quali tanto la letteratura quanto l’esperienza pratica concordano abbondantemente.

Si deve tuttavia tener presente che: il ritmo della progressione varia considerevolmente da un bambino all’altro; qualunque acquisizione in uno dei settori del sistema linguistico (fonologia, morfologia, sintassi, semantica e pragmatica) è strettamente correlata ad acquisizioni negli altri settori; lo sviluppo verbale del bambino va collocato nel contesto generale del suo sviluppo senso-motorio, cognitivo, relazionale, emotivo-affettivo.

E’ possibile suddividere lo sviluppo del linguaggio dalla nascita all’età prescolare, in tre periodi cronologici, i cui tempi tuttavia, per le notevoli variabilità individuali nel ritmo di progressione, devono essere considerate in modo piuttosto elastico.

Prima tappa, “dalla nascita al 7°- 8° mese”: I pianti all’inizio compaiono come manifestazioni riflesse dei cambiamenti fisiologici interni dipendenti dal grido della nascita, che ne costituirebbe la struttura più antica. Il grido della nascita è la manifestazione di un riflesso fisiologico e, verosimilmente, esprime il disagio che il bambino sperimenta dovendo respirare autonomamente. Durante le prime settimane, i pianti sono la sola manifestazione vocale osservabile. In gran parte indifferenziati, sono in rapporto con stati di malessere e di sofferenza e non è possibile stabilire una tipologia precisa in rapporto alla causa che li ha generati.

Gradatamente il pianto comincia ad assumere una funzione più specifica di segnale di diversi bisogni primari (nutrizione, calore, ecc.),[16] dal pianto si distinguono chiaramente le emissioni modulate, produzioni vocali che assomigliano a un cinguettio o al tubare (cooing sound) di un piccione, e suoni paravocalici che costituiscono il primo stadio del vocalizzo. Il cooing sound differisce dal pianto poiché la lingua assume una posizione che consente la modulazione del suono, ed è correlato alla diminuzione del pianto e all’aumento della percezione uditiva. Le emissioni modulate, che assumono il significato di coinvolgere l’interlocutore in un reciproco scambio di vocalizzi, sono considerabili fenomeni di relazione, ma non un vero e proprio linguaggio (Cianchetti & Sanni Fancello, 2007).

Parecchi studi concordano sull’importanza degli scambi vocali tra madre e figlio nel determinare la comparsa e la quantità dei suoni modulati. In questo primo periodo le produzioni sembrano nascere accidentalmente e contengono una grande varietà di suoni, di cui una parte è senza rapporto con i fonemi di una qualunque lingua, quali chiocchiolii, schiocchi, gracidio.

Il secondo stadio è invece il vocalizzo (babbling) propriamente detto. Dopo il 3° mese i bambini emettono numerose vocalizzazioni, che esprimono benessere e disagio e che diventano più espressive e si differenziano per intensità e qualità. A 5 mesi la maggior parte dei bambini normali sa vocalizzare in maniera differenziata con abilità. In questo periodo un numero crescente di produzioni si assimilano sempre più agli elementi della lingua, quindi sono influenzate da quello che il bambino sente e imita. Sebbene la spinta a vocalizzare sia probabilmente innata, la vocalizzazione stessa è intensificata e sostenuta dall’ambiente circostante.

Le lallazioni non costituiscono ancora dei veri e propri morfemi, ma sono semplici iterazioni di uno stesso suono che diventano gioco vocale divertente. Il bambino ascolta la propria voce ed è apparentemente in grado di controllare i propri sforzi: è la fase della selezione fonemica, che viene notevolmente influenzata dal linguaggio degli adulti. Intorno al 6° mese compaiono, inoltre, i balbettamenti intenzionali rivolti alle persone che interagiscono con il bambino: in questo periodo egli non ha ancora scoperto il contenuto e la funzione semantica dei suoni che emette, ma le sue espressioni non sono più così casuali ed egli appare capace di un certo grado di intenzionalità. La lallazione segna la fine del periodo in cui il bambino utilizza il proprio patrimonio fonemico senza né l’intenzione né la consapevolezza di parlare.

Seconda tappa “dall’8°-9 mese al 18°-24° mese”: Il comportamento imitativo compare verso l’8°-9° mese, anche se alcuni non escludono manifestazioni di forme fonetiche imitative più rudimentali in età precedente. La stimolazione ambientale ha la funzione di rinforzo nei confronti dei comportamenti verbali che si presentano spontaneamente.

Verso l’8°-10° mese compaiono i primi veri morfemi, che si differenziano dai balbettamenti precedenti proprio perché dotati di significato. Il bambino si rende conto che esiste un legame tra suono e oggetto e che alcune espressioni vocali possono essere utilizzate per indicare ed ottenere qualcosa. All’inizio uno stesso morfema potrà avere diverse utilizzazioni. Gradatamente il comportamento del bambino diventa sempre più intenzionale e segnala la sua volontà.

Ha inizio verso l’8°-9° mese con ripetizione dei primi morfemi e spesso si protrae a lungo. In questo periodo il morfema, una volta emesso, funzionerebbe da stimolo spingendo alla ripetizione, con un processo circolare tipo feedback. Viene, pertanto, assegnato all’ecolalia il ruolo di esercizio preparatorio. L’ecolalia continua fino a confondersi con lo stadio successivo in cui cominciano ad apparire le prime parole.

Intorno ai 12 mesi il bambino non solo si appropria di qualche parola, ma ne coglie il valore semantico e inizia a utilizzarla per indicare azioni ed esprimere significati complessi. Ben presto, cioè, il bambino comincia ad utilizzare con diversa intonazione queste parole isolate al posto di intere proposizioni per nominare un oggetto o una persona, per indicare un’azione, per esprimere una dichiarazione, una richiesta o un’esclamazione. Sebbene formalmente la frase non esista se non quando è formata da almeno due parole, si è concordi nel ritenere che l’enunciato di un solo termine possa avere lo stesso significato di una frase completa. Da qui deriva, per indicarlo, l’espressione di parola-frase o quella di olofrase o di enunciato olofrastico. Il suo significato, però, è determinato non solo dalla parola, ma anche dal contesto e dall’intonazione che suggeriscono gli elementi che mancano e il senso. Così la semplice parola "mamma" potrà significare "voglio la mamma", "mamma dai", oppure, se pronunciata piangendo, "mamma aiutami, sto male". Il bambino pertanto utilizza una stessa forma verbale per significare diverse azioni/situazioni. La maturazione successiva condurrà gradatamente a discriminazioni più precise.

Quando il bambino pronuncia le prime parole, le sue capacità di articolazione sono molto limitate, ma continueranno a svilupparsi permettendo una comunicazione più soddisfacente e condizionando in una certa misura l’arricchimento del vocabolario.

L’acquisizione del lessico è un processo complesso che impegna il bambino per molti anni non solo sul piano linguistico ma anche su quello cognitivo e interazionale.

Il bambino tra i 12 e i 16 mesi possiede un vocabolario limitato, anche perché spesso si esprime attraverso i gesti con cui indica gli oggetti che intende denominare. In questa fase si nota una grande variabilità individuale e una discrepanza tra comprensione e produzione. La comprensione risulta sempre maggiore rispetto alla produzione e non c’è proporzione diretta tra numero di parole comprese e prodotte. Il primo vocabolario del bambino è costituito prevalentemente da nomi di persona e di oggetti familiari e dai versi degli animali. I predicati e i funtori sono invece praticamente assenti.

Tra i 16 e i 19 mesi i verbi diventano più numerosi e compaiono gli aggettivi. Tra i 19 e i 24 mesi il vocabolario subisce un incremento molto marcato con notevoli ed evidenti differenze individuali. Rispetto al periodo precedente aumentano gli aggettivi, i verbi e i funtori e compaiono diverse categorie nominali (es. parti del corpo, nomi di luoghi e ambienti, ecc.). Iniziano inoltre ad apparire le frasi.

Terza tappa “dai 18 mesi al 6° anno”: Intorno alla metà del 2° anno il bambino comincia a costruire frasi semplici di due elementi, che sono versioni abbreviate di proposizioni adulte (es. "via babbo", "dai pappa").

A esse si applica l’espressione "stile telegrafico" perché presentano un’analogia con i telegrammi in cui certe parole vengono omesse perché ritenute non indispensabili alla comprensione del messaggio. Gli elementi omessi appartengono alla categoria "funzionale", sono cioè i cosiddetti funtori (inflessioni, verbi ausiliari, verbi copulativi, articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni, avverbi); le parole utilizzate appartengono invece alla categoria lessicale: sostantivi, verbi, aggettivi.

Le omissioni e gli enunciati interrotti sono tipici delle prime costruzioni del bambino. Hanno lo scopo di trasmettere un certo messaggio e questo è dimostrato dalla regolarità sistematica dell’ordine delle parole e dal contesto in cui le stesse vengono pronunciate. Gli enunciati telegrafici esprimono alcune relazioni semantiche quali l’identificazione, la negazione, la ripetizione, l’inesistenza, l’ubicazione, il possesso, l’attributo, la domanda, l’agente-ubicazione, l’azione oggetto, l’azione destinatario, l’azione strumento.

Dopo i 18-24 mesi gli enunciati diventano più lunghi e complessi e non sono semplici gruppi di parole poste l’una accanto all’altra, bensì comincia a esservi un’organizzazione dell’enunciato secondo i principi grammaticali. Cominciano a comparire i primi funtori, il cui ritmo di acquisizione è variabile, mentre l’ordine di acquisizione è fondamentalmente costante.

È difficile valutare il livello di sviluppo grammaticale di un bambino basandosi soltanto sull’età cronologica. Dal punto di vista quantitativo un indice globale dello sviluppo grammaticale è dato dalla crescita della lunghezza media dell’enunciato.

Le frasi ben costruite possono comportare diversi tipi di combinazione degli elementi.

La frase più semplice è ridotta a due parole: soggetto e verbo. L’introduzione dei complementi conduce a strutture differenti che variano in complessità. Si passa sa vari tipi di enunciati minimi a vari tipi di espansione.

Una tappa più avanzata della costruzione di frasi semplici ben strutturate è la combinazione di frasi elementari. In tale processo la complessità è data sia dal numero di elementi da coordinare che dall’uso di termini relazionali appropriati (congiunzioni, pronomi) che implicano complicazioni anche per gli aspetti logici. Le difficoltà, inoltre, sono legate alle forme verbali e al loro accordo (uso dei tempi, introduzione del congiuntivo, ecc.). Queste difficoltà all’inizio possono causare l’omissione del funtore che dovrebbe mettere in relazione le parole.

Alcune frasi possono essere congiunte sia da una semplice relazione di coordinazione, sia da una relazione di dipendenza (o di subordinazione). Tra le forme più semplici figurano le coordinazioni con la congiunzione "e".

L’evoluzione della sintassi è, dunque, lenta e diversificata e ciascuna conquista è influenzata da una molteplicità di fattori sia cognitivi e sociali, sia fonologici, semantici e pragmatici.

Il bambino passa gradatamente da uno stile telegrafico all’uso di frasi di tipo adulto, complete e complesse, con padronanza sia delle regole della grammatica che di quelle del discorso.

Vi sono poi 4 fasi di sviluppo del linguaggio nell’arco di tempo tra i 19 e i 38 mesi: fase presintattica, 19-26 mesi, gli enunciati sono in misura prevalente: parole singole in successione; in questa fase come nella successiva, una consistente proporzione di enunciati telegrafici, che esprimono una varietà di relazioni semantiche, sono anche privi di verbo (es. pappa più). Si notano pochi enunciati semplici nucleari (frasi richiestive e imperative), in cui vengono generalmente omessi sia alcuni degli argomenti che i morfemi liberi (articoli, pronomi clitici e preposizioni, es. bimbo dà). Compaiono tuttavia esempi di concordanza tra nomi ed aggettivi; fase sintattica primitiva, 20-29 mesi, è caratterizzata da una consistente diminuzione delle parole singole in successione, da un graduale ma altrettanto consistente aumento degli enunciati nucleari semplici, spesso ancora incompleti, e dalla comparsa di frasi complesse incomplete (es. bimbo prende cucchiaio mangia minestra), in cui vengono cioè frequentemente omessi non solo i connettivi interfrasali, ma anche altri morfemi liberi come articoli e preposizioni, che tuttavia cominciano a comparire in misura via via più consistente; fase di completamento della frase nucleare, 24-33 mesi, si registrano numerosi cambiamenti in senso quantitativo e qualitativo: quelle definite parole singole in successione scompaiono quasi del tutto e diminuiscono significativamente le produzioni di enunciati privi di verbo; prevalgono ancora sugli altri tipi di frase le nucleari, prodotte ora con morfemi liberi, e le frasi ampliate con espansione del nucleo (es. il bambino mangia con il cucchiaio). Le frasi complesse aumentano e si diversificano per tipologia: coordinate, subordinate e inserite implicite, con la comparsa anche di frasi inserite esplicite. Una parte significativa delle frasi complesse è prodotta in forma completa (es. il bambino prende il cucchiaio e mangia la minestra); fase di consolidamento e generalizzazione delle regole in strutture combinatorie complesse, 27-38 mesi, è caratterizzata dal fatto che anche le frasi complesse diventano per la maggior parte complete da un punto di vista morfologico così come produttivi divengono diversi funtori richiesti; compaiono altresì connettivi interfrasali di tipo temporale e causale quali: dopo, allora, invece, perché, sennò, anche, però, utilizzati in modo piuttosto stabile all’interno di frasi coordinate e subordinate. Sono prodotte infine anche le frasi relative (es. ma io ho visto Mario che correva).

La maggior parte dei bambini intorno ai 5-6 anni ha acquisito tutti i fondamentali elementi del linguaggio: sa strutturare bene le frasi, incluse le relative, le passive e le interrogative, usando in modo sufficientemente corretto le fondamentali regole grammaticali e sintattiche. Ovviamente continuerà in età scolare ad arricchire il suo vocabolario, ad apprendere meglio le regole grammaticali e sintattiche, a sviluppare la funzione pragmatica e a potenziare il linguaggio come strumento di pensiero.

E’ del 5-6% circa l’incidenza dei disturbi del linguaggio in età prescolare, percentuale che si riduce con il tempo, per approdare all’1-2% circa con l’età scolare[17] (Fabrizi, Sechi, & Levi, 1991), periodo evolutivo in cui aumentano però i disturbi dell’apprendimento, derivanti molto probabilmente da difficoltà linguistiche pregresse[18] (Donini & Cubelli, 2000). L’apprendimento a scuola è possibile infatti solo grazie alle funzioni linguistiche, che permettono l’acquisizione di conoscenze e competenze anche in ambiti come ad esempio il calcolo. Sicuramente però, l’area in cui sono più influenti le abilità linguistiche è quella dell’apprendimento di lettura e scrittura, che richiede l’attivazione di numerose operazioni che hanno come punto di partenza la conoscenza della struttura del linguaggio orale.

Anche quando, durante la scuola, i sintomi più evidenti diminuiscono[19] (Leonard & Sabbadini, 1995), i bambini con DSL spesso hanno deficit significativi nei compiti legati alla lingua scritta, sia relativi alla decodifica, sia relativi alla comprensione e all’espressione[20] (Cornoldi C. ); è grossa perciò la sovrapposizione tra bambini dislessici e bambini con DSL, tanto che ritardi e/o atipie dello sviluppo linguistico vengono riscontrati con una frequenza che arriva fino al 50% nei soggetti con dislessia evolutiva. Inoltre, frequentemente, sembrano permanere difficoltà linguistiche sottili, spesso subcliniche, a livello di competenze metafonologiche, della memoria verbale a breve termine e di altri aspetti molecolari o di integrazione logico-cognitiva[21] (Penge & Diomede, 1992). Bisogna precisare però che, nonostante la stretta connessione tra linguaggio orale e apprendimento del linguaggio scritto, non c’è una sovrapposizione netta tra i due.

Tipologie di Disturbo del Linguaggio differenti danno luogo a disturbi di apprendimento diversi per tipo e gravità. La maggior parte delle ricerche si è interessata, a questo riguardo, del rapporto tra DSA e difficoltà di elaborazione fonologica, in quanto le abilità fonologiche sono importanti per le lingue alfabetiche come la nostra, in cui la scrittura si basa sull’organizzazione sonora della parola, fonema per fonema. La capacità di identificazione di singoli fonemi e del loro raggruppamento è cruciale perciò sia per la scrittura che per la lettura[22] (Cornoldi C. ). Studi longitudinali hanno dimostrato come soggetti con pregresso disordine fonologico eseguono compiti di lettura, spelling e conoscenza metafonologica ottenendo prestazioni inferiori a quelle dei soggetti di controllo[23] [24] (Lewis & Freebairn, 1992), (Bortolini, 1995).

Fabrizi, Sechi e Levi (I problemi del linguaggio) mettono in evidenza come la dislalia combinatoria, un DSL a prevalente compromissione fonologica, determini difficoltà nel processo di conversione grafema-fonema con un’interferenza precoce nell’apprendimento del codice scritto. Gli studi comunque si sono concentrati soprattutto sulla consapevolezza fonologica (o abilità metafonologica: analisi e sintesi esplicita dei fonemi) e sulla ricodificazione nella memoria fonologica a breve termine. Si è rilevato che c’è una stretta relazione tra grado di consapevolezza fonologica e apprendimento della lettura nei suoi aspetti di decodifica9 [25] [26] [27] [28] (Frith, 1985), (Donini & Cubelli, 2000), (Liberman & Shankweiler, 1985), (Jorm AF, 1986), (Fabrizi, Sechi, & Levi, 1991).

Infatti le competenze metafonologiche, che si sviluppano soprattutto tra i 4 e i 7 anni[29] (Cornoldi C. , 1995), sono considerate uno degli indici più attendibili del livello di acquisizione del linguaggio scritto nei primi anni di scuola.

Anche un deficit di memoria a breve termine specifico per il materiale verbale e soprattutto per l’elaborazione delle informazioni fonologiche, sembra strettamente connesso con le difficoltà di lettura e scrittura. Dagli studi è emerso infatti che un difettoso funzionamento della memoria di lavoro verbale è alla base di problemi di acquisizione del linguaggio orale e scritto[30] (Casalini & Brizzolara, 1995). Sono soprattutto lo sviluppo lessicale e la comprensione verbale ad essere compromessi da deficit di memoria fonologica a breve termine, ma, allo stesso tempo, sembra anche che difficoltà linguistiche espressivo-articolatorie siano correlate (se non addirittura responsabili) a disturbi di memoria. Si è evidenziato quindi che la memoria a breve termine fonologica è compromessa sia nei disturbi del linguaggio che nei DSA e che è maggiormente deficitaria quando questi due disturbi sono compresenti. Da qui l’importanza di promuovere le abilità di memoria fonologica in bambini piccoli con difficoltà mnestiche.[31] (Redazione Associazione Italiana Dislessia, 2011).

 

Competenze motorio-prassiche

Il movimento e l’espressione vitale per eccellenza, permette lo spostamento, la conoscenza di ciò che ci circonda, di quello che possiamo fare e delle possibilità di relazione, ed e il motore del nostro comportamento, poiché implicato in ogni attività percettiva[32] (Colina D., 2015).

Studi neurofisiologici vanno a dimostrare che disponiamo di recettori-anticipatori capaci di produrre informazioni che ci consentono di scegliere le azioni più utili, più economiche, più rapide per rispondere ai compiti adattivi[33] (Wille A. M., 2008).

La possibilità d’apprendere viene permessa dalla sperimentazione motoria: è la stereognosia che costruisce la conoscenza dell’altro, dell’oggetto e dei rapporti spaziali, è l’agito che confronta il desiderio dell’azione con il relativo risultato. Ogni esperienza, messa in atto con un medesimo schema motorio, potrà essere simile come risultato, ma sempre diversa, anche se subito ripetuta, per il complesso gioco di reclutamento delle unità neuromuscolari, delle variabili di accelerazioni e decelerazioni di piccole modifiche di orientamento spaziale, di controllo alla diffusione degli stimoli motori e soprattutto per l’impegno emozionale.

La motricità è la capacità del Sistema Nervoso di comandare la contrazione muscolare, che porta alla definizione di un processo che conduce alla strutturazione di precisi programmi motori, con caratteristiche di controllo e coordinazione sempre più adeguate con la crescita, che non fanno riferimento ad un’unica area cerebrale ma piuttosto ai sistemi di connessione che maturano progressivamente almeno fino all’età adolescenziale.

Questo grazie alla presenza di programmi motori generali, che implicano la necessità di essere aggiustati al contesto, integrandosi con le informazioni sensoriali e percettive da esso provenienti. Tale processo di aggiustamento si avvale di meccanismi di anticipazione, secondo cui il soggetto ipotizza l’adattamento dello schema motorio alle caratteristiche o alle richieste ambientali, che forniscono informazioni sull’efficacia dell’azione e predispongono correzioni in caso di errore [34] (Schmidt RA., 1975).

Il bambino per acquisire nuovi schemi motori con valide competenze, oltre a non presentare danni neurologici, ha la necessità di seguire tre processi funzionali tra loro in posizione gerarchica: la coordinazione, il processo di inibizione alla diffusione dello stimolo e l’integrazione somatica [35] (Russo R.C., 1985).

Si definisce coordinazione il primo processo organizzativo dell’atto motorio per un corretto indirizzo spaziale del movimento intenzionale. La coordinazione motoria si fonda, oltre che su una regolazione puntuale in termini di forza e durata della contrazione dei gruppi muscolari agonisti e sinergici, sul rilassamento dei muscoli antagonisti e la regolazione dell’equilibrio, e anche sulla corretta elaborazione e integrazione delle informazioni sensoriali provenienti dall’ambiente.

Il bambino nella fase di apprendimento di quel dato schema motorio lo ripete numerose volte anche nei giorni successivi, fino ad ottenere il risultato ritenuto da lui ottimale in rapporto al desiderio. In questa fase di apprendimento assume particolare valore l’organizzazione del feed-back informativo sui singoli momenti motori che costituiscono l’atto. All’inizio l’azione è insicura, male organizzata in senso temporo-spaziale, ora con momenti lenti, ora bruschi e con difficoltà direzionale, ma la ripetizione frequente delle prove migliora il risultato e permette l’apprendimento dello schema motorio.

La precisione e il controllo inoltre, risentono nella loro evoluzione delle caratteristiche ambientali in senso lato, nell’accezione cioè della componente esperienziale.

L’organizzazione motoria comporta l’orchestrazione del movimento realizzata con un piano e con uno scopo ed appropriata al contesto. L’organizzazione di diversi aspetti della capacità motoria sostiene la coordinazione, incluso il tono muscolare, la fluidità del movimento, la pianificazione motoria, e il controllo motorio. Il tono muscolare e la fluidità del movimento influiscono sia sulla confidenza nel proprio corpo che sulla facilità di muoversi nell’ambiente. La pianificazione motoria comprende l’anticipazione e la messa in sequenza di specifici movimenti necessari per eseguire attività. Il controllo motorio implica l’iniziare e il terminare atti motori e modulare la loro intensità [36] (Boeri L., 2016).

L’inibizione alla diffusione dello stimolo ad altre parti corporee è un processo di lunga maturazione nel percorso evolutivo, influenzato anche dall’ambiente e dalle caratteristiche personali di sensibilità emotiva (stile psicomotorio), che facilmente si presenta anche nell’età adulta ogni volta che si inizia una nuova attività motoria mai svolta prima, per esempio la diffusione tonica del bambino ai primi impegni per apprendere la scrittura. Risulta pertanto necessario tenere in considerazione, oltre al fisiologico processo evolutivo, anche il livello emozionale del momento e le caratteristiche tonico-emotive personali. Un adeguato processo d’inibizione alla diffusione dello stimolo apre la possibilità di strutturare il processo dell’integrazione somatica.

La limitazione della diffusione dello stimolo è fondamentale per organizzazione di sinergie motorie alle parti somatiche non comandate intenzionalmente; sinergie atte a svolgere funzioni di aiuto per una migliore resa dello schema motorio volontario. Questi schemi di aiuto sono detti sinergismi d’utilità e compaiono nel corso evolutivo man mano che si risolve la limitazione alla diffusione dello stimolo. L’innesto dei vari sinergismi avviene con progressione nel corso evolutivo ed e finalizzato ad ottenere il migliore risultato possibile.

In merito alle competenze motorio-prassiche, consideriamo lo sviluppo di tali abilità a partire dai 3 anni, considerandole nella loro accezione di comportamenti motori funzionali alle competenze adattive e sociali. Il bambino apprende strategie motorie sempre più efficaci, che vengono selezionate a seguito di esperienze motorie favorevoli. Le sequenze motorie inefficaci verranno abbandonate a favore di quelle risultate efficaci.

In altre parole ci riferiamo alla prassia come un’azione composta da procedure funzionali all’adattamento del soggetto al contesto, secondo lo sviluppo delle competenze di coordinazione grosso-motoria e fine-motoria.

In questo paragrafo si prenderà visione dello sviluppo motorio fisiologico del bambino di età compresa tra 3 e 6 anni (fascia d’età dei pazienti ai quali fa riferimento questa tesi).

Fra i 3 e 6 anni il bambino ha ormai raggiunto delle buone competenze motorie di base, soprattutto per quanto riguarda le Coordinazioni Cinetiche Semplici, attività motorie globali a corpo libero che non richiedono un particolare tono muscolare né un adattamento specifico allo spazio esterno. La loro funzione adattiva e quella dello spostamento attraverso lo spazio per raggiungere una persona, un luogo, un oggetto, o compiute per il puro piacere cinestetico. Esse sono: Strisciare, Rotolare, Andatura a elefante, Rotazione da seduto, Cammino sulle ginocchia, Marcia, Corsa.

A 3-4 anni il bambino usa sempre di più gli spostamenti in stazione eretta: impara a correre, a frenare, a cambiare direzione, non piega più le ginocchia per raccogliere un oggetto ed e capace di camminare in linea retta senza perdere l’equilibrio.

A questa età difficilmente un bambino esegue le coordinazioni semplici dietro richiesta, mentre ne accetta più volentieri la condivisione imitando un partner, oppure la realizza sotto forma spontanea.

Dai 4 ai 6 anni il bambino perfeziona la qualità motoria delle coordinazioni, poiché ormai le possiede tutte. È in grado di modificarne la velocità, l’energia muscolare e l’ampiezza, a seconda dei contesti ambientali in cui si trova[37] (Orsini N., 2016).

A questa età diventa possibile associare le coordinazioni semplici ad un ritmo, e diventano movimenti intenzionali e non solo spontanei, permettendo un controllo autonomo sull’attivazione e sull’inibizione motorie volontarie con la capacita di rispondere a comandi come "Vai! Fermati".

Ci concentriamo adesso sulla descrizione di pattern motori complessi che vengono acquisiti in particolare nella fascia d’età 3-6 anni, e che sono caratteristiche della vita di relazione e del contesto sociale in cui il bambino e costantemente immerso.

Le Coordinazioni Cinetiche Complesse sono attività a corpo libero o con la presenza di un oggetto che richiedono un buon equilibrio dinamico e una certa forza muscolare.

Lo sforzo motorio caratteristico richiede una certa "ambizione motoria" dei soggetti e quindi una maggior intenzionalità rispetto alle coordinazioni precedenti. Possiamo situare l’inizio delle Coordinazioni Complesse nel terzo anno di vita, quando il bambino cerca di saltare a piedi pari e di camminare in punta di piedi. Prenderemo in considerazioni le seguenti quattro azioni motorie: salita e discesa delle scale, i salti, utilizzo di triciclo e bicicletta.

3 anni: sale autonomamente le scale senza sostegno e alternando i piedi come un adulto (poggia un solo piede per ogni gradino), può portare con se anche un oggetto; scende le scale poggiando ancora entrambi i piedi sullo stesso gradino, con o senza sostegno monomanuale.

4 anni: sale le scale da solo alternando i piedi, sia camminando sia correndo; scende le scale autonomamente alternando i piedi come un adulto (poggiando solo un piede per ogni gradino).

5 anni: scende le scale come un adulto, sia a velocita normale sia correndo[38] (Sheridan M.D., 2009).

Fino ai 3 - 4 anni il bambino si muoverà utilizzando triciclo, più stabile e sicuro della bicicletta ma anche più lento e meno maneggevole. Infatti il triciclo non richiede al bambino la stabilità e l’equilibrio che pretende la bicicletta.

Il triciclo è però una tappa importante e rappresenta un prerequisito fondamentale perché trasmette al bambino tutti i principi che gli serviranno dopo per guidare bene la bicicletta.

Tali prerequisiti fondamentali sono: acquisizione della pedalata, mantenimento dell’equilibrio, controllo del manubrio, pedalare con maggior forza, controllo e l’integrazione visuo-spaziale.

A 4 anni circa il bambino può iniziare a utilizzare la bicicletta: essa permette l’esplorazione di spazi più ampi ed è una conquista di libertà per il bambino, il bambino inizia ad andare su una bicicletta munita di rotelline laterali, esse sono necessarie per la stabilità del mezzo e sono fondamentali in quanto il bambino ancora non sa mantenersi in equilibrio.

Quando il bambino usa una bicicletta con rotelle la sua “attività ciclistica” non si allontana molto da quella praticata con il triciclo, perché non e necessario gestire l’equilibrio del mezzo, né considerarne la stabilita nelle differenti condizioni di guida.

L’attività prevalente è ancora la pedalata, frenare e misurare gli spazi, le distanze e la velocità.

A 5 - 6 anni il bambino può iniziare a togliere le rotelle e acquisire la capacità di andare in bicicletta.

Il salto a piedi pari segna l’inizio delle Coordinazioni Complesse, e inizia ad essere sperimentato in un bambino di 3 anni, anche se il bambino dedica molto tempo a saltare negli anni successivi, soprattutto tra i 4 e i 6 anni. Saltare sul posto è un’attività tonico-motoria globale che richiede una certa forza, e un equilibrio sufficiente, che a questa età è ancora in via di sviluppo.

Bisogna considerare anche l’aspetto legato al ritmo, perché la ripetizione del salto implica una regolarità dell’attività nel tempo.

I salti possono distinguersi in: salto sul posto, salto da un piano sopraelevato a terra, salto di un ostacolo e salto in lungo.

Saltare avanzando implica una maggiore coordinazione gambe-tronco-braccia con degli riequilibri continui in avanti e all’indietro.

Inizialmente dopo i 2 anni il bambino imita le pose della coordinazione (flessione del corpo, attesa e rapida estensione), senza stacco dal suolo, ma solo con estensioni e sollevamento sulle punte dei piedi

A 3 anni il bambino, acquisendo la fase di volo, salta a piedi uniti da un piano sopraelevato da terra di altezza di 30 cm e se aiutato anche fino a 70 cm.

A 4 anni la forza e la coordinazione tonico-motoria dei bambini sono ancora poco sviluppate, si muovono tutti di un pezzo, i salti sul posto sono molto irregolari, con scarso decollo. Sa fare un salto in lungo prendendo la rincorsa.

A 5 anni migliora la forza e l’equilibrio e grazie all’inizio di una possibile dissociazione i salti risultano più fluidi, ed esegue correttamente un salto in lungo.

A 6 anni la regolarità dei salti è acquisita, il bambino salta in modo corretto e fluente sul posto e riesce a superare ostacoli di 20 cm.

Salto monopodalico: la forza e l’equilibrio necessari sono maggiori se si tratta di saltare su un solo piede. Interviene, inoltre, un inizio di dissociazione, perché il movimento viene inibito da un lato.

A 3 anni non è ancora pronto per saltare su un piede solo, ma inizia in posizione eretta a mantenere l’equilibrio monopodalico per qualche secondo.

A 4 anni l’equilibrio è ancora instabile, quindi la possibilità di saltare su un piede è ancora abbozzata, inizia solamente a saltellare.

A 5 anni l’equilibrio migliora e la dissociazione comincia ad essere possibile: il bambino ha ancora delle difficoltà ma può già saltare su un piede, soltanto su uno dei due.

A 6 anni si possono notare rilevanti miglioramenti sulla dissociazione, in quanto i movimenti sono meno globali, e i differenti segmenti corporei acquistano più autonomia. Inoltre l’equilibrio è molto migliorato, tanto che il salto monopodalico può essere eseguito su entrambi i piedi, anche se spesso si osserva una differenza qualitativa.

Il salto alternato consiste nel divaricare e chiudere alternativamente le gambe. Questo è presente nel bambino di 4 anni, ma viene eseguito correttamente a 5 anni perché la dissociazione e il controllo dei segmenti corporei sono maggiormente automatizzati.

La Coordinazione Oculo-Manuale implica movimenti degli arti superiori integrati ad un controllo visivo continuo sullo spazio statico e dinamico; esse coinvolgono la postura e gli spostamenti del corpo in quanto supporti tonici che facilitano la realizzazione degli atti.

Tra queste abilità prendiamo visione dello sviluppo fisiologico di alcune attività con la palla, quest’ultima considerata come strumento che permetta l’integrazione tra il mantenimento di una postura che garantisca immobilità, il perfetto allineamento tra occhio e punto da mirare, l’equilibrio dinamico.

In queste attività entrano in gioco praticamente tutti i sensi:

  • Vista: per focalizzare, inseguire l’oggetto (palla)
  • Udito: il rumore informa circa il punto della traiettoria in cui si trova la palla
  • Tatto: il contatto palmare con la palla stimola le dita della mano a serrarsi intorno ad essa
  • Senso cinestetico: valutazione della forza necessaria, modulazione e controllo della posizione degli arti
  • Equilibrio

Tra le abilità con la palla approfondiamo le seguenti:

Il “lanciare" è un movimento attivo diretto nello spazio grande che richiede maggior integrazione posturale, e può essere diretto in qualsiasi direzione, il “tirare” è un movimento finalizzato per uno scopo, verso un luogo preciso.

Il lanciare si manifesta la prima volta nel lattante, quando dondola una mano appesantita da un oggetto e cerca forze centrifughe che lo spingano fuori dalla sua mano.

Queste azioni balistiche, apparentemente casuali assumono una qualità controllata e raffinata nel 3° e 4° anno di vita.

I primi schemi di lancio partono con gli arti superiori estesi lungo il tronco, la palla tenuta tra le mani all’altezza delle ginocchia e il tronco leggermente flesso; il lancio viene effettuato con una rapida flessione degli arti a livello dell’articolazione della spalla a cui spesso nelle prime fasi dell’apprendimento si associa una estensione del rachide (lancio dal basso a due mani).

Questo tipo di lancio tende a proiettare la palla verso l’alto, pertanto risulta meno preciso, ma anche più semplice da realizzare.

Dai 3 ai 6 anni si assiste a una costante evoluzione della modalità di lancio, ma i movimenti degli arti superiori sono ancora globali, bimanuali.

Il secondo tipo di lancio più evoluto a partire dai 3 anni viene preparato portando gli arti superiori al di sopra del capo, segue una rapida proiezione degli arti in avanti (lancio dall’alto a due mani) a cui spesso, nelle prime fasi di apprendimento, si associa una flessione del rachide che può determinare scompensi gravitari che richiedono un adattamento. La flessione del rachide può essere determinata da due fattori spesso compresenti: la proiezione degli arti estesi oltre la nuca facilita una spontanea estensione del rachide che richiederà il passaggio in flessione; la volontà di lanciare con forza innescherà il rinforzo flessorio del rachide.

Nelle prime fasi di apprendimento il lancio viene fatto con la posizione di partenza a piedi uniti (lancio a due mani dall’alto, primo schema) ed è frequente assistere a un piccolo salto che accompagna il lancio. Questa modalità si riscontra facilmente se il bambino, per imprimere maggiore caricamento, porta la palla dietro la nuca.

Proseguendo le esperienze, verso il 3°- 4° anno, il bambino si prepara al lancio con un piede davanti all’altro, posizione che permette ugualmente l’estensione del rachide, ma che compensa in buona parte la possibilità di un eccesso di flessione del rachide nell’esecuzione, in quanto il piede posteriore tende a limitare la flessione del tronco e a frenare l’energia cinetica (lancio a due mani dall’alto, secondo schema).

A 3 anni inoltre il bambino inizia ad usare le dita di entrambe le mani per guidare la traiettoria della palla durante il lancio.

A 4-5 anni c’è una maggior partecipazione del tronco, preparandosi posturalmente al tiro, di solito usando il piede come fulcro per tirare, e l’inizio della lateralizzazione del gesto: il bambino lancia con entrambe le mani, però tendenzialmente a destra o sinistra in base alla sua dominanza laterale. La traiettoria, dunque, risulta dritta, ma c’è ancora poco controllo sull’altezza.

A questa età se la palla è abbastanza piccola può venir lanciata con una sola mano in diversi modi, con l’arto superiore tenuto rigido e teso al gomito, e l’azione avviene principalmente dalla spalla.

A 6 anni il bambino inizia il lancio con una sola mano. Durante il lancio alcuni bambini possono già accompagnare lo spostamento del peso in avanti con un passo compiuto dal piede omolaterale all’arto superiore che lancia[39] (Crosti D., 1988).

Le modalità di ricezione sono influenzate dall’integrazione di vari aspetti: la postura, il tipo di lancio della palla, la forza e la distanza dalla quale viene tirata la palla al bambino, le caratteristiche della palla (grandezza, peso).

Anche la ricezione della palla segue uno sviluppo evolutivo, nel quale inizialmente il bambino non riesce a dirigere contemporaneamente l’attenzione sull’oggetto esterno e sullo spostamento del suo corpo; inizialmente deve prestare attenzione ai propri piedi e alle proprie mani, mentre tenta di acchiappare la palla, mentre successivamente l’attenzione può essere rivolta all’oggetto che è in arrivo

I primi tentativi di ricezione della palla si possono notare verso i 3 anni con gli avambracci semi-flessi, supinati, le mani tra loro a contatto e con i palmi rivolti verso l’alto, le braccia addotte e adese al tronco (primo schema di afferramento a canestro). A questa età il bambino aspetta che la palla cada sui suoi arti per poi tentare la chiusura degli avambracci contro il proprio petto, azione che interviene spesso con una certa latenza e spesso con risultato negativo, anticipando ed esagerando il gesto di trattenere la palla. Se il lancio da parte dell’adulto risulta preciso, non eccessivamente veloce o forte, il bambino è in grado di trattenerla.

Verso i 4-5 anni la postura di attesa è similare, ma le braccia sono adese alla linea ascellare o lievemente flesse, gli avambracci sono in una posizione intermedia tra la pronazione e la supinazione in modo tale che le palme delle mani si guardano e sono ad una certa distanza tra loro (secondo schema di afferramento). Questa postura prepara la presa della palla di medie dimensioni con le mani e non più con la chiusura a canestro, fino a una distanza di 2 metri. Con tale modalità è possibile l’intervento attivo di adattamento del movimento al tragitto della palla, permesso dal processo d’integrazione con il feed-back visivo.

A questa età non riesce ancora ad afferrare una palla piccola.

A 5 anni la palla viene trattenuta in modo più distale, con i gomiti estesi. Riesce anche ad afferrare una piccola palla da tennis se viene lanciata dolcemente e precisa, sempre a una distanza di 2 metri.

Negli anni successivi, 6-7 anni, il bambino attende la palla senza una postura preparatoria ed esegue il movimento di afferramento in tempo utile all’arrivo della palla (schema di afferramento). Riesce a trattenere una palla che gli viene lanciata ad una distanza maggiore (fino a 6 metri), ma bisogna aspettare ancora fino a 7 anni perché riesca a bloccarla usando solamente le mani [40] (Crosti D., 1988).

Si ricorda inoltre che le attività con la palla invogliano il bambino a giocare con gli altri; la palla ha infatti una forte funzione socializzante. La ricezione e il lancio della palla rappresentano quindi le premesse per il gioco con uno o più partner, in cui queste due componenti sono sempre integrate tra loro.

Il bambino è in grado di calciare in modo efficace la palla quando sono sviluppati e automatizzati i seguenti prerequisiti: coordinazione visiva, coordinazione motoria e equilibrio, competenze spazio-temporali.

A 3 anni, il bambino si prepara al calcio con il caricamento: l’arto scelto per l’esecuzione ha la gamba in flessione, mentre il mantenimento dell’equilibrio viene svolto dall’arto controlaterale. La gamba si estende e lancia la palla, il piede che ha calciato contatta il suolo anteriormente al controlaterale. In questa fase gli arti superiori possono essere proiettati in avanti o posteriormente e non sono ancora in grado di partecipare in modo sinergico (secondo schema del calcio). Frequente è la flessione del tronco e di facile riscontro è la presenza di un saltello finale.

Verso i 4-5 anni iniziano a comparire i primi sinergismi d’utilità costituiti dalla proiezione in avanti dell’arto superiore controlaterale al calcio (terzo schema del lancio), per bilanciare l’energia cinetica che facilmente, se la forza impressa e intensa, determinerebbe una rotazione del corpo sul perno rappresentato dal piede in appoggio al terreno[41] (Coppo B., 1995).

L’azione del “tirare” risulta complessa in quanto è definita come un movimento attivo, ma finalizzato verso un luogo preciso. Tale abilità richiede un’integrazione di competenze visive, motorie e di controllo dell’atto motorio.

È verso i 4/5 anni che il bambino riesce a dirigere la sua attenzione verso il luogo in cui tirare, attraverso semplici esercizi di mira, come dentro un contenitore o verso un oggetto da far cadere[42] (Wille A. M., 2008).

Il “lanciare” consiste in un movimento attivo rivolto all’ambiente in cui non ha importanza l’immediata ricezione dell’oggetto, il “palleggio” è un lancio eseguito in funzione di una breve e immediata ricezione. Questo atto richiede un buon controllo della forza con cui battere la palla a terra.

Questa abilità viene acquisita nel bambino un po’ più grande, intorno ai 4 anni di età, in cui il bambino inizia a palleggiare, ma con il busto piegato in avanti a causa dell’insufficiente forza con cui colpisce la palla.

A 5-6 anni il bambino è in grado di palleggiare con una sola mano, ma con il tronco ancora chino in avanti33 (Wille A. M., 2008).

Quanto riportato finora può essere osservato anche secondo un’ottica neurofisiologica, la recente scoperta dei neuroni specchio[43] (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006) secondo cui l’organizzazione del movimento non dipende solo dai neuroni afferenti alle aree motorie, ma è frutto delle strette connessioni tra aree motorie sensoriali, che costituiscono un mosaico di aree anatomicamente e funzionalmente distinte, ma fortemente interconnesse tra loro a formare circuiti destinati a lavorare in parallelo ed integrare informazioni sensoriali e motorie, relative a determinati effettori.

Quindi:

  • Gli schemi di movimento vanno considerati come il risultato dell’attivazione di un limitato distretto muscolare che produce lo spostamento nello spazio di una o più articolazioni, che si traduce in un movimento semplice;
  • La coordinazione motoria include più movimenti semplici eseguiti in modo fluido, sinergico, coinvolgenti anche diverse articolazioni, contraddistinti da uno scopo motorio;
  • Per le abilità prassiche e le funzioni adattive va considerato che in condizioni ecologiche non è sufficiente poter eseguire atti motori finalizzati, è necessario programmare intere sequenze di atti motori, coordinandone i singoli scopi in azioni più complesse contraddistinte da uno scopo finale sovraordinato.

In base queste premesse è possibile suddividere le aree di valutazione in due settori denominati “schemi di movimento” e “funzioni cognitive adattive” (Prassie)[44] (Sabbadini, 2015).

La presenza di difficoltà nella coordinazione motoria si può evidenziare nei bambini più piccoli con un ritardo nel raggiungimento delle tappe motorie fondamentali e nei bambini più grandi si evidenzia goffaggine associata a lentezza o imprecisione in attività quali assemblare puzzle, scrivere, giocare con la palla che interferiscono con le attività della vita quotidiana. In queste situazioni è presente una difficoltà nell’eseguire e nel sequenziare gli schemi di movimento.

In alcune situazioni si evidenzia la prevalenza di difficoltà legate alla produzione di gesti o sistemi di atti motori finalizzati (prassie) in questi casi la difficoltà sta nella pianificazione, nell’integrazione, controllo e uso di più funzioni di base o schemi di movimento (Deficit dei meccanismi di controllo). È presente una difficoltà a livello gestuale: gesti transitivi, (uso finalizzato degli oggetti) ed intransitivi, (gesti simbolici). Tale difficoltà è correlata a disturbi dell’organizzazione di movimenti degli arti superiori, delle mani e delle dita.

Le difficoltà, sia sul piano della coordinazione motoria che delle prassie, spesso si accompagnano a deficit percettivi e visuo-spaziali con conseguenti ricadute sul piano dell’attenzione ed emotivo. Tali situazioni possono influenzare negativamente l’acquisizione degli apprendimenti in età scolare. Scrivere è insieme prassia e linguaggio; leggere significa riconoscere un senso a dei segni grafici e attribuirgli significato. L’operazione dello scrivere non è possibile se non a partire da un certo livello di motricità fine ed esige necessariamente un’acquisita capacità di inibizione e controllo dei movimenti. Scrittura e lettura sono rappresentazioni di un significato che acquista il suo senso in base alla forma delle lettere, ai loro reciproci legami e al loro orientamento nello spazio.

Infatti scrivere una parola significa tradurre una serie di suoni, cioè una stimolazione acustica ordinata nel tempo, in una serie di segni grafici, cioè un’attività motoria ordinata nello spazio, stabilendo tra suono e segno una corrispondenza. Questa traduzione implica la capacità di analizzare il suono della parola nei suoi elementi ordinati nel tempo, di stabilire una corrispondenza tra suono e segno grafico, di posizionare tali segni nello spazio in modo da rispettare l’orientamento delle lettere in rapporto al foglio, e infine di ricomporre la successione ordinata di lettere corrispondenti: si tratta cioè di fare un programma motorio, un output corrispondente all’input acustico.

Analogamente nella lettura si tratta di saper analizzare visivamente i segni grafici, di saperli cogliere come forme significative nelle loro relazioni spaziali per poi tradurli in un programma motorio di emissione ordinata di suoni.

Vediamo dunque che le attività dello scrivere e del leggere diventano possibili per il bambino nella misura in cui egli sa orientare se stesso nello spazio ed è in grado di comprendere le relazioni temporali tra gli elementi.

Spesso in soggetti che in età prescolare presentano difficoltà nella pianificazione, integrazione e controllo del movimento, si riscontreranno successivamente alcune caratteristiche negli apprendimenti scolastici: difficoltà di scrittura; difficoltà nell’esecuzione di esercitazioni assegnate in classe; lentezza, più o meno eccessiva, nell’esecuzione di compiti e nel raggiungimento di determinati obiettivi; difficoltà di copiatura dalla lavagna; difficoltà nelle discipline che richiedono l’uso di un linguaggio simbolico (matematica); difficoltà nell’elaborazione soprattutto scritta; difficoltà nell’utilizzo di strumenti tecnici e nel disegno.

 

Competenze visuo-percettive

La percezione è un processo attivo e dinamico mediante il quale gli input sensoriali provenienti dal mondo esterno vengono analizzati, interpretati e organizzati in modo significativo in un sistema di conoscenze più generale.

Vi sono differenti canali sensoriali attraverso cui vengono acquisite le informazioni: il canale visivo, tattile, uditivo, etc. Nelle funzioni visuo-percettive la vista costituisce il mezzo di raccolta delle informazioni ma altri fattori, come l’attenzione, contribuiscono a questo processo.

La capacità visuo-percettiva è quindi un processo di elaborazione degli stimoli sensoriali che prevede l’analisi, la selezione e l’elaborazione delle informazioni visive: alla formazione dell’immagine retinica segue un’analisi delle informazioni percettive salienti (per esempio la forma, il colore...) fino a giungere ai processi cognitivi di ordine superiore di attribuzione di un significato all’immagine percepita.

Lo sviluppo visuo-percettivo costituisce il primo strumento di interazione con la realtà circostante e riveste un ruolo centrale nei riguardi dello sviluppo neuromotorio, cognitivo e affettivo del bambino; in questa prospettiva percepire significa seguire costantemente e controllare l’ambiente e ciò che vi succede.

La conoscenza dell’ambiente inizia innanzi tutto con la sua esplorazione; fin dalla nascita il neonato ha a disposizione meccanismi neurofisiologici e dispositivi psicologici adatti per acquisire informazioni dagli stimoli circostanti e questa attività esplorativa si affina e sviluppa grandemente nel corso dell’infanzia e della fanciullezza, fino a raggiungere un elevato grado di sistematicità ed esaustività.

La visone è la prima funzione che si sviluppa e che completa la propria maturazione in ordine di tempo perciò nel corso dello sviluppo, viene utilizzata come canale preferenziale nell’analisi della realtà.

Fra i sei ed i sette anni l’esplorazione visiva diventa sempre più un processo sistematico ed esaustivo; si estende il campo visivo utile e diminuisce la durata delle singole fissazioni oculari pur registrando un incremento delle informazioni assunte per unità di fissazione.

Lo sviluppo visuo-percettivo della fanciullezza è caratterizzato da un notevole grado di plasticità rispetto alla relativa rigidità percettiva propria dell’infanzia.

In funzione di questa flessibilità il fanciullo è in grado di percepire ad un’organizzazione del campo fonemico anche in condizioni sfavorevoli.

Secondo la classificazione riportata da Horibe F.M. e Haymore E.D[45] (1996), all’interno delle abilità visuo-percettive sono comprese le abilità visuo spaziali.

Le abilità visuo-spaziali sono un gruppo di processi che consentono la corretta interazione dell’individuo con il mondo circostante: consistono nella capacità di percepire, agire ed operare sulle rappresentazioni mentali in funzione di coordinate spaziali. Il nostro cervello è in grado di costruire complesse rappresentazioni spaziali della realtà interna ed esterna che costituiscono il presupposto di ogni azione.

La capacita visuo-spaziale percepisce e stima le relazioni spaziali tra gli oggetti o tra parti di essi, l’orientamento degli stimoli e il rapporto tra la persona e l’oggetto

Il primo sistema di riferimento spaziale nel bambino è di natura egocentrica. Infatti, fino a tre anni lo spazio del bambino è uno "spazio vissuto" affettivamente, sulla base dei suoi bisogni, che Piaget chiama "spazio topologico” secondo rapporti di vicinanza, separazione, ordine e continuità. I rapporti spaziali topologici non comportano ancora né la condivisione delle distanze né quella della retta e degli angoli: gli oggetti e le loro configurazioni non sono ancora relazionati tra loro[46] (Le Boulch J., 1983).

Entro questo sistema di riferimento autoriferito vengono privilegiate due direzioni: la prima verticale, che coincide con la linea di attrazione terrestre e l’orizzontale, con il risultato di suddividere lo spazio in quattro aree (alto, basso, sinistra e destra).

 Nel corso dello sviluppo emerge una maggiore consapevolezza della distinzione tra corpo ed ambiente, così che il bambino inizia a fare riferimento alle relazioni tra elementi esterni e a fare riferimento alle relazioni tra elementi esterni e a rappresentarsi gli attributi spaziali e la localizzazione degli oggetti o eventi in un ambiente a larga scala entro il quale organismo e oggetto coesistono.

Quando il bambino è in grado di rilevare dei punti di riferimento spaziali stabili, la relazione messa in atto tra organismo ed ambiente non è più di tipo egocentrico ma allocentrico.

Tra i tre e i sette anni il bambino passa ad una strutturazione spaziale di tipo metrico o euclideo, con una rappresentazione obiettiva dello spazio, fondata sia sulla misurazione (nozioni di grandezza, lunghezza, numero di elementi ecc.) sia su un sistema obiettivo di riferimento (ad esempio le coordinate orizzontale- verticale)[47] (Piaget J. et al, 1976).

Il bambino inizia a percepire se stesso come parte dello spazio comune, insieme ad altri individui.

Lo spazio metrico è uno spazio intellettualizzato, i cui segni di riferimento sono esterni al corpo del soggetto e che è alla base dell’apprendimento della scrittura nelle sue regole spaziali convenzionali: dimensione e proporzioni delle lettere, larghezza tra lettere e parole, spazio tra le righe ed eventualmente dei margini.

Questa concezione dello spazio renderà possibile l’organizzazione delle relazioni spaziali interiorizzate lo spazio proiettivo, che si sviluppa tra i sette e i dodici anni.

Pertanto nello sviluppo della percezione dello spazio, oltre che la costruzione di un sistema di relazioni stabili, si assiste ad una progressiva differenziazione tra organismo ed ambiente, che consente di percepire, via via in modo più preciso, le diverse configurazioni degli stimoli, nonché di vagliare in modo sempre più articolato le relazioni invarianti di ordine superiore di una struttura.

Il linguaggio scritto implica in primo luogo la VISTA come modalità percettiva e come canale sensoriale che veicola la raccolta di informazioni dal testo, è dunque plausibile ipotizzare che anche le abilità visuo-spaziali siano importanti per l’apprendimento della lingua scritta.

Le abilità visuo-spaziali sono in assoluto il prerequisito più importante, essenziale, per tutto il futuro apprendimento dello studente. Le abilità visuo-spaziali si riferiscono alla capacità di integrare le informazioni che provengono dallo spazio percettivo, di utilizzarle e organizzarle per svolgere adeguatamente differenti compiti. Un bambino con scarse abilità visuo-spaziali, anche se perfettamente dotato da un punto di vista verbale, presenterà difficoltà in tutte le materie scolastiche. In matematica farà fatica ad incolonnare le cifre e confonderà il + con il x; in geometria avrà difficoltà nel riconoscere le figure, mentre nel disegno faticherà a rappresentare i corretti rapporti spaziali; in scienze non riuscirà a comprendere grafici e tabelle né la relazione spazio-temporale tra gli eventi e il concetto di causa-effetto. Nella lettura ci possono essere difficoltà a seguire il rigo, confusione tra lettere simili ma orientate diversamente (b> d; e> 6/9; E> W, 3, M; e> a; il> li; ecc.) e anche nella comprensione del testo specialmente se il brano ha un forte contenuto visuo-spaziale (sopra/sotto, destra/sinistra ecc.).

Diverse ricerche dimostrano la presenza di un’alterazione dei movimenti oculari nei ragazzi con deficit di lettura: la scansione del testo risulta frammentata da movimenti oculari che non si adattano con flessibilità alle caratteristiche morfologiche del testo determinando effetti di affollamento visivo e cattiva gestione della scansione oculare sulla riga.

In questo senso diventa quindi importante valutare e successivamente promuovere, nei bambini della scuola dell’infanzia, le competenze visuo-percettive.

In particolare è importante proporre:

  • Attività finalizzate allo sviluppo delle abilità di discriminazione e acuità visiva per percepire differenze, memorizzare posizioni ed esercitare la memoria visiva e la memoria di lavoro visuo-spaziale;
  • Proposte di attenzione spaziale visiva, ovvero l’abilità di estrarre informazioni rilevanti inibendo le informazioni irrilevanti;
  • Ricerca visiva basata sulla scansione orientata sia destra-sinistra che alto-basso;
  • Discriminazione figura-sfondo;
  • Tutte queste competenze favoriranno nel bambino l’abilità di discriminare e riconoscere nei dettagli i tratti distintivi delle lettere, prestare attenzione alle differenze strutturali e formali dei grafemi e individuare il loro orientamento nello spazio grafico[48] (Facoetti, 2013).

 

Competenze numeriche

Piaget[49] è stato il primo a formulare le prime fondamentali teorie cognitive riguardo l’elaborazione del concetto di numero (La genesi del numero nel bambino, 1941). Secondo Piaget per poter avere accesso al concetto di numero è necessario che l’intelligenza del bambino abbia compiuto il passaggio dal livello del pensiero irreversibile e preoperatorio (caratteristico del periodo dei 4 e 5 anni), al livello del pensiero concreto reversibile o pensiero operatorio, che invece si svilupperebbe nella fase scolare. In particolare, per accedere al concetto di numero il bambino deve avere chiari i concetti di serie e di classe.

La teoria piagetiana nel corso degli anni è stata messa in discussione, molti studi successivi hanno rilevato vari elementi di debolezza nel modello piagetiano. A partire circa dagli anni ‘80 numerosi ricercatori sostengono che in realtà, i bambini si avvicinano all’aritmetica ed al calcolo molto precocemente e non come diceva Piaget, dopo aver acquistato determinati schemi cognitivi.

Secondo Butterworth[50] (The Mathematical Brain, 1999) la competenza numerica ha una base innata che si chiama modulo numerico. Il modulo numerico possiede sin dalla nascita una capacità particolare che si chiama “subitizing” che permette già al neonato di percepire in modo immediato piccole numerosità senza contare, fino ad un massimo di 4.  Sulla base delle capacità innate si sviluppano poi in seguito quelle conoscenze che vengono trasmesse attraverso la cultura e che sono oggetto di apprendimento.

Karen Wynn[51] (Addition and subtraction by human infants, 1992) che ha studiato a lungo il problema, pensa che i bambini adoperino lo stesso meccanismo di alcune specie animali: nella mente di ogni individuo agisce un meccanismo contatore che emette dei battiti ad intervalli costanti. I battiti così emessi vengono passati ad un accumulatore ogni volta che una nuova entità deve essere contata. La percezione di numerosità corrisponde alla numerazione alla quale è arrivato il contatore.

Il meccanismo a contatore non ha nulla a che vedere con il nome del numero (uno…due…tre) il quale deve essere appreso e, in qualche modo, associato al contatore. E’ necessario perciò un adeguato periodo di tempo per coordinare tra loro la rappresentazione del numero (prima verbale poi grafica) al contatore interno. Occorre pertanto molto esercizio.

Già a partire dai 18/24 mesi d’età i bambini iniziano a contare (filastrocca dei numeri) procedendo per tentativi prima di arrivare ad una conta corretta. Imparare la filastrocca dei numeri in modo corretto è la prima importante acquisizione di base per poter essere in grado di contare davvero, per poter effettuare quella che poi in modo appropriato si chiama enumerazione, ovvero l’applicazione della procedura di conteggio ad un set di riferimento.

Nel corso della scuola materna i bambini diventano sempre più efficienti in questo compito. A cinque anni i bimbi, di solito, contano fino a 20 oggetti.

Per definirlo un vero e proprio conteggio bisogna che rispetti i cosiddetti “Principi del conteggio”[52] (Gelman e Gallistel, 1978) ovvero: il principio dell’ordine stabile (il conteggio richiede una sentenza in ordine fisso); il principio uno a uno (ad ogni oggetto corrisponde una sola etichetta numerica); il principio di cardinalità (l’ultimo numero contato corrisponde al numero totale di oggetti contati); il principio dell’irrilevanza dell’ordine (gli oggetti possono essere contati in qualunque ordine); il principio di astrazione (qualunque cosa può essere contata).

La capacità di produrre la sequenza standard dei numeri in modo rapido e corretto è un prerequisito indispensabile per lo sviluppo delle capacità aritmetiche dei bambini.

Già a quattro anni i bambini sanno compiere semplici operazioni di addizione e sottrazione non verbali. A 5 anni sono in grado di eseguire semplici operazioni verbali, solo se si utilizza la modalità “story problem”, solo dopo i 5/6 anni con l’inizio della scuola, il bambino è in grado di risolvere con un buon grado di correttezza i compiti number facts (quanto fa 2+ 3). A questa età è ancora molto difficile il conteggio regressivo entro il 10.

Inizialmente (3/4 anni) il bambino fa solo scarabocchi: cioè rappresenta il numero in modo idiosincratico, poi accede ad una forma più evoluta di rappresentazione del numero, quella pittografica ed infine (5anni-5 anni e ½) compare quella simbolica appropriata, costituita dai numeri arabici veri e propri, sono però frequenti errori di specularità e rotazione.

Per la valutazione dei fattori di rischio nelle abilità del calcolo risultano essere importanti prestazioni scarse nelle seguenti competenze: Conoscenza di filastrocche dei numeri: i bambini imparano presto la sequenza verbale dei numeri attraverso giochi, filastrocche o per imitazione; Associazione simbolo-nome numero: capacità di leggere o riconoscere numeri; Corrispondenza biunivoca numero-oggetti contati: capacità di accoppiare la parola–numero all’atto di contare. Si osserva la corrispondenza tra pronuncia del numero e ogni elemento indicato. Prima il b. utilizza il dito nell’indicare ogni elemento poi sposta solo la fissazione oculare; Conoscenza della numerosità: saper riferire la quantità di oggetti presenti nell’insieme riportando l’ultimo numero pronunciato. Presuppone che si sappia che la quantità corrisponde all’ultimo numero pronunciato; Capacità di comparazione d’insiemi con differente numerosità: per poter dire quale contiene più elementi, non basta prendere in considerazione la dimensione degli insiemi e bisogna prescindere dalla configurazione degli elementi. All’inizio il bambino si basa sul tempo impiegato a contare, poi acquisisce la capacità del controllo biunivoco (accoppia ciascun elemento del primo insieme con uno del secondo); Capacità di confronto di diversi numeri: implica la capacità di riconoscere la quantità associata a ciascun numero (comprensione del valore semantico del numero); Capacità di seriazione di oggetti con differenti caratteristiche, tale competenza presuppone un precedente corretto sviluppo della percezione visiva.

 

Funzioni esecutive

In neuropsicologia e psicologia cognitiva il termine Funzioni Esecutive (FE) è utilizzato in riferimento a funzioni corticali superiori deputate al controllo e alla pianificazione del comportamento. Si tratta di processi che permettono ad un individuo di pianificare e attuare progetti finalizzati al raggiungimento di un obiettivo; inoltre le FE sono necessarie per il monitoraggio e la modifica del proprio comportamento in caso di necessità o per adeguarlo a nuove condizioni contestuali. Numerosi sono i processi che possono essere ricondotti al dominio esecutivo: attenzione, controllo degli impulsi, autoregolazione, iniziativa, memoria di lavoro, flessibilità cognitiva, utilizzo dei feedback, pianificazione e problem solving. Nonostante ciò le componenti che con maggiore frequenza vengono indagate per avere informazioni circa il funzionamento esecutivo sono: memoria di lavoro (monitoraggio e aggiornamento del contenuto della memoria di lavoro), flessibilità cognitiva (rapido e flessibile movimento tra compiti e set mentali) ed inibizione (soppressione deliberata di una risposta divenuta automatica). Il dominio esecutivo non si esaurisce però con i soli processi cognitivi sopra elencati, ma chiama in causa anche funzioni che giocano un ruolo chiave nella regolazione di emozioni, motivazione e comportamento.

Le FE sono difficili da definire in quanto le competenze che compongono questa funzione non sempre si possono sovrapporre tra loro. In termini generali si riferiscono al controllo volontario della mente che può essere richiesto per affrontare in modo efficace ogni tipo di situazione soprattutto durante abilità come la pianificazione, la memoria di lavoro, la fluenza verbale, la rappresentazione mentale di un obiettivo, il mantenimento dello sforzo, l’uso di strategie e l’inibizione di risposte inappropriate. Le FE ci permettono di gestire in modo organizzato tutte le altre funzioni cognitive. Esse servono tutte le volte che bisogna svolgere un compito nuovo quindi quando non conviene agire d’impulso o quando il problema non si può risolvere con una risposta automatica e routinaria. In altre parole, una risposta che è automatica non è una manifestazione delle FE[53] [54] [55] (Cornoldi C., 1996)  (Fedeli, 2012) (Marzocchi G.M, 2000).

Le FE fanno parte di un unico sistema a componenti multiple che non si manifestano mai isolatamente, ma sono strettamente legate tra loro. Le tre funzioni cognitive di base sono:

  • Shifting: indica la flessibilità cognitiva e la capacità di avviare un compito diverso da quello che si sta svolgendo, permette il passaggio da un’operazione mentale a un’altra controllando l’interferenza reciproca tra le due operazioni. Essa è fondamentale perché consente di modificare il nostro pensiero e le nostre azioni in relazione ai cambiamenti e alle differenti caratteristiche dell’ambiente;
  • Inhibition: con questo termine ci si riferisce all’abilità di controllare risposte automatiche che interferiscono nel raggiungimento di uno scopo. Senza l’inibizione si sarebbe in balia sia degli stimoli ambientali esterni che dei bisogni interni, non si riuscirebbe ad inibire le distrazioni irrilevanti per il compito;
  • Updating: indica la capacità di riaggiornamento di materiale in memoria di lavoro per la risoluzione di un problema. La memoria di lavoro può essere definita come l’abilità di mantenere, aggiornare ed elaborare le informazioni a mente nel tempo utile alla risoluzione di un compito. È fondamentale sia per l’esecuzione di attività complesse sia per svolgere attività più semplici che fanno parte della vita quotidiana45 [56] (Marzocchi G.M, 2000) (Sabadini L., 2013).

Sistema Esecutivo[57] (Baddeley, 1986) o Sistema Attentivo Supervisore[58] (Shallice, Burgess, F., & Baxter, Dec 1989), si colloca come substrato anatomico prevalentemente nei lobi frontali, nei gangli della base e nel cervelletto, è quindi multicomponenziale.

Esso è deputato a: fornire risorse attentive (che sono a capacità limitata); fornire abilità nei compiti doppi; sostenere l’attenzione (abilità nella concentrazione e mantenimento delle risorse); sviluppare funzioni di controllo del pensiero e dell’azione (controllo dell’emotività e delle operazioni pianificate); inibire i distrattori e mantenere la concentrazione sullo scopo (abilità nella comprensione del testo); provvedere all’organizzazione,  alla pianificazione e a fornire le risorse attentive nei processi di memorizzazione in genere (problem solving); modularizzare funzioni specifiche (abilità nell’automatizzare apprendimenti complessi).

Le funzioni di avvio, allerta tonico, controllo esecutivo (inhibition), shifting, updating interrelate e comunque separate, contribuiscono in modo prioritario alla pianificazione e al Problem Solving.

Secondo la teoria modulare[59] (Moscovitch & Umiltà, 1990) esistono tre tipi di moduli: Moduli di 1° tipo: non assemblati e con una specificità funzionale, ad esempio, la percezione dei colori, delle frequenze acustiche, della localizzazione del suono e visiva della profondità. Moduli di 2° tipo: assemblati su base innata, con l’input integrato da un elaboratore centrale, che sembra distaccare risorse per dedicarle definitivamente al modulo (processore dedicato); esempi di moduli di secondo tipo sono le abilità linguistiche e il riconoscimento degli oggetti. Moduli di 3° tipo sono quelli assemblati su base esperienziale (es. lettura e capacità motorie), in questo caso il processore centrale è fortemente implicato attraverso un atto consapevole, cosciente e volitivo.

Tutti gli apprendimenti rientrano nel secondo e terzo modulo e richiedono l’intervento delle funzioni esecutive come sistema supervisore in cui viene fortemente implicata l’attenzione. Infatti esiste uno stretto legame tra percezione-attenzione e linguaggio-attenzione.

Lo sviluppo delle Funzioni Esecutive copre l’infanzia e potenzialmente l’intero arco di vita ed è connesso ai cambiamenti delle strutture corticali e sottocorticali che fungono da substrato neurale di tali abilità.

Il dominio esecutivo si organizza in maniera differente nelle diverse fasce di età: le prime abilità che compaiono sono quelle fondamentali e basilari, come il controllo attentivo e la memoria di lavoro ed in seguito emergono quelle più complesse.

I primi elementi delle Funzioni Esecutive emergono già ad un anno di vita in ambienti naturali e in situazioni altamente quotidiane. Tra i quattro e i cinque anni è possibile osservare i primi segni del controllo attentivo ed un incremento nelle abilita di inibizione, flessibilità cognitiva, decision-making. A seguire, durante il periodo scolare, alcune abilità raggiungono la maturità come la flessibilità cognitiva, mentre altre si perfezionano e si potenziano in maniera progressiva.

Per quanto riguarda lo sviluppo delle Funzioni Esecutive sostanzialmente accade che, nei primi sei anni di vita, esse vengono svolte in modo esterno, in seguito imparano a porsi degli obiettivi, a regolare i propri processi attentivi e le proprie motivazioni, a controllare le reazioni immediate ad un evento distraente e a tenere per sé le proprie emozioni. Mano a mano i bambini diventano quindi in grado di scomporre i comportamenti osservati nelle loro singole componenti e di ricomporle in nuove azioni che non fanno parte del bagaglio delle proprie esperienze. Tutto questo permette, nella crescita, di tenere sotto controllo il proprio agire per tempi sempre più lunghi e di pianificare i propri comportamenti in vista di uno scopo.

La memoria di lavoro, l’interiorizzazione del discorso auto diretto, l’autoregolazione e la ricomposizione, garantiscono la destrezza, la creatività e la flessibilità cognitiva indispensabili per determinare un obiettivo senza avere il bisogno di memorizzare ogni volta le fasi per raggiungerlo.

L’adolescenza è uno dei momenti cruciali per lo sviluppo delle Funzioni Esecutive poiché e in tale fase che aumenta l’intensità dei cambiamenti a carico di esse: l’inibizione raggiunge livelli adulti, progressi significativi si hanno anche a carico della pianificazione, della memoria di lavoro e del decision-making emotivo.

La maturazione completa delle Funzioni Esecutive richiede all’incirca venti anni ed è infatti tra i 20 e i 29 anni che si registra il massimo livello di performance in tutti i domini esecutivi, mentre a partire dai 55 anni si manifesta una progressiva involuzione e proprio le Funzioni Esecutive rappresentano le funzioni cognitive che decadono prima.

Da un punto di vista neurofisiologico, lo sviluppo delle Funzioni Esecutive sia nell’infanzia che nell’adolescenza è correlato con l’aumento del volume della sostanza bianca: esso soprattutto a livello dei lobi prefrontali, suggerisce un incremento delle connessioni, e quindi della comunicazione, fra differenti aree sottocorticali e corticali.

I passi avanti nell’ambito metodologico ed in particolare l’ideazione di prove sperimentali con richieste motorie, linguistiche, mnesiche, compatibili con il livello di competenza del bambino nella primissima infanzia, hanno permesso di osservare come lo sviluppo delle Funzioni Esecutive abbia inizio più precocemente rispetto a quanto è stato ipotizzato in precedenza, ciò vale sia per le Funzioni Esecutive Cool che quelle Hot.

Tutti questi processi sono innestati e immersi nel contesto umorale ed ormonale fornito dal tono emotivo e sono indissolubilmente legati ad esso anche implicitamente[60] (Lewis M. D., 2007). Non può esistere una operazione cognitiva “pura” l’influenza dei sistemi sottocorticali e dei nuclei del sistema emozionale è continua. In qualsiasi compito cognitivo svolto sotto osservazione può emergere un’ansia da prestazione non sempre controllabile. Questa inestricabile unione si afferma soprattutto quando si tratta di autoregolazione del comportamento, che potremmo definire come: l’equilibrio implicito tra il sistema emotivo motivazionale e quello cognitivo di controllo, in funzione dell’adattamento e dello scopo del momento

Per quanto riguarda le Funzioni Esecutive Cool si è visto come già a dodici settimane il bambino sia in grado di conservare il ricordo della struttura dell’obbiettivo di un evento di cui è stato protagonista per riutilizzarlo in situazioni analoghe; dai 7/8 mesi iniziano a manifestarsi i primi segni di memoria di lavoro e del controllo inibitorio.

Per quanto riguarda le Funzioni Esecutive Hot, alcune osservazioni sembrano suggerire delle difficoltà nel controllo di questo dominio esecutivo nei primi due anni di vita, sebbene i processi di sviluppo corticale sembrino interessare queste regioni prima di quelle coinvolte nelle Funzioni Esecutive Cool: il bambino avrebbe infatti difficoltà nel regolare le emozioni, nel posticipare le ricompense/gratificazioni e presenterebbe una modalità di rapportarsi al mondo centrata su di sé.

Sostanzialmente trai 5 e i 6 anni il bambino riesce in compiti che richiedono di mantenere un’informazione nella mente e contemporaneamente la capacità di inibizione; si sviluppa inoltre la capacità di generare concetti, matura il controllo attentivo e si ha un miglioramento nella flessibilità cognitiva e nella capacità di formulare strategie; a 5 anni si ha un incremento nella memoria di lavoro e quindi nella capacità di conservare temporaneamente e di manipolare informazioni on-line. Per quanto riguarda le Funzioni Esecutive Hot si assiste ad un miglioramento nella capacità di prendere delle decisioni in situazioni in cui entrano in gioco punizioni e gratificazioni.

Tra i 7 e gli 8 anni e tra i 9 e i 12 anni si assiste ad un incremento nella sensibilità ai feedback nel problem-solving, nella formulazione dei concetti e nel controllo dell’impulsività.

A 7 anni si riportano notevoli progressi nella velocità di esecuzione, nell’abilità di uso delle strategie, nella capacità di mantenere le informazioni nella mente e di lavorare con esse. Tra gli 8 e i 10 anni si raggiungono livelli adulti nella flessibilità cognitiva e, a 10 anni, si manifesta la capacità di mantenere il set, la verifica delle ipotesi e del controllo degli impulsi. Si ha un miglioramento nel controllo inibitorio, nella vigilanza e nell’attenzione sostenuta tra gli 8 e gli 11 anni, periodo in cui inoltre si assiste ad un miglioramento nelle prove di performance che coniugano competenze inibitorie e memoria di lavoro. Quest’ultima subisce ulteriori miglioramenti in termini di efficienza tra i 9 e i 12 anni. Si rileva in tale periodo un miglioramento nella capacità di comprendere emozioni, intenzioni, credenze e desideri.

Nell’ambito dei modelli frazionati, rilievo è assunto anche dal modello Fattoriale di Welsh che individua tre sotto componenti costitutive del sistema esecutivo:

  • La rapidità della risposta, ovvero la capacità di rappresentazione mentale del compito mediante la ricerca di informazioni rilevanti e l’obiettivo da raggiungere;
  • Lo sforzo di inibire o rimandare nel tempo una risposta impulsiva;
  • La pianificazione strategica delle azioni da svolgere attraverso la definizione di una sequenza di passaggi.

Pertanto lo sviluppo delle Funzioni Esecutive comporta un consolidamento delle capacità cognitive intellettive, degli apprendimenti e delle memorie.

Da questa breve descrizione delle funzioni esecutive si evince facilmente l’importanza delle stesse negli apprendimenti scolastici di base. Benso[61] (Test di cancellazione, 2006) ha rilevato l’importanza fondamentale delle funzioni esecutive nell’apprendimento della lettura così come[62] (Blair & Razza, 2007) identificano nell’inhibition una importante componente per l’apprendimento della matematica, del vocabolario e di altre competenze linguistiche. Definiscono come prerequisito importante per l’apprendimento l’efficienza autoregolativa. Il team di Passolunghi[63] (2007) valuta l’importanza dello sviluppo della funzioni esecutive nella scuola dell’infanzia per un buon approccio alle abilità matematiche nella prima primaria.

Dunque un deficit delle FE implicherebbe: incapacità di inibizione di risposte automatiche e inadeguate o non pertinenti al compito; difficoltà a pianificare adeguatamente i compiti e a mantenere il programma motorio, inibendo le interferenze; deficit della memoria di lavoro che si ripercuote sull’attenzione[64] (Vio & Lo Presti, 2014). Nonostante non esista una diagnosi specifica di deficit delle FE, numerosi sono i quadri clinici nei quali palese è una difficoltà di programmazione, organizzazione, controllo comportamentale o flessibilità nell’adattarsi a situazioni nuove. In generale in bambini ed adolescenti con problemi a carico di uno o più domini esecutivi è possibile osservare i seguenti comportamenti: incapacità ad imparare dall’esperienza, distraibilità e sbadataggine, difficoltà ad eseguire più compiti contemporaneamente, noncuranza e disorganizzazione, difficoltà a controllare le risposte automatiche, marcata altalenanza nelle prestazioni accademiche, scarsa consapevolezza dei sentimenti altrui e delle convenzioni sociali, instancabilità e loquacità o viceversa ipoattivazione, difficoltà nella regolazione delle emozioni, impazienza e scarsa tolleranza della frustrazione, difficoltà a passare da un’attività all’altra, difficoltà nello stabilire priorità e rispettare i tempi, perdita di cognizione del tempo, lentezza cronica, procrastinazione e/o difficoltà ad intraprendere compiti nuovi o impegnativi. Assumendo una prospettiva clinica è possibile constatare come oggetto di particolare attenzione ed approfondimento sia stato il funzionamento esecutivo di bambini ed adolescenti con i seguenti quadri clinici: Disturbo da Deficit dell’attenzione ed Iperattività (ADHD), Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), Disturbi Generalizzati dello Sviluppo (DGS), Sindrome di Gille de la Tourette, bambini nati pretermine[65] (American Psychiatric Association, 2013). Un deficit a carico del dominio inibitorio sembrerebbe caratterizzare tutti i quadri clinici, accanto ad esso è possibile osservare:

  • Compromissione di memoria di lavoro e vigilanza in bambini con ADHD;
  • Problemi a carico di flessibilità cognitiva, pianificazione e memoria di lavoro in bambini con DGS;
  • Deficit a carico di fluenza e flessibilità cognitiva in bambini nati pretermine;
  • Cadute specifiche della performance in prove volte alla valutazione della memoria di lavoro in bambini.

Il considerevole incremento dell’interesse per le FE degli ultimi decenni è inoltre legato al ruolo cardine che esse hanno nella vita quotidiana e alla possibilità di effettuare, sulla base delle differenze individuali nel funzionamento esecutivo, inferenze circa specifici outcome evolutivi. Per quanto concerne la quotidianità gli individui utilizzano abitualmente le FE per apprendere nuove azioni, per pianificare e prendere decisioni, per correggere i propri errori, per mettere in atto comportamenti difficili o pericolosi, comportamenti che necessitano costante monitoraggio o comportamenti non automatici e consolidati. In merito agli outcome evolutivi è interessante notare come un buon funzionamento esecutivo con maggiore probabilità si lega a maggiori competenze di letto-scrittura e competenze linguistiche, migliori esiti scolastici nei vari livelli di scolarizzazione, maggiori competenze sociali nelle differenti fasi di vita, migliore qualità della vita e status economico e minori problemi legali in età adulta.

Compito delle FE è anche quello di analizzare le cause dell’insuccesso per programmare un piano migliore all’occasione successiva. Spesso, a fianco delle competenze di memoria (per ricordare obiettivo e regole di comportamento), di pianificazione (per scomporre l’obiettivo in sotto-obiettivi) dobbiamo applicare una significativa dose di flessibilità per generare un piano alternativo, inibendo i nostri comportamenti perseverativi. Un’altra modalità poco funzionale nelle situazioni di problem solving è l’impulsività (o deficit di inibizione) nell’intraprendere un certo comportamento o un’azione che poi si rileva fallimentare. Anche in questo caso si può trattare di un problema alle FE perché il nostro sistema cognitivo non ha adeguatamente preso consapevolezza del fatto che un certo piano d’azione richiede l’analisi di diverse variabili, la programmazione e la previsione delle conseguenze delle nostre scelte.

 


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